Il metodo Jigsaw

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Il metodo Jigsaw
Il metodo Jigsaw
Il modello del Jigsaw, letteralmente puzzle o gioco di costruzioni, è stato sviluppato da
Aronsons e dai suoi studenti dell’Università del Texas e dell’Università di California negli
anni settanta. La sua nascita è dovuta ad un momento di crisi dell’istituzione scolastica
in seguito alla riforma che aveva operato una ristrutturazione del sistema formativo,
anche attraverso il brusco abbandono di scuole razzialmente distinte. Si trattava di
trovare una modalità per facilitare l’integrazione di studenti ispanici e africani con i
compagni anglofoni, riducendo l’alto livello di incomprensione e conflittualità esploso
nelle scuole. Il metodo è stato successivamente sviluppato da Slavin che ha
maggiormente centrato il lavoro sullo sviluppo di concetti piuttosto che sulle abilità e
l’integrazione.
Il Jigsaw si caratterizza per l’enfasi posta sulla strutturazione dell’interazione tra gruppi
eterogenei formati da 3 a 6 studenti, in cui ad ogni studente viene assegnata una parte
del compito sulla quale si può preparare e confrontare in un gruppo parallelo. Come in
un puzzle il lavoro svolto da ciascuno è essenziale per la piena comprensione e il
completamento del prodotto finale.
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Ad esempio tutti gli studenti leggono un brano da studiare. Ogni studente, nel gruppo di
quattro/cinque membri, riceve un foglio di informazioni aggiuntive sul medesimo
argomento. Dopo aver letto le informazioni, gli studenti si incontrano in un 'gruppo di
esperti' temporaneo, composto da tutti quelli che hanno studiato lo stesso argomento, lo
discutono e ne preparano insieme l’esposizione. Quando ogni relatore ha raggiunto una
certa scioltezza e fluidità nell’esporre ritorna nel rispettivo gruppo originale ed insegna
agli altri compagni tutto quello che sa su quell'argomento.
A conclusione del lavoro, viene dato un quiz individuale comprensivo di tutti gli
argomenti affrontati. L'insegnante informa ciascun gruppo dei miglioramenti ottenuti e
dei punteggi del quiz.
Si tratta di una situazione di apprendimento fortemente strutturata e interdipendente,
infatti il solo accesso che ogni membro del gruppo ha rispetto al materiale completo
dipende dall’ascolto attento, la relazione nel gruppo di “esperti” incoraggia il
coinvolgimento e l’empatia e costituisce di per sé uno *scaffolding per le abilità di
studio e di esposizione. In questo gruppo l’alunno si espone e si esercita fino a quando
non è abbastanza sicuro da poter effettivamente contribuire al lavoro del gruppo
originale. Ciascuno svolge effettivamente una parte essenziale nell’attività di
apprendimento.
Il Jigsaw in 10 mosse
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dividere gli studenti in gruppi eterogenei di 3/6 membri ciascuno.
Dividere la lezione in tanti segmenti quanti sono i componenti dei gruppi.
Nominare uno studente per gruppo come responsabile.
Assegnare ad ogni alunno una segmento, assicurandosi che ogni studente abbia accesso
solo alle sue informazioni.
5. Dare il tempo agli studenti di leggere almeno due volte la loro porzione di studio per
impadronirsi della struttura del testo e dei principali concetti, senza il bisogno di
memorizzarla.
6. Stabilire il tempo di lavoro per discutere dei punti essenziali del loro pezzo e per
ripetere la presentazione che faranno al gruppo.
7. Far rientrare gli esperti nel loro gruppo di origine.
8. Ciascuno presenta la propria parte nel gruppo e gli altri pongono domande di
chiarificazione.
9. Il docente gira tra i gruppi osservando i processi. Se sorgono dei problemi (per es.
qualche membro domina sugli altri) interviene in modo appropriato. Può essere anche
opportuno lasciare che il "responsabile" di gruppo si occupi di risolvere il problema. I
responsabili possono essere aiutati a gestire sussurrando un suggerimento su come
intervenire finche non padroneggiano da soli la situazione.
10. Alla fine della sessione di lavoro fornire a ciascuno una breve verifica individuale
(qualche domanda, un test vero/falso, un testo a completamento…), in modo da
permettere agli alunni di capire che la sessione non è stata un gioco ma conta realmente
per l’apprendimento.
* “Scaffolding” è un termine, introdotto dallo psicologo statunitense Jerome Bruner
negli anni ’70, che significa letteralmente impalcatura. Si tratta di quelle strategie
volte a sostenere il bambino (ma non solo) quando deve portare a termine un
compito che non è in grado di svolgere da solo. È un concetto pensato per
l’apprendimento scolastico dei bambini, ma possiamo estenderlo a tutte le età e
moltissimi ambiti della vita quotidiana.
Lo scaffolding vale per i compiti scolastici, come la risoluzione di un problema
aritmetico, quanto per i basilari compiti quotidiani, come il mantenimento
dell’igiene personale. Vale durante l’acquisizione di un’abilità (camminare, andare in
bicicletta o guidare col foglio rosa) e nel portare a termine compiti “esistenziali”, quali
avere e perseguire un proprio progetto di vita. Lo scaffolding è indispensabile.
Senza alcuna pretesa di completezza, riporto i passaggi che mi sembrano più importanti:
Se il nostro giovane non sarà “interessato”, non otterremo nulla. Un passaggio
fondamentale nella risoluzione di un problema è il “volerlo fare”. La prima fase su cui
concentrare l’impalcatura di sostegno sarà, quindi, un accordo tra docente e alunno in
cui si condividerà l’obiettivo comune nel modo più chiaro possibile: se non si rema nella
stessa direzione, gli sforzi di entrambi saranno vani.
Scaffolding: prendere la mira e tenere gli occhi puntati sul bersaglio
Ok, ora lo abbiamo reclutato, siamo anche sicuri che il compito sia alla sua altezza,
né troppo difficile da non poterci riuscire né troppo facile da non aver bisogno dello
scaffolding (in poche parole all’interno della zona di sviluppo prossimale), ma ancora
non basta. Le sue energie non vanno disperse, la motivazione va tenuta vispa, la sua
attenzione va orientata al compito nella misura in cui noi e lui riteniamo più opportuna:
le distrazioni sono utili se considerate un riposo dal perseguimento dell’obiettivo,
dopodiché non mollare la presa.
Parola d’ordine dello Scaffolding: semplificare!
Se è vero che bambini e adolescenti a volte semplificano fino al midollo cose che per gli
adulti sarebbero complicatissime, è anche vero che spesso tendono a complicare quelle
semplici. Questo perché hanno relativamente poca esperienza nella risoluzione di
problemi e non conoscono ancora tutte le scorciatoie per giungere alla meta con minore
dispendio di energie. Lo scaffolding andrà a scremare tra i dati della situazione,
aiutando il bambino a tenere solo quelli utili al raggiungimento dell’obiettivo. Se il
nostro compito è quello di aiutare a rendere il problema il più semplice possibile, prima
di tutto dovremmo imparare a farlo noi stessi (leggi alla voce: stop alle seghe mentali).
Scaffolding: diventare “faro” e fare luce sulle soluzioni possibili
Essere faro, per prima cosa, non vuol dire “trainare” un ragazzo verso la nostra
soluzione. Scaffolding non vuol dire stare davanti lasciando che egli ci segua e
scegliendo la strada per lui, ma stargli dietro e illuminare i suoi passi, casomai
guardargli le spalle, permettendo che sia lui a decidere se seguire la strada più comoda
o quella più tortuosa, quella più battuta o quella sconosciuta.