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RASSEGNA STAMPA martedì 22 dicembre 2015 L’ARCI SUI MEDIA ESTERI INTERNI RAZZISMO E IMMIGRAZIONE WELFARE E SOCIETA’ DIRITTI CIVILI A LAICITA’ BENI COMUNI/AMBIENTE INFORMAZIONE SCUOLA, INFANZIA E GIOVANI ECONOMIA E LAVORO CORRIERE DELLA SERA LA REPUBBLICA LA STAMPA IL SOLE 24 ORE IL MESSAGGERO IL MANIFESTO AVVENIRE IL FATTO PANORAMA L’ESPRESSO VITA LEFT IL SALVAGENTE INTERNAZIONALE L’ARCI SUI MEDIA Da Left del 19/12/15, pag. A REGGIO EMILIA LA VOCE DEGLI SCRITTORI «Con il nostro festival sonoro della letteratura vogliamo che si torni ali' autenticità, alla trasmissione non solo di contenuti e idee ma anche di sensibilità». Stefano Bertini, responsabile Arci di Reggio Emilia sintetizza così la nuova edizione dell'avventura che con Paolo Nori come nume tutelare è iniziata l'anno scorso, con un grande successo. Nori, che da sempre lega la sua scrittura alla lettura in mezzo al pubblico, da molto tempo coltiva l'idea di un archivio sonoro della letteratura, proprio per salvare l'unicità dell'oralità, le voci e il flusso di emozioni che passano attraverso la lettura pubblica. «È anche una sorta di pausa nel fluire delle cose, di fronte alla velocità di internet e di questi nostri tempi», aggiunge Bertini. I.: anno scorso c'erano Gipi disegnatore e scrittore, la poetessa Mariangela Gualtieri. Quest'anno si replica dal 18 al 20 dicembre. Il titolo della seconda edizione del festival sonoro della letteratura è Questa è l'acqua che è tratto dal celebre discorso dello scrittore David Poster Wallace al Kenion College nel 2005. Tra gli ospiti, il linguista Andrea Moro, che aprirà il festival. Il 19(ore17) lo scrittore e poeta Ermanno Cavazzoni legge un testo inedito di Giorgio Manganelli, Intervista a Dio onnipotente, poi Leo Ortolani mentre il vulcanico Antonio Pennacchi (ore 21.15) è alle prese con un suo testo inedito L'autobus di Stalin. Domenica 20 gran finale dalle 17 in poi con Paolo Nori, Fabio Genovesi e Paolo Poli che leggerà Pellegrino Artusi. Da Fun Week del 21/12/15 A Monza apre la “Trattoria Popolare” per le persone in difficoltà e gli emarginati Non si può pagare? Lavoretti e aiuti in cucina per saldare il conto Apre a Monza la “Trattoria Popolare” per tutte le tasche. Oltre a proporre una cucina adatta a tutti e, quindi, anche a chi si trova in difficoltà o nella condizione di emarginato, lo chef Paolo Longoni dà l’opportunità a chi non può pagare di avere tra le mani un voucher orario: "Con quello può svolgere piccoli lavoretti nel locale, dare una mano in cucina per saldare il conto", così afferma lo chef, un ex giornalista appassionato di cucina. Il locale, situato in Via Montegrappa, 48 (zona San Rocco), vuole favorire l'accesso al cibo sano e di qualità ai poveri che non hanno intenzione di chiedere aiuto agli appositi canali di sostegno. Un pasto si aggira intorno ai 10 euro a persona e ogni cliente può decidere se lasciare o meno un contributo in più. La 'mancia' verrà messa a disposizione di chi non può permettersi l’intero costo del pranzo. Il progetto è organizzato da Fondazione Monza Brianza, Africa 70 e il circolo Arci Scuotivento e ha un secondo obiettivo, ovvero quello di aprire ai nuovi poveri una strada fatta di attività e percorsi di sostegno attorno a questo luogo: "La cucina diventa un'occasione per riunire una comunità in un quartiere tradizionalmente difficile come quello di San Rocco, con un'alta percentuale di abitanti immigrati e provenienti dalle fasce deboli. L'intera città di Monza verrà inoltre coinvolta per promuovere una rete di solidarietà 2 a cui ogni individuo può, all'occorrenza, rivolgersi per uscire da una condizione di emarginazione", ha sottolineato Margherita Motta di Arci Scuotivento. Si vuole sì utilizzare la cucina dell'Arci anche come una tavola calda, ma anche organizzare un corso di cucina popolare, ponendo l’attenzione sull’uso degli avanzi. In programma c’è anche la volontà di dare vita ad una rete solidale, coinvolgendo esercizi commerciali, produttori e famiglie, ma pure laboratori didattici per i bambini con lo scopo di insegnare a questi ultimi a non sprecare il cibo, non buttarlo. di Rosanna Donato http://www.funweek.it/milano/a-monza-apre-la-trattoria-popolare-per-le-persone-indifficolta-e-gli-emarginati.php Da Roma Today del 21/12/15 Il commercio sposa la solidarietà: da Serpentara giocattoli per i bambini in difficoltà La Coop di via Bettini ha distribuito i doni della raccolta promossa dalla Sezione Soci Roma Nord e patrocinata dal Municipio III: "Vicini a famiglie che vivono in stato di grande sofferenza" Ancora un'iniziativa di solidarietà nel Municipio III: l'Unicoop di via Bettini questa mattina ha infatti distribuito i giocattoli della raccolta organizzata per il Natale. Una raccolta, promossa dalla Sezione Soci Roma Nord e patrocinata dal Municipio III, rivolta alle organizzazioni che si occupano di bambini ai quali non sono destinate le sfavillanti vetrine natalizie: i doni giungeranno infatti ai piccoli delle famiglie di Casal Boccone, di Rebibbia e gli ospiti delle Case Sprar del Municipio Roma III. “Siamo molto soddisfatti – dichiara in una nota il Consigliere Gianluca Colletta, Presidente della Sezione Soci Roma Nord dell’Unicoop Tirreno – con l’Ausilio della Parrocchia di Santa Maria delle Grazie, dell’Associazione Attiva Montesacro, della Cooperativa Idea Prisma e dell’Arci Roma, è stato possibile far arrivare tanti regali ai bambini che vivono in situazioni difficili. Si tratta di una delle tante iniziative di solidarietà di Coop che vedono i nostri soci sempre in prima linea, non ultimo il mercatino di solidarietà che si è svolto a inizio mese nel punto vendita di via Bettini. Li ringraziamo quindi per il grande cuore che ogni volta dimostrano.” "Il territorio, quando c’è collaborazione e comunicazione, mostra il suo volto migliore, le famiglie comprendono la necessità di non sprecare e di far circolare i beni ancora in buono stato e i gestori delle attività si adoperano per organizzare. I giocattoli raccolti non colmeranno la diseguaglianza che segna il nostro contesto, ma sicuramente faranno sentire meno sole le tante famiglie che nel nostro territorio vivono ancora in uno stato di grande sofferenza” - hanno aggiunto il Presidente del Municipio III, Paolo Emilio Marchionne, e l’Assessore alle Politiche Sociali Eleonora Di Maggio. Sguardo però non soloa Natale: la raccolta è stata prolungata fino al 4 gennaio, in vista della Befana, per soddisfare le tantissime richieste arrivate oltre limite e per dare nuova vita anche tutti quei giocattoli che dopo i nuovi regali di Natale rischiano di essere messi da parte. http://montesacro.romatoday.it/fidene-serpentara/unicoop-via-bettini-raccolta-giocattolinatale-2015.html 3 Da Sassuolo 2000 del 21/12/15 Un 2016 di cultura e solidarietà per Arci Modena C’è la bambina che spiega sorridendo che un giorno sarà presidente del suo circolo Arci e lo trasformerà in un parco giochi; il signore che racconta che per lui Arci Modena è tombola, tigelle e Rock’n’Roll, la giovane che parla di accoglienza e condivisione e la musicista che qui si sente protagonista. Arci Modena racconta, attraverso le esperienze di cinque soci immaginari ma reali, le proprie attività, iniziative e campagne per il 2016, che vedrà la conferma di alcuni importanti progetti culturali, in particolare sul cinema, e nuovi appuntamenti di approfondimento su migrazione, frontiere e paure dopo gli attentati terroristici che hanno segnato l’anno che si sta concludendo. Il 2015 per Arci Modena è stato un anno impegnativo dove si è cercato, da una parte, di incrementare i progetti culturali come cinema, musica e teatro e dall’altra di rispondere alla richiesta di riflessione su temi di attualità promuovendo, in rete con altre associazioni, istituzioni e realtà del territorio, incontri, dibattiti e organizzando marce e raccolte di materiale e fondi per l’emergenza profughi e nuovi poveri, senza dimenticare le campagne per i diritti civili, come quella dedicata al Testamento Biologico e all’idea di famiglia contemporanea. “Arci Modena è un’associazione che da sempre agisce il cambiamento e affronta le sfide che si presentano, cercando di dare risposte precise ai nuovi bisogni dei soci e dell’intera comunità”, spiega Anna Lisa Lamazzi, presidente Arci Modena: “Per questo abbiamo sentito l’esigenza di partecipare all’organizzazione di momenti di dibattito culturale su temi come le migrazioni, le frontiere e gli attentati terroristici che hanno colpito Parigi e il mondo intero”. A questo impegno sull’attualità si unisce quello per la promozione culturale, con alcuni progetti importanti che troveranno conferma nel 2016: il ViaEmiliaDocFest, festival del cinema documentario che arriva alla sua settima edizione, il SuperCinema Estivo e, tra le novità, la rassegna dedicata ai film che difficilmente passano dalle sale, che sarà ospitata dal cinema Astra di Modena. “In un momento complesso dal punto di vista economico e sociale”, commenta la presidente Lamazzi, “crediamo sia importante proporre iniziative culturali, gratuite o a prezzi popolari, che arricchiscano il cartellone cittadino e contribuiscano a creare momenti di incontro, socialità e partecipazione”. A questi si aggiungono gli appuntamenti di musica e teatro, con il supporto alle attività dei circoli e l’organizzazione di rassegne, spettacoli e concerti in occasione di eventi particolari. Negli ultimi anni è emersa sempre più chiaramente l’esigenza di formazione permanente e specifica dedicata a tutte le età, questo ha dato vita al progetto EPop, l’università popolare di formazione permanente e gratuita e al ricco calendario di corsi proposti dai circoli e dalle polisportive del territorio. Per i giovani, invece, l’impegno è quello di promuovere il protagonismo, nuovi linguaggi e forme di comunicazione e costruire così uno spazio associativo che risponda alle esigenze delle nuove generazioni, dove continuare a diffondere i valori storici dell’associazione, che vanno dalla Resistenza al fare comunità, passando da condivisione e partecipazione, aprendosi a nuove idee ed esperienze. La Guida Arci Modena 2016 e la campagna di tesseramento vogliono raccontare tutto questo. “Abbiamo voluto mettere al centro le nostre socie e i nostri soci, perché Arci Modena è un insieme di persone, idee e progetti che crescono grazie alla partecipazione di tutti”, spiega Anna Lisa Lamazzi. “Quello che facciamo è reso possibile dall’impegno dei circoli, associazioni e polisportive che ogni giorno dimostrano che solo stando insieme, condividendo e dialogando si possono creare nuove opportunità”. All’interno del vademecum si possono trovare i progetti culturali nel campo di cinema, teatro, musica e 4 arte; l’impegno per l’accoglienza, il dialogo e la lotta al razzismo; le nostre proposte per giovani e giovanissimi, con luoghi di incontro e confronto dove essere protagonisti. La pubblicazione è disponibile nei circoli e nei punti informativi del territorio e potrà essere consultata e scaricata sul sito www.arcimodena.org. A questa si affianca una campagna di tesseramento che racconta che cosa significa essere socio Arci e che la tessera non serve solo ad accedere a circoli, polisportive o servizi ma anche a far parte di un mondo, condividendone i progetti e le campagne, nel quale si possono portare le proprie idee e contribuire così a costruire insieme l’Arci di domani. La campagna di tesseramento sarà disponibile sulla pagina Facebook Arci Modena, il profilo Twiter @ArciModena e il sito web www.arcimodena.org. http://www.sassuolo2000.it/2015/12/21/un-2016-di-cultura-e-solidarieta-per-arci-modena/ 5 ESTERI del 22/12/15, pag. 2 La Spagna si riscopre plurale Elezioni in Spagna. Nulla è come prima. Tre scenari, ma uno solo è il preferito dai mercati e dalle cancellerie europee. I socialisti mai così male ma decisivi per ogni governo. Dal País alla vecchia guardia forti pressioni per una «desistenza» con i popolari nel nome dell’unità del paese. Eppure l’alternativa «zapaterista» è ancora praticabile Jacopo Rosatelli Nell’incertezza generale, il giorno dopo il voto spagnolo una cosa è chiara: la formazione del prossimo governo passa dalle scelte del Partito socialista. La malconcia formazione di Pedro Sánchez, infatti, è l’unica che può giocare su più tavoli: è debole, ma indispensabile. La consegna del momento, dunque, è mantenere la calma. Ieri il numero due César Luena si è limitato a dichiarazioni di prammatica: «Tocca al Pp prendere l’iniziativa, noi agiremo con prudenza e responsabilità». Le sirene dei conservatori si fanno sentire: «Dialogheremo con generosità per trovare un’intesa» ha affermato Mariano Rajoy, al quale i socialisti avevano anticipatamente già mandato un avviso di sfratto, promettendo il «no» alla sua rielezione. Ma siamo solo alle schermaglie iniziali. Il Psoe è cruciale innanzitutto perché i suoi voti sono gli unici che potrebbero permettere al Pp di formare un esecutivo di minoranza: è l’opzione più semplice. Se Rajoy fosse disposto a farsi da parte (per ora non sembra), l’attuale vicepresidente Soraya Sáenz de Santamaría potrebbe rendere più facile ingoiare il boccone amaro ai socialisti, che – è bene chiarirlo – resterebbero all’opposizione: il loro voto sarebbe un’astensione funzionale all’investitura del nuovo capo del governo. Senza dubbio, questo è lo scenario più gradito alla gran parte delle cancellerie europee e ai poteri economici, interni e internazionali (i «mercati» hanno suonato il campanello d’allarme: –3,6% alla Borsa di Madrid): «Una coalizione stabile» è l’auspicio formulato ieri dal leader della Confindustria iberica, Joan Rosell. Una simile operazione avrebbe come sponsor l’influente quotidiano El País e l’ex premier socialista Felipe González – e con lui tutta la vecchia guardia del partito. Ma non solo. Anche i leader delle federazioni regionali che nel Psoe contano di più, Andalusia in testa, non si straccerebbero le vesti di fronte a tale opzione all’insegna della «salvaguardia dell’unità di Spagna». C’è un precedente, a parti invertite: il governo di minoranza del Psoe nei Paesi baschi (2009–2012) grazie all’astensione del Pp. Un’alternativa alla «desistenza» in favore della destra è, per il Psoe, tentare di conquistare il governo grazie a Podemos e ai centristi di Ciudadanos. Molto improbabile. I numeri ci sarebbero, così come alcune affinità programmatiche. L’ostacolo più grande, però, è quasi insormontabile: le differenze sull’assetto territoriale del Paese. Podemos difende il «diritto a decidere» dei catalani, e quindi un referendum che avvenga solo in quella regione, Ciudadanos è su posizioni opposte, come ribadito ieri dal leader Albert Rivera. Molto difficile per il Psoe trovare un terreno di intesa sulla riforma federale della Costituzione: troppo per Rivera, troppo poco per Iglesias, che ieri ha chiarito che non appoggerà alcun governo che si opponga al referendum catalano. 6 Un terzo scenario, quasi da fantascienza, è quello che andrebbe maggiormente incontro alla voglia di cambiamento da sinistra: un accordo dei socialisti con Podemos (e Izquierda unida), ma anche con gli indipendentisti catalani di Esquerra republicana, a cui andrebbero aggiunte le astensioni dei nazionalisti di centrodestra di Democracia e llibertat (catalani) e del Pnv (baschi). È l’ipotesi a cui forse pensa Podemos, ma ha scarsissime probabilità di vedere la luce: il secessionismo catalano è indigesto a larghi settori del Psoe, come ieri ha voluto mettere in chiaro il leader dei socialisti dell’Estremadura (regione dove il Psoe è primo partito), seguito da altri colleghi. E tuttavia in politica nulla è impossibile: la base di una simile configurazione potrebbe essere il recupero dell’idea di «Spagna plurale» dell’ex premier José Luis Zapatero, potenziale padre nobile dell’operazione. Il suo primo governo si reggeva proprio su un’intesa con Esquerra republicana e le altre forze delle «nazionalità periferiche» basca e catalana. Era il 2004: le tensioni territoriali non mancavano, ma l’indipendentismo in Catalogna era ultra-minoritario. Oggi le cose sono più complicate. Le prossime settimane saranno dunque molto travagliate per il Psoe, dove potrebbe anche aprirsi la partita della leadership, mentre il Pp può restare in una posizione di attesa. Il 13 gennaio parte la nuova legislatura, la Costituzione non fissa un limite di tempo ai colloqui del monarca, ma stabilisce che dopo il primo voto di investitura possano trascorrere al massimo due mesi. Al termine dei quali, senza accordi, si tornerebbe inevitabilmente alle urne. del 22/12/15, pag. 8 IL VOTO IN SPAGNA Il Psoe si divide sulle alleanze: “Né con la destra né con Podemos” OMERO CIAI DAL NOSTRO INVIATO MADRID. La sede socialista è ancora nello storico palazzo di calle Ferraz, dietro la Plaza España, non lontano dalla Gran Via. In queste stanze la gente del Psoe festeggiò le maggioranze assolute di Felipe González e le vittorie, più recenti, di José Luis Rodriguez Zapatero. Quando questo partito, nato operaio, era ancora l’anima e il cuore del popolo riformista che entrava in Europa, costruiva il Welfare, si lasciava alle spalle il vecchio isolazionismo spagnolo aprendosi al resto del mondo, s’occupava di diritti civili, divorzio express, aborto alle minorenni, nozze gay. Altri, gloriosi, lontani tempi. Oggi in Spagna, dopo il voto di domenica, il Psoe ha in mano le mosse della partita a scacchi che s’è aperta tra i partiti in un Parlamento senza maggioranza. Novanta seggi gli consentono di stare al centro della contesa, indispensabile per qualsiasi governo possa nascere. A sinistra con Podemos, a destra con Rajoy. Senza l’appoggio del Psoe, si va dritti alle urne di nuovo tra tre mesi. Ma in questa apparentemente comoda posizione i socialisti rischiano di bruciarsi, perché dovunque sceglieranno di andare rischiano di pagarla cara, almeno nei consensi. Meglio stare fermi, non muoversi proprio. E fermissimo era ieri il braccio destro del leader Pedro Sanchez, il giovanissimo responsabile organizzativo Cesar Luena. «Abbiamo deciso di votare ‘no’ a un governo Rajoy». Bella forza, gridano i colleghi che gli si raccolgono 7 intorno. Ma poi? «Poi niente», aggiuge Luena abbottonatissimo. «Siamo all’inizio di un lungo processo, decideremo tappa per tappa». Sperare di scucire una suggestione a Luena sul prossimo futuro del suo partito e della Spagna è come prendere a pugni un palloncino. Si sposta ma non ti risponde. In realtà il partito socialista è stato messo dal voto sull’orlo di un precipizio. Fanno finta di essere contenti ma hanno perso 4 milioni di voti nel 2011 e un altro milione e mezzo domenica. Il peggior risultato di sempre. Appena sopra un venti percento che, se non ci fosse stato il terremoto di Podemos e Ciudadanos, non servirebbe a nulla. Sull’orlo di un precipizio perché se si buttano nelle braccia di Podemos rischiano di essere cannibalizzati da gente che nel far innamorare la sinistra è molto più brava di loro. Qualsiasi cosa facesse il governo sarebbe un altro merito di Iglesias che “ha stanato quei burocrati del Psoe”. Se si buttano a destra e appoggiano un governo conservatore idem. Avrebbe ancora ragione il Pablo di Podemos che per tutta la campagna elettorale ha ripetuto come un mantra che “votare Psoe è come votare Rajoy”. Dunque immobili, in attesa che siano gli altri a muoversi. La leadership di Pedro Sanchez è molto debole. E’ questo suo tormento si riflette nei tormenti e nelle incertezze del partito. Lo insidia, anzi lo tallona, una donna che nel partito conta molto più di lui. Quella Susana Diaz che ha stravinto in Andalusia, l’unica regione di Spagna nella quale il Psoe vince ancora in tutte le circoscrizioni. E che non vede l’ora di diventare segretario, trascinata dalle sue truppe di funzionari locali, sindaci, consiglieri comunali, deputati regionali. Forte anche dell’investitura a leader che le ha già concesso l’anziano padre nobile del partito, Felipe González. Non è un segreto che Sanchez in queste ore sia molto tentato dal lanciarsi nell’avventura del fronte di sinistra. L’alleanza con gli emergenti di Podemos e i partiti nazionalisti della Catalogna e dei Paesi Baschi. Ci vuole coraggio ma sarebbe una bella sfida progressista per la Spagna. L’esuberante Susana ha dato subito l’altolà. «Mai con Podemos». D’altra parte la Diaz a Siviglia governa con l’appoggio di Ciudadanos, un neo partito ferocemente nemico non solo di Podemos ma molto di più di qualsiasi forza nazionalista catalana o basca. Così tra un “Mai con Podemos” e un “Mai con Rajoy” il partito socialista implode incapace di scegliere una direzione politica. L’assalto alla segreteria di Susana per ora è in stand-by. Pedro Sanchez ha perso voti ma, seppure per un soffio, ha evitato l’annunciato sorpasso di Pablo Iglesias. Nonostante il suo Psoe sia arrivato quarto a Madrid e sia in via di estinzione a Barcellona, Pedro può ancora sostenere che guida il primo partito dell’opposizione, e anche il primo della sinistra. Ma per ora non può far altro, solo attendere. Se Rajoy fallisce, come oggi sembra inevitabile, potrebbe toccare a lui tentare di formare un governo, magari a sinistra, «un nuovo grande accordo storico », come ha detto Iglesias. Nonostante Susana. Oppure, altra prospettiva che in queste ore prende sostanza, non ci sarebbe altro da fare che tornare alle urne. Nel partito popolare, scottati da una vittoria che non lo è, cominciano a pensarci. Il ragionamento è semplice. Riprendersi quegli elettori di centro destra che hanno inutilmente votato Ciudadanos sperando di rigenerare la politica conservatrice, di ripulirla dalla corruzione del Pp di Rajoy. Il ritorno a casa delle pecorelle smarrite. del 22/12/15, pag. 2 Tramonta un’epoca a Madrid 8 E si porta dietro il Pp di Rajoy Luca Tancredi Barone BARCELLONA È la fine di un’epoca. Il 72% degli spagnoli ha votato contro Mariano Rajoy. Il suo partito popolare con il 28% dei voti arriva sì primo, ma con quasi 4 milioni di voti in meno. Non solo: il nuovo partito della destra dalla faccia pulita e telegenica di Albert Rivera, Ciudadanos, ottiene meno del 14% dei voti. La somma dei loro 40 deputati con i 123 del Pp è molto lontana dai 176 necessaria per la maggioranza assoluta. L’opzione preferita dai poteri forti, e l’unica che avrebbe consentito in qualche modo al Pp di rimanere in sella sfuma. Il futuro di Rajoy è segnato. Il Psoe, con il suo peggiore risultato nella storia del partito, è al 22% e ottiene 90 seggi. Ma ai piani alti del partito socialista temevano di peggio, e seppure di un soffio, ottengono la seconda posizione a livello nazionale. Politicamente hanno le chiavi del futuro governo, dato che quasi certamente il Pp dopo 4 anni di orecchie da mercante parlamentare verso le istanze di tutti gli altri partiti, non riuscirà a trovare alleati. A un soffio, il 21%, arriva Podemos, il vero vincitore morale di queste elezioni, che ottiene complessivamente 69 seggi – sommando i 42 ottenuti dove correva da solo (contro Izquierda Unida) a quelli delle coalizioni di partiti di sinistra (in cui c’era anche IU): 12 in Catalogna, 9 a Valencia e 6 ottenuti dalle maree galiziane. Insieme i due partiti senza rappresentanza 4 anni fa, Podemos e Ciudadanos, ottengono più di un terzo dei voti. Izquierda Unida, con quasi un milione di voti (contando solo dove correva sola) è riuscita a strappare solo due seggi, risultato molto al di sotto delle sue aspettative. Ma il rompicapo spagnolo è formato anche da piccoli partiti a livello nazionale, ma molto forti a livello locale, che la legge elettorale pompa molto: 9 seggi vanno al partito indipendentista catalano Esquerra Republicana, 8 alla nuova marca del partito del presidente catalano Artur Mas, Democràcia i Llibertat (indipendentisti di centrodestra), sei ai nazionalisti di destra moderata baschi del Pnv (che esprimono l’attuale presidente basco), e due ai nazionalisti di sinistra di EH Bildu (politicamente legati alle rivendicazioni dell’Eta, ma ormai contrari alla violenza), che crolla davanti a Podemos. Infine, un seggio alla Coalizione canaria, partito di destra locale. Rimane fuori il partito che storicamente disputava a Pp e Psoe la posizione di centro: UpyD di Rosa Diáz, che viene spazzato via: passa da Più di un milione di voti a meno di 150mila. Per il modo in cui funziona la legge elettorale, lo storico partito animalista Pacma, con più voti di EH Bildu, non ottiene neppure un seggio. Mentre i verdi di Equo, alleati con Podemos a Valencia, entrano per la prima volta. Sempre dalla comunità valenziana arriva anche la prima deputata nera: un’attivista femminista di origini guineane (la Guinea equatoriale è un’ex colonia spagnola). Al Senato invece i risultati sono molto diversi. Molto sottovalutato perché – pur dovendo essere una camera delle autonomie – di fatto è una camera di seconda lettura non vincolante, e nomina alcune cariche costituzionali. Ma soprattutto in questa legislatura sarà chiave perché ha competenze per esempio per bloccare le comunità autonome discole, per esempio la Catalogna, e per riformare la costituzione. Cosa per la quale ci vuole la maggioranza dei 3/5 di entrambe le camere. E il senato rimane saldamente in mano popolare: 124 senatori dei 208 eletti (a cui si aggiungono i 23 popolari eletti dalle comunità autonome), per un totale di 147 – la maggioranza è di 134. La cosa è curiosa, perché le elezioni per il senato sono le uniche in cui gli spagnoli possono esprimere una preferenza, fino a tre, e per qualsiasi nome di qualsiasi partito. Ma così è: senza il senato, 9 e cioè senza il Pp, non si può riformare la costituzione (come chiedono a gran voce i nuovi entrati). del 22/12/15, pag. 4 Il puzzle delle autonomie Spagna. Le coalizioni locali vincono. Una «ricchezza» che rischia però di mettere in crisi Podemos Luca Tancredi Barone BARCELLONA Qualcuno per scherzo lo diceva ieri sulle reti sociali. La soluzione del rompicapo politico spagnolo si chiama Ada Colau, la sindaca di Barcellona. Che propongano lei come presidente del governo, e che l’appoggino tutti i partiti di sinistra, dicevano alcuni twiteros. A parte che lei non ha alcuna intenzione, almeno per il momento, di lasciare la guida della sua città, ci sarebbe il piccolo problema che Ciudadanos non l’appoggerebbe. Ma boutade a parte, una delle chiavi di lettura di queste elezioni sono proprio le «nuove» coalizioni locali che vincono dappertutto. In tutte le città dove oggi governano «nuovi» sindaci (Barcellona, Madrid, A Coruña, Valencia, Cádiz) Podemos e le sue alleanze hanno stravinto. E non a caso ottiene grandi successi nelle tre comunità con nazionalismi storicamente più forti: Catalogna, Euskadi e Galizia. La proposta di un referendum di autodeterminazione in Catalogna è stata di gran lunga la mossa più azzeccata di Pablo Iglesias per vincere in queste comunità autonome. In Galizia, bastione popolare (qui al 37%), dove la questione nazionale è minoritaria (ma esiste), le maree (che inglobano anche Podemos, ma non solo) superano il Psoe con il 25% dei voti (e sei seggi). In Euskadi la situazione è ancora più complessa. Vince Podemos per voti (26%) ma il Pnv (25%) ottiene un seggio in più (sei contro cinque); chi perde voti alla sinistra non socialista è EH Bildu, che ottiene solo due seggi (ne aveva sei 4 anni fa). Gli elettori di Bildu hanno visto aprirsi un’opportunità per l’autodeterminazione basca. Ma il successo più spettacolare è proprio quello ottenuto da En comú podem in Catalogna. Stavolta Colau si è impegnata a fondo per il risultato, arrivando a chiudere simbolicamente la lista di confluenza. Alle elezioni catalane di settembre, senza l’intervento di Colau, l’analoga lista che aveva cercato di smarcarsi dall’asse «indipendenza sì o no», aveva ottenuto risultati molto più magri (ma allora c’erano anche gli anticapitalisti indipendentisti della Cup, che stavolta si sono astenuti). I catalani hanno mandato deputati di ben sei partiti diversi a Madrid: un vero record. 12 quelli dell’alleanza di sinistra (25% dei voti), 9 Esquerra (16%), che diventa quindi il partito egemonico della coalizione Junts pel Sí che aveva vinto le catalane a settembre. Seguono a ruota Democràcia i Llibertat, la nuova marca di Artur Mas, con 8 deputati e il 15% dei voti. I socialisti, anche loro con 8 seggi (record negativo: ne avevano 14 quattro anni fa), racimolano una manciata di voti in più (15,7%). Ciudadanos, che a settembre aveva ottenuto ben il 25% (ed è il partito che guida l’opposizione nel Parlament di Barcellona) stavolta ha solo il 13% (e 5 deputati). Chiude il Pp, con altri 5 deputati (e l’11%), uno dei risultati più bassi di sempre. La Catalogna aprirà le danze per la questione territoriale. Politicamente, senza la Cup, i due partiti di Junts pel Sí sommano un milione e centomila voti, il 31%. Una miseria confrontata con i due milioni che a settembre votarono chiaramente partiti filo10 indipendenza (e con il milione seicentomila, 40%, di Junts pel Sí). Meno catalani si sono recati alle urne che a settembre. Ma il segnale è chiaro. Ora per Artur Mas sarà tutta in salita. Esquerra già conta di più in voti, e la Cup, che finora ha chiesto la sua testa per appoggiare un governo di Junts pel Sí, si prepara alla sua assemblea di domenica in cui sottoporrà ai suoi militanti 4 opzioni: 2 contro l’investitura a Mas (in una chiedendo un altro nome entro il 9 gennaio, data limite pena le elezioni anticipate; nell’altra chiedendo direttamente le nuove elezioni) e due a favore (in un caso, alzando la posta e chiedendo un piano choc ancora più estremo). Ma la questione è destinata a complicarsi. En comú podem e tutte le confluenze locali hanno i numeri per costituire un gruppo a parte nel Congresso. E hanno intenzione di farlo. Per Podemos sarà complicato gestirli tutti e 4, all’interno dei quali ci sono esponenti anche di altri partiti (come Iu o verdi). Ciascuno di loro prevedibilmente privilegerà l’identità locale rispetto alla disciplina di partito. Se vorrà l’appoggio di tutti, in primis dei catalani, Podemos dovrà mantenere la promessa sul referendum, cosa che potrebbe risultare complicata in un’eventuale negoziazione con il Psoe. Ma se la Catalogna lo dovesse ottenere, Euskadi non tarderà a chiederne uno analogo. E in Euskadi si vota tra pochi mesi (e magari anche in Catalogna): per eguagliare il successo di domenica, Podemos dovrà mantenere la barra dritta anche sull’autodeterminazione. E a Madrid è più difficile che a Barcellona o Vitoria. del 22/12/15, pag. 4 Del buon-governo o contro-tutto: l’anno d’oro dei movimenti anti-partito Ue plurale - Dalla Gran Bretagna all’Ungheria avanza soprattutto la destra di Roberta Zunini Il 2015 verrà ricordato come l’anno della vittoria dei partiti euroscettici e anti-sistema. Con le consultazioni spagnole si è registrata la fine del trentennale bipolarismo grazie al successo del partito anti-sistema di sinistra Podemos. Guidato da Pablo Iglesias, nato dal movimento degli indignados contro la casta e contro l’Europa dell’austerity, Podemos è alleato di Syriza. Le prime elezioni dell’anno si tennero proprio in Grecia, il 25 gennaio, dove il partito di Alexis Tsipras vinse con un programma anti-austerity ed euroscettico. Era la prima volta che andava al governo. La seconda è stata il 20 settembre quando Syriza, nonostante il suo leader avesse firmato il terzo memorandum e la fuoriuscita dal partito di numerosi deputati e ministri, ha rivinto. Ma non va dimenticato che in entrambe le votazioni il partito anti-euro neonazista Alba Dorata si è attestato al 3° posto. La maggior parte dei partiti anti-sistema che nel 2014 avevano ottenuto percentuali inimmaginabili alle Europee, quest’anno hanno riconfermato la propria crescita. Si tratta in prevalenza di movimenti e formazioni di estrema destra e ultranazionalisti. A partire dal più noto, il Front National di Marine Le Pen, fermato alle regionali di questo mese dal fronte repubblicano, formato appositamente per evitare che la maggior parte delle regioni andasse agli alleati della Lega Nord di Salvini. Che in ottobre con un tweet esultò per il grande successo a Vienna del Partito della Libertà, Fpo, divenuto per la prima 11 volta partito numero uno in due circoscrizioni della capitale austriaca. Alle politiche del 2013, la triade ora al potere costituita dal Partito della Libertà Austriaco (Fpo), da Alleanza per il Futuro dell’Austria (il Bzo fondato dal defunto Jorg Haider) e da Team Stronach, una formazione nata appena tre anni aveva raccolto ben il 30% dei voti. In Gran Bretagna il 7 maggio i nazionalisti dell’Ukip di Farage sono arrivati al 32%, ma pur essendo 3° partito del panorama politico hanno un solo seggio in Parlamento. Anche in Danimarca ha vinto l’euroscetticismo e l’isolazionismo, non solo per l’ondata di profughi. Il Partito del Popolo Danese è oggi secondo in Parlamento con il 21,1% dei voti. In Scandinavia, poco più su, i Democratici svedesi, formazione anti-Europa, razzista e di estrema destra fondata dal 35enne Jimie Akesson ha raddoppiato i consensi dalle politiche 2010 a quelle 2014. Il Partito Veri Finlandesi che vuole un’Europa solo come zona di libero scambio, ad aprile ottenne il 17,7%, percentuale che gli ha permesso di entrare nella coalizione di governo. Ma i campioni dell’euroscetticismo sono a Budapest e Varsavia. In Ungheria Fidesz, il partito dell’autoritario euroscettico premier Orban nelle parlamentari del 2014 ha vinto pur perdendo voti a favore di un partito ancora più estremista: il fascista Jobbik passato dal 16,7% al 20,54%, circa un milione di voti in più. Gli ultimi sondaggi danno Jobbik al 30%. Un’ascesa inarrestabile. La Polonia, uno dei paesi più importanti dell’Unione per peso geopolitico e numero di abitanti a ottobre è tornata a destra. Il partito anti-Ue e antiimmigrati Diritto e Giustizia, Pis, del gemello Jaroslaw Kaczynski ha avuto il 39,1% e ora guida il governo. Secondo la politologa spagnola Irene Martin, docente di Scienze politiche all’università autonoma di Madrid, che tiene corsi anche in Grecia, “Podemos e Syriza non sono partiti anti-sistema ma pro-sistema nel senso che vogliono che il sistema funzioni bene. Sono invece contro il sistema attuale perché vogliono sovvertire le logiche per governare in modo più trasparente, democratico e inclusivo, in cui i politici si assumano le proprie responsabilità”. Per quanto riguarda i rapporti con l’Unione europea, Martin dice al Fatto: “Dovremmo distinguere tra quelli che si oppongono all’Ue, come tutti i partiti di estrema destra o ultranazionalisti che sono cresciuti e andati al governo in questi anni di austerity e coloro che vogliono ‘un’altra Europa’, più solidale e giusta, come appunto Podemos e Syriza”. del 22/12/15, pag. 4 Tsipras: «Punita la politica di austerity, l’Europa cambia» Grecia. Il governo di Atene pronto a incassare una tranche da un miliardo di euro Teodoro Andreadis Synghellakis «La politica di austerity è stata politicamente punita in Spagna». Alexis Tsipras ha commentato così i risultati delle elezioni spagnole e l’affermazione di Podemos, alleato europeo di Tsipras e della sua Syriza. «La nostra lotta ora è giustificata, l’Europa sta cambiando». Nel frattempo Atene ha affermato che da oggi, a seguito del voto del parlamento, verrà utilizzato in tutti i documenti pubblici la parola «Palestina» e non più Autorità palestinese. Tutto questo mentre il governo Tsipras si prepara ad incassare la tranche da un miliardo di euro, parte del programma di sostegno alla Grecia, pattuito nella scorsa estate. 12 Nonostante ciò, secondo quanto riporta il quotidiano di Atene Efimerìda ton Syntaktòn, i rappresentanti del quartetto dei creditori (Fmi, Bce, Commissione e Meccanismo Europeo di Stabilità) vuole continuare a fare pressione su Atene, dopo le feste, chiedendo di velocizzare l’attuazione delle «riforme». La valutazione ufficiale dei progressi compiuti dal governo greco nell’applicazione del programma, dovrebbe iniziare, ad opera delle istituzioni creditrici, il prossimo 18 gennaio. La sua conclusione, è necessaria sia perché venga dato l’assenso ad un’ulteriore tranche da 5,7 miliardi di euro, sia per poter passare al capitolo successivo, che più interessa il governo di Alexis Tsipras: la ristrutturazione del debito pubblico greco, promessa dai creditori. In tutto questo, tanto il premier greco, quanto alcuni suoi ministri di punta, sono voluti tornare sul come sono stati concepiti i programmi di sostegno al paese. «L’eurozona ha ormai la completezza istituzionale necessaria, per affrontare in modo risolutivo i problemi all’interno dell’Europa», ha dichiarato Tsipras al Financial Times. E ha anche aggiunto che «crea perplessità la posizione non costruttiva dell’Fmi su questioni economiche e sui conti pubblici». Una posizione a cui si oppone, neanche a dirlo, il ministro delle finanze tedesco Schäuble. Berlino continua a ritenere che la presenza dell’Fmi costituisca una garanzia per l’attuazione dei programmi, nonostante le posizioni spesso estreme, espresse dal Fondo, specie per quel che riguarda la deregolamentazione del mercato del lavoro. Un contrasto destinato a continuare, anche per quanto il governo Tsipras ritiene prioritario, come il ritorno in vigore dei contratti collettivi di lavoro. Per quel che riguarda la tassazione dei canoni di locazione, la richiesta della «nuova Troika» è che possa venire aumentata, malgrado — per effetto della crisi — sia diventato impossibile riuscire ad affittare un immobile, se non alla metà del suo valore di mercato. Sinora, la cedolare secca ellenica prevede una tassazione dell’11% per i canoni di affitto che non superano i 12.000 euro l’anno, mentre per gli affitti con importi superiori, la tassazione arriva al 33%. Le istituzioni creditrici vogliono obbligare i proprietari ad aumentare le imposte da versare, sborsando, nel 2016, ulteriori 142 milioni di euro. Ma l’esecutivo Tsipras risponde che è disposto a discutere di un eventuale aumento della tassazione, solo in modo progressivo, solo tenendo conto, quindi, del reddito complessivo delle famiglie. Anche perché il governo di Syriza vuole riuscire a tornare, entro sei mesi, ad una crescita del Pil. Nelle prossime settimane si giocheranno sfide molto importanti. Il governo Tsipras ha fatto approvare una legge di stabilità che riduce, per quanto possibile, tagli e sacrifici, in vista della ripresa. «Voci» fatte filtrare dai creditori, tuttavia, parlano della necessità di misure aggiuntive, perché sarebbero state sovrastimate le entrate provenienti dall’Iva e dalle scommesse sportive. Si tratta, come sempre, di pretese economiche dietro cui si celano chiare sfide politiche. E in un Sud Europa, sempre più attento alle conseguenze nefaste dell’austerità, Tsipras punta a trovare alleati sempre più determinati a difendere realmente, i diritti fondamentali dei cittadini. del 22/12/15, pag. 34 All’inizio sembrava solo l’ennesima provocazione di Trump, poi anche Clinton e Obama hanno preso posizione: “I social media devono aiutarci a fermare gli estremisti”. Ma finora i colossi di Internet sono rimasti sordi ad ogni richiesta, nel nome della privacy: e dei loro interessi economici La Rete anti Is 13 FEDERICO RAMPINI DAL NOSTRO CORRISPONDENTE NEW YORK L’accademia militare di West Point, che ha un dipartimento intitolato Combating Terrorism Center, è stata la prima a rivelarlo: lo Stato Islamico ha un manuale di 34 pagine per addestrare i terroristi all’uso dei social media senza essere intercettati. La donna della strage di San Bernardino, Tashfeen Malik, giurò fedeltà all’Is su Facebook poco prima di aprire il fuoco per fare 14 morti. Nelle zone della Siria occupate dai jihadisti, secondo le testimonianze raccolte dal settimanale tedesco Der Spiegel, l’accesso satellitare a Internet è “offerto” da aziende hi-tech europee come Eutelsat (Francia), Avanti Communications (Inghilterra), Ses (Lussemburgo). E’ possibile che la potenza tecnologica dell’Occidente debba esserci rivolta contro? Perché la Silicon Valley non ci aiuta? Dopo le uscite di Donald Trump su “chiudere Internet”, era forte la tentazione di liquidare il dibattito come un’altra sbandata demagogica del candidato repubblicano; o peggio, come una pericolosa deviazione verso forme di censura più adatte a regimi autoritari (Cina, Russia, Iran, già di fatto “chiudono Internet” quando fa comodo ai rispettivi governi). Invece Trump aveva colto un problema reale, sia pure semplificandolo con i suoi slogan rozzi. Hillary Clinton ora non dice cose molto diverse: «Ci serve tutto l’aiuto di Facebook, YouTube, Twitter. Non possono permettere che degli utenti sofisticati di Internet usino i loro social media per reclutare terroristi o addirittura per guidare gli attacchi. I social media devono negare spazio a questi gruppi». Barack Obama dopo la strage di San Bernardino ha rivolto un appello simile alla Silicon Valley: «Farò pressione sulle aziende tecnologiche perché aiutino le forze dell’ordine a rendere più difficile l’impunità dei terroristi». Obama non ha in mente solo delle segnalazioni puntuali quando vengono intercettati messaggi relativi ad attentati. Il presidente vuole estendere l’azione a tutti i messaggi che diffondono la cultura della violenza: «Mentre Internet cancella le distanze tra le nazioni crescono gli sforzi dei terroristi per intossicare le menti di giovani come i due fratelli ceceni che misero le bombe alla maratona di Boston, o la coppia di assassini di San Bernardino». Resta preoccupante il divario tra questi appelli, e la capacità reale di “bonificare” i social media dai messaggi del terrore. Un’altra candidata alla Casa Bianca, che non ha la popolarità di Trump nei sondaggi ma conosce bene la Silicon Valley essendo stata la chief executive di Hewlett-Packard, è Carly Fiorina. All’ultimo dibattito tv tra repubblicani ha sollevato anche lei questo tema, con una denuncia allarmante: «La tecnologia che usa il nostro governo è molto più arretrata di quella dei terroristi ». Ma non è solo il Pentagono o la Cia o l’Fbi ad avere qualche ritardo. In realtà perfino gli “hacker buoni” hanno rimediato una figuraccia di fronte a quelli dell’Is. Anonymous dopo la strage di Parigi aveva lanciato un appello con gli hashtag #OpParis e #OpIsis, per cancellare gli indirizzi dei jihadisti su Twitter. L’operazione ha dato risultati modesti, e qualche infortunio. I seguaci dell’Is riaprono sotto altri nomi gli indirizzi che gli vengono chiusi. E tra gli account “cancellati” da Anonymous sono finiti quello della Bbc e di alcuni centri universitari che fanno ricerche sul terrorismo. La verità è che questa battaglia sarà vinta solo se cooperano i colossi della Silicon Valley. I quali hanno tenuto finora un atteggiamento ambiguo, riluttante. Gli esperti della Casa Bianca individuano tre possibili livelli di controllo di Internet in funzio- ne di prevenzione del terrorismo. Il primo consiste nell’affidarsi all’auto-regolazione da parte dei Padroni della Rete: Apple, Google, Facebook e Microsoft dovrebbero mobilitare le loro squadre di esperti per vigilare su eventuali segnali minacciosi, e segnalarli alle autorità. Lavoro titanico, obiettano i chief executive della Silicon Valley, i quali ricordano che ogni giorno più di un miliardo di utenti si collega a un social media. Il secondo livello consiste nell’apertura di “backdoor”, 14 letteralmente porte di servizio, dalle quali l’intelligence e la polizia possano intercettare anche i messaggi criptati. L’obiezione viene da Tim Cook, numero Uno di Apple: «Una volta aperte le backdoor, da lì può entrare chiunque, non solo il governo». In altri termini verrebbe ridotta la sicurezza di tutti gli utenti, alla mercè di hacker. L’obiezione è discutibile visto che Apple e Android (Google) hanno introdotto le tecnologie criptate su tutti i software dei loro smartphone solo dal 2014: prima non le consideravano così essenziali. Infine il terzo livello preso in considerazione dalla Casa Bianca darebbe alle forze dell’ordine un accesso a tutti i database dei social media. I contrari sottolineano che un accesso così vasto e indiscriminato sarebbe probabilmente anti-costituzionale. E il modo più facile di aggirarlo sarebbe, per i jihadisti, il ricorso a piattaforme digitali e social media non americani. Tutto il dibattito è viziato però dall’influenza politica esorbitante della Silicon Valley, e dal suo status quasi intoccabile, soprattutto per i democratici. L’ex portavoce di Obama Jay Carney oggi lavora per Amazon. L’ex stratega elettorale del presidente, David Plouffe, è al soldo di Uber. Le loro difese della privacy suonano ipocrite, quando i Padroni della Rete violano e saccheggiano i nostri messaggi a fini di marketing. Un osservatore lontano, Rohan Gunaratna della Nanyang Technological University di Singapore, ha commentato che «in Asia se un governo fa una richiesta a un’azienda tecnologica, questa equivale a un ordine». In America è vero il contrario. Gunaratna descrivendo la prassi asiatica non si riferisce solo a un regime autoritario come la Cina, include democrazie come l’India e la Corea del Sud. In America nessuno ha obiettato a “chiudere Internet” contro un altro nemico: la pedopornografia online, deballata quasi completamente. Quel precedente oggi ispira un’iniziativa di legge bipartisan. La firmano la senatrice democratica di San Francisco Dianne Feinstein, e il repubblicano Richard Burr. Il disegno di legge impone «l’obbligo per i social media e le aziende digitali di allertare le forze dell’ordine se hanno qualsiasi segnale di attività terroristica». La Feinstein precisa che «non si tratta di criminalizzare la libertà di parola, bensì di prendere atto che i terroristi usano i social media, e aggiornare il nostro arsenale di strumenti». E’ la stessa senatrice democratica, che conosce bene il problema, a citare il precedente: «Stiamo proponendo contro la propaganda jihadista dei mezzi già collaudati contro la pedo-pornografia. Qualcuno vuole spiegarci perché no?». del 22/12/15, pag. 35 Software e spie così l’Europa insegue i terroristi FRANCESCA CAFERRI DAL NOSTRO INVIATO L’AJA. IN una piccola stanza dalle pareti bianche, ai piani alti di questo edificio nel cuore dell’Aja un uomo senza nome punta a colpire il cuore l’Is. Dalla sua parte ha diverse armi: gli anni di esperienza sul campo come poliziotto, un computer e l’aiuto di colleghi diversi da lui in tutto: formazione, percorso, lingue che parlano. «Funziona così - spiega - ogni giorno monitoriamo Internet, con particolare attenzione ai Social media, e cerchiamo di scovare i più importanti fra i messaggi degli uomini dell’Is: una volta individuato un profilo, lo controlliamo per capire a chi è riconducibile, che messaggi veicola, che scopi ha. Poi decidiamo cosa farne». È una caccia impari la sua: solo su Twitter sono attivi fra i 45mila e 15 i 50mila profili di sostenitori dell’Is, che producono in media 100mila tweet al giorno. Eppure l’uomo è convito che alla lunga il suo impegno pagherà. Siamo nel quartier generale di Europol, il coordinamento delle polizie europee. L’uomo che parla è uno dei responsabili dell’Internel response unit (Iur), l’unità anti- cyber terrorismo creata dal ministri dell’Interno europei dopo l’attacco a Charlie Hebdo per fermare coloro che usano la Rete per diffondere il messaggio dell’Is e preparare attacchi: reclutatori, facilitatori e terroristi veri e propri. Entrato in azione dal primo di luglio, il gruppo è composto da una ventina di persone dai background più diversi: funzionari con anni di esperienza sul campo alle spalle, come la nostra guida, e giovani genietti dell’informatica in jeans e scarpe sportive che parlano diversi dialetti arabi e il turco. Lavorano gomito a gomito e nella massima segretezza nelle stanzette più riservate dell’edificio di Europol: l’accesso è vietato anche a chi lavora nella struttura. L’unità è il più avanzato esperimento di condivisione delle informazioni e delle ricerche che le polizie europee abbiano messo in campo nella caccia ad Is: nonostante ciò, non è riuscita a prevenire attacchi come quelli di novembre a Parigi: «Era così anche nel mio precedente lavoro – spiega l’uomo – bloccavo dei delinquenti e ma quelli trovano sempre un modo più raffinato per tornare a colpire. Eppure bisogna continuare a provare: cercare sempre più in alto. Il nostro obiettivo non è spegnere un singolo account, ma individuare quelli che sono in cima alla piramide. Solo così possiamo sperare di cambiare le cose ». L’uomo misterioso e i suoi collaboratori conoscono a memoria non solo i social media, ma anche gli angoli più remoti del Dark web, la parte della Rete che non è accessibile ai più: è qui che si commerciano armi, esplosivi e vite umane. E’ qui che spesso vengono decisi gli obiettivi da colpire: conoscere le lingue è fondamentale, così come lo è valutare se e quando chiedere ai provider di chiudere un account: nel 90% dei casi, alla segnalazione viene immediatamente dato seguito. «Ma a volte siamo noi a decidere di non farla: seguire un particolare profilo nel tempo può portare a risultati maggiori», spiega il poliziotto. Che siano successi rimasti nell’oscurità o fallimenti clamorosi, come quello di Parigi, sulle singole operazioni l’uomo non può parlare: ma si sa che dietro all’individuazione in un appartamento di Atene di Abdelhamid Abaaoud, il capo del commando del 13 novembre, c’erano gli uomini di Europol. E che da loro venivano le informazioni che a gennaio hanno consentito al Belgio di smantellare la cellula di Veviers, che avrebbe dovuto compiere attacchi simili a quelli poi avvenuti a Parigi. «Lo Iur è la nostra punta più avanzata - dice il direttore di Europol, Rob Wainwright – ma sono dieci anni che qui monitoriamo il web. L’arrivo dell’Is ha cambiato tutto: hanno risorse enormi. Stiamo facendo il possibile: siamo riusciti a neutralizzare personaggi importanti, abbiamo stabilito una collaborazione con i provider, che ora chiudono account pericolosi su nostra indicazione. Ma non vinceremo solo con numeri: serve più coordinamento per prevenire altri attentati». Davvero basterà? «Il monitoraggio è fondamentale – risponde Lorenzo Vidino, direttore del programma sull’estremismo della George Washington University di Washington – è chiaro che da solo non è sufficiente, ma il contributo che può dare è importante: ci troviamo di fronte a una nuova generazione di terroristi islamici. Quelli di venti anni fa si incontravano in metro per non farsi ascoltare, questi parlano alla luce del sole, in Rete, o sul Dark web. Mai come oggi seguire le loro orme può realmente aiutarci a individuare i terroristi prima che colpiscano». del 22/12/15, pag. 17 Truppe italiane in Iraq 16 Baghdad mette i paletti “Solo dopo un accordo” Giordano Stabile L’invio dei 450 soldati italiani nel Nord dell’Iraq, a protezione della diga di Mosul, dovrà passare «per un voto del Parlamento e del governo» iracheni. È l’esecutivo di Baghdad a sottolinearlo. Una settimana fa il premier italiano Matteo Renzi aveva annunciato l’accordo per i lavori di manutenzione dello sbarramento, affidati alla Trevi di Cesena, e la scorta armata. Un contingente che dovrebbe aggiungersi ai 600 istruttori militari italiani che addestrano truppe curde e irachene i in Kurdistan. La replica della Pinotti L’annuncio ha però acceso gli animi nazionalisti iracheni. Domenica il ministro per le Risorse idriche Muhsin al Shammary ha ricevuto il nostro ambasciatore Marco Carnelos e sottolineato che la diga «è già protetta da forze irachene e che ogni dispiegamento di truppe straniere dovrà avvenire d’intesa con il governo». Ieri ha replicato il ministro della Difesa Roberta Pinotti: «Ci dovrà essere prima l’assegnazione formale della commessa ha precisato - poi la pianificazione della missione a tutela della quarantina di tecnici italiani». La partenza è prevista in primavera. È soprattutto la componente sciita a protestare. Moqtada al Sadr, leader dell’Esercito del Mahdi e protagonista dell’insurrezione anti-Usa, ha denunciato che l’Iraq «è diventato una piazza aperta a ogni violazione». Il riferimento era all’Italia ma ancor più alla Turchia. I 1200 soldati inviati un mese fa a Bashiqa, sempre vicino a Mosul, hanno creato una crisi internazionale. Baghdad ha intimato ad Ankara di ritirare le sue truppe, ufficialmente in missione di addestramento. Poi ha minacciato di rivolgersi alla Nato, all’Onu. Alla fine una telefonata di Barack Obama ha convinto il presidente turco Recep Erdogan a far marcia indietro. Lo scontro frontale della Turchia con la Russia, e di conseguenza con l’Iran sciita, ha reso ipersensibili gli sciiti iracheni. Ma anche la situazione in Kurdistan si è complicata. Il presidente Masoud Barzani, filo-occidentale e filo-turco (per quanto può esserlo un curdo), si scontra duramente con«l’ala sinistra», quella del partito Puk. E il Puk simpatizza per i guerriglieri anti-turchi del Pkk. L’accordo in realtà sembra già fatto ma Baghdad, in questa situazione, deve sottolineare che non ci sarà nessuna cessione di sovranità. Fonti del gruppo Trevi sottolineano che la diga «è in cattive condizioni e ha bisogno urgente di manutenzione». Qualche anno fa, il governo iracheno ha contattato l’azienda di Cesena per avviare dei colloqui «in una trattativa privata», anche se finora nessun impegno è stato firmato. del 22/12/15, pag. 9 Hezbollah “Il conto è aperto” Medio Oriente. Ieri migliaia di persone hanno partecipato in Libano ai funerali dell'ex miliziano, responsabile di un attacco armato nel 1979 e rimasto 29 anni in carcere in Israele, ucciso sabato sera a Damasco da un attacco aereo dello Stato ebraico. Oggi il Parlamento greco riconoscerà lo Stato di Palestina Michele Giorgio 17 GERUSALEMME Tra grida di “Morte a Israele” migliaia di sostenitori di Hezbollah e di altre organizzazioni libanesi e palestinesi hanno partecipato ieri ai funerali di Samir Kuntar, il libanese druso, ex militante del Fronte di Liberazione della Palestina, ucciso sabato sera a Jaramana (Damasco), assieme ad altre otto persone, da un attacco aereo israeliano. Kuntar era noto in tutto il mondo arabo. Aveva trascorso 29 anni in una prigione israeliana per aver preso parte, all’età di 16 anni, ad un attacco armato (nel 1979) a Naharia, nel nord di Israele, in cui erano state uccise quattro persone, tra le quali due bambini. Dopo la scarcerazione avvenuta nel 2008 in seguito a uno scambio tra Israele e Hezbollah, Kuntar era entrato a far parte della leadership del movimento sciita libanese. È stato sepolto nel cimitero “militare” di al Rawdat Sayida Zeinab. Israele non ha rivendicato ufficialmente il raid aereo su Damasco, tuttavia esponenti del governo Netanyahu, come il ministro delle costruzioni Yoav Gallant, e alcuni parlamentari hanno espresso soddisfazione per l’eliminazione di Kuntar. Con ogni probabilità il raid ha voluto dare una chiara indicazione delle ampie capacità delle forze aeree israeliane e della efficienza delle rete di spie siriane. Qualche siriano però cerca di strappare a Israele il “merito” dell’eliminazione di Kuntar. “I cavalieri dell’Hawran”, una delle milizie affiliate all’Esercito libero siriano, braccio armato dell’opposizione anti Bashar Assad, ha diffuso un comunicato in cui si attribuisce la paternità dell’attacco e lancia avvertimenti minacciosi ai rivali di Hezbollah che combattono dalla parte dell’esercito governativo impegnato dal 2011 contro una galassia di formazioni islamiste o jihadiste sulle quali emergono i qaedisti di al Nusra e l’Isis. Ieri sera era atteso un discorso televisivo del segretario generale di Hezbollah, Hassan Nasrallah, finalizzato ad affermare l’intenzione di non lasciar passare senza reagire all’attacco contro Kuntar, peraltro seguito a diversi raid aerei compiuti da Israele in Siria nelle ultime settimane contro il movimento sciita. «Gli israeliani si sbagliano se pensano di aver chiuso il conto con l’uccisione di Samir Kantar. Devono sapere che hanno aperto nuovi conti. Israele non ha ancora imparato la lezione, questa volta ha commesso la più grave delle stupidità», ha avvertito un dirigente di primo piano di Hezbollah, Hashem Safieddine. Allo stesso stesso tempo i leader di Hezbollah e il governo siriano si interrogano sull’atteggiamento ambiguo degli alleati russi. Gli israeliani non possono aver lanciato i loro cacciabombardieri contro Damasco senza aver avvertito in anticipo il comando militare russo che opera in Siria. Mosca e Tel Aviv infatti hanno stabilito nelle scorse settimane un coordinamento per evitare “incidenti” nello spazio aereo siriano. Quando i russi cominciarono alla fine dell’estate i bombardamenti in Siria, il premier israeliano Netanyahu si precipitò a Mosca ed ottenne da Putin il via libera a una intesa tra i due Paesi nei cieli della Siria. In sostanza i russi hanno garantito agli israeliani la continuazione dei loro raid contro Hezbollah e l’esercito siriano e così tengono spente le loro formidabili difese antiaeree quando i jet di Tel Aviv sorvolano la Siria e compiono i loro attacchi. In casa palestinese, dove Kuntar godeva di stima e consensi, il raid israeliano ha suscitato reazioni diverse. Hamas, Jihad e la sinistra hanno condannato l’uccisione dell’ex prigioniero e con loro anche la base del movimento Fatah. L’Autorità nazionale palestinese e parte dei vertici di Fatah invece sono rimasti in silenzio. Il presidente dell’Anp Abu Mazen è in visita ufficiale ad Atene dove oggi parteciperà alla seduta del Parlamento che riconoscerà lo Stato di Palestina. Si tratta di un voto non vincolante per l’esecutivo ma dal forte valore simbolico tanto che il premier Alexis Tsipras ha annunciato che nei documenti ufficiali greci da ora in poi ci sarà il nome Palestina e non più Autorità nazionale palestinese. Tsipras, che il mese scorso aveva incontrato Netanyahu e Abu Mazen, con il riconoscimento dello Stato di Palestina da parte del Parlamento cerca di equilibrare la 18 posizione greca in Medio Oriente. Negli ultimi anni Atene ha stretto i rapporti con Israele, soprattutto dal punto di vista militare. Di recente sono circolate indiscrezioni sull’addestramento nello spazio aereo greco di piloti israeliani che avrebbero imparato ad aggirare il sistema antiaereo S-300 venduto dai russi qualche anno fa a Cipro che poi l’ha passato alla Grecia. del 22/12/15, pag. 17 Libia, entro Natale voto all’Onu I russi frenano sull’intervento Con la risoluzione il nuovo governo potrà chiedere aiuto contro l’Isis Saranno milizie locali, già contattate da ufficiali italiani, a combattere La risoluzione del Consiglio di Sicurezza per appoggiare la creazione del governo di unità nazionale in Libia è pronta, sotto forma di bozza, e sollecita la comunità internazionale a rispondere alle eventuali richieste di aiuto del nuovo esecutivo per favorire la stabilizzazione. Il negoziato per portarla al voto prima di Natale è ancora in corso, con qualche obiezione da parte russa, ma da oggi l’inviato dell’Onu Martin Kobler sarà al Palazzo di Vetro per contribuire a sbloccarlo. Il testo è stato scritto dalla Gran Bretagna, ed è appoggiato dagli altri due membri permanenti occidentali del Consiglio di Sicurezza, Usa e Francia, oltre che dall’Italia all’esterno. I punti principali sono due: il sostegno all’accordo firmato in Marocco dalle parti con Kobler, per riconoscere il nuovo governo di unità nazionale come «unica autorità legittima»; e l’invito a preparare l’eventuale intervento di pace. La missione in sé, però, non è definita, e viene rimandata a una risoluzione successiva, che potrebbe contenere anche l’autorizzazione a condurre operazioni di pattugliamento nelle acque territoriali libiche, allo scopo di fermare il traffico degli esseri umani. Mosca prudente La Russia ha chiesto di ammorbidire il linguaggio, perché oltre a sostenere il governo delineato in Marocco, vuole che la porta resti aperta alle entità finora non incluse per loro volontà, come i leader dei due parlamenti che avevano siglato un’intesa alternativa, se in un secondo momento decidessero di partecipare. La discussione è proseguita ieri nella notte, ma fonti diplomatiche assicurano che l’obiezione non è forte al punto di minacciare il blocco della risoluzione, che quindi dovrebbe passare entro Natale, a partire da oggi stesso. Ieri Kobler ha aggiunto un altro tassello a questo complicato mosaico, ottenendo la firma di 24 autorità municipali a sostegno del Libyan Political Agreement, fra cui Misurata, Zintan, Sabrata e Al Baida. Si tratta delle amministrazioni più vicine alla popolazione, e quindi la loro adesione dimostra che la gente vuole il governo di unità nazionale e la fine delle violenze. La porta naturalmente resta aperta a chiunque voglia aggiungersi in futuro, e l’inviato dell’Onu lo ribadirà oggi al Palazzo di Vetro, per favorire un rapido riconoscimento da parte del Consiglio di Sicurezza dell’intesa firmata in Marocco. Il generale Serra La Russia, scottata dalla risoluzione che aveva consentito di rovesciare Gheddafi, vuole evitare mandati che potrebbero giustificare altri interventi militari. Per questo è prudente, e ciò complicherà il negoziato per la seconda risoluzione sulla missione di pace, che l’Italia ambisce a guidare. I tempi, però, sono stretti. In base agli accordi, il Consiglio di presidenza costituito in Marocco dovrebbe nominare entro 30 giorni il nuovo governo 19 d’unità nazionale, che poi si insedierebbe a Tripoli nell’arco dei 40 giorni successivi. Restano poco più di due mesi, in sostanza, per attuare le intese. Il generale italiano Paolo Serra, consigliere militare del segretario generale Ban Ki-moon per la Libia, sta già incontrando le varie milizie, per individuare gli interlocutori responsabili con cui lavorare per la stabilizzazione. Infatti la sicurezza, l’ordine pubblico e anche il contrasto dei gruppi terroristici come Ansar al Sharia e l’Isis, sarebbero affidati a queste forze locali. La missione internazionale poi le sosterrebbe, aiutando il governo centrale, gestendo la formazione e l’addestramento, e presidiando alcune strutture chiave. L’intelligence poi già opera sul terreno, per favorire l’identificazione e l’eliminazione dei terroristi. del 22/12/15, pag. 8 Yemen Fine negoziati, ecco i raid sauditi Chiara Cruciati La misura del fallimento del negoziato svizzero è data dai numeri: ieri, alla fine dei sette giorni di incontri a Ginevra, i raid sauditi hanno ucciso 7 persone e ne hanno ferite 12 nella città di al-Hudaydah; il giorno prima, domenica, 5 donne erano morte in bombardamenti sauditi nella provincia di Sa’ada. In realtà i morti hanno segnato ogni giorno del cessate il fuoco dichiarato una settimana fa prima dell’avvio del tavolo Onu. Yemeniti uccisi da entrambe le parti, dal movimento Houthi e dalla coalizione anti-sciita guidata da Riyadh, a cui si sono aggiunti domenica 25 soldati sauditi colpiti al valico di al-Tawal da un attacco missilistico Houthi. Nei giorni precedenti il fragile negoziato svizzero era vacillato spesso, tra reciproci scambi di accuse di rottura della tregua. Fino a venerdì quando la delegazione Houthi non si è presentata al tavolo in polemica con la coalizione che sostiene il presidente Hadi e accusata di approfittare del cessate il fuoco per lanciare ampie controffensive in zone strategiche, da Taiz alla capitale Sana’a. L’Onu ha ricucito lo strappo ed ha traghettato i due avversari alla chiusura ufficiale del negoziato. L’inviato delle Nazioni Unite per lo Yemen Ismail Ould Cheikh Ahmed si è mostrato ottimista e ha promesso un nuovo round di incontri a partire dal 14 gennaio prossimo. In mano, però, si è ritrovato un pugno di mosche: dopo una settimana le due parti non hanno segnato alcun accordo che ponga fine al conflitto o dia il via alla nascita di un governo di unità nazionale. Unico risultato: la creazione di due comitati congiunti, uno che supervisioni la consegna degli aiuti umanitari e uno che monitori le violazioni del cessate il fuoco, prolungato di altri 7 giorni. Uno sforzo inutile vista la farsa della tregua precedente. del 22/12/15, pag. 17 Gli ostaggi cristiani salvati dai musulmani «Non ci separiamo» 20 60 I passeggeri del pullman attaccato dai miliziani di al-Shabaab nel Nordest del Kenya al confine con la Somalia 28 I cristiani uccisi nel novembre scorso sulla stessa strada, quando i passeggeri di un pullman furono divisi in base alla fede I miliziani somali assaltano un autobus in Kenya Alla fine sono costretti a lasciare liberi tutti Nell’aria fredda dell’alba non sono riusciti a dividerli: i musulmani in piedi, i cristiani a terra. I primi liberi di risalire sul pullman. I secondi sdraiati sul ciglio della strada, aspettando il proprio turno e un proiettile alla tempia, come era successo ai passeggeri di un altro bus nel novembre scorso, sulla stessa via nel Nordest del Kenya al confine con la Somalia. Com’era successo agli spaccapietre di una cava poco più a nord nel dicembre 2014. E agli studenti della non lontana università di Garissa nell’aprile di quest’anno. No, loro alle 6 e 45 del mattino non si sono lasciati sorprendere e dividere: con lo stesso biglietto, lo stesso diritto, scambiandosi addirittura gli abiti per ingannare gli assalitori, hanno sfidato insieme la morte e insieme sono sopravvissuti (quasi tutti) davanti ai miliziani di al-Shabaab pronti alla strage. Sembra così bella, la notizia arrivata dalla B9 tra Elwak e Kotulo, che viene quasi il sospetto che un politico locale l’abbia romanzata, che vien voglia di imparare a memoria i puntini abitati più vicini a quel ciglio di strada, Dabacity e Borehole II, e ricordare il nome della compagnia (Makkah) il cui autista ferito dai miliziani ha confermato la storia alla Bbc tramite un funzionario. L’inseguimento, una sventagliata di mitra, tre persone ferite, una morta, il pullman NairobiMandera che si ferma, la gente che scende secondo il racconto fatto al quotidiano keniano The Nation dal vice capo della polizia Julius Otieno e dal governatore della provincia Ali Roba. Un passeggero cerca di fuggire nella boscaglia ma i ragazzi di al-Shabaab, il gruppo affiliato ad Al Qaeda basato in Somalia (il nome significa «i Giovani»), lo uccidono sparandogli alla schiena. Fanno capire che non scherzavano. Che è questione di vita o di morte. Poi cercano di dividere il gruppo in base alla religione: «I non cristiani possono risalire bordo». E nessuno si è mosso. La risposta, secondo il governatore: «Uccideteci tutti, o lasciateci andare». Un testimone di nome Abdirahiman ha detto al quotidiano The Standard che, quando si sono accorti dell’attacco, i musulmani sul pullman da sessanta posti avevano già cercato un modo per proteggere i cristiani: «Ad alcuni abbiamo dato i nostri vestiti, per impedire che fossero individuati per l’abbigliamento». Nell’attacco del novembre scorso i miliziani avevano intimato ai passeggeri di recitare la shahada, «la testimonianza» di fede islamica. Quelli che non la sapevano erano condannati: sdraiati a terra in fila. Da sinistra e da destra in due hanno cominciato a uccidere. Ventotto morti, 19 uomini e 9 donne, in maggioranza insegnanti. Unico sopravvissuto, Douglas Ochwodho, preside, che tornava a casa per Natale. Salvo perché stava al centro della fila, ed entrambi i killer hanno pensato che gli avesse già sparato il compagno. L’altra mattina il commando di al-Shabaab (nelle ultime tre settimane 200 miliziani avrebbero attraversato il confine somalo) forse non ha fatto in tempo a mettere in atto la prova della Shahada. Sono scappati. Anche perché i passeggeri musulmani li hanno ingannati, dicendo che stava sopraggiungendo la polizia. L’auto invece si era rotta, e il pullman aveva deciso di proseguire senza scorta. Quella parte di Kenya è abitata in maggioranza da popolazioni somale musulmane. Dal 2011 le truppe di Nairobi combattono gli integralisti oltre confine. Le stragi fanno parte di una guerra che si fa sempre più «sporca». Ai primi di dicembre una fossa comune con 20 21 corpi di somali è stata scoperta non lontano da Mandera, compresa una donna arrestata pochi giorni prima. Le squadre antiterrorismo sono accusate di omicidi sommari, accuse respinte dalle autorità. Di fronte a tutto questo i passeggeri di un pullman, l’altra mattina tra Datacity e Borehole II, hanno dato al mondo una «testimonianza» preziosa. Michele Farina del 22/12/15, pag. 8 Il rapper Luaty Beirão agli arresti domiciliari Angola. Dopo sei mesi di carcere preventivo per «insurrezione» potrà aspettare a casa la prima udienza del processo Marco Boccitto Dopo sei mesi in cella senza processo, con tanto di lungo sciopero della fame che lo ha ridotto quasi in fin di vita, il rapper e attivista lusoangolano Luaty Beirão (nella foto) si trova da un paio di giorni agli arresti domiciliari. Non proprio un regalo di Natale, ma l’effetto della nuova «Legge sulle misure cautelari durante il processo penale», entrata in vigore il 18 dicembre. Il provvedimento di un giudice di Luanda riguarda Beirão e altre 15 persone arrestate con lui. Tutti con l’accusa di aver complottato per rovesciare il presidente Dos Santos e instaurare un governo di «Salvezza nazionale». In altre parole, «insurrezione». In attesa della prima udienza del processo, fissata per l’11 gennaio, gli “indagati” saranno controllati quasi a vista da 150 tra agenti carcerari, poliziotti e persino psicologi, un contingente creato apposta. Non potranno ovviamente uscire, né entrare in contatto tra loro o con altri membri del Movimento de Jovens Revolucionários Angolanos, che dal 2011 organizza manifestazioni anti-governative in cui denuncia le disuguaglianze che affliggono il secondo produttore di petrolio in Africa. Beirão, noto anche con lo pseudonimo di Ikonoklasta, mescola musica (hip hop, house, kuduro) e rabbia contro la deriva liberticida del regime. Neanche 24 ore dopo la decisione del giudice, musica e politica sono tornate a mescolarsi sulla scena angolana. Merito e o colpa di un’altra rapper, la statunitense Nicky Minaj, star annunciata di un evento natalizio organizzato dalla compagnia telefonica Unitel, controllata dalla figlia del presidente, Isabela dos Santos, considerata la donna più ricca d’Africa e l’ottava più ricca del mondo (oltre che, secondo Transparency International, tra i 15 casi simbolo della corruzione nel mondo). La Human Rights Foundation (Hrf) ha scitto a Nicky Minaj facendole presente che il suo compenso era frutto di «corruzione governativa» e che sarebbe stato improprio prestare l’immagine a «un governo responsabile di gravi violazioni dei diritti umani». Ma lo show si è tenuto sabato, come previsto. Al termine la rapper ha postato su Istagram una sua foto con Isabela Dos Santos, definendola un modello di «girl power». del 22/12/15, pag. 9 Venezuela, dopo la sconfitta, va in scena il conflitto 22 Venezuela. Si apre in Paraguay il vertice del Mercosur Geraldina Colotti CARACAS Per le vie di Caracas, i canti natalizi si mischiano agli slogan che salgono dalle manifestazioni. In ogni piazza, la gente discute, tutti i settori popolari sono «in assemblea permanente», ogni giorno vi sono marce che arrivano fino a Miraflores per esprimere appoggio al presidente Nicolas Maduro. La «sberla salutare», come il presidente ha definito la sconfitta «congiunturale», che ha consegnato il Parlamento a una maggioranza qualificata di destra ( 112 deputati della Mud contro 55 chavisti), sembra aver risvegliato tutte le categorie, preoccupate di veder cancellati i piani sociali relizzati in 17 anni di «socialismo bolivariano». Adesso sfilano i «motorizados», i moticiclisti che svolgono il lavoro di pony express o di mototaxi. Un settore informale, sempre tenuto ai margini, esposto alle aggressioni della criminalità e privo di protezione sociale. Con il chavismo non è stato più così. «Non siamo disposti a tornare indietro, difenderemo il nostro posto di lavoro, le coperture sociali e la nostra dignità. Col mio lavoro mantengo la famiglia», dice Manuelita. La sconfitta elettorale? «Colpa della guerra economica e anche dei corrotti. Ma Maduro adesso deve andare avanti. Dobbiamo farla finita con questa borghesia senza-patria». Vicino al distributore di benzina, il conducente di un suv si affretta a pagare: per un pieno di 60 litri sono appena 2 bolivares. «Immaginati quanto vale il contrabbando alla frontiera con la Colombia — interviene Marisol — qui ci sono oltre 7 milioni di colombiani dichiarati e chissà quanti paramilitari. Abbiamo mantenuto due economie». In piazza Bolivar incontriamo invece un noto leader dell’estrema sinistra, ex viceministro di Planificacion, Roland Dennis: «Che vada tutto a fondo — dice polemico — ce lo meritiamo, o si rifonda tutto oppure meglio lasciar perdere». Dennis rivendica la campagna per il voto nullo, che ha senz’altro influito sul risultato elettorale: quasi il 7% del voto emesso con modalità uninominale nelle parlamentari del 6 dicembre. Quello venezuelano è un sistema misto, nel quale i voti espressi si utilizzano per eleggere i deputati attraverso due modalità, uno per gli incarichi nominali in ogni circoscrizione, e l’altro per quelli di lista per rappresentazione proporzionale, eletti in ogni singolo stato o entità federale. La quantità di voti nulli non è uguale alla quantità di elettori: una stessa persona ha potuto emettere da uno a tre voti nulli, a seconda del numero di opzioni che aveva per scegliere a livello uninominale. Nel caso del voto di lista, si sono registrati 683.000 voti nulli o in bianco. Perciò Maduro ha dichiarato che i voti nulli erano 1,5 milioni. In 36 degli 87 circuiti nei quali si sceglievano i deputati in modo uninominale (il 41%) i voti nulli hanno superato in quantità la differenza per la quale 55 candidati sono risultati eletti. E ha annunciato l’apertura di un’inchiesta. Nelle parlamentari del 2010, il voto nullo è stato del 2,5% del totale nazionale. Un tema che raggiunge le denunce che hanno portato in carcere alcune persone, a seguito della diffusione di intercettazioni in cui rappresentanti delle destre procedevano alla compravendita di voti presso alcuni mafiosi. Da Miami, intanto, la rivista dell’antichavista Rafael Poleo, Zeta, si vanta di aver interferito nel sistema elettorale automatizzato per contrastare «l’influenza cubana», e canta vittoria preannunciando le misure neoliberiste modello Fmi. Quali scenari si aprono dopo il 5 gennaio, quando s’installerà il nuovo parlamento gestito dalle destre? Se ne discute sui giornali e nelle strade. I cittadini conoscono a menadito la loro costituzione, approvata nel ’99 dopo un’Assemblea costituente e poi sottoposta a referendum. Le destre allora hanno votato contro, ma ora fanno appello ai propri costituzionalisti per disconoscere soprattutto l’autorità del Tribunal supremo de Justicia 23 (Tsj), ago della bilancia a cui Maduro potrà ricorrere contro le leggi proposte dal nuovo parlamento. Ma l’obiettivo principale resta proprio il presidente. La legge prevede che, a metà mandato, è possibile convocare un referendum revocatorio. I settori oltranzisti spingono per una spallata il più in fretta possibile: l’appello viene dal carcere, dove si trova il leader di Voluntad Popular, Leopoldo Lopez, condannato per le violenze dell’anno scorso (43 morti e oltre 800 feriti) durante la campagna «la salida» (la cacciata di Maduro dal governo). In uno scenario di crisi economica che dovrebbe farsi più acuta nel 2016, le destre intendono ricorrere ai piani di aggiustamento strutturale: gli stessi che, nel 1989 hanno portato alla rivolta del Caracazo. Per disinnescare le misure sociali e tornare al passato, usano il bastone e la carota, camuffando nell’ambiguità del messaggio le leggi in arrivo. In campagna elettorale un deputato è arrivato a proporre una «legge contro la coda». Come se le code chilometriche provocate dalle grandi imprese private che non inviavano i prodotti e dall’accaparramento organizzato, si potessero stroncare «per decreto». «La gente ha votato contro le code che purtroppo non siamo riusciti a risolvere», ha detto il deputato chavista Ernesto Villegas. Poi, ha proposto che alla R della rifondazione in corso venga tolta quella di «regalo», eliminando così la cifra di assistenzialismo che ha portato a privilegiare l’erogazione di benefici non accompagnata da un adeguato lavoro di educazione politica. Tanto che, proprio da alcuni settori popolari che più hanno usufruito dei piani sociali, è arrivato il voto castigo. Ma un altro fronte assai complicato per la «rivoluzione bolivariana» è costituito dalle alleanze internazionali. Dall’Argentina, l’imprenditore Macri preme per un cambio di paradigma nel Mercosur. Le alleanze solidali che il Venezuela guida insieme a Cuba rischiano di scomparire. A rischio certo è Petrocaribe, l’organismo regionale attraverso il quale il Venezuela dispensa petrolio a basso costo in cambio di beni e servizi. In Paraguay è in corso il vertice del Mercosur. In gioco c’è la firma dell’accordo di libero commercio con l’Unione europea, che ha finora visto contrari solo il Venezuela di Maduro e la Bolivia di Evo Morales. La presidenza pro-tempore del Paraguay, ora passata all’Uruguay, aveva già promesso l’accordo alla Ue. Dati gli impegni nel suo paese, Maduro non sarà presente. Lo sostituisce la ministra degli Esteri, Delcy Rodriguez, che ha proposto la formazione di una zona economica complementare con i paesi dell’Alleanza bolivariana per i popoli della nostra America (Alba), la Comunità del Caribe (Caricom) e il gruppo dei Brics, composto da Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica. 24 INTERNI del 22/12/15, pag. 1 Madrid chiama Roma Norma Rangeri Non solo è possibile, ma accade. E si ripete. La Grecia, il Portogallo, la Francia, ora la Spagna. In fondo crisi significa cambiamento. La lunga crisi e la esiziale scelta di curarla con l’austerità hanno cambiato la geografia sociale di questi paesi, e ora il responso delle urne restituisce, nel voto, la profondità del cambiamento politico. Vacillano i pilastri delle forze di governo e si rafforzano i nuovi raggruppamenti nati nel decennio horribilis: a sinistra come a destra. Il brusco risveglio della Spagna, dopo la notte elettorale, ne è una chiarissima testimonianza. A poco è valso impostare una campagna elettorale sulla crescita del Pil del 3%, se poi le diseguaglianze addirittura crescono, se la disoccupazione giovanile è al 48% e se (con il Jobs act in salsa spagnola) la massa dei precari ormai lavora qualche ora per qualche giorno alla settimana. I due storici partiti che hanno diviso la responsabilità di governo, alternandosi al palazzo della Moncloa, vivono il punto più basso del loro consenso. E si dissanguano a vantaggio dei diretti concorrenti, a destra e a sinistra. Il Pp di Rajoy perde 16 punti, il Psoe di Sanchez dimagrisce di 6, Podemos di Iglesias agguanta il 20 e Ciudadanos di Rivera il 14. Eccola la fotografia dopo un decennio di sforbiciate allo stato sociale e di corruzione galoppante. Podemos contro l’austerità, Ciudadanos in nome di una destra pulita, hanno incassato i dividendi. La geografia del voto è molto articolata, la legge elettorale è penalizzante per formazioni come Izquierda unida, ma la sostanza è che da due le forze politiche principali sono diventate quattro. Un inedito per la giovane democrazia spagnola, un classico per il panorama dei partiti italiani. Come ha detto il vecchio socialista Gonzalez, premier negli anni ’80, «avremo un parlamento all’italiana ma senza italiani». E dall’Italia, nei commenti della stampa e nelle prime reazioni politiche, se non un grido di dolore si legge un avviso di pericolo. Si parla di un’Europa malata di antipolitica, come se alle amare (e inutili) cure di Bruxelles non ci fosse alternativa. Come se di fronte alla devastante condizione in cui si ritrovano, gli elettori dovessero masochisticamente insistere a dare fiducia alla stessa classe dirigente. Come se o bipolarismo o caos. Quasi che parlare di legge elettorale proporzionale (Podemos) e di governi di coalizione equivalesse a evocare il diavolo. Dice Renzi: «La Spagna di oggi sembra l’Italia di ieri». E se invece la Spagna di oggi fosse l’Italia di domani? In fondo il Psoe prima di precipitare al 22 era al 28 per cento e secondo i sondaggi il Pd dal 36 è sceso attorno al 30, mentre il M5Stelle è salito dal 19 al 29. Sugli altri fronti, a sinistra del Pd e nel centrodestra, tutto è ancora in movimento. Ma, di fronte a uno scenario spagnolo, Renzi ha già preparato la camicia di forza dell’Italicum con l’abnorme premio di maggioranza a garanzia di mantenere in vita il defunto bipolarismo. In ogni caso alle elezioni mancano, sulla carta, ancora due anni mentre il paese resta in forte affanno. Bce e Confindustria spengono i facili entusiasmi sulla ripresa, lo stesso ministro Padoan parla di una fase di «stagnazione secolare». E non è facile, nonostante la grancassa governativa e l’abuso in perfetto stile “berlusconiano” delle televisioni, manipolare la realtà. Grande è la confusione sotto il cielo d’Europa, magari la situazione non è eccellente, di sicuro la rendita di chi governa è finita. 25 del 22/12/15, pag. 8 La Sinistra italiana e il sogno (impossibile) di un Podemos Il Movimento non c’è. E il campo è parzialmente occupato dal M5S Jacopo Iacoboni Se si eccettuano le retoriche, il primo elemento che salta agli occhi osservando il successo di Podemos dal punto di vista della sinistra italiana è semplice: che Podemos, piaccia o no, ha molto poco a che fare con l’attuale sinistra italiana (parentesi, Podemos angoscia i renziani molto più della minoranza Pd, al punto di spingerli alla surreale reazione della Boschi: con l’Italicum il problema Podemos non si porrebbe). «La verità è che tra Podemos e Sinistra italiana ci sono molte differenze; forse la prima che viene in mente è che alla fine Podemos non ha fatto l’accordo a priori con Izquierda, cioè con la parte più classica e tradizionale della sinistra spagnola», riflette Marco Berlinguer, il terzo figlio di Enrico Berlinguer, che vive a Barcellona - fa il ricercatore all’Università Autonoma - assieme alla sua compagna. Entrambi studiano e frequentano, lei è attivamente coinvolta, il mondo della municipalità e delle nuove pratiche che ha vinto la città di Barcellona, conoscono Ada Colau, e sanno di Podemos da dentro. Se invece si prendono in esame le considerazioni e gli entusiasmi magari anche genuini di tanti politici di sinistra, sembra che poi la vittoria di Podemos sia una «lezione della spagna per il Pd» (secondo il governatore toscano Enrico Rossi), o la conferma che «l’Europa della precarizzazione del lavoro e della svalutazione dei salari non regge più», o una «critica dell’austerity», e via così, andando sempre per le generalissime e muovendosi come farebbe Izquierda, non Podemos; ideologicamente, non pragmaticamente. Invece il secondo punto da fissare è proprio questo: il pragmatismo, spesso sottovalutato, di Podemos. Racconta Giorgio Airaudo (che in tempi non sospetti - prima del voto - era a Barcellona a incontrare la Colau) che quelli di «Barcelona en comù» mutano alleanze caso per caso, con applicazione anche spregiudicata delle maggioranze variabili. La Colau ha undici consiglieri su 40 nel consiglio di Barcellona, dunque per governare ha bisogno di arrivare a 21, e ci arriva di volta in volta, non solo con Izquierda, ma anche con una miriade di movimenti e micro movimenti catalani; scenario assolutamente non riproponibile ovunque, ma questo per dire di un’elasticità manovriera che in Italia, semmai, pare appannaggio del renzismo, non della Sinistra da ricostruire. Il terzo punto, sostanziale, è che Podemos «nasce da un movimento sociale, generazionale, che affonda le radici nel fenomeno degli indignati. Lì c’è un movimento. In Italia, semplicemente, questo movimento non c’è», constata non senza amarezza Airaudo, che pure vorrebbe provare a costruire qualcosa di analogo partendo da Torino. Forse, si potrebbe aggiungere, l’ultima cosa assimilabile a un movimento, nella sinistra italiana, è stata l’esperienza milanese della primavera arancione di Pisapia: che però non ha prodotto una rete nazionale e un’esperienza generativa a sinistra, e probabilmente, almeno in parte - nel 2013 ha finito per avere zone di tangenza col successo elettorale del Movimento cinque stelle. M5S che però è diversissimo, rispetto a Podemos (i due soggetti hanno anche reciprocamente preso le distanze), almeno perché ha due forti elementi di verticismo: l’azienda che comanda (la Casaleggio) e il leader che ne determina il successo iniziale (Grillo). Sostiene Enrico Rossi che l’insegnamento di Podemos (anche al Pd) è che bisogna stare «alla larga dalle grandi intese e dal partito della nazione, e invece guardare di più a 26 sinistra, ai ceti deboli della società». Ma cosa vuol dire «guardare più a sinistra?». Podemos non partirebbe mai da cotesta genericità, intanto perché ha una notevole componente anche interclassista, pur declinandola a sinistra, e poi perché nasce in maniera concreta, dalle pratiche, non da un proclama. È il quarto elemento: la pratica principale originaria è stata il movimento di lotta per la difesa della casa dalle banche. Podemos nasce dai movimenti che proteggono gli affittuari (ma anche i proprietari di case) non più in grado di pagare affitti o mutui bancari. In questo senso è una prassi, quasi ignota oggi alla sinistra italiana, che è, e resta, un’operazione per lo più politicista, o una fuoruscita dal Pd. Con eccezioni, per esempio la Fiom. Maurizio Landini ha scritto la prefazione italiana al libro di Iglesias, e è ormai convinto che «bisogna andare oltre molti schemi tradizionali, cosa che Podemos fa. Iglesias si dice socialdemocratico, il problema è che ormai in Europa appare estremista anche essere socialdemocratici». In più, per Landini, «in Italia c’è il problema che una fetta di campo è ormai occupata dal M5S, che prima non c’era; e dobbiamo trovare il modo di farci i conti». del 22/12/15, pag. 8 I politologi: “Non usate la Spagna per giustificare l’Italicum” Ventura e Pasquino attaccano, D’Alimonte con Renzi-Boschi Francesca Schianchi La prima a usare una lente tutta italiana per leggere le elezioni spagnole è la ministra delle Riforme Maria Elena Boschi, domenica sera via Twitter: «Mai come stasera è chiaro quanto sia utile e giusta la nostra legge elettorale #Italicum». Poi, a dare la stessa chiave di lettura è Matteo Renzi: «Sia benedetto l’Italicum, davvero. Con la nuova legge elettorale ci sarà un vincitore chiaro». Dinanzi al risultato di Madrid e alla mancanza di una maggioranza certa, qui dalle nostre parti ciascuno dà la propria interpretazione. A sinistra fa sognare il risultato di Podemos: ieri è rimbalzata sui social network una lettera-appello di «un gruppo di persone appartenenti a realtà politiche e sociali», rilanciata da Sinistra italiana, per «costruire un nuovo soggetto politico» a Roma il 19, 20 e 21 febbraio. Tra i renziani, invece, lo stallo iberico appare come la prova che il doppio turno dell’Italicum è il migliore per garantire al Paese un governo. «Scatenamento renzini che vedono in situazione Spagna prova bontà Italicum. Studiassero invece che giocare al piccolo politologo su Playstation», sferza via Twitter la politologa Sofia Ventura. «In un panorama frammentato, con un sistema come l’Italicum arriva a governare chi ha magari preso il 20% al primo turno, e forse con anche un’alta astensione», spiega la professoressa bolognese: «C’è il rischio che il primo populista di turno approfitti di un sistema come il nostro per arrivare a governare». Altrettanto scettico sull’utilità dell’Italicum il collega Gianfranco Pasquino, che invita via Twitter «quelli che volevano sistema elettorale spagnolo in Italia» e «ora suggeriscono Italicum alla Spagna» a «tacere senza sparare caxxate». Letture che non trovano d’accordo il politologo Roberto D’Alimonte, da sempre difensore della legge: «Perché le preferenze espresse al secondo turno devono valere meno di quelle espresse al primo? In Francia, se non avessero contato le seconde preferenze, il Front National governerebbe in sei regioni». In Italia, stando ai sondaggi, a oggi il ballottaggio sarebbe tra Pd e M5S, a meno che tutti i partiti di centrodestra non si unissero in una sola lista. Perché la legge prevede premio alla lista, non alla coalizione: e, insiste il vicesegretario dem Guerini, non sono «minimamente» 27 previste modifiche. Nonostante le richieste della minoranza, e la lettura «radicalmente» diversa da quella di Renzi di Bersani: «In una società moderna, la governabilità non può essere una camicia di forza», non si può «blindare in modo ortopedico l’opinione della gente» altrimenti ci si predispone «a qualche tsunami». La sinistra esulta immedesimandosi in Podemos. Il Pd torna a dividersi sull’Italicum. E il M5S, che D’Alimonte definisce come «Podemos e Ciudadanos insieme», rivendica di essere il vero cambiamento «storico, inarrestabile». del 22/12/15, pag. 16 La sfida di Salvini “Spetta a noi la guida della coalizione” Panico dentro Forza Italia per i pochi posti in lista “Berlusconi ci tuteli”. Mozione contro Renzi a gennaio CARMELO LOPAPA ROMA. Il centrodestra è lui, non ce n’è più per nessuno. Matteo Salvini convoca una conferenza stampa di fine anno a Montecitorio per ricordare ad alleati e avversari quali siano i reali rapporti di forza in una destra sempre più destra, che chiama a raccolta, a gennaio a Milano, Marine Le Pen e uomini di Putin. È solo l’ultima provocazione, l’affondo che terremota ancora più Forza Italia. Silvio Berlusconi ormai stanco e avvilito dalle beghe interne non replica nemmeno. Il leghista parla da leader e non solo del Carroccio. «I numeri ci dicono che se si votasse oggi la coalizione la guideremmo noi e siamo pronti a farci carico», dice prima di aprire un panettone a beneficio delle telecamere. Chi esprimerà la leadership a quel punto è altrettanto chiaro. «Noi nel 2016 arriveremo al 20 per cento » è la sfida. E i berlusconiani si chiariscano le idee, prima del 19 gennaio, quando al Senato è stata calendarizzata la mozione di sfiducia del centrodestra al governo Renzi (voluta da Lega e Fdi). Alla fine, la firma di Paolo Romani e degli altri senatori di Fi è arrivata, ma contro il capogruppo forzista Salvini mostra di avere un conto in sospeso. «Uniti si vince », premette. E poi sferza: «Se qualcuno ritiene che Boschi sia un ottimo ministro vada al governo. Chi si sente renziano, verdiniano e alfaniano vada. Non mi serve. Io fatico a star dietro a quello che succede in Lega, figuriamoci in Forza Italia». Quindi, dà per scontanto che tutto il centrodestra sarà il 28 gennaio a Milano: «Ci sarà la prima volta di Marine Le Pen in Italia. Con tutta la coalizione: ho invitato anche i rappresentanti del movimento di Putin». In privato poi la sfida che Salvini lancia parlando coi suoi è ancora più alta: «Voglio vedere il 19 gennaio quanti forzisti saranno in aula, gli assenti si scorderanno di entrare in lista». Già, perché il listone sarà unico e i soli cento capilista con la certezza di essere eletti. Raccontano che il capo del Carroccio ne avrebbe già rivendicati 60, comunque non meno di 50. Ai forzisti non ne spetterebbero più di una trentina e i parlamentari infatti sono precipitati nel panico. Soprattutto ieri. E Berlusconi? Di ora in ora i suoi in Transatlantico si aspettavano una reazione. «Non possiamo finire sotto il palco della Le Pen, non può abbandonarci, vedrete che gli replica ». Il Cavaliere invece si eclissa. A Salvini rispondono con toni sobri Toti, Bergamini, la Calabria. Lui diserta perfino lo scambio di auguri con Mattarella al Colle, preferendo una cena d’auguri in pizzeria a Desio con un paio di senatori. Sempre più stanco delle liti tra i suoi, non tornerà a Roma nemmeno per un bridisi natalizio con i parlamentari. «Non ne posso più, tanto in lista andrà gente nuova» è 28 lo sfogo privato. Sembra che nemmeno del brand Fi a questo punto gli interessi più di tanto. I capigruppo Brunetta e Romani dopo giorni di scintille siglano una nota congiunta: «Fi è un grande partito. Mettiamoci subito al lavoro. tutti insieme». Ma potrebbe essere troppo tardi. del 22/12/15, pag. 8 Il Pd quando rimane alleato con la sinistra vince 3 volte su 4 Amministrative - Per il 64% dei votanti saranno un test per il governo Ma sui dem pesano le critiche dei cittadini per il decreto Salvabanche La recente lettera dei tre “sindaci arancioni” (Pisapia, Doria e Zedda) ha suscitato un dibattito nel centrosinistra sulle alleanze in vista delle prossime elezioni amministrative. È necessaria una coalizione fra Pd e Sel per evitare di perdere troppe sfide? Oppure le differenze programmatiche sono troppe e il divorzio è l’unica via? Il tema si pone con forza, visto che il 64% degli elettori ritiene le Comunali 2016 un test per il governo (dati Ipsos). Ma qual è attualmente lo stato dell’alleanza Pd-Sel a livello locale? Esaminando i 421 Comuni con oltre 15 mila abitanti che sono andati al voto negli ultimi tre anni, notiamo in effetti una diminuzione delle alleanze fra il Pd e le liste di sinistra. Se nel 2013 (con Guglielmo Epifani segretario “provvisorio”) questa alleanza sosteneva il 47,7% dei candidati del centrosinistra, nel 2015 tale percentuale si è fermata al 27,7% soltanto. A questa diminuzione non è però corrisposto un aumento delle alleanze con il centro, tale da prefigurare un Partito della Nazione con Alfano e Verdini. Anzi, con Renzi questa alleanza si è fatta persino più rara nel 2014, per poi tornare su livelli simili a quelli del 2013, quando le coalizioni che includevano anche i centristi erano il 14,8%. Sono invece aumentate le candidature sostenute dal solo Pd, al più in coalizione con liste civiche: questa sorta di “prova generale” dell’Italicum ha rappresentato quest’anno ben il 51,8% dei casi esaminati. Se da una parte quindi non va esagerato il “rischio” di un sodalizio fra Renzi e le liste moderate, la lettera dei tre sindaci riflette un dato reale: nel 2015 il Pd non è riuscito a replicare alle Comunali quell’ondata di successi ottenuti nel 2013 (62,5% di vittorie) e nel 2014 (68,3%). Con solo il 36,6% dei Comuni conquistati quest’anno, il Pd ha subìto la nuova competitività del centrodestra e la sempre maggiore attrattiva delle liste civiche presso gli elettori. Nei casi in cui il Pd era alleato con la sinistra, invece, il tasso di vittoria complessivo nei tre anni è stato pari al 73,6%. La ridotta competitività del Pd nel 2015 non può essere imputata solo al minor numero di alleanze con la sinistra, specie in un contesto di maggiore fragilità del governo rispetto a quello che si aveva nel maggio 2014. Tuttavia è vero che coalizioni più ristrette non rappresentano un valore aggiunto per il Pd. E infatti, secondo Ipsos, tra le varie configurazioni possibili quella preferita dal 49% degli elettori del Pd è proprio la coalizione con la sinistra. Anche alle ultime elezioni regionali il Pd ha in più casi sconfessato l’alleanza con Sel e compagni: è successo in Toscana, Campania e Liguria; ma solo in quest’ultimo caso la rottura dell’alleanza ha comportato una sconfitta. A livello nazionale lo scenario si presenta assai differente: con l’Italicum non sono possibili alleanze pre-elettorali fra le liste, e sembra anche improbabile che il Pd decida di “inglobare” altri partiti, operazione che potrebbe allontanare più che conquistare elettori. 29 Tutto si gioca quindi su quanti elettori degli altri partiti si è capaci di attrarre al ballottaggio, specie se questo fosse una partita tra Pd e Movimento 5 Stelle. Secondo Ipsos, il 39% degli elettori di Sel-Sinistra Italiana voterebbe M5S in caso di ballottaggio, mentre gli elettori di centro che si sposterebbero verso Grillo sono il 15%. Defezioni che il Pd non può permettersi in uno scenario di competizione aperta. D’altra parte, solo il 20% degli elettori di Forza Italia voterebbe per il Pd al ballottaggio. Il principale partito di centrosinistra quindi, non potendo costruire coalizioni, come può fare a livello locale, deve mantenere un profilo attraente per diversi elettorati. Un’impresa non facile, specialmente in un contesto in cui alcuni atti del governo Renzi sono messi in dubbio dagli elettori. Secondo il 59% degli intervistati da Euromedia, il governo non ha fatto nulla per tutelare gli investitori nei titoli subordinati delle quattro banche in difficoltà; per Ixè il 69% dei cittadini è insoddisfatto dell’azione del governo sulle banche, anche se allo stesso tempo il 74% è contrario all’utilizzo di soldi pubblici per risolvere crisi bancarie. Al momento la popolarità del governo (stabile fra il 31% di novembre e il 29,7% di metà dicembre) e del premier (dal 33 al 31,9%) ne risentono solo moderatamente, ma le prossime elezioni comunali si preannunciano decisamente più impegnative di quelle del 2014. Sarà fondamentale avere un consenso trasversale anche tra gli elettori di altri partiti, dentro e fuori dalla propria coalizione. *You Trend del 22/12/15, pag. 13 La sfida di Sala alle primarie: scendo in campo per la mia città Domani convention a Milano: programma a gennaio, non farò libri dei sogni milano Il tecnico diventa politico, grazie anche alla full immersion dei sei mesi di Expo e adesso è in campo: «Lo faccio per la mia città». Giuseppe Sala ha compiuto ieri il suo ultimo atto da amministratore delegato presentando al consiglio la relazione sul bilancio consuntivo. E, anche se in realtà proprio su richiesta del cda e dei soci pubblici, resterà in carica fino al 29 gennaio soprattutto per il disbrigo delle pratiche burocratiche, da ieri il manager ha ufficialmente voltato pagina e comincia l’avventura di candidato sindaco alle primarie del centrosinistra. La macchina intorno a lui, in realtà, si sta muovendo già da un paio di settimane. Si sta formando lo staff (con punti di riferimento come Umberto Ambrosoli, Emilio Genovese, Gianni Confalonieri), si è formato un gruppo dedicato alla gestione della parte social, sull’onda di quanto avvenuto per Expo e si stanno definendo le tappe d’azione. La prima, domani alle 18.30 nel foyer del teatro Franco Parenti: «Non sarà l’annuncio del programma elettorale», spiega lui. Piuttosto, un evento a cui sono invitate personalità diverse per dare sostegno al candidato. I programmi? «Io sono un uomo pragmatico e ai libri dei sogni preferisco i progetti concreti», ripete. Per questo, Sala userà queste settimane per studiare la situazione del Comune, valutare le urgenze e definire alcuni punti fattibili: «A metà gennaio — ha anticipato parlando ai suoi — presenterò le mie idee su una possibile azione da sindaco». A grandi linee, alcune cose le ha già dette in questi giorni durante gli incontri con assessori,consiglieri comunali, esponenti della società civile: ha parlato di città metropolitana come «opportunità e punto di partenza», di progetti per la casa, periferie, 30 lavoro e ambiente che devono essere sostenuti da un piano economico coerente: dalle dismissioni delle partecipate non strategiche al ricorso alla Cassa depositi e prestiti, ad esempio. Il punto debole emerso anche durante questi incontri è proprio quello della legalità e della trasparenza. Come gli ha ricordato qualche sera fa un attivista a un incontro al circolo De Amicis sostenendo più o meno questa tesi: «L’unica cosa su cui la giunta Pisapia è inattaccabile è il tema della legalità e della trasparenza. Lei invece ha avuto tra suoi più stretti collaboratori due dirigenti (Angelo Paris e Antonio Acerbo, ndr ) che sono stati arrestati». Sala, dopo aver circoscritto il ruolo e le contestazioni ai due rispetto a un evento «che ha mosso centinaia di milioni di euro e che è stato portato come esempio per il rigore delle procedure», ha insistito sul fatto che «la macchina dei controlli coordinata dalla prefettura e la collaborazione con Raffaele Cantone hanno funzionato: altrimenti le cose non sarebbero venute a galla». Intanto, è scattata la raccolta delle firme: passaparola con gli sms, circoli del Pd al lavoro, volontari della pagina facebook «Milanesi per Giuseppe Sala sindaco» pronti con i banchetti. Il risultato delle duemila firme pare già a portata di mano grazie anche al lavoro di una parte del partito schierata con l’uomo di Expo (fra i parlamentari quasi tutti dovrebbero mettere il loro nome sulla candidatura di Sala): il colpo di scena potrebbe essere che già all’evento del 23 venga annunciato l’obbiettivo raggiunto. Elisabetta Soglio del 22/12/15, pag. 15 Autoconvochiamoci. A Roma il 19, 20, 21 febbraio Sinistra/L'appello. Per cambiare passo nella scelta del nuovo soggetto politico, un’assemblea aperta per iniziare insieme il cammino Nelle ore in cui Podemos lancia la sua sfida per l’alternativa, un gruppo di persone appartenenti a realtà politiche e sociali, ha scritto questo testo e lo mette a disposizione di chiunque ci si riconosca. Usiamolo liberamente, copiamolo, condividiamolo, diffondiamolo, è un testo proprietà di nessuno per una sinistra di tutte e tutti. Incontriamoci il 19, 20 e 21 febbraio a Roma per ridare senso alla parola “politica” come strumento utile a cambiare concretamente le nostre vite. Incontriamoci per organizzarci e costruire un nuovo soggetto politico, uno spazio aperto, democratico, autonomo. Non è un annuncio. È una proposta. Non sarà un evento cui assistere da spettatori. Non ti chiediamo di venire a riempire la sala, battere le mani e chiacchierare in un corridoio come accade di solito in queste assemblee. Mettiamoci in cammino per condividere un processo e costruire insieme un nuovo progetto politico innovativo e all’altezza della sfida. Un progetto alternativo alla politica d’oggi, svuotata e autoreferenziale, che ritrovi tanto il legame con la propria storia, quanto la capacità di scrivere il futuro. L’obiettivo È ora di cambiare questo paese e le condizioni di vita di milioni di persone, colpite dalla crisi e dalle politiche neoliberiste e di austerità, svuotate della capacità di immaginare il proprio futuro. Vogliamo costruire un’alternativa di società, pensata da donne e uomini, fatta di pace e giustizia sociale e ambientale, unici veri antidoti per fermare le destre e l’antipolitica, il terrore di Daesh, i cambiamenti climatici. Serve una netta discontinuità con il recente passato di sconfitte e testimonianza, per metterci in sintonia con le sinistre 31 europee che indicano un’alternativa di lotta e speranza. Dobbiamo metterci in connessione con il nostro popolo, con i suoi desideri e le sue paure, con le centinaia di esperienze territoriali e innovative che stanno già cambiando l’Italia, spesso lontani dalla politica. Bisognerà cambiare molto: redistribuire le ricchezze e abbattere le diseguaglianze sociali e di genere, costruire un nuovo welfare e eliminare la precarietà, restituendo dignità al mondo del lavoro. È ora di cambiare il modo in cui si produce e quello in cui si consuma, il modo in cui si fa scuola e formazione, le politiche per accogliere. Intendiamo difendere la Costituzione e i suoi valori, per difendere la democrazia. Il governo Renzi e il Pd vanno in una direzione diametralmente opposta e ci raccontano che non c’è un’alternativa. Per noi invece non solo un’alternativa è possibile ma è necessaria ed è basata sui diritti, sull’uguaglianza, sui beni comuni. Dobbiamo organizzarci. Organizzare innanzitutto la parte che più ha subito gli effetti della crisi, chi ha voglia e bisogno di riscatto, di cambiamento, chi non crede più alla politica; lottando tanto nelle istituzioni quanto nella società. Una forza politica, non un cartello elettorale, che si candidi a governare il paese per cambiarlo e che lo faccia con un profilo credibile, in competizione con tutti gli altri poli esistenti. Partecipa Probabilmente ti starai facendo alcune domande: «come funzionerà il nuovo soggetto?», «come si chiamerà?», «quale sarà il suo programma?», «è possibile innovare la forma partito?», «chi sarà il suo o la sua leader?», «c’è davvero bisogno di un leader? E, se sì, come verrà scelto?». A queste e tante altre domande la risposta è semplice e per questo rivoluzionaria: lo decideremo insieme. Partecipiamo a questo percorso come persone, “una testa un voto”, riconoscendogli piena sovranità. Abbiamo bisogno di una sinistra di tutti e di tutte: non un percorso pattizio, ma una nuova forza politica che nasca dalla partecipazione diretta di migliaia di persone. Cambiamo la politica, innoviamo le forme della democrazia, diamo la parola ai cittadini, attraverso una piattaforma digitale per il confronto, la codecisione, la cooperazione e l’azione. Ma non basta: serve restituire protagonismo alla vita dei territori attraverso una campagna di ascolto con assemblee per connettere percorsi e conflitti, scrivere collettivamente il nostro programma, la nostra idea di società, la strada per il cambiamento. Invitiamo tutti e tutte a partecipare, a rimescolare ogni appartenenza, a mettersi a disposizione, fino allo scioglimento delle forze organizzate, sapendo che solo un cammino realmente inclusivo può essere la strada per coinvolgere i tanti che purtroppo sono scettici e disillusi. Sarà importante l’impegno dei rappresentanti istituzionali a tutti i livelli a mettersi al servizio del processo, agendo da terminale sociale. Non vogliamo raccogliere solo le istanze dei singoli, ma anche quelle di tutte le esperienze collettive, le reti sociali, le forze sindacali, l’associazionismo diffuso, i movimenti, che in questi anni hanno elaborato e realizzato proposte concrete ed efficaci. Non siamo i proprietari di questo percorso, e questo documento non ne vuole determinare gli esiti: proponiamo un obiettivo (costruire un nuovo soggetto di alternativa), un metodo (un cammino fatto di assemblee territoriali e di una piattaforma digitale, adesione individuale, piena sovranità), una data di partenza. Da quella data in poi, sarà chi deciderà di partecipare a indicare la rotta. Cominciamo un viaggio che sappia cambiare noi stessi e il mondo che ci circonda. Mettiamoci in cammino. 32 RAZZISMO E IMMIGRAZIONE del 22/12/15, pag. 7 Il bonus da 500 euro solo ai 18enni italiani è discriminazione di stato Legge di stabilità. Roberto Ciccarelli Nella sua «eNews» di Natale al partito Democratico Matteo Renzi respinge l’accusa del movimento 5 Stelle: la legge di stabilità non è fatta di «marchette»: «Chi lo dice ha nostalgia del passato» sostiene. Scambi ispirati al lessico della prostituzione. A quanto pare, per Renzi, «in passato» c’è stato spazio per tali pratiche in parlamento. Per i Cinque Stelle o Brunetta di Forza Italia è quello che accade oggi. Dibattito altissimo. Una manovra fatta di «bonus» e «mance»: questa è l’accusa del Corriere della Sera, domenica scorsa ci ha fatto l’apertura del giornale. Macché, Renzi nega tutto. A Sergio Rizzo, e Dario Di Vico, che hanno firmato gli attacchi a Palazzo Chigi e al Mef di Padoan risponde: «Hanno nostalgia del malus». Battute criptiche a misura di tweet che non fanno ridere Discriminazione all’italiana Dal dibattito — si fa per dire - manca una riflessione sul senso di una misura simbolica per il renzismo: quella dei 500 euro riservata ai 18enni italiani e stranieri provenienti da un paese dell’Unione europea, ma non ai loro coetanei figli di genitori extra-comunitari nati in Italia, gli italiani di seconda generazione, e di tutti gli altri ragazzi che frequentano le scuole. Una «leggina razziale» è stata definita da Andrea Maestri (Alternativa Libera-Possibile) la mancia elettorale (in primavera si vota) riservata agli italiani e non a chi non ha la cittadinanza. Queste persone non votano, dunque non contano per il mercato della politica. «Discriminazione di stato», una «misura anti-costituzionale», «non il segno migliore per un’integrazione». «Sul piano culturale è un segnale bruttissimo» ha detto Nunzio Galantino, segretario generale della Cei. Il presidente della commissione Bilancio della Camera, Francesco Boccia (Pd) si è reso conto dell’autogol da brividi del governo ma ha escluso per il momento un ripensamento al Senato. Non sembra esserci spazio tra gli 839 emendamenti da spulciare in un giorno in commissione Bilancio. La legge di stabilità sarà approvata entro il 23. Per rimediare alla mancetta razziale si punta, forse, sul milleproroghe. La ministra per i rapporti con il parlamento Maria Elena Boschi ha ammesso il problema: si vedrà cosa fare.Al momento ci sono poche idee, molto confuse, e nessuna soluzione. I 500 euro non sono stati estesi a tutti i 18enni perché il Pd non ha voluto irritare le opposizioni. Questo emerge dai retroscena parlamentari. Ius soli all’italiana La discriminazione di stato, anche un po’ razzista, si inserisce in un dispositivo più ampio visto all’opera negli imbarazzi e nell’esclusione praticate dalla legge sulla cittadinanza, il cosiddetto ius soli all’italiana. Un compromesso al ribasso, è stato definito il testo. Le associazioni degli italiani di seconda generazione (si stima siano 500 mila), avrebbero voluto eliminare l’obbligo per uno dei due geni-tori di pos-se-dere la carta di sog-giorno. Si tratta di un docu-mento dif-fi-cile da otte-nere. La pubblica amministrazione può far valere un potere discrezionale assoluto sul soggetto che chiede il riconoscimento di un suo 33 diritto: chi nasce in Italia — o è arrivato in questo paese in tenera età o in età scolare– è italiano. Nella legge sullo ius soli esiste un’altra norma discriminatoria basata sul censo e la proprietà. Il criterio del reddito che introduce una discriminazione di censo nell’accesso alla cittadinanza: non deve essere inferiore all’importo annuo dell’assegno sociale (448 euro per 13 men-si-lità), devono vivere in una casa che risponda ai requisiti di idoneità previsti per legge (anche igienico sanitari) e anche superare un test di conoscenza della lingua e della cultura italiana. In più, i genitori devono essere “non pericolosi per l’ordine pubblico o la sicurezza dello Stato”. Chi è povero, chi è figlio di un lavoratore in nero, chi vive in emergenza abitativa, o in un’occupazione abitativa, o chi è figlio di persone che hanno avuto a che fare con la giustizia vivrà in una cittadinanza condizionata. Chi va a scuola e nel 2016 compirà 18 anni subirà un’altra discriminazione, questa volta in prima persona: non avrà i 500 euro di Renzi. Reddito di base, perché no? Nella politica renziana del consenso, fondata su bonus e mance, vige la legge dei 500 euro per la “cultura”. Tanto avranno gli insegnanti dei 18enni italiani per andare (insieme?) al cinema o al museo. L’Anief ha fatto notare che sarebbe stato meglio dare questi soldi ai ragazzi che vogliono iscriversi all’università, considerato il crollo delle immatricolazioni in atto dall’inizio della crisi.Per gli insegnanti i 500 euro sono una beffa. Rappresentano una misura sostitutiva del contratto di categoria fermo dal 2009. Il governo intende aumentarlo di pochi euro e preferisce mettere i soldi fuori busta paga. L’intento è svuotare il contratto e i suoi diritti, preferendo l’erogazione diretta ai singoli. Il populismo di questa misura è evidente. In più c’è una novità: il governo vincola la spesa di queste risorse a un mercato (teatro, libri, cinema), cancellando l’autonomia del beneficiario che potrebbe usarle per la sua formazione, ma anche per altre esigenze vitali per la sua esistenza (il mutuo, le spese per l’asilo dei figli ecc). Le risorse erogate con il contratto lo permetterebbero. La politica dei bonus renziani no. Nell’erogazione a pioggia di risorse, per fini legati a una «lotta contro il terrorismo» (il bonus Irpef da 80 euro andranno alle forze dell’ordine), il governo in realtà sta rispondendo come peggio non potrebbe a un’esigenza urgente: il reddito minimo per gli studenti, legato alle esigenze di studio o di formazione. Si tratta di una misura esistenti in molti paesi, richiesta dalle organizzazioni studentesche peraltro, ridotta a un provvedimento a sostegno dei «consumi culturali», cioè ai gestori dei cinema, ai distributori di spettacoli o agli editori in crisi di vendita. Mai, invece, considerare i ragazzi — come gli adulti — soggetti di diritto meritevoli di un sostegno universale: per lo studio, contro la precarietà o la disoccupazione, vale a dire i principali motivi per cui si erogano garanzie di questo tipo. Per Renzi questi sono «bonus», non diritti. Chi la pensa diversamente, pensa «malus». 34 WELFARE E SOCIETA’ del 22/12/15, pag. 18 Le classifiche del Sole 24 Ore. Nelle sei macro-aree analizzate si confermano vincenti i centri medio-piccoli del Centro e del Nord Bolzano leader Qualità della vita, l’Italia resta divisa Gli effetti della crisi economica e dell’illegalità diffusa minano la percezione dei cittadini «A Bolzano c’è tutto, manca solo il mare». È stato questo, “a caldo”, il commento della “medaglia d’oro” mondiale di tuffi, Tania Cagnotto, verso un’altra medaglia d’oro, ovvero la sua città, Bolzano, che il 1° posto sul podio lo conquista per “qualità della vita 2015”, secondo la consueta indagine pubblicata ieri da Il Sole 24Ore. Una classifica che conferma, come l’anno scorso, un’Italia tagliata in due, con un Nord in testa e un Meridione ancora in difficoltà. Bolzano, in particolare, è la provincia in cui si vive meglio, Reggio Calabria quella in cui si sta peggio. Milano si classifica seconda, mentre la capitale, Roma, cede 4 posizioni, scivolando al 16° posto, rispetto a sei aree tematiche (Servizi/Ambiente/Salute, Popolazione, Ordine pubblico, Tempo libero, Tenore di vita, Affari e lavoro) per un totale di 36 indicatori. «Qualità dei servizi porta a qualità di vita, e qui abbiamo una lunga esperienza di buon autogoverno e di gestione dell’autonomia a vantaggio della popolazione – ha affermato il presidente della Provincia di Bolzano, Arno Kompatscher –. Gli interventi a favore dell’economia hanno portato la disoccupazione sotto il 4%, tornando ai livelli pre-crisi. Senza far mancare il nostro contributo al risanamento del debito pubblico». «Reggio Calabria ultima non è certo una novità e i dati della classifica sono talmente inconfutabili che ci mettono di fronte a grosse responsabilità governative a vario livello – ha detto il presidente della Provincia di Reggio Calabria, Giuseppe Raffa –. Ma è impossibile riprenderci se le Istituzioni non ci aiutano, e non intendo assistenzialismo, ma risposte certe e rapide, ad esempio, sui tempi lunghi per lo stato di emergenza dopo l’alluvione, che ha colpito per lo più la Locride, o l’iter per la creazione della Zona economica speciale al porto di Gioia Tauro». L.Ca. del 22/12/15, pag. 31 Perché a Milano si vive meglio Giovani, creatività e tanti progetti Così la città scala la classifica e si allinea alle grandi d’Europa «C’è una nuova coesione sociale» Milano che torna a fare Milano e scala le classifiche della qualità della vita non è una notizia, è una conferma. Da mesi l’indicatore più sensibile della vivibilità, cioè il tam tam popolare, batte su un tasto che rischia di diventare monotono e ripetitivo: la città ha ritrovato l’appeal dei giorni migliori, è una piattaforma di opportunità, nelle università si parla inglese, con i grattacieli e i progetti innovativi è cambiata la rete della mobilità, l’Expo ha portato qui il mondo e gli sceicchi fanno shopping immobiliare come nella Londra degli anni Novanta. Ma l’indagine del Sole 24 Ore con il classico borsino di chi sale e di chi 35 scende fotografa un altro passaggio, quello del valore prodotto, la vera ricchezza di Milano, che viene così catapultata al top, appena dietro l’irraggiungibile Bolzano: la macchina della crescita oggi spinge il Pil alla pari delle città faro d’Europa, come Amsterdam, Monaco, Manchester e Rotterdam, delineando un futuro prossimo da glocal city , in grado di stare nella scia delle prime dieci capitali del mondo. «È così», conferma il presidente di Assolombarda Gianfelice Rocca, che ha visto lungo tre anni fa, quando ha allineato i motori per far ripartire il carro della ripresa. «Questo risultato è il frutto di un’azione diuturna che ha liberato energie positive per la città. Le qualità prima disperse in tante isole si sono combinate intorno a un campo magnetico, le pulsioni di Milano sono diventate un’unica forza trainante alla quale Expo ha dato il colpo di reni». Un miracolo senza scope volanti, che Rocca chiama voglia di futuro e Carlo Ratti, l’architetto del Mit chiamato a progettare il Talent Garden, uno spazio di sperimentazione e sviluppo per start up e professioni del futuro a quattro fermate dal Duomo, vicino alla fondazione Prada, definisce «capacità di vivere al meglio il proprio tempo». A fare lo stile è la civitas, spiega, «la voglia di esserci, di uscire, di prendersi cura». Milano è questo oggi, «molto più bella di come l’ho lasciata da questore tre anni fa», ammette il neoprefetto Alessandro Marangoni, che si sente «felice e orgoglioso di esserci», come Roberto Snaidero, presidente di Federlegno, che da friulano respira qui, purtroppo con l’aria inquinata, il profumo del mondo. «A ogni Salone del mobile si avverte un’accelerazione, una crescita. Milano oggi offre tutto, ti fa sentire al centro della modernità». Fattore Expo, attrattività universitaria, ricerca scientifica, alta qualità medica e ospedaliera, volontariato efficiente, solidità ritrovata: si cresce anche per questo. Ma la spinta più forte, avverte il sociologo Aldo Bonomi, l’hanno data in questi anni le tracce di una nuova coesione sociale. «La Milano smarrita di fine secolo che sventolava la paura e si distingueva nelle divisioni ha abbattuto i vecchi muri, al posto della divisione oggi c’è la condivisione, esercitata dai nuovi soggetti sociali che sono i giovani, i creativi, le imprese innovative». Attività commerciali e servizi avanzati per le imprese hanno cambiato la geografia urbana insieme ai nuovi negozi, ai sushi bar, al rito della Darsena. E poi ci sono le new entry: grandi banche (a Garibaldi Repubblica) assicurazioni (Generali e Allianz nella nascente City life), gigantesche città commerciali (in arrivo a Segrate). L’indagine del Sole allarga lo sguardo sul mix vincente di un’area da sette milioni di abitanti che da sola potrebbe trainare davvero tutto il Paese, con il distretto Monza Brianza che svetta per efficienza e fatturati. «Qui il settore manufatturiero ha superato la crisi con la fatica e il saper fare», spiega Renato Mattioni, segretario della Camera di commercio. Odore di segatura, globalizzazione, design e qualità: la ricetta è questa. Un combinato disposto che ha funzionato perché Milano si è data un ruolo, ha ritrovato la sua leadership civica ed economica, «mentre il traguardo di Expo distraeva la politica e la burocrazia», maligna qualcuno. Rocca, dopo aver spinto il masso in salita come Sisifo, quando pochi erano disposti a farlo, lancia però un allarme. «Vedo un pericoloso adagiarsi sugli allori. Il dopo Expo è uno scandalo. Nessuno sa che cosa fare. Non c’è un piano strategico. Se la politica non sta all’altezza di quel che sta facendo la società civile rischiamo di perdere il vantaggio competitivo». Ci sono ancora dei compiti da fare se si vuole restare al top. Giangiacomo Schiavi del 22/12/15, pag. 7 Il referendum picconato nella notte 36 Pubblico/Privato. Pur di approvare la seconda legge in pochi mesi, il Pd stralcia un terzo degli articoli per fare in fretta. Opposizioni compatte: uno scandalo. "Lo stralcio è la riprova che il vero obiettivo è annullare il referendum per la sanità pubblica - accusano Fattori e Sarti di Toscana a Sinistra - e mantenere i tagli ai posti letto e al personale, concentrando il potere e regalando la sanità ai privati". Riccardo Chiari FIRENZE Addio referendum sulla sanità toscana? La risposta definitiva arriverà dal Collegio di garanzia statutaria, chiamato a deliberare sulla richiesta fatta da 55mila cittadini, coinvolti dal “Comitato per la sanità pubblica”, per l’abrogazione della legge regionale 28/15. Ma certo l’approvazione di una seconda legge di riordino — in meno di un anno — riduce parecchio le possibilità di una consultazione. Ad esserne convinte sono ad esempio tutte le opposizioni al Pd nell’assemblea toscana. Arrabbiate, a dir poco, di fronte alla decisione di mettere ai voti, alle due del mattino di domenica, non la proposta di legge completa dei suoi 150 articoli, ma solo una parte di essa. “Il Pd si è automutilato e si è ‘autocangurato’ la propria legge di controriforma sanitaria – tirano le somme Tommaso Fattori e Paolo Sarti di Toscana a Sinistra — buttandone un terzo nel cestino. Lo stralcio di 56 articoli della legge è la riprova finale che il vero obiettivo di Renzi e Rossi è quello di annullare il referendum e mantenere i tagli ai posti letto e al personale sanitario, concentrando il potere decisionale nelle mani di pochi, e regalando la sanità ai privati”. La giunta guidata da Enrico Rossi, e i 25 consiglieri piddini che hanno approvato la nuova, parziale normativa, ribattono che lo stralcio di 56 articoli si è reso necessario per l’ostruzionismo delle opposizioni. Di qui la prova di forza – anche delle regole assembleari — arrivata dopo una seduta fiume del Consiglio regionale, proseguita per quattro consecutivi giorni e due notti, e immortalata sul web da foto e filmati che ritraggono consiglieri addormentati o in procinto di cedere. L’esigenza di approvare il bilancio previsionale 2016 della Regione ha fatto il resto. Anche se la linea di condotta del Pd continuerà a far discutere a lungo: “Nessuna opposizione aveva fatto ostruzionismo finora – attaccano Fattori e Sarti — tutti gli emendamenti presentati erano pertinenti al contenuto della legge. Abbiamo animato un dibattito serio, e ora ci troviamo di fronte alla volontà del Pd di non far esprimere ai toscani la loro opinione sulla riforma più importante della legislatura”. La ricostruzione fatta da Toscana a Sinistra, ma anche dal M5S e dalle altre forze politiche in consiglio, è corroborata dal fatto che a restare fuori dall’approvazione sono gli articoli in cui si prevedeva il riordino di vari organismi, già regolamentati dalla vecchia legge sanitaria 40/05. Mentre è stato dato il via libera a quella parte della normativa legata a filo doppio alla legge 28/15 dello scorso marzo, proprio quella su cui si erano appuntate le critiche del comitato referendario. Anche le scansioni ristrettissime dei tempi portano alla stessa conclusione. Erano stati concessi solo cinque giorni ai rappresentanti degli operatori sanitari e dei cittadini per presentare proposte, da inviare solo via e-mail; sei giorni ai gruppi consiliari per gli emendamenti; infine il parere della commissione doveva arrivare entro l’11 dicembre, per portare in aula il pdl nella seduta del 15 dicembre. Espliciti i Cinque Stelle: “Questa riforma nasce da due obiettivi che niente hanno a che vedere con la qualità del servizio sanitario: boicottare il referendum, e prepararsi al taglio delle risorse. Basta leggere il bilancio previsionale 2016: alla ‘Tutela della Salute’ sono stati tolti 353 milioni rispetto all’anno precedente. Mai visto un servizio migliorare con 350 milioni in meno”. Sulla stessa linea, 37 ed è una notizia, Stefano Mugnai di Forza Italia: “Il comportamento del Pd fa capire bene quanto gli stia a cuore la sanità, l’unica cosa che sta a cuore è evitare il referendum”. Per parare il colpo, la renzianissima assessora alla sanità Stefania Saccardi si è fatta intervistare anche dal Tg3 toscano: “La parte fondamentale della riforma era negli articoli che abbiamo approvato, il resto può essere votato a gennaio. E nessuno ha bloccato il referendum, il collegio di garanzia valuterà. Altrimenti si potranno raccogliere di nuovo le firme e chiedere un nuovo referendum”. Intanto la nuova legge, con le tre maxi Asl, le 25 zone distretto per i servizi socio-sanitari, i tagli ai posti letto e al personale che non avrà il turnover, entrerà in vigore il primo gennaio: “Con la mortificazione del sistema sanitario regionale – chiudono Sarti e Fattori — e l’apertura ai privati, che coprirà gli spazi da cui il pubblico si sta ritirando”. 38 DIRITTI CIVILI E LAICITA’ del 22/12/15, pag. 6 «Dominique Velati suicida in Svizzera, l’abbiamo aiutata noi» Sos Eutanasia. L’autodenuncia di Marco Cappato e dei suoi compagni che fondano un’associazione per aiutare anche altri malati terminali ad ottenere il suicidio assistito Eleonora Martini ROMA Come trent’anni fa, quando per combattere meglio la battaglia in favore della legalizzazione dell’aborto si iscrisse al Partito Radicale, Dominique Velati ha scelto di nuovo la strada della «libertà». Lo ha spiegato lei stessa, infermiera 59enne di Borgomanero (Novara), radicale dal 1986, in un video di commiato realizzato il 13 dicembre scorso, il giorno prima di partire in treno verso la Svizzera dove ha ottenuto il suicidio assistito ed è deceduta nel pomeriggio del 16 dicembre, in una clinica nei pressi di Zurigo. Il viaggio di sola andata per Berna, dove Velati, malata terminale di cancro, ha avuto i primi colloqui con i medici dell’associazione elvetica Dignitas che l’ha poi accompagnata fino alla morte, le è stato pagato da Marco Cappato e dai suoi compagni di una vita che hanno voluto con questo gesto — di cui si sono autodenunciati ieri, prima pubblicamente e poi presso il comando centrale dei carabinieri di Roma — aggravare la loro posizione penale per un atto di disobbedienza civile senza precedenti. «Se non verremo fermati presteremo, tramite l’associazione “Sos Eutanasia” che abbiamo fondato e di cui sono il responsabile legale, lo stesso tipo di aiuto sempre più organizzato a tutti coloro che ce lo chiederanno», ha annunciato Cappato in conferenza stampa con Mina Welby, «mia associata a delinquere o a far rispettare la Costituzione», e la Segretaria dell’Associazione Luca Coscioni, Filomena Gallo. Un’altra battaglia, questa dei Radicali, che Dominique Velati sperava servisse almeno a far discutere e riflettere. E invece la ministra della Salute ha risposto battendo sul solito tasto, seguendo la stessa litania cantata all’unisono con il Movimento per la Vita Italiano: «Bisognerebbe aiutare queste persone a vivere — ha risposto Beatrice Lorenzin — e a trovare nella vita, anche nella malattia, la propria dignità, la speranza». «La nostra azione di disobbedienza civile proseguirà fino a quando il Parlamento italiano non calendarizzerà la proposta di legge di iniziativa popolare, corredata da 67 mila firme, depositata a settembre 2013 e da allora mai discussa, nemmeno in una Commissione, in violazione dell’art. 71 della Costituzione», ha spiegato Cappato. Il consigliere comunale di Milano e gli altri radicali rischiano molto, perché in Italia chi «agevola in qualsiasi modo» il suicidio è punito con la reclusione da 5 a 12 anni (art. 580 del Codice Penale). Eppure, non tutti i «suicidi» sono uguali, come non sono uguali di fronte alla legge tutti i malati terminali: il presidente di Radicali italiani, Cappato, e Mina Welby spiegano infatti la differenza tra chi, come Dominique Velati, ha «voluto evitare che il suo cancro le portasse via la serenità di una morte dignitosa» ma per trovarla è stata costretta ad andare all’estero, e chi, come per esempio Piero Welby, il 20 dicembre 2006 riuscì finalmente a portare a termine la sua battaglia personale e politica contro l’accanimento terapeutico e morì nel proprio letto facendo spegnere il respiratore che lo teneva in vita. Senza alcuna 39 conseguenza penale per il medico Mario Riccio, la famiglia e i compagni radicali dell’Associazione Coscioni che lo assistettero, malgrado una lunga inchiesta della magistratura. «Dominique non aveva problemi economici, ha pagato di tasca propria i 12 mila euro necessari per ottenere l’assistenza al suicidio in Svizzera — racconta ancora Cappato — ma sono decine le persone che ci chiedono aiuto, anche finanziario». “Sos Eutanasia” nasce anche per questo, per colmare con coraggio un vuoto. Da anni infatti Exit Italia fornisce informazioni e consigli, ma nulla di più, a decine di cittadini italiani che cercano la “dolce morte” nel paese elvetico. «Si rivolgono a noi circa 70 persone al mese, con un trend in crescita da marzo 2015 in media di 1,4 in più ogni giorno, e sono circa 25 gli italiani che da marzo ad oggi hanno ottenuto l’assistenza al suicidio» nel nuovo centro in Canton Ticino, riferisce il presidente di Exit Italia Enrico Coveri. Per questi cittadini — di cui «solo l’8% si rivelano malati di depressione cronica» — “Sos Eutanasia” «raccoglierà pubblicamente fondi e li aiuterà economicamente per le spese di viaggio: un atto simbolico che si configura come reato. Mi auguro — conclude Cappato — che sia il Parlamento a interrompere la nostra azione o, in caso contrario, spero che potremo difendere davanti al giudice il principio della libertà individuale e del diritto all’autodeterminazione». E se nulla di tutto ciò accadesse, «presenteremo un’interrogazione parlamentare — ha annunciato Rita Bernardini — per chiedere spiegazioni pure sul comportamento e la mancata azione delle forze dell’ordine». 40 BENI COMUNI/AMBIENTE del 22/12/15, pag. 12 Smog, è allarme in tutta Italia Resta il bel tempo, il livello di polveri rimarrà doppio o triplo rispetto ai limiti di legge Il governo stanzia cinque milioni, ma per Regioni e Comuni non sono sufficienti Roberto Giovannini È più che mai emergenza inquinamento nelle grandi metropoli italiane. I meteorologi e gli scienziati confermano che anche nei prossimi giorni il tempo sarà bello: niente venti , niente piogge e temperature miti, con rischio di nebbie e strati nuvolosi bassi. Gli inquinanti prodotti dal trasporto, dal riscaldamento e dall’attività economica non si disperderanno, e come chiarisce Nicola Pirrone, direttore dell’Istituto sull’inquinamento atmosferico del Cnr, ci sarà quella «cappa grigia» fatta essenzialmente da polveri sottili pericolosa per la salute, con livelli attesi (specie in Val Padana) doppi o tripli rispetto ai limiti di legge ed europei. Superare questi limiti significa letteralmente mettere a repentaglio la salute presente e futura dei cittadini; ma apparentemente nessuno ha il coraggio di affrontare radicalmente il problema, che è drammatico. Del resto, anche le misure straordinarie adottate - come i blocchi del traffico o le «targhe alterne» - danno fastidio a tanti; compresi coloro che un giorno magari si ammaleranno per aver respirato le polveri nell’aria. Ieri, al termine di una riunione organizzata dai ministri della Salute, Beatrice Lorenzin, e dell’Ambiente, Gian Luca Galletti si è deciso di sostenere queste misure di Regioni e Comuni con un fondo di 5 milioni di euro. Troppo pochi soldi? «Se necessario il fondo sarà certamente rifinanziato», chiarisce il ministro Galletti. Verranno utilizzati per sostenere i Comuni nello sforzo economico che stanno affrontando. Ad esempio, per compensare i mancati introiti delle aziende del trasporto pubblico, laddove si è deciso la gratuità o sconti per favorire l’uso dei mezzi pubblici. «Ho già parlato col Presidente dell’Anci Piero Fassino - conclude Galletti in tempi brevi faremo il regolamento ed erogheremo le risorse». del 22/12/15, pag. 11 Energia. Prime ipotesi sugli effetti che potrà avere un emendamento del Governo alla legge di Stabilità Perforazioni in mare, nove giacimenti a rischio Potrebbero essere almeno 9 i giacimenti nazionali di petrolio e gas cui l’Italia dovrà rinunciare per aumentare le importazioni da Paesi remoti con petroliere che sfioreranno le nostre coste. Lo stabilisce l’emendamento “no triv” presentato dal Governo per evitare un referendum contro l’uso delle risorse del sottosuolo italiano. L’emendamento è uno dei moltissimi inseriti nella Legge di Stabilità e dice che vengono sospesi tutti gli iter di autorizzazione in corso per la ricerca o lo sfruttamento dei giacimenti in mare entro le 12 miglia dalla spiaggia (19,3 chilometri). Su terraferma viene sopresso 41 l’obbligo del piano di valutazione ambientale strategica, quello che prevede un dibattito pubblico con le popolazioni interessate, piano che avrebbe proiettato l’Italia in avanguardia in Europa dal punto di vista ambientale. Per l’autorizzazione allo sfruttamento di nuovi giacimenti servirà il parere della Regione interessata, senza il quale la procedura di autorizzazione resterà congelata. In altre parole verranno sospesi molti dei 27 iter di autorizzazione in corso che aspettano il via libera finale del ministero dello Sviluppo economico. Molti degli iter hanno passato la Valutazione d’impatto ambientale e hanno superato gli scogli delle sospensive che i comitati contrari alle attività petrolifere nazionali avevano chiesto (e perso) al Tar contro il via libera del ministero dell’Ambiente. Quali conseguenze potrà avere sulle 106 piattaforme italiane presenti da decenni nei nostri mari, di cui gran parte in Adriatico? Sicuramente sfumano i progetti Elsa della Petroceltic e Ombrina della Rockhopper, i due progetti più avanzati. Fra le grandi compagnie, salterà un grande progetto ancora embrionale, e non ancora formalizzato, della Shell nel Golfo di Taranto, sotto il quale ci sarebbero riserve assai ingenti. Non sfumano i progetti più rilevanti delle due maggiori compagnie italiane, l’Eni e l’Edison, nel Canale di Sicilia e in Adriatico. Ma le due compagnie sono toccate dalla norma per progetti minori oppure dovranno adeguare i perimetri interessati dalle attività perché segmenti delle aree petrolifere ricadono nelle zone che saranno vietate. Ai rischi dovuti all’aumento delle importazioni in petroliera non dovrebbero per fortuna aggiungersi quelli per la sicurezza degli impianti, com’era avvenuto invece con un provvedimento simile che anni fa aveva bloccato anche i lavori ambientali e di manutenzione. Lo stop potrebbe essere preso da qualche compagnia come pretesto per giustificare la voglia di abbandonare gli investimenti nella riottosa Italia. La vicenda prende le mosse dai comitati no triv, che si oppongono alle attività petrolifere in Italia temendo danni ambientali o economici. Dieci Regioni ad alta suscettibilità (Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Liguria, Marche, Molise, Puglia, Sardegna e Veneto, ma non le più perforate d’Italia, Emilia Romagna e Sicilia) hanno chiesto il referendum fermatrivelle, che ha passato il vaglio della Corte di Cassazione e attende quello della Corte Costituzionale. Protesta il Coordinamento nazionale no triv, che ha elaborato i quesiti antipetrolio del referendum. «Un autentico inganno», dice il comitato. Gli emendamenti «ricalcano solo apparentemente i quesiti referendari» e «dissimulano in modo subdolo il rilancio delle attività petrolifere». Quindi per i proponenti il referendum resta valido, validissimo. Nel frattempo la Gran Bretagna ha appena avviato la procedura per 159 nuove licenze su giacimenti, spinge con forza sulle fonti rinnovabili d’energia a cominciare dall’eolico su piattaforme in mare e la settimana scorsa ha chiuso definitivamente l’ultima sua miniera di carbone. Jacopo Giliberto del 22/12/15, pag. 21 Nella provincia di Groninga 2.000 scosse per lo sfruttamento di un giacimento 42 Gas, micro-terremoti e case che crollano nelle terre strappate al mare del Nord PIETRO DEL RE DAL NOSTRO INVIATO GRONINGA. Un lento, inesorabile cataclisma funesta i polder nel nord dell’Olanda, quelle terre strappate al mare secoli fa e oggi devastate da una sequela ininterrotta di micro- terremoti. A provocare la catastrofe è lo sfruttamento di uno dei maggiori giacimenti di gas naturale del pianeta, nelle viscere della provincia di Groninga. Più gas si estrae, più violente e numerose si producono le scosse. Certo, non è l’Aquila, poiché ancora non si contano né morti né feriti, ma i danni di queste infinite scariche sismiche sono incalcolabili. Percorrendo la regione in auto, dopo aver attraversato sconfinati campi di cipolle e barbabietole, t’imbatti ovunque in dimore o fienili con pareti puntellate da travi di legno. E dappertutto incroci uomini che stuccano, ridipingono, abbattono o ricostruiscono là dove il suolo continua a tremare con angosciante puntualità ogni volta che dal giacimento viene prelevato del gas. «In alcuni quartieri di cittadine quali Uithuizen o Loppersum sono danneggiate 9 case su 10, perciò sono sempre più numerosi coloro che vorrebbero emigrare, ma il prezzo del mattone è crollato e nessuno riesce a vendere», dice John Lanting, che presiede “Schokkend Groninen”, la più agguerrita delle associazioni locali in lotta per proteggere le vittime del disastro. Spaventano le cifre che fornisce Lanting. Nei 9 comuni colpiti, dal 1986 a oggi la terra ha tremato almeno 2.000 volte, danneggiando circa 50mila edifici, tra cui 24 tra monumenti storici e splendide chiese di mattoni rossi. «Per consolidarli non basterebbero 2 miliardi di euro», spiega l’attivista. Il principale colpevole di questa sciagura al rallentatore, accusa Schokkend Groninen, è la Nam, compagnia olandese del petrolio, di proprietà di Shell e ExxonMobil, che finché gli è stato possibile ha negato gli effetti collaterali del suo lucrosissimo business. Si calcola infatti che negli ultimi cinquant’anni il gas di Groninga abbia fruttato 270 miliardi di euro. Nel 2013, l’estrazione record di 52 miliardi di metri cubi di gas fu la manna che permise di pareggiare il bilancio dei Paesi Bassi facendo entrare nelle casse dello Stato 15 miliardi di euro. «E lo sa quanto hanno stanziato per consolidare le case lesionate? Soltanto 400 milioni di euro, soldi con cui si vorrebbero ammansire la popolazione regalando pannelli solari. Ma qui si vive nel terrore in attesa di un locale big one», dice ancora Lanting. Albert Rodenboog, sindaco di Loppersum, racconta che nel 2003 anche la Nam riconobbe un nesso tra l’estrazione e l’attività sismica a Groninga. «Ma il punto di svolta fu nell’agosto 2012, quando si verificò un terremoto di magnitudo 3,6 sulla scala Richter, il più forte mai registrato nella regione, con la popolazione che fu svegliata in piena notte e si riversò per le strade. Da quel momento, i miei concittadini cominciarono a prendere coscienza dei rischi che correvano e a chiedere l’intervento delle autorità centrali. L’anno scorso, quando il ministro dell’economia Henk Kamp è venuto a riferire in comune che prima di prendere una decisione avrebbe chiesto ulteriori indagini geologiche, l’edificio è stato assediato da una trentina di trattori e da una folla inferocita ». La collera degli agricoltori ha ottenuto l’effetto sperato, poiché pochi mesi dopo la Nam ha smesso di spremere gas vicino a Loppersum. Ma s’è spostata qualche decina di chilometri più a sud, dove si sono immediatamente prodotti nuovi terremoti. Ora, gli scienziati si sono accorti che con il passare degli anni intorno a Groninga la terra trema sempre più violentemente, fino a modificare la geografia del luogo. Gli stessi geologi sostengono che se domani dovessero smettere di succhiare gas, il sottosuolo del luogo è così malmesso che comunque si produrrebbero terremoti per altri vent’anni. L’ultimo sisma, il 13 43 settembre scorso, è stato di magnitudo 3,1, ma l’hanno sentito tutti, anche perché le scosse prodotte dal cedimento del terreno per estrazione di gas sono molto più vicine a noi, ad appena 1 chilometro dalla superficie, rispetto a quelle dell’attività tellurica che nascono anche a 100 chilometri di profondità. Dice ancora l’attivista Lanting: «Anche se siamo pochi e male organizzati, e combattiamo contro il 95 per cento dei deputati olandesi che intende continuare a sfruttare il giacimento, e contro la Nam che è protetta dai giganti del petrolio, nel 2014 l’Aia ha decretato una progressiva chiusura del giacimento di Groninga ». Ma ci vorranno anni, se non decenni prima che ciò avvenga in modo definitivo. Anche perché nei Paesi Bassi 7 milioni di case dipendono da quel gas e perché la Nam ne esporta ancora parecchio. È quindi verosimile che i polder del nord dell’Olanda tremeranno ancora a lungo. del 22/12/15, pag. 6 Non fu terrorismo, assolti i No Tav Torino. Confermate in appello le altre accuse Marco Vittone TORINO Il terrorismo non c’entra nulla con i No Tav. Lo hanno ribadito i giudici della Corte d’assise d’appello di Torino assolvendo dall’imputazione di terrorismo i quattro attivisti No Tav che nel maggio 2013 parteciparono all’attacco al cantiere della Torino-Lione di Chiomonte, in Val di Susa. La Corte ha confermato la pena di 3 anni e 6 mesi, comminata in primo grado, nei confronti di Claudio Alberto, Niccolò Blasi, Chiara Zenobi e Mattia Zanotti, per i reati di danneggiamento, fabbricazione e trasporto di armi e resistenza a pubblico ufficiale. A sostenere l’accusa di terrorismo in secondo grado è stato il procuratore generale Marcello Maddalena, al suo ultimo processo, che per i quattro aveva chiesto una condanna a 9 anni e 6 mesi, rilanciando l’ipotesi avanzata in primo grado dai pm Padalino e Rinaudo e già scartata dal tribunale di primo grado. Nella mattinata il pg aveva sottolineato che «il sabotaggio è considerato terrorismo dalla legge» rievocando la storia del «traliccio di Segrate dove trovò la morte Giangiacomo Feltrinelli». Nel 1979, ha ricordato il pg, «le Brigate Rosse lessero un comunicato, durante un processo, in cui spiegavano che Osvaldo (riferendosi a Feltrinelli, ndr) non era una vittima, ma un rivoluzionario caduto combattendo in una operazione di sabotaggio». Il processo ha riguardato l’assalto avvenuto nella notte tra il 13 e il 14 maggio 2013: un gruppo di persone incappucciate prese di mira il cantiere con un fitto lancio di petardi e oggetti. Quella sera fu incendiato un generatore. La procura di Torino ipotizzò l’accusa di attentato con finalità di terrorismo. E a dicembre finirono in carcere i 4 No Tav di area anarchica, sottoposti per un anno a un regime detentivo di massima sicurezza e ora ai domiciliari. Ieri sono usciti dall’aula bunker delle Vallette fra abbracci e applausi dei numerosi No Tav presenti. L’avvocato della difesa Claudio Novaro, ha commentato: «Per la quinta volta un’autorità giudiziaria ci ha dato ragione, affermando che il teorema terrorismo non c’entra con i fatti in questione. E’ forse ora che la Procura di Torino cominci a porsi domande». Secondo Alberto Perino, leader storico del movimento, «ha vinto la Maddalena Libera Repubblica e non Maddalena che pensava fossimo ’terroristi’, la procura si è voluta intestardire ed è stata sconfitta un’altra volta, facendo sprecare soldi e tempo ai cittadini». 44 Ieri, l’Autorità garante della concorrenza ha invece sancito «l’incompatibilità post-carica» di Mario Virano, già Commissario straordinario del governo per la Tav Torino-Lione, in relazione al suo incarico di direttore generale di Telt. del 22/12/15, pag. 6 Si chiuda la stagione della repressione Movimenti. Dalla magistratura torinese una prova di incomprensibile accanimento accusatorio. Ora si volti pagina Livio Pepino Anche la Corte d’assise d’appello di Torino ha, infine, detto l’ovvio: che l’incendio di un compressore nel cantiere del Tav della Maddalena di Chiomonte (a seguito di un’azione dichiaratamente finalizzata solo contro le cose e priva, in concreto, di qualsivoglia effetto sulle persone) è un reato ma non un attentato con finalità di terrorismo. Lo aveva già detto la Corte di primo grado, nella sentenza 17 dicembre 2014, usando parole di elementare buon senso: «Pur senza voler minimizzare i problemi per l’ordine pubblico causati da queste inaccettabili manifestazioni, non si può non riconoscere che in Val di Susa — e a fortiori nel resto del Paese — non si viva affatto una situazione di allarme da parte della popolazione e se il contesto in cui maturò l’azione non era oggettivamente un contesto di particolare allarme, neppure l’azione posta in essere rivestiva una ’’natura’ tale da essere idonea a raggiungere la contestata finalità». E lo aveva confermato la Corte di cassazione con due sentenze emesse in sede di impugnazione contro misure cautelari, tanto che — nel processo parallelo contro tre altri imputati — la stessa Procura aveva rinunciato alla contestazione del reato di terrorismo. Ma, evidentemente, tutto questo ancora non bastava se il Procuratore generale in persona ha voluto esibirsi in una prova di incomprensibile accanimento accusatorio chiedendo alla Corte il ribaltamento della sentenza di primo grado. La speranza, a questo punto, è che si chiuda definitivamente non solo la vicenda processuale di quattro giovani (costretti a una custodia cautelare in carcere di oltre un anno in condizioni di sostanziale isolamento) ma anche una stagione di repressione senza precedenti nei confronti del movimento No Tav. È una stagione iniziata nel gennaio 2012, con una serie di misure cautelari a pioggia per fatti di resistenza di sette mesi prima, in cui la magistratura inquirente ha assunto un ruolo di diretto protagonismo nel contrasto del conflitto sociale e nella tutela dell’ordine pubblico. Non si è trattato del doveroso esercizio dell’azione penale, ma di un intervento la cui durezza e sistematicità, lungi dall’essere “obbligate”, sono state determinate da precise scelte discrezionali. Nulla, infatti, hanno a che fare con l’obbligatorietà dell’azione penale fenomeni e prassi come l’attribuzione di una corsia privilegiata ai processi nei confronti di esponenti No Tav, la coreografia che circonda i relativi dibattimenti (celebrati in un’aula bunker annessa al carcere costruita per i processi di terrorismo e mafia), l’istituzione presso la Procura di un pool di sostituti con competenza esclusiva nel settore (solo di recente smantellato), l’immediato e sollecito perseguimento — in caso di collegamento con l’opposizione al Tav — anche di reati di minima entità sanzionabili con la sola pena pecuniaria, l’uso massiccio delle misure cautelari persino nei confronti di incensurati, la dilatazione delle ipotesi di concorso nel reato fino a costruire una impropria «responsabilità da contesto», l’utilizzazione nelle motivazioni di sentenze e ordinanze di espressioni truculente (quasi a supportare o sostituire i fatti con gli aggettivi), l’omessa considerazione di scriminanti e 45 attenuanti pur previste nel sistema (talora addirittura dal codice Rocco), l’accurata costruzione di un processo a mezzo stampa parallelo a quello formale e via elencando fino, appunto, all’evocazione dei fantasmi del terrorismo. Queste prassi sono, all’evidenza, frutto di scelte rispondenti alla concezione — propria dei poteri forti e assai diffusa nella politica — secondo cui le società si governano in modo centralizzato e autoritario e il confitto sociale è un elemento di disturbo praticato da «nemici» meritevoli di repressione esemplare. Non è stata una bella pagina quella scritta al riguardo dalla magistratura torinese. Per fortuna alcuni dibattimenti cominciano a riportare i fatti in un alveo di maggior distacco e attenzione alle garanzie proprio della giurisdizione. Anche ad evitare il verificarsi di quanto denunciato con riferimento alla situazione francese in un documento dell’11 luglio 2014 del Syndicat de la magistrature: «Oggi come ieri, le azioni collettive (…) provocano alle cittadine e ai cittadini in lotta un trattamento penale fuori dal normale: fermo di polizia, test del Dna, comparizione immediata davanti al giudice, una giustizia lampo che produce carcere. (…) Ricorrere alla criminalizzazione di queste lotte — per di più, troppo spesso selettiva — vuol dire rendere illegale ogni prospettiva di contestazione e stigmatizzare un movimento sociale composto da sentinelle che esercitano la libertà di contestare l’ordine costituito». L’auspicio che si volti pagina risponde anche a una esigenza di governo razionale della società e di recupero, da parte della giurisdizione, del ruolo che le è proprio perché — come ha scritto un maestro come Francesco Palazzo — «un diritto penale che vede nemici ogni dove rischia di accreditare l’immagine di una società percorsa da una generalizzata guerra civile, contribuendo così a fomentare una conflittualità, anzi uno spirito sociale d’inimicizia, che è del tutto contrario alla sua vera missione di stabilizzazione e pacificazione della società». 46 INFORMAZIONE del 22/12/15, pag. 15 Digital divide. Solo una Pmi su dieci raggiunge un elevato livello di digitalizzazione Un terzo delle famiglie non accede al Web Internet veloce entra sempre di più nelle case degli italiani e nelle imprese: praticamente due famiglie su tre (il 64,4%) e più di nove aziende su dieci impiegano la banda larga che avanza grazie alla tecnologia mobile. Ma il digital divide dell’Italia si misura per due ritardi macroscopici: da un aparte ancora oggi un terzo delle famiglie non ha un accesso al web, dall’altra scontiamo il fatto che le «competenze digitali» e l’uso efficiente del web sono ancora merce rara nel nostro Paese. Appena un’azienda su dieci sotto i 50 dipendenti raggiunge un livello alto o molto alto (il 10,8%) di digitalizzazione dei propri servizi e una su quattro tra quelle con più di 250 dipendenti (il 41,3%). Eppure le e-skills oggi fanno la differenze perché come ha ricordato ieri il presidente dell’Istat Giorgio Alleva alla presentazione del report «cittadini , imprese e Ict» non avere competenze digitali è «ormai equivalente a una sorta di esclusione sociale, e anche dal punto di vista della competitività del paese, è un tema straordinariamente rilevante per la sua capacità di incidere sulla propensione all'innovazione e la produttività». Insomma il nodo per l’Italia non sarebbe soltanto infrastrutturale - su questo fronte anzi si fanno passi avanti e con il piano banda larga del Governo se ne dovrebbero fare ulterioori - ma soprattutto di educazione all’Ict. «E questa non la si fa solo usando Internet aggiunge Alleva -,ma imparando a fare un uso avanzato di Internet». E così se il 70,7% delle imprese ha un proprio sito web, solo poco più di un terzo lo usa per offrire servizi più avanzati come quelli legati alla tracciabilità delle ordinazioni on line o alla personalizzazione di contenuti e prodotti. Inoltre solo il 12,8% delle imprese permette ai visitatori del sito di effettuare on line ordinazioni o prenotazioni dei propri prodotti (11,5 nel 2014). Decisi progressi emergono solo per la diffusione della fatturazione elettronica, diventata obbligatoria nei rapporti con le Pa. Rispetto al 2014, aumentano le imprese che dichiarano di inviare fatture elettroniche processabili automaticamente (da 5,4% a 15,5%) e si riducono quelle che effettuano esclusivamente invii cartacei (da 8,2% a 5,7%). Cresce anche la quota di imprese che inviano fatture elettroniche anche se non in un formato processabile (da 56,7% a 63,8%). Ma la digitalizzazione procede a rilento anche dentro le mura di casa. Basti pensare allo shopping on line che per molti internauti è ancora un tabù. L’Italia è infatti ancora lontana dagli obiettivi europei 2015 che fissano al 33% la quota di Pmi che hanno effettuato vendite online nell’anno precedente per almeno l’1% del fatturato totale e al 50% la quota di popolazione di 16-74 anni che ha fatto acquisti online negli ultimi 12 mesi. Questi due indicatori oggi sono molto al di sotto per l’Italia: rispettivamente a 6,5% e 26 per cento. Mar.B. 47 SCUOLA, INFANZIA E GIOVANI del 22/12/15, pag. 23 Buona Scuola, senza stipendio un nuovo professore su tre Trentamila docenti non pagati da settembre. Il ministero: troppe pratiche da smaltire e stanziamenti insufficienti. I sindacati: pioggia di ricorsi Giacomo Galeazzi Trentamila precari non vengono pagati da settembre per intoppi burocratici e fondi insufficienti. Una situazione a macchia di leopardo tra inefficienze e ritardi a seconda della zona d’Italia in cui ai 90 mila nuovi prof è capitato di salire in cattedra. Bufera «a geometria variabile» che si protrae da mesi con condizioni differenziate da una provincia all’altra finché ieri il governo ha assicurato la «certezza della retribuzione». Lena Gissi, leader della Cisl Scuola documenta: «Sappiamo di istituti dove i presidi o le segreterie anticipano di tasca propria i soldi perché insegnanti non arrivano a fine mese. C’è gente che si rivolge alla Caritas: parliamo di docenti qualificati, non di barboni». Circolare agli istituti Con due note distinte i ministeri del Tesoro e dell’istruzione garantiscono che alcuni supplenti avranno gli stipendi a dicembre altri a gennaio. Ma il quadro resta incandescente con i sindacati sul piede di guerra e il mondo della scuola in fibrillazione. «Le scuole non retribuiscono direttamente gli insegnanti - ricostruisce Mario Rusconi, vicepresidente dell’associazione presidi -. Da ciascun istituto la richiesta di pagamento arriva all’ufficio scolastico regionale e da qui viene girata alla direzione territoriale del Tesoro che deve essere autorizzata dal dicastero per liquidare la somma. Un ritardo di trasmissione in qualunque fase di questa procedura può lasciare i lavoratori senza stipendio». Per i 30mila precari non retribuiti da settembre, il segretario della Flc Cgil, Domenico Pantaleo punta l’indice contro l’ amministrazione centrale. «Sebbene abbiano svolto il loro lavoro, i supplenti non percepiscono retribuzione per mancanza di risorse e inefficienza del sistema informatico del ministero dell’Istruzione- afferma-.Stiamo organizzando ricorsi contro un governo cattivo pagatore e sempre in ritardo. I soldi stanziati non bastano ai pagamenti: un’angheria cronica da superare rendendo gli stipendi partita di spesa fissa, come già avviene per le supplenze in caso di maternità». L’esecutivo ribatte che una parte dei supplenti (25mila) sarà pagata a dicembre, un’altra (5mila) a gennaio. Domani nell’incontro al ministero i sindacati richiameranno «la questione salariale e la dignità di migliaia di persone e famiglie». Secondo Rino Di Meglio, coordinatore della Gilda, «nonostante la nota inviata dal ministero alle scuole per la liquidazione degli stipendi ai supplenti, i precari trascorreranno comunque il Natale senza percepire un euro». In cattedra per un euro La Cisl porta al tavolo col governo esempi concreti come la storia di Valentina Caiafa, insegnante di sostegno 37enne della provincia di Foggia, che ora ha la cattedra all’istituto comprensivo «Leopardi» di Castelnuovo Rangone, nel Modenese. Insegna a scuola a tempo pieno dallo scorso settembre ma non ha mai ricevuto lo stipendio, in compenso ha incassato un euro di tredicesima per aver lavorato dal gennaio al giugno scorsi: sta ancora aspettando il primo stipendio e lo Stato le deve 5.200 euro. «L’insegnante lavora e studia, ma rischia di non avere nemmeno i soldi per pagarsi la benzina o i mezzi pubblici per 48 raggiungere il luogo di lavoro, è così scoraggiata che minaccia di non recarsi più a scuolaracconta la Cisl- Le persone ogni giorno vengono nelle nostre sedi a raccontarci il dramma che stanno vivendo a fronte di scadenze di pagamenti che non possono onorare». Per l’Anief «nel balletto di responsabilità tra Istruzione e Tesoro la riforma della scuola e l’innovazione dei sistemi di pagamento non sono serviti a nulla». Incombe la mannaia: «I tribunali saranno sommersi da migliaia di contenziosi». È il Natale triste della Buona Scuola. del 22/12/15, pag. 23 “Alla mensa dei poveri prima di andare in classe Ma di noi nessuno parla” Maria Teresa Martinengo «Mi sono organizzato per avere libera l’ora tra le undici e mezzogiorno: fino a venerdì, quando si è conclusa la sostituzione malattia che stavo facendo, andavo alla mensa del Sacro Cuore, poi tornavo a scuola. Ora ho accettato una supplenza fino al 30 giugno in due serali, avrò più tempo. So di non essere il solo insegnante a fare questa vita. Non ci pagano da settembre: chi è solo e non è ricco di famiglia a questo punto non ce la fa più». Il professor M.N., 60 anni, abilitazione in Metodologie operative nei servizi sociali, laurea in Psicologia, insegna soprattutto nei corsi serali da sedici anni. A Torino è un riferimento per il suo impegno per i diritti dei disabili e degli immigrati. Vederlo tirar fuori dal portafogli la tessera della mensa dei poveri è un’umiliazione anche per chi lo sta ad ascoltare. Perché M.N. lavora per lo Stato, nella scuola dello Stato. «Finora del fatto che non ci stanno pagando s’è parlato poco, è vero. Forse - ragiona il professore che dieci anni fa aveva abbandonato la formazione professionale per l’Istruzione - perché chi vive questa situazione difficile lo fa in modo privato, ci si vergogna. Ci sono colleghi venuti dal Sud che devono farsi mandare i soldi da casa, c’è chi ha avuto un prestito dal preside per pagare il treno e poter andare a lavorare. E c’è chi non ha potuto accettare una supplenza perché, in questa situazione, non avrebbe avuto i soldi per pagarsi il trasporto». Il tono pacato esprime una tristezza profonda. «Siamo noi a doverci vergognare? Sì, arrivare alla mensa è ammettere una discesa. Ma se da settembre a Natale hai ricevuto in tutto lo stipendio di quindici giorni e sei indietro con affitto e bollette, allora pensi di essere fortunato a vivere a Torino, dove l’aiuto alimentare a chi è in difficoltà non manca». Ai volontari della mensa ha spiegato la situazione, lo hanno accolto. «Spero che il mio problema non duri a lungo, spero di poter lasciare il posto ad un’altra persona». M.N. sorride. «Nel 2008 - ricorda - ero stato alla mensa del Cottolengo per una piccola inchiesta sugli immigrati stranieri e la crisi, scrivevo per una rivista che allora veniva pubblicata a Torino. Mi aveva impressionato il silenzio: facevano quattro turni, bisognava mangiare in fretta. Al Sacro Cuore l’ambiente è più familiare, ma nessuno parla dei propri guai». Al professore spettano tre mesi e mezzo di stipendio, la tredicesima e la liquidazione dell’anno scorso. «Chissà quando arriveranno. E se arriverà tutto insieme, la beffa sarà che scatterà l’aliquota e pagherò più tasse. Certo, avessi saputo che non ci avrebbero pagato fino a gennaio, sarei rimasto con il sussidio di disoccupazione. Per vivere. Non è bello dire che ti spingono a comportarti così. Con le mie competenze e il mio punteggio, comunque, un posto nella scuola so di trovarlo in qualunque momento 49 dell’anno», spiega con disagio. Il poco denaro ricevuto fin qui M.N. racconta di averlo usato per coprire qualche debito. «Mi sono solo permesso di mandare i fiori a mia mamma per il compleanno. Quando arriveranno gli altri soldi, sistemerò subito il debito con la banca e l’affitto. Sono fortunato: la mia padrona di casa è un’ex insegnante, capisce cosa sta succedendo». del 22/12/15, pag. 25 Vacanze studio e laboratori scuole a caccia di mecenati Dal Veneto alla Sicilia, le piattaforme web e le iniziative di licei e istituti “Così finanziamo progetti e idee altrimenti destinati a restare sulla carta” CORRADO ZUNINO ROMA. Le scuole italiane che sanno stare al mondo progettano. Poi si danno da fare per trovare i soldi necessari a rendere i progetti realizzazioni. Si sta affermando una piattaforma su internet, schoolraising, che ha compreso quante classi del fare ci siano nell’intraprendente istruzione italiana e ha iniziato a selezionare i progetti più efficaci, li ha scadenzati, ne ha pubblicato gli obiettivi (in denaro) e il numero dei giorni necessari per raggiungerli. L’ultima idea è dei bambini della scuola elementare Titù di Treviso, istituto che contempla anche materne e medie. La fiammella iniziale, la start up creativa, si è accesa tra i banchi dei sei-dieci anni: vogliamo recuperare l’ex scuola elementare Cantù, edificio storico abbandonato. Va detto, la nuova scuola -- la Titù -- è una cooperativa sociale: i suoi dirigenti hanno raccolto la scintilla naturalmente, l’hanno organizzata ottenendo l’affidamento dell’edificio da parte del Comune. I genitori, quindi, si sono fatti progettisti e hanno chiesto collaborazione agli anziani del quartiere, che nel vecchio- nuovo istituto troveranno uno spazio insieme al coro, al teatro, alla scuola edile. Tutti insieme hanno fin qui recuperato 2.700 euro da 62 finanziatori, la maggior parte anonimi. Nei prossimi 37 giorni devono trovarne altri 7.300. All’ex Cantù serve riparare il tetto, piastrellare le aule, rifare i bagni (quindi, bisognerà girare il 10 per cento del finanziamento alla piattaforma schoolraising). La quarta C del liceo delle scienze umane Fabio Filzi, Rovereto, venti ragazze e due maschi, tutti sopra la media del sette, sono stati fulminati dal vulcanico prof di scienze e il prossimo 20 luglio voleranno tutti e ventidue alle Isole Svalbard per capire concretamente, tra i ghiacci, come nasce la ricerca, quale apporto offre alla futura didattica. Nel dettaglio, si studierà da vicino come nascono i dossier sui cambiamenti climatici. Di quindici giorni di viaggio scientifico, tre andranno in un’esplorazione naturalistica, il resto in visite al Cnr e ai più importanti centri mondiali. «Vogliamo girare un documentario e partecipare al Festival di Giffoni». Il sito di crowdfunding ha già consentito a scuole di finanziare l’acquisto di una stampante in 3D (Parma), a studenti- scienziati di costruire robot (Vicenza, Pontedera, altri istituti). In questi giorni offre altre trentatré possibilità. Servono, in tutto, 75mila euro, ne sono stati recuperati 35.711. Ma non c’è solo il sito del giovane imprenditore sociale Guglielmo Apolloni. Sempre più le scuole diventano incubatrici di idee, quasi sempre legate al 50 territorio circostante. E sempre più adolescenti si trasformano in fundraiser e autofinanziatori. Fanno ripetizioni, per questo, vendono torte sui sagrati. Gli studenti del liceo Marchesi di Mascalucia (Catania), per esempio, stanno salvando un cinema di quartiere. Così si raccontano: «Siamo ragazzi che vanno regolarmente nelle multisala delle grandi catene commerciali, conosciamo le ultime novità, quasi nulla della storia del cinema. Vogliamo riempire questo vuoto». I giorni di raccolta sono scaduti, la cifra recuperata è 2.250 euro: bisogna arrivare a tremila. Si chiedono soldi, in rete e per strada, per fabbricare un cortometraggio sulla vita comparata di uno studente italiano e uno straniero, realizzare un video su come si salva il mare dalla plastica, comprare scarpe e tute da fitness per competere nei tornei studenteschi appena iniziati. 51 ECONOMIA E LAVORO del 22/12/15, pag. 1/3 La crisi delle banche riflette le difficoltà delle piccole imprese nel Nordest e al Centro. Gli istituti di credito hanno lo stesso appeal di sindacati e partiti Crolla la fiducia negli istituti di credito ormai sono affidabili solo per il 16% ILVO DIAMANTI La fiducia nelle banche è in declino. Non è certo una sorpresa né una novità. Ma la novità è che il disincanto ha colpito le aree dove il rapporto con il credito era, tradizionalmente, più solido. Quasi di complicità. Fra società e banche locali. D’altronde, la crisi ha “investito” (sia detto senza ironia) soprattutto istituti di credito locali del Centro e del Nordest. La Banca Popolare dell’Etruria, la Banca delle Marche e, prima ancora, il Monte dei Paschi di Siena, da una parte. La Popolare di Vicenza e Veneto Banca, dall’altra. E se osserviamo le 16 banche “commissariate” dalla Banca d’Italia, oltre metà (10, per la precisione) hanno radici dal Trentino all’Emilia Romagna. Dal Veneto alla Toscana. Fino all’Abruzzo. Da Folgaria a Padova e a Loreto. Da Ferrara a Chieti (che rientrano nel recente decreto del governo). Non si tratta di un profilo casuale, per chi abbia analizzato le tendenze dello sviluppo economico e territoriale degli ultimi trent’anni. Disegna, infatti, la mappa delle aree di piccola impresa. E coincide, largamente, con la “Terza Italia”, delineata da Arnaldo Bagnasco. Ripresa, in seguito, da Giorgio Fuà, nel modello NEC. Non a caso: Nord-Est (Giorgio Lago lo rinominò Nordest, senza trattino)/ Centro. Un’Italia distinta dalle altre perché si sottrae ai sistemi di regolazione tradizionali, centrati sulla grande impresa (il Nord Ovest) e sullo Stato assistenziale (il Mezzogiorno). Questa Italia di Mezzo, invece, ha coltivato la complicità fra economia, società e politica. Fra “grandi partiti e piccole imprese” (per citare un importante volume di Carlo Trigilia). Zone bianche - il Nordest - e rosse – il Centro. Qui le banche sono anch’esse “locali”. Raccolgono il risparmio e lo erogano, in modo diffuso. Nel territorio. Così, la crisi del sistema bancario riflette – e moltiplica - le difficoltà dei sistemi aziendali che, in queste aree, hanno perduto la spinta propulsiva degli anni Ottanta e Novanta. Ma risente anche della fine dei grandi partiti di massa, DC e PCI, che garantivano coesione e rappresentanza politica. Non solo ai cittadini, ma anche agli interessi. L’andamento della fiducia nei confronti delle banche riproduce queste tendenze. Il grado di “confidenza” verso le banche, fra gli italiani, agli inizi degli anni 2000 era intorno al 30% (Oss. Demos per Repubblica). Non moltissimo, ma, comunque, non poco. D’altronde le banche sono percepite in modo diverso, secondo la scala territoriale. Sul piano nazionale e globale, sono le istituzioni della Finanza. Che si distingue dall’Economia – intesa come attività di produzione e di commercio dei beni. Per spiegarlo, Edmondo Berselli nel suo breve e straordinario saggio di commiato – “L’economia giusta” – ricorre alle parole di Mickey Rourke, in “Nove settimane e mezzo”. Interpellato da Kim Basinger su cosa facesse, risponde, in modo definitivo: “I make money by money”. Faccio soldi con i soldi. Per questo è difficile immaginare come le istituzioni bancarie possano mantenere un rapporto stretto e duraturo, con la società. In tempi di tempeste monetarie e finanziarie globali, il loro 52 “credito” (non per caso sinonimo di “attività bancarie”) si logora. Infatti, dopo la crisi del 2008, la fiducia nei loro confronti è calata sotto il 20%. E negli ultimi anni è scesa ulteriormente, attestandosi fra il 12 e il 16%. (Sondaggio Demos, dicembre 2015). Poco più del sindacato e, ovviamente, dei partiti. Tuttavia, come si è detto, le banche sono “anche” riferimenti sociali e locali. Se il “credito” delle Banche, in generale, nel 2013, era intorno al 13%, la fiducia nella “banca utilizzata più spesso” saliva oltre il 50%. D’altronde, negli ultimi anni, gli italiani hanno continuato a utilizzare le banche, anche se in modo diverso dal passato. Lo conferma il 49simo Rapporto del Censis, presentato nelle scorse settimane. Gli italiani, sottolinea il Censis, hanno continuato ad accrescere il loro patrimonio finanziario. Ma hanno adottato strategie “fortemente difensive”. Così hanno privilegiato, sempre più, il contante e i depositi bancari, mentre sono crollate le azioni e le obbligazioni. Negli ultimi mesi questa tendenza è proseguita. Si assiste, così, a un costante aumento della liquidità e, insieme, a un incremento di assicurazioni e fondi pensione. Mentre gli investimenti in azioni e obbligazioni degli italiani continuano a ridursi. (E anche questo spiega le operazioni, talora poco trasparenti, di alcune banche per orientare i clienti in questa direzione.) D’altro canto, appunta il Censis, “il risparmio è ancora la scialuppa di salvataggio nel quotidiano”, visto che, nell’anno trascorso, 3,1 milioni di famiglie hanno dovuto ricorrere ai risparmi per affrontare le spese mensili. Così, in questo clima di grande incertezza, non sorprende la ripresa delle transazioni e dei mutui immobiliari. La casa, dopo anni di stallo, sembra essere tornata un (bene) rifugio. In tutti i sensi. Certo, le tempeste che hanno coinvolto - e talora sconvolto – le banche, soprattutto locali, non hanno origine “solo” finanziaria. Così, il loro impatto, le loro conseguenze non riguardano e non riguarderanno “solo” economia e finanza. Ma riflettono le – e si rifletteranno nelle – trasformazioni e tensioni dello sviluppo territoriale. Per questo a risentirne maggiormente sembrano le regioni della Terza Italia. Del Centro e del Nordest. Il “credito” nei confronti delle banche, infatti, negli ultimi anni è calato maggiormente proprio lì. Di circa 10 punti nel Nordest e nel Centro, mentre nel Nord Ovest è diminuito di 4 punti e nel Mezzogiorno di 7. Dietro alla crisi delle banche si coglie, così, la crisi del rapporto fra economia, società e politica. Nelle regioni dove lo sviluppo si è rivelato più intenso, negli ultimi trent’anni. Proprio lì, le piccole imprese non sono più re-attive come un tempo. I partiti di massa sono scomparsi. Al loro posto: i “post-partiti”. (descritti da Paolo Mancini, in un recente saggio edito dal Mulino). Accanto alle post-banche. Anch’esse “sospese” in uno spazio senza territorio. Simboli e sintomi di una post-Italia dove mi sento spaesato. E che, francamente, mi sarei “risparmiato”. 53