Diritti fondamentali e protezione delle

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Diritti fondamentali e protezione delle
Diritti fondamentali e protezione delle “istanze collettive di diversità”: il caso delle minoranze
linguistiche
di Paola Torretta
in Diritto pubblico comparato ed europeo, 2/2014, pp. 695-734
SOMMARIO: 1. Minoranze linguistiche e “soggetti collettivi”: la soluzione del
Costituente. Note introduttive - 2. I “diritti collettivi” delle minoranze linguistiche:
dall’attuazione dell’art. 6 Cost. alla più recente giurisprudenza della Corte costituzionale - 3.
Lo sviluppo di una ‘dimensione collettiva’ dei diritti delle minoranze linguistiche in ambito
internazionale e sovranazionale - 4. Europa e minoranze linguistiche. La Convenzione
europea dei diritti dell’uomo e la Carta europea delle lingue regionali: il riconoscimento di
diritti individuali appartenenti alla fera dei gruppi linguistici minoritari - 4.1. Unione
europea e minoranze linguistiche: la prospettiva dei Trattati - 5. Le minoranze linguistiche
nella giurisprudenza delle Corti sovranazionali europee. La Corte europea dei diritti
dell’uomo di fronte a rivendicazioni individuali a ‘valenza collettiva’- 5.1. I gruppi linguistici
minoritari come diretti destinatari delle tutele riconosciute dalla Convenzione europea dei
diritti dell’uomo - 5.2. La Corte di Giustizia e le minoranze linguistiche: un divieto di
discriminazione a senso unico? - 6. Le prospettive di sviluppo della giurisprudenza della
Corte di Giustizia dopo Lisbona. Per una tutela delle minoranze non solo “in entrata”, ma
anche “dentro” il sistema UE - 7. Verso un sistema europeo (integrato) di protezione delle
minoranze? Osservazioni conclusive
1. Il tema della protezione delle minoranze è certamente ampio e denso di profili di
indagine. Basti pensare ai diversi approcci definitori che storicamente hanno cercato di
dare una compiuta nozione del fenomeno minoritario1.
1
Si segnala, al riguardo, il parere della Corte Permanente di Giustizia Internazionale, che
nell’interpretazione dei trattati di pace conclusi dopo il primo conflitto mondiale, e in particolare
del Trattato Grecia-Bulgaria (1919), definisce minoranza «a group of persons living in a given country
having a race, religion, language and tradition in a sentiment of solidarity, with a view to preserving their traditions,
maintaining their form of worship, ensuring the instruction upbringing of their children in accordance with the spirit
and traditions of their race and mutually assisting one other» (PCIJ, Interpretation of the Convention between
Greece and Bulgaria respecting reciprocal emigration. Advisory Opinion of 31/7/1930, Series B, n. 17, 33).
E’ nota poi la nozione di minoranza elaborata da Francesco Capotorti nel Rapporto speciale della
sottocommissione delle Nazioni Unite per la lotta contro la discriminazione e la protezione delle
minoranze (dal titolo «Etude des droits des personnes appartenant aux minorités ethniques, religieuses et
linguistiques»), nella quale si parla di un gruppo «numericamente inferiore al resto della popolazione di uno
stato, in una posizione non-dominante, i cui membri - essendo cittadini dello stato - posseggono caratteristiche
etniche, religiose o linguistiche che differiscono da quelle del resto della popolazione e mostrano, quanto meno
implicitamente, un senso di solidarietà inteso a preservare la loro cultura, tradizioni, religione o lingua».
1
Scopo di questo studio è l’individuazione delle garanzie riservate alle minoranze in
quanto soggetti collettivi, e non solo dal punto di vista delle tutele riconosciute ai singoli
che vi appartengono.
Ciò che implica, prima di tutto, l’analisi dell’inquadramento di queste comunità ristrette
ad opera degli ordinamenti giuridici (sul piano nazionale, internazionale e sovranazionale),
nonché delle tecniche di tutela delle istanze dalle stesse rivendicate.
L’ambito di osservazione prescelto per la ricerca qui condotta è quello della protezione
degli idiomi minoritari, in ragione della valenza collettiva che il fattore linguistico assume
quale carattere espressivo dell’identità culturale condivisa da una data compagine sociale 2. Il
tema, peraltro, proprio sotto il profilo della garanzia di interessi riferibili a situazioni
minoritarie, offre una chiara prospettiva di integrazione dei modelli di tutela dei diritti
fondamentali in ambito nazionale ed europeo.
Muovendo dal panorama normativo interno, il territorio italiano è fortemente
caratterizzato dall’insediamento di gruppi linguistici minori, tanto che la Costituzione,
riconoscendo il ruolo fondamentale di queste presenze nello scenario di una democrazia
pluralista, pone la tutela delle lingue minoritarie tra i valori fondativi e irrivedibili
dell’ordinamento3. Segno che la questione non rimane confinata alla ‘gestione’ di alcuni
territori del Paese dove è maggiore la concentrazione di questi idiomi particolari, e quindi
alla sfera dei rapporti fra Stato e Regioni, ma è assunta come profilo che, insieme ad altri
valori, investe e caratterizza la struttura stessa del nuovo ordinamento repubblicano 4,
delineando un “interesse” che, come ha detto la Corte costituzionale, ha valenza
“nazionale”5.
La formula dell’art. 6 Cost., secondo cui «la Repubblica tutela con apposite norme le minoranze
linguistiche» esplicita la scelta del Costituente di assumere questi gruppi come entità collettive
destinatarie di interventi di tutela e promozione da parte dei pubblici poteri.
2
Significative, al riguardo, le osservazioni di R. Dworkin, A Matter of Principle, Cambridge
(Mass.), Harvard University Press, 1985, 230, che riconosce come «The center of a community’s
cultural structure is its share language». La lingua viene definita dall’A. come un bene né pubblico,
né privato, ma «inherently social», con la conseguenza che «We are all beneficiaries or victims of what is
done to the language we share» (corsivi di chi scrive).
3
Così la costante giurisprudenza della Corte costituzionale (sent. 7-7-1988, n. 768, in Le Regioni,
1989, 1264; 19-6-1995, n. 261, in Foro it., 1996, I, 2677; 29-1-1996, n. 15, in Le Regioni, 1996, 706) e,
da ultimo anche Corte cost. 22-5-2009, n. 159, in Giur. it., 2010, 5, 1035. Per ampi riferimenti sui
lavori preparatori della disposizione in oggetto, v. A. Pizzorusso, Art. 6 Cost., in Commentario della
Costituzione a cura di G. Branca, Bologna-Roma, Zanichelli-Foro italiano, 1975, 305.
4
V. Piergigli, Art. 6 Cost., in Commentario della Costituzione, in R. Bifulco, A. Celotto, M. Olivetti
(cur.), Torino, Utet, 2006, 157. In tal senso, v. anche Corte cost. 15/1996, cit.
5
Cfr. Corte cost. 28-7-1987, n. 289, in Foro it., 1987, I, 2918. La concezione delle minoranze
linguistiche come valore unitario dell’ordinamento repubblicano è stata recepita anche dalla l.
482/99, che non a caso ha provveduto al riconoscimento ufficiale non solo delle minoranze
nazionali presenti per lo più nelle regioni di confine, ma anche degli altri gruppi linguistici di antico
insediamento.
2
L’insediamento delle lingue minoritarie storiche interessa, sebbene in misura diversa sul
piano ‘numerico’, gran parte della penisola, e da questo punto di vista il tema si presta ad
essere analizzato alla luce dell’evoluzione dei rapporti fra Stato e autonomie territoriali.
Inoltre, la questione del trattamento degli idiomi minoritari ha coinvolto un numero
sempre maggiore di attori istituzionali nell’elaborazione di strumenti per la garanzia delle
peculiarità che contraddistinguono queste collettività ‘parziali’, con ciò delineando un
articolato sistema di sinergie fra diversi piani di normazione (statali e sovrastatali).
E’ possibile, pertanto, provare a definire gli ‘spazi’ di garanzia che le minoranze
linguistiche sono riuscite ad acquisire, nella loro ‘soggettività plurale’6, nell’ambito della
tutela multilivello dei diritti che contraddistingue le democrazie europee contemporanee.
A questo riguardo, occorre da subito osservare che la protezione delle minoranze come
soggetti collettivi non si esaurisce nella tutela antidiscriminatoria (tradizionalmente di
stampo individualistico), ma tocca nel vivo la ‘tensione’ dialettica fra i concetti di
eguaglianza formale e sostanziale, fra esigenze di uniformità e approcci promozionali nei
confronti delle realtà minoritarie; fra assimilazione e riconoscimento del diritto ad essere
‘diversi’.
Il perseguimento dell’eguaglianza sostanziale, con misure speciali di tutela ‘positiva’, è un
obiettivo costituzionale che «guarda inevitabilmente all’elemento collettivo, ai gruppi di
appartenenza dei soggetti preferiti»7, perché mira alla realizzazione della dimensione
‘comunitaria’ di interessi giuridicamente rilevanti8.
In linea con questa finalità, il diritto tiene conto delle situazioni di concreto svantaggio
dell’individuo sia come singolo, sia nel suo «essere parte di storie ed esperienze collettive»9,
vale a dire di formazioni sociali con le quali condivide, caratteri differenziali ma anche
bisogni e istanze di tutela10.
Ne deriva che il soddisfacimento di rivendicazioni del singolo che siano dirette a
superare disuguaglianze di fatto incide anche sulla posizione del gruppo, perché, pur
trattandosi di ‘richieste’ individuali, hanno una valenza anche “collettiva”.
Si tratta, infatti, di diritti legati all’identità dei soggetti e che, perciò, si qualificano proprio
per l’appartenenza di chi ne è portatore ad una determinata collettività. Non solo il singolo,
quindi, ma l’intera categoria di soggetti accomunati dalla medesima condizione di
6
Rispetto ad entità collettive, parla di una pluralità di soggetti concepiti «organicamente» e
«dotata di una volontà unitaria», E. Vitale, Introduzione. Le nuove frontiere della teorica dei diritti, in Id.
(cur.), Diritti umani e diritti delle minoranze, Torino, Rosenberg&Sellier, 2000, 13.
7
Così A. D’Aloia, Eguaglianza sostanziale e diritto diseguale. Contributo allo studio delle azioni positive
nella prospettiva costituzionale, Padova, Cedam, 2002, 229-230. Già però A. Pizzorusso, Art. 6 Cost.,
cit., 310-311 sottolinea come forme di «tutela «positiva»» siano alla base della garanzia di «situazioni
giuridiche soggettive «collettive»» delle minoranze.
8
In questo senso già S. Rodotà, Quale equità, in Pol. dir., 1974, 47 e B. Caravita, Oltre l’eguaglianza
formale. Un’analisi dell’articolo 3 comma 2 della Costituzione, Padova, Cedam, 1984, 162.
9
Ancora A. D’Aloia, Eguaglianza sostanziale e diritto diseguale, cit., 230.
10
E. Palici Di Suni Prat, Intorno alle minoranze linguistiche, Torino, Giappichelli, 2002, 2ᵃ ed, 18.
3
debolezza ‘strutturale’ diviene (anche solo di riflesso) destinataria degli strumenti attraverso
cui l’ordinamento interviene sui processi distributivi delle opportunità di partecipazione
attiva e di scelta, nonché di sviluppo umano e sociale.
La dinamica ora descritta emerge chiaramente da una lettura dell’art. 6 Cost. in
combinato disposto con altri principi supremi dell’ordinamento costituzionale.
Al verbo «tutela» è da riferire, in senso ampio, ogni azione che si riveli necessaria o
opportuna per preservare e valorizzare le situazioni linguistiche minoritarie. Rispetto a
questo significato, la norma dell’art. 6 esprime un’armoniosa integrazione fra le due
declinazioni (formale e sostanziale) dell’eguaglianza che sono racchiuse nell’art. 3 Cost 11.
Essa non solo attua, in termini di tutela negativa o antidiscriminatoria, il principio della
parità di trattamento di fronte alla legge (art. 3, c. 1), ma si pone anche come norma
programma che indirizza i pubblici poteri ad adottare misure apposite, anche di carattere
promozionale, idonee a realizzare un’effettiva inclusione di tutte le minoranze linguistiche
nell’ordinamento12, in un’ottica di reale partecipazione delle stesse alla vita della comunità
statale.
In altre parole, la tutela costituzionale fornita dall’art. 6 Cost. mira a garantire alle lingue
minoritarie una posizione di pari dignità sociale rispetto ad altri gruppi, in particolare nei
confronti della popolazione di lingua italiana, e in questo senso si spiega anche il richiamo
ad «apposite norme», teso a legittimare «un trattamento specificamente differenziato» per le
singole comunità linguistiche, così da «preservarne le specificità culturali ed impedire
forzate e irragionevoli assimilazioni13».
Inoltre, la protezione delle minoranze linguistiche attraverso una norma ad hoc appare
inscindibilmente collegata alla forma di Stato sociale pluralista che nell’art. 2 Cost.
riconosce la priorità assiologica dell’individuo quale soggetto portatore di bisogni, sia
spirituali sia materiali, tanto uti singulus quanto uti socius.
11
La disposizione dell’art. 6 Cost. è stata qualificata sia come norma derogatoria dell’art. 3 Cost.
(C. Esposito, Eguaglianza e giustizia nell’art. 3 della Costituzione, in Id., La Costituzione italiana. Saggi,
Padova, Cedam, 1954, 49 e P. Biscaretti Di Ruffia, Uguaglianza (principio di), in Nss. Dig. It., XIX,
Torino, Utet, 1973, 1091, nonché E. Palici Di Suni Prat, Minoranze, in Dig. disc. pubbl., IX, Torino,
Utet, 1994, 547 e Id., Intorno alle minoranze, cit., 15 ss.), sia come norma che dà svolgimento al
principio di eguaglianza, non solo nella sua accezione sostanziale (L. Paladin, Il principio costituzionale
di eguaglianza, Milano, Giuffrè, 1965, 283 e A. Pizzorusso, Art. 6 Cost., cit., 307), ma anche in quella
formale, se intesa come parametro per valutare la ragionevolezza delle distinzioni legislative (cfr. A.
Pizzorusso, Il pluralismo linguistico tra Stato nazionale e autonomie regionali, Pisa, Pacini, 1975, 36 ss.; P.
Carrozza, Lingue (uso delle), in Nss. Dig It., Agg., IV, Torino, Utet, 1983, 979; A. Cerri, Libertà,
eguaglianza, pluralismo nella problematicità della garanzia delle minoranze, in Riv. trim. dir. pubbl., 1993, 311
ss).
12
In tal senso ora anche G. Lattanzi, La tutela dei diritti delle minoranze in Italia, in
www.cortecostituzionale.it., 2013, 9.
13
Corte cost. 86/1975.
4
Da questo nesso discende l’obbligo dei pubblici poteri di farsi carico anche di «istanze
collettive di diversità»14, attraverso un sistema di garanzie che abbia ad oggetto la dignità
del singolo e la sua sfera di socialità, vale a dire la dimensione concreta di sviluppo della
persona. Non a caso, proprio nella lingua il Giudice delle leggi ha riconosciuto un «elemento
di identità individuale e collettiva di importanza basilare»15.
L’ordinamento italiano tutela le minoranze linguistiche quali “comunità intermedie” fra
l’individuo e lo Stato, riconosciute come ambiti essenziali di realizzazione della personalità
umana. Non rilevano come soggetti di diritto, ossia in quanto titolari di posizioni
soggettive proprie e direttamente azionabili dal gruppo16. Ma ciò non pregiudica la loro
natura di “collettività diffuse” che raggruppano individui legati da esigenze comuni
giuridicamente rilevanti17. Si tratta perciò di sfere sociali prive di soggettività giuridica in
senso stretto e di una propria organizzazione, ma alle quali sono riferibili interessi collettivi
affidati alla cura dell’ordinamento18, declinato in ogni sua articolazione istituzionale e
sociale19.
14
Sul punto, e con queste parole, J. Woelk, Il rispetto della diversità: la tutela delle minoranze
linguistiche, in C. Casonato (cur.), Lezioni sui principi fondamentali della Costituzione, Torino,
Giappichelli, 2010, 180. Per l’A., proprio il principio di valorizzazione delle formazioni sociali apre
«alla dimensione collettiva delle garanzie per la tutela dei diritti inviolabili dell’uomo» (179).
15
Corte cost. 15/1996.
16
Come illustra A. Pizzorusso, Minoranze e maggioranze, Torino, Einaudi, 1993, 67, è difficile che
gli ordinamenti procedano alla «entificazione come persone giuridiche» delle minoranze. Un simile
approccio verrebbe a configurare le minoranze come un «distinto soggetto giuridico» e
implicherebbe «il preliminare conferimento della personalità giuridica (o di una più ridotta forma di
soggettività) ad un ente il quale viene così a rappresentare ufficialmente la minoranza, nello stesso
modo in cui lo Stato rappresenta l’intera comunità nazionale» (cfr. A. Pizzorusso, I gruppi linguistici
come soggetti culturali, come soggetti politici, come soggetti giuridici, Relazione al II Mercator International
Symposium: Europe 2004: A new framework for all languages?, Tarragona-Catalunya, 27-28 febbraio
2004, paper, 9).
17
Richiamando il concetto di collettività «amorfe e fluttuanti» di W. Cesarini Sforza, Diritto dei
privati (1929), Milano, Giuffrè, 1963, 30, V. Crisafulli, Lezioni di diritto costituzionale, I, Introduzione al
diritto costituzionale italiano, Padova, Cedam, 1970, 2ᵃ ed., 3 parla di «massa di individui» in cui si
affermi «la consapevolezza di essere tra loro legati da un interesse collettivo, pur se al tempo stesso
proprio di tutti i soggetti che ne fanno parte; che non può essere soddisfatto che da tutti insieme,
mercè la loro reciproca cooperazione». Ricorre a questo tipo di inquadramento giuridico per le
minoranze A. Pizzorusso, Art. 6 Cost., cit., 320; Id., Minoranze etnico-linguistiche, in Enc. dir., XXVI,
Milano, Giuffrè, 1976, 533 e anche Id., Minoranze e maggioranze, cit., 65. Nello stesso senso v. ora
anche S. Santoli, Le minoranze come comunità intermedie nel quadro della problematica dei “diritti collettivi”, in
Forum Quad. cost., 2002, 1 ss.
18
In tal senso ancora A. Pizzorusso, Minoranze etnico-linguistiche, cit., 533 e Id., Minoranze e
maggioranze, cit., 67, per il quale le minoranze sono «collettività di persone sprovviste di qualunque
possibilità di azione giuridica diretta, ma che l’ordinamento riconosce come centri di riferimento di
un compendio di interessi giudicati meritevoli di tutela». Dello stesso avviso anche R. Toniatti,
Minoranze (diritti delle), in Enc. delle Scienze sociali, V, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1996,
700 ss., che parla di «minoranze diffuse».
19
Secondo la teoria istituzionalista di S. Romano, L’ordinamento giuridico, Pisa, Mariotti, 1918, 27 e
106.
5
La stessa Corte costituzionale ha accolto di recente questa impostazione, riconoscendo
che la nozione di minoranza linguistica manca «del riferimento a uno specifico soggetto, per la
difficoltà di concentrare entro schemi di imputazione tipici un insieme di relazioni, anche giuridiche» che
questa esprime. Tuttavia, essa allude a «comunità necessariamente ristrette e differenziate, nelle quali
possono spontaneamente raccogliersi persone che, in quanto parlanti tra loro una stessa “lingua”, diversa da
quella comune, custodiscono ed esprimono specifici e particolari modi di sentire e di vivere o di convivere».
La garanzia delle specificità linguistiche rientra, in sostanza, nella tutela del pluralismo
tipico di una comunità nazionale ‘composita’. Non a caso, il Costituente ha affidato alla
«Repubblica», intesa come “istituzione complessiva”, il compito di preservare e promuovere le
minoranze linguistiche, cosicché tutti i livelli di governo (artt. 5 e 114 Cost.), ed anche i
soggetti della società civile, sono legittimati (e anzi tenuti) alla tutela delle istanze da queste
rivendicate.
In particolare, Regioni ed enti territoriali minori sono chiamati a caratterizzare i propri
ordinamenti autonomi anche in funzione della presenza nel proprio ambito di specificità
linguistico-culturali20. Sul piano sociale, invece, la Costituzione non osta, ma anzi favorisce
l’operato di enti, partiti o altre forme associative che, in virtù del principio di sussidiarietà
orizzontale (oggi esplicitato nell’art. 118 Cost., ma intrinseco già al principio personalista
dell’art. 2 Cost.), intendano assumere gli interessi delle suddette minoranze come obiettivi
della propria azione21.
La possibilità di configurare diritti in capo ai gruppi è questione che, soprattutto verso la
fine degli anni ottanta, ha animato il dibattito filosofico e giuridico degli ordinamenti
democratici occidentali, diviso fra correnti che ritengono la categoria dei “diritti collettivi”
incompatibile con il principio del costituzionalismo liberale, per escludere in radice il
20
Cfr. V. Piergigli, Art. 6 Cost., cit., 158, secondo cui «soprattutto in relazione alle comunità
linguistiche meno consistenti ovvero disperse sul territorio, gli enti locali appaiono le sedi più
congegnali per la realizzazione dei una tutela giuridica realmente positiva ed efficace». Non a caso,
«l’adozione di una forma di stato di tipo federale o ragionale», come opportunamente sottolinea A.
Pizzorusso, I diritti degli individui, dei gruppi e delle minoranze, in E. Vitale (cur.), Diritti umani e diritti
delle minoranze, cit., 76, rappresenta una delle modalità attraverso le quali «le strutture dei pubblici
poteri vengono adattate alle esigenze della tutela minoritaria». La protezione delle minoranze
linguistiche, inclusa dalla Costituzione nei valori che identificano il nucleo forte dell’ordinamento
repubblicano, è dunque da annoverare fra gli interessi generali delle collettività locali alla cui
rappresentanza gli enti territoriali sono preposti. In questa direttrice costituzionale si inserisce, ad
esempio, l’istituto della «proporzionale etnica», che in Alto Adige disciplina l’accesso al pubblico
impiego e ad altri benefici in modo da rispettare la consistenza dei tre gruppi linguistici presenti sul
territorio (italiano, tedesco e ladino).
21
Sul punto, v. A. Pizzorusso, I gruppi linguistici come soggetti culturali, cit., 4 ss., ma già Id., I diritti
degli individui, dei gruppi e delle minoranze, cit., 79, il quale evidenzia come la rappresentanza politica di
gruppi minoritari può essere assunta sia da partiti o movimenti che, in ragione di questo specifico
obiettivo, si identificano come «“religiosi” o “etnici” o “linguistici”», sia da «forze politiche
indifferenziate» che decidono di inserire nei propri programmi e attività anche il sostegno di
particolari situazioni minoritarie.
6
possibile conflitto fra questi e le libertà individuali22, e orientamenti che invece criticano
una visione atomistica dell’uomo, estraneo a qualsiasi esperienza di vita comunitaria e ai
vincoli che ne conseguono23.
Il punto di equilibrio fra tesi di matrice liberale e pensiero comunitarista viene, il più
delle volte, ricercato nella previsione di diritti specificamente legati ad una particolare
condizione di diversità, nella quale il gruppo si identifica e attorno alla quale si aggrega24. In
questo senso, i diritti collettivi sarebbero diritti legati all’identità dell’individuo, la quale si
esprime nella sua partecipazione ad una data formazione sociale25.
22
L’attribuzione di diritti a “corpi intermedi” comporterebbe, infatti, la necessità di ammettere la
prevalenza delle esigenze di carattere comune sui diritti individuali, conseguenza inaccettabile per
gli ordinamenti di tradizione liberale (M. Hartney, Some Confusion Concerning Collective Rights, in
Canadian Journal of Law and Jurisprudence, 1991, 219; A. Gewirth, Human Rights Essays on Justification
and Applications, Chicago, Chicago University Press, 1982). La concezione del singolo come
esclusivo titolare di diritti, presupposto della pretesa universalistica delle libertà fondamentali e
dell’eguaglianza giuridica (che accomuna il pensiero liberale da John Locke a Thomas Hobbes, fino
ai più moderni teorici liberali come John Rawls e Ronald Dworkin), porta infatti a rifiutare la
configurazione di situazioni giuridiche in capo a gruppi e ad entità non riconducibili ai membri che
ne sono parte (cfr., sul punto, A.E. Galeotti, I diritti collettivi, in E. Vitale (a cura di), Diritti umani e
diritti delle minoranze, cit., 30).
23
Cfr. M. Sandel, Liberalism and the Limits of Justice (1982), tr. it. a cura di S. D’Amico, Il liberismo e
i limiti della giustizia, Milano, Feltrinelli, 1994; Ch. Taylor, Multiculturalism and “The Politics of
Recognition” (1992), tr.it. Multiculturalismo. La politica del riconoscimento, a cura di G. Rigamonti, Milano,
Anabasi, 1993, 41 ss. A favore del superamento del prevalente modello individualistico dei diritti al
fine di ricomprendervi anche i diritti di entità collettive, anche M.A. Jovanović, Recognizing Minority
Identities Through Collective Rights, in Human Rights Quarterly, 27/2005, 625 ss. Per una ricostruzione
del confronto, su questo tema, fra la teoria politica liberale e la filosofia del comunitarismo, v. A.
Ferrara (cur.), Comunitarismo e liberismo, Roma, Editori Riuniti, 2000 e N. Torbisco, Il dibattito sui
diritti collettivi delle minoranze culturali. Un adeguamento delle premesse teoriche, in questa Rivista, 2001, 117
ss.
24
Tende, in tal modo, a svuotare la contrapposizione fra liberismo e comunitarismo J.
Habermas, L’inclusione dell’altro. Studi di teoria politica, tr. it. a cura di L. Ceppa, Milano, Feltrinelli,
2008, 54 ss. (ma v. anche Id., Ch. Taylor, Multiculturalismo. Lotte per il riconoscimento, Milano,
Feltrinelli, 1998, 69). In una prospettiva “riduzionista” dei diritti collettivi, riconducibili a diritti
individuali, sembrano porsi anche W. Kimlicka, Multicultural Citizenship (1995), tr. it. a cura di G.
Gasperoni, La cittadinanza multiculturale, Bologna, Il Mulino, 1995, 65 ss., che parla in modo
generico di «diritti differenziati», o legati ad una «cittadinanza differenziata», per evidenziare che
non si tratta di situazioni giuridiche soggettive a carattere universale, ma riconosciute in funzione
dell’appartenenza di gruppo, e Y. Tamir, Against Collective Rights, in C. Joppke, S. Lukes (cur.),
Multicultural Questions, Oxford, Oxford University Press, 1999, 158 ss.
25
Si inserisce in questo ordine di considerazioni N. Torbisco, Il dibattito sui diritti collettivi delle
minoranze culturali, cit., 134, per il quale «è possibile concepire un’idea di diritti collettivi meno
controversa, secondo la quale il titolare del diritto può continuare ad essere l’individuo, del quale,
in ogni caso deve essere preso in considerazione il suo benessere personale». Nel perseguimento di
tale obiettivo, il riconoscimento di diritti collettivi pare tradursi «in una distribuzione diseguale –
non omogenea – dei diritti, in funzione dell’appartenenza a gruppi distinti al cui interno si
producono beni culturali intrinsecamente preziosi per il benessere individuale». Analogamente,
anche R. Pirosa, Multiculturalismo, dibattito teorico e soluzioni normative, in www.altrodiritto.unifi.it.
definisce i diritti collettivi «come diritti identitari, riconducibili all’appartenenza ad un gruppo».
7
La costruzione in termini ‘individualistici’ della tutela dei gruppi minoritari riesce così a
superare le difficoltà di attribuire situazioni giuridiche soggettive ad entità non
precisamente identificabili, dai contorni ‘fluidi’, e non pienamente riconducibili ai membri
che le compongono. Si tratta però, come la dottrina ha evidenziato, di diritti individuali che
trovano la propria ragion d’essere nell’esercitare «una funzione collettiva», nella capacità di
assicurare un modello di protezione che «va oltre la mera somma delle garanzie a favore dei
singoli componenti» di una comunità sociale26.
Come si diceva, il ricorso allo ‘strumento’ giuridico dell’eguaglianza sostanziale (o
inclusiva) appare un po’ il paradigma di questa logica compromissoria e, allo stesso tempo,
la chiave di lettura dei diritti di collettività indefinite riconosciute all’interno
dell’ordinamento27. Non a caso, il sistema delle azioni positive appare congegnato proprio
per rivolgersi alla tutela di «minoranze diffuse», vale a dire «prive di una propria
organizzazione giuridico-formale»28.
Un modello che possiamo ritrovare anche nell’art. 6 Cost., la cui vocazione
‘comunitarista’ si esprime nel richiedere “apposite” misure preferenziali, o comunque
speciali, che integrino una specifica protezione degli interessi in cui si manifesta la matrice
unitaria (identitaria) dei gruppi linguistici minoritari29.
2. La presenza di molteplici minoranze linguistiche in Italia è legata, dapprima, alle
vicende storiche dell’unificazione nazionale e, poi, all’espansione territoriale del Paese in
virtù dei territori annessi a seguito del primo conflitto mondiale (Trento e Trieste) 30. Una
conquista, quella dell’unità sul piano politico, legislativo e amministrativo, cui non
corrispose però una condivisione degli ‘strumenti’ comunicativi, ma anzi l’Italia unita
26
Così F. Palermo, J. Woelk, Diritto costituzionale comparato dei gruppi e delle minoranze, Padova,
Cedam, 2011, 2ᵃ ed., 45-46.
27
Definisce l’eguaglianza sostanziale un istituto che «permett[e] di operare un confronto fra
“gruppi”, e non soltanto tra individui» S. Scarponi, Principio di uguaglianza e pari opportunità, in C.
Casonato (cur.), Lezioni sui principi fondamentali, cit., 137 ss.
28
A. Pizzorusso, Minoranze e maggioranze, cit., 65 e 83 s.
29
Sul punto, però, sottolinea la necessità di una qualificazione giuridica dei diritti collettivi
distinta dalle azioni positive M.A. Jovanović, Recognizing Minority Identities, cit, 638-639, in quanto
mentre i primi si riferiscono a situazioni «permanenti», le misure preferenziali riconosciute a favore
di alcuni gruppi sono strumenti eccezionali e temporanei, perché, essendo preposti a superare una
condizione di svantaggio o un’ingiustizia subita da una particolare categoria di soggetti, sono
destinati a rimanere in vigore solo fino a quando tale obiettivo non è stato conseguito.
30
Come è noto, il primo conflitto mondiale si concluse con il dissolvimento dell’Impero austroungarico e l’annessione all’Italia di parte dei territori promessi a seguito dei patti segreti di Londra
stipulati dal Regno d’Italia con i Paesi della Triplice intesa. Tale acquisizione comportò la presenza
nel territorio nazionale di due consistenti (e territorialmente concentrati) gruppi di lingua tedesca e
slava.
8
mostrava un ridotto uso della lingua italiana e una marcata ‘divisione’ linguistica, articolata
in molteplici forme dialettali, proprie delle differenti zone della penisola31.
Com’è noto, in Assemblea costituente il variegato panorama linguistico presente
all’interno dei confini italiani fu illustrato dalla Commissione per gli studi sulla
riorganizzazione dello Stato secondo uno schema che da subito evidenziò la diversa
caratterizzazione dei gruppi linguistici per entità e compattezza sul territorio nazionale,
influenzando anche la definizione dello «statuto delle garanzie» riconosciuto a dette
situazioni minoritarie32.
Il processo attuativo dell’art. 6 Cost. risulta, infatti, connotato da una netta divaricazione
fra il regime di tutela accordato alle minoranze “nazionali”33 situate in zone di confine (e
già riconosciute a livello internazionale) e il «sostanziale disinteresse» mostrato dal
legislatore34 verso le isole linguistiche disseminate nel resto del Paese fino a che, con la
legge-quadro n. 482 del 1999, non è stata approvata una disciplina generale sulle «minoranze
linguistiche storiche»35.
31
Cfr. T. De Mauro, Storia linguistica dell’Italia unita, Roma- Bari, Laterza, 2008, 10ᵃ ed., che fissa
la percentuale di popolazione che al momento dell’unificazione parlava la lingua italiana intorno al
2,5% della popolazione totale (circa 25 milioni di persone). Nello stesso senso, anche Id., L’Italia
linguistica dall’Unità all’età della Repubblica, Intervento al Convegno «La lingua italiana fattore portante
dell'identità nazionale», Roma 21 febbraio 2011, 1 ss., in cui segnala che «le potenzialità d’uso della
lingua nazionale erano state e restavano consegnate alle sorti della scuola. L’unità politica avviò
processi importanti di unificazione amministrativa e militare, di nascita d’un giornalismo moderno,
di partecipazione sia pure dei soli ceti abbienti alla vita politica nazionale, di creazione di
infrastrutture viarie, di accumulo e concentrazione di capitali ed embrionale industrializzazione.
Erano tutti fatti che scuotevano la tradizionale compagine dialettale del Paese. Ma la scuola non
decollò: mancarono gli investimenti pubblici e una politica volta a sviluppare l’istruzione. Per
quarant’anni si susseguirono inchieste dai risultati desolanti. Né queste né le denunzie di
intellettuali come Antonio Labriola intaccarono l’ostilità dei gruppi dirigenti verso una possibile
espansione della scolarità». Sul punto v. anche P. Carrozza, Lingua, politica, diritti: una rassegna storicocomparatistica, in questa Rivista, 1999, 1467.
32
Così V. Piergigli, Art. 6 Cost., cit., 157-158, che spiega come dai lavori della c.d. Commissione
Forti (dal nome del suo Presidente) emerse un quadro «che comprendev[a] - oltre alle numerose
isole linguistiche albanesi, catalane, greche, slave dell’Italia meridionale e insulare, francoprovenzali delle province di Cuneo e Torino, tedesche di alcuni villaggi alpini del Piemonte e delle
Venezie, rumene della Venezia Giulia - le minoranze di lingua tedesca, francese e slava, localizzate
in proporzioni consistenti ed in modo omogeneo in territori di confine con Stati in cui quelle sono
lingue nazionali, cui andavano aggiunte le popolazioni ladine prevalentemente stanziate nelle valli
dell'Alto Adige e quelle valdesi delle Alpi Cozie».
33
Quelle caratterizzate da «un rapporto di collegamento con una nazione diversa da quella in cui
il gruppo è attualmente inserito» (V. Piergigli, Lingue minoritarie ed identità culturali, Milano, Giuffrè,
2001, 62).
34
Così ancora V. Piergigli, Art. 6 Cost., cit., 158.
35
Con tale normativa anche le minoranze diverse da quelle nazionali trovano dunque effettiva
cittadinanza nel sistema politico-legislativo italiano. Nondimeno, anche con tale provvedimento
non appare del tutto esaurita la questione del trattamento delle minoranze nell’ordinamento
interno. Riguardando espressamente le minoranze linguistiche di più lungo insediamento, la legge
esclude, infatti, alcuni gruppi (come i rom e i sinti) dal processo di formale riconoscimento attivato
dal legislatore. Per un commento alla legge citata, v. S. Bartole, Le norme per la tutela delle minoranze
9
La tutela delle minoranze “nazionali” integra uno degli elementi di ‘specialità’ che hanno
portato al riconoscimento del regime differenziato di alcune Regioni italiane, le quali hanno
introdotto nei propri Statuti norme a garanzia dei gruppi linguistici minoritari in esse
presenti.
La specifica protezione riservata a queste comunità linguistiche è dunque conseguenza
della rilevanza anche internazionale degli interessi protetti36, in ordine ai quali lo Stato
italiano ha assunto, attraverso la stipula di accordi e trattati internazionali, l’obbligo di
introdurre nel proprio ordinamento specifici strumenti di tutela37.
Il divario esistente fra lo «status giuridico privilegiato»38 delle minoranze nazionali e la
condizione degli altri gruppi alloglotti è stato avallato anche dalla giurisprudenza della
Corte costituzionale, che, da un canto, ha rintracciato nei vincoli internazionali le basi
giuridiche fondative del riconoscimento necessario a dare svolgimento alle direttive
contenute nell’art. 6 Cost. (anche con riguardo ad ambiti di tutela non contemplati da
linguistiche storiche, in Le Regioni, 1999, 1063 ss. e V. Piergigli, La legge 15 dicembre 1999, n. 482,
(“Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche”) ovvero dall’agnosticismo al riconoscimento, in
Rass. parl., 2000, 623 ss.
36
Cfr., fra le altre, Corte cost. 28-4-1989, n. 242, in Foro amm., 1990, 1120 e 14-12-1993, n. 438,
in Foro it., 1995, I, 759.
37
Per queste comunità linguistiche una legislazione specifica di rango internazionale,
costituzionale e di attuazione degli Statuti ha previsto forme peculiari di tutela. Ciò vale, in
particolare, per le minoranze tedesca e ladina presenti in Alto Adige, che sono regolate, in virtù
dell’accordo internazionale De Gasperi-Grüber (Parigi, 5 settembre 1946), dallo Statuto speciale
della Regione; per la minoranza di lingua francese della Valle d’Aosta, disciplinata dallo Statuto
speciale; per la minoranza slovena, residente per lo più nella provincia di Trieste e in quelle di
Gorizia e Udine, cui sono indirizzate norme dello Statuto speciale approvato nel 1963, in forza del
Memorandum di Londra (del 1954) e del Trattato di Osimo firmato nel 1975.
38
V. Piergigli, Art. 6 Cost., cit., 160.
10
specifiche disposizioni normative interne)39 e, dall’altro, si è appellata alla necessità di una
normativa statale attuativa del disposto costituzionale40.
Un indirizzo, questo, che ha avuto significative implicazioni anche sul piano del riparto
delle competenze Stato-Regioni, avallando inizialmente l’idea di una presunta riserva di
legge statale in materia, in quanto, come ebbe a dire la Consulta, «la potestà legislativa circa
l’uso delle lingue compete allo Stato, trattandosi di materia che deve essere disciplinata nel
quadro dell’unità e dell’indivisibilità della Repubblica e nel rispetto di diritti di uguaglianza
di tutti i cittadini»41.
Solo verso la metà degli anni ottanta, il Giudice costituzionale arriverà a modificare
parzialmente questo orientamento, sostenendo che la legge statale si pone come necessario
«limite» e «indirizzo per l’esercizio della potestà legislativa ed amministrativa regionale»42.
Una lettura del ruolo di Stato e poteri locali in cui si inserisce anche la legge n. 482 del
1999 e che, nel quadro della riforma del Titolo V Cost., sembra collocare la materia della
39
Anche in assenza di apposite norme statali di attuazione del principio sancito dall’art. 6 Cost.
(e dagli Statuti regionali speciali), la Corte ha comunque individuato uno ‘statuto minimo’ di tutela
per le sole minoranze riconosciute, attraverso il richiamo all’ordinamento internazionale e in
presenza di «misure che poss[a]no ritenersi applicative» degli impegni assunti in tale ambito dallo Stato
(Corte cost. 11-2-1982, n. 28, in Giur. cost., 1982, 247 ss., con nota di E. Palici di Suni Prat, Corte
costituzionale e minoranze linguistiche: la sentenza n. 28 del 1982 fra tradizione e innovazione, ivi, 808 ss. e di
S. Bartole, Gli sloveni nel processo penale a Trieste, ivi, 249 ss.), o di «istituti o strutture organizzative di
generale applicazione che poss[a]no essere utilizzati anche al fine di rendere effettivo e concretamente fruibile il diritto
garantito in via di principio dalla Costituzione» (cfr. Corte cost. 24-2-1992, n. 62, in Giur. cost., 1992, 326
ss., commentata da S. Bartole, La tutela della minoranza slovena fra giurisprudenza costituzionale e
legislazione ordinaria, ivi, 342 ss.).
Con tale orientamento trova, allora, conferma che il vuoto di una disciplina interna ad hoc sul
riconoscimento o in ordine agli specifici strumenti di protezione delle minoranze linguistiche può
essere colmato attraverso istituti già presenti che si ricolleghino alla normativa internazionale,
legittimando però un trattamento differenziato dei gruppi linguistici (v. anche Corte cost. 15/1996,
cit.
40
Cfr. Corte cost. 11-7-1961, n. 46, in Giur. it., 1971, I, 1145; 11-2-1982, n. 82, in Giur. it., 1982,
577; 15/1996, cit.
41
V., in particolare, Corte cost. 18-5-1960, n. 32, in Giur. cost., 1960, 537 ss., ma anche 46/1961,
cit.; 13-7-1963, n. 128, in Giur. cost., 1963, 1411 ss. e 12-3-1965, n. 14, in Giur. cost., 1965, 84 ss.
42
Cfr. Corte cost. 18-10-1983, n. 312, in Le Regioni, 1984, 238, su cui v. A. Pizzorusso, Ancora su
competenza legislativa regionale (e provinciale) e tutela delle minoranze linguistiche, ivi, 239 ss. E’ comunque da
precisare che, fino alla metà degli anni novanta, la Corte costituzionale ha mantenuto un indirizzo
piuttosto restrittivo sulle capacità di intervento delle Regioni in tema di minoranze linguistiche,
sostenendo che l’ente regionale dovesse limitarsi a valorizzare, sul piano storico-linguisticoculturale, gli idiomi minoritari con riferimento a minoranze concentrate in particolari territori del
Paese. Solo la sentenza 15/1996, cit., segna una svolta nei rapporti fra Stato e Regioni in questa
materia, poiché la Consulta ritiene che anche in ambiti connessi con competenze dello Stato, possa
esservi spazio per un intervento della Regione nell’organizzazione di strutture volte a rendere
effettivi i diritti linguistici delle minoranze situate all’interno del proprio territorio (il caso
riguardava il servizio di traduzione nei distretti di Corte d’appello, pur essendo questa una materia
collegata alla giurisdizione, di esclusiva pertinenza statale).
11
tutela delle minoranze all’incrocio di più ambiti di intervento e di più interessi, sia a
carattere unitario sia a carattere locale.
Si può parlare, rispolverando un concetto ormai divenuto ‘usuale’ nella giurisprudenza
costituzionale, di una materia «trasversale»43, vale a dire di una ‘materia non materia’ che in
realtà indica una finalità verso la quale convergono (e a volte si intersecano) più
competenze statali e regionali44.
Occorre, però, sottolineare le peculiarità che caratterizzano la politica di tutela e
promozione delle lingue minoritarie, precisate dal Giudice delle leggi sulla base di uno
schema ‘innovativo’ rispetto al riparto di competenze fra Stato e Regioni delineato dalla
Carta fondamentale.
Nella sentenza 159/2009, la Corte costituzionale ha stabilito che al legislatore nazionale
spetta il riconoscimento formale delle minoranze linguistiche, ossia l’individuazione dei
gruppi protetti dall’ordinamento e dei loro «elementi identificativi», nonché la
determinazione degli «istituti» idonei a concretizzarne la tutela45.
Questo quadro di competenze si pone però al di fuori degli espressi (e ‘ordinari’) criteri
di suddivisione dei ruoli di Stato e Regioni. Esso segue un modello inedito che la Corte
costituzionale ha ricavato dall’art. 6 Cost. e dagli interessi costituzionali che vengono in
rilievo nella protezione delle specificità linguistiche e che segnano i limiti delle discipline
‘speciali’ riservate ai gruppi alloglotti in ragione della loro diversità.
Gli ambiti di intervento della normazione nazionale non sono cioè riconducibili ad
esplicite previsioni del Titolo V Cost., ma sono il «frutto di un indefettibile bilanciamento»
implicato nella salvaguardia delle minoranze (non solo linguistiche)46. Sono espressione di
uno sforzo di sintesi che non può non essere affidato allo Stato, ponendosi la direttiva
43
Si veda, per citare la prima pronuncia in cui si fa riferimento a questa espressione, Corte cost.
26-6-2002, n. 282, in Giur. cost., 2002, 2012 ss. Con riferimento alle minoranze linguistiche, la
Consulta richiama la ‘trasversalità’ della funzione normativa statale parlando, nella sent. 159/2009,
cit., 1035 ss., «di un potere legislativo che può applicarsi alle più diverse materie legislative, in tutto
od in parte spettanti alle Regioni». In dottrina, su questo profilo già L.A Mazzarolli, La tutela delle
minoranze linguistiche nella Costituzione del nuovo Titolo V, in Le Regioni, 5/2003, 729-730.
44
Si pensi, per quanto concerne lo Stato, alla competenza in tema di LEP o di norme generali
sull’istruzione o, ancora, di tutela del patrimonio artistico e culturale. Sul versante regionale, invece,
si può menzionare la competenza (concorrente) in materia di istruzione, di valorizzazione della
cultura, di ordinamento della comunicazione, di organizzazione delle attività culturali, di governo
del territorio (In tal senso, v. anche L.A. Mazzarolli, op. cit., 727 ss.). E’ poi da segnalare che la
nuova formulazione dell’art. 116, c. 3, Cost. può offrire un interessante strumento idoneo a
valorizzare in modo particolare le peculiarità delle minoranze linguistiche presenti sul territorio
regionale. La norma, infatti, consente alle Regioni di ottenere «forme e condizioni particolari di
autonomia» nelle materie di potestà legislativa concorrente nonché, fra le altre, in quelle di
competenza statale riguardanti le norme generali sull’istruzione e la tutela dei beni culturali.
45
Corte cost. 159/2009, cit., 1035 ss.
46
Si tratta di un «modello», chiarisce la Consulta, «che non corrisponde alle ben note categorie
previste per tutte le altre materie nel Titolo V della seconda parte della Costituzione, sia prima che
dopo la riforma costituzionale del 2001».
12
costituzionale dell’art. 6 «al punto di incontro con altri principi … che qualificano indefettibilmente e
necessariamente l’ordinamento vigente»: il principio pluralistico, la garanzia dell’eguaglianza (in
termini di non discriminazione, di dignità sociale e di rimozione delle situazioni di fatto che
creano disparità) e l’ufficialità della lingua italiana.
Nel ragionamento della Corte, la legge del Parlamento svolge una funzione unificante
che la abilita ad ‘introdursi’ nelle «più diverse materie legislative, in tutto o in parte spettanti alle
Regioni», rimanendo, invece, ai poteri locali - ed è questo il profilo innovativo - il solo
compito di dare «ulteriore attuazione» alla disciplina statale, nei limiti «di quanto [già] determinato
in materia»47.
La potestà legislativa che ‘residua’ alle Regioni appare dunque particolarmente
circoscritta48, perché, nella citata sentenza 159/2009, la legge 482/1999 assume il valore di
parametro interposto rispetto all’art. 6 Cost. e, in quanto tale, viene considerata non
modificabile dalle Regioni. Queste, nelle rispettive materie di competenza, devono solo
adeguarsi alle disposizioni della legge-quadro (art. 13), qualora vengano in rilevo istanze di
protezione di nuclei linguistici minoritari (già riconosciuti dallo Stato) presenti nei rispettivi
territori49.
In conclusione, la dialettica fra Stato e Regioni in tale ambito lascia margini piuttosto
ristretti (di mera attuazione) ai legislatori locali. La direttrice di riparto delle competenze,
formalmente non esplicitata in Costituzione, è infatti quella della dimensione (certamente
unitaria) dei valori costituzionali tutelati (eguaglianza, pluralismo, unità linguistica)50, unico
47
Ancora Corte cost. 159/2009, cit., richiamandosi alle precedenti sentt. 261/1995, 289/1987 e
312/1983, ma tale lettura della legge-quadro del 1999 è confermata anche nella successiva sent.
170/2010. Al riguardo, R. Toniatti, Pluralismo sostenibile e interesse nazionale all’identità linguistica posti a
fondamento di “un nuovo modello di riparto delle competenze” legislative fra Stato e Regioni, in Le Regioni, 2009,
1134 parla di una «competenza concorrente sui generis», in cui «è dunque l’oggetto- e non la materia
– della funzione legislativa de qua l’elemento indefettibile e connotativo de tale nuova figura di
competenza legislativa dello Stato».
48
Commentando tale pronuncia, non a caso, A. Palermo, La Corte “applica” il Titolo V alle
minoranze linguistiche e chiude alle Regioni, in www.associazionedeicostituzionalisti.it, 2009, 13 parla di
«un arretramento» all’indirizzo che ravvisava una riserva di legge statale per la disciplina delle
lingue minoritarie. In senso critico v. anche V. Piergigli, La tutela delle minoranze linguistiche storiche
nell’ordinamento italiano tra principi consolidati e nuove (restrittive) tendenze della giurisprudenza costituzionale, in
www.associazionedeicostituzionalisti.it, 2010, 8 e F. Albo, La tutela delle minoranze linguistiche tra Stato
e Regioni: la Corte costituzionale alle prese con uno speciale modello di riparto della potestà legislativa, in Giur. it.,
5/2010, 1036 ss.
49
Per le Regioni ad autonomia differenziata la Corte ha chiarito che la l. 482/99 è applicabile,
per le norme «più favorevoli» dalla stessa contemplate, ad opera dei decreti attuativi dei rispettivi
Statuti speciali (art. 18), i quali possono anche derogare alla suddetta normativa statale (cfr. anche
Corte cost. 1-7-2005, n. 249, in Giur. cost., 2005, 2339, in cui, con riferimento a tali fonti, si parla di
“naturale cedevolezza (anche nel momento interpretativo) della legge ordinaria statale”). In
mancanza, però, di disposizioni adottate dai citati decreti di attuazione, la disciplina del 1999 funge,
anche per queste Regioni, da parametro interposto rispetto all’art. 6 e agli Statuti speciali.
50
Calzante ed efficace l’espressione usata da R. Toniatti, Pluralismo sostenibile e interesse nazionale
all’identità linguistica, cit., 1135, secondo cui la competenza statale incarna la difesa dell’interesse
13
parametro atto ad individuare il soggetto destinatario del compito (e della responsabilità) di
ricercare un equo assetto fra interessi non omogenei.
In sostanza, essendo la disciplina delle minoranze linguistiche al centro di un continuo
raffronto fra accezione formale e sostanziale del principio di eguaglianza, i diritti che
attengono a realtà minoritarie accedono ad un livello di bilanciamento che si colloca
necessariamente nella sfera (governance) nazionale. Sarebbe quindi l’«istituzione statale» a
dover «garantire, in linea generale, le differenze proprio in quanto capace di garantire le comunanze»51.
Non solo, ma dal contemperamento cui allude il Giudice delle leggi, fra le istanze proprie
di un ordinamento unitario (in particolare, l’uniformità di trattamento che deriva dal
canone dell’uguaglianza formale) e i bisogni di differenziazione delle minoranze linguistiche,
si evince come l’adozione di tutele a carattere ‘positivo’ abbia come presupposto l’esigenza
di dare una risposta anche a ‘situazioni complessive’ comuni ad una determinata compagine
sociale.
Da qui la dimensione collettiva sottesa agli istituti volti a perseguire un’effettiva
(sostanziale) eguaglianza dei gruppi minoritari nella partecipazione alla vita della comunità in
cui sono inseriti.
E’ possibile cogliere questo implicito rimando ai “diritti di gruppo” nella più recente
giurisprudenza costituzionale che ha preso in esame leggi regionali recanti misure
preferenziali a favore di minoranze linguistiche, con lo scopo di riconoscere il loro essere
«una unità sociale»52 all’interno della collettività statale.
La struttura ‘comunitaria’ degli interessi in gioco emerge quando la Corte valuta l’impatto
che alcune iniziative di carattere promozionale, assunte dai poteri locali a vantaggio di una
data comunità alloglotta, hanno sull’ordinamento complessivo e, in particolare, sulla
garanzia dell’unità giuridica e dell’indivisibilità del sistema statale.
Per fare alcuni esempi, con la sentenza 159/2009 la Consulta ha dichiarato l’illegittimità
costituzionale della legge del Friuli-Venezia Giulia n. 29 del 2007, sulla tutela e
valorizzazione della lingua friulana, rispetto ad alcune disposizioni che sono state
riconosciute incompatibili con il bilanciamento di interessi definito dalla normativa quadro
nazionale.
Oggetto di censura, fra le altre, è stata ad esempio la norma che contemplava la mera
facoltà di tradurre in italiano gli interventi effettuati (in forma scritta e orale) all’interno dei
Consigli comunali in cui può essere utilizzato il friulano (art. 9, c. 3), quando la legge
482/1999 impone l’immediata traduzione dei dibattiti e degli atti per i quali si faccia
utilizzo di una lingua minoritaria. E’ evidente, infatti, che una simile disposizione regolasse
in modo irragionevole il rapporto fra la tutela dell’idioma appartenente ad una comunità
all’identità linguistica della nazione e, pertanto, si traduce nella ricerca della «“sostenibilità del
pluralismo” linguistico ammissibile a tutela».
51
Corte cost. 170/2010.
52
Per questa espressione R. Toniatti, Minoranze (diritti delle), cit., 700 ss.
14
minoritaria e la lingua ufficiale di tutti, in quanto, per favorire l’uso del friulano nelle
assemblee rappresentative locali, penalizzava senza motivo i membri di tali organi non
parlanti detta lingua53.
Allo stesso modo, anche la disciplina dell’uso della lingua friulana nelle scuole non ha
superato lo scrutinio della Corte sotto un duplice profilo.
In primo luogo, perché la normativa regionale (art. 12, c. 3) prevedeva che, se i genitori
non avessero voluto che ai figli fosse impartito l’insegnamento del friulano, avrebbero
dovuto comunicarlo all’istituto scolastico all’atto dell’iscrizione, mentre un eventuale
silenzio avrebbe avuto il valore di un vero e proprio assenso. La Consulta ha ritenuto tale
sistema di opzione in palese contrasto con la legge-quadro 482 del 1999 che, invece,
richiede, da parte della famiglia, un espresso atto di adesione a questo tipo di scelta
educativa.
Infine, la norma che prescriveva l’insegnamento della lingua minoritaria per almeno
un’ora alla settimana e che imponeva l’uso della stessa come «lingua veicolare», cioè come
lingua impiegata nella didattica (art. 14, c. 2 e 3), è stata giudicata discriminatoria, perché la
tutela preferenziale così accordata ad un gruppo linguistico mal si concilia non solo con
l’autonomia delle istituzioni scolastiche, ma anche con il diritto di tutti di accedere
all’istruzione in condizioni di parità. In mancanza di «un consenso generalizzato alla
frequenza dei corsi di lingua friulana», infatti, parte degli studenti sarebbe rimasta esclusa
dall’apprendimento delle discipline impartite nella lingua minoritaria.
La pronuncia non ha lasciato indenne nemmeno la previsione che consentiva ai Comuni
della Regione di adottare toponimi nella lingua minoritaria, senza alcun riferimento nella
lingua nazionale, per non aver tenuto adeguatamente conto della necessità di assicurare
(insieme alla tutela dell’idioma identificativo di una data minoranza) la piena conoscibilità (ex
art. 3 Cost.) di indicazioni e segnalazioni relative al territorio del Paese 54. Diversamente, la
sentenza 88/2011 ha sancito l’ammissibilità di leggi regionali che, a sostegno di patrimoni
linguistici e culturali ‘minoritari’, incentivino il ricorso ai dialetti nella ‘cartellonistica’, in
quanto tali leggi, non riferendosi alla segnaletica stradale, non interferirebbero con la
competenza esclusiva del legislatore statale in materia di circolazione stradale. Una
disciplina di questo tipo avrebbe cioè lo scopo di valorizzare l’identità comune di un gruppo
senza incidere sulla garanzia di un trattamento uniforme di tutti i cittadini rispetto
53
Sul punto, non a caso, E. Stradella, La tutela delle minoranze linguistiche storiche tra Stato e Regioni
davanti alla Corte costituzionale, in Le Regioni, 2009, 1162 imputa alla legge regionale «una sorta di
discriminazione alla rovescia tale da negare non soltanto l’ufficialità della lingua italiana, ma anche
la tutela dei diritti individuali di chi parla l’italiano».
54
Gli artt. 1, c. 1, e 10, l. 482/99 dispongono invece, rispettivamente, che «la lingua ufficiale
della Repubblica è l’italiano», e che nei Comuni di insediamento della minoranza linguistica «i
consigli comunali possono deliberare l’adozione di toponimi conformi alle tradizioni e agli usi»
solo «in aggiunta ai toponimi ufficiali».
15
all’osservanza delle norme in tema di circolazione stradale (per le quali non si potrebbe ovviamente - derogare all’uso della lingua ufficiale dello Stato).
3. Il tema delle minoranze, in generale, ha assunto un grande rilievo sul piano
internazionale, ambito nel quale storicamente ha preso avvio il processo di armonizzazione
delle misure che gli Stati hanno adottato per la tutela dei gruppi stanziati sul proprio
territorio.
Oggi si può certamente parlare di una progressiva internazionalizzazione del diritto delle
minoranze, in quanto, con particolare riferimento all’Europa, il richiamo a standards
internazionali e sovranazionali di tutela è divenuto imprescindibile in un contesto in cui
opera una pluralità di soggetti per definire, ai vari livelli, le garanzie accordate ai “diritti
riservati” delle minoranze e ne assicura l’effettiva applicazione.
Nell’economia di questo lavoro è possibile ripercorrere solo nelle sue tappe salienti il
processo che ha portato alla formazione di un “diritto” per il riconoscimento dei gruppi
minoritari, certamente ricco e significativo, per evidenziare il diverso approccio che, a
partire dal secondo dopoguerra, ha caratterizzato la tutela delle minoranze nei singoli
sistemi giuridici europei e nella normazione sovrastatale.
Mentre le Costituzioni del secondo Novecento, in piena adesione ai valori del pluralismo
sociale e della valorizzazione delle diversità culturali, hanno cominciato a guardare alle
minoranze come articolazioni fondamentali della collettività statale55, il diritto
internazionale e gli strumenti giuridici regionali dell’Europa di questo periodo storico
rimangono ancorati alla tradizione liberale dei diritti universali, in cui gli individui sono
considerati, nell’ottica di un indiscriminato trattamento di fronte alla legge, nell’unico
legame che li unisce allo Stato, e non in relazione alla appartenenza a gruppi e comunità
intermedie. Ne sono prova i documenti approvati dalle Nazioni Unite o all’interno del
Consiglio d’Europa, ma anche i Trattati comunitari, nei quali la questione delle minoranze
rimane ‘offuscata’ da una concezione individualistica della tutela dei diritti fondamentali.
Schematizzando brevemente, l’avvio di un sistema internazionale di protezione dei
gruppi minoritari è segnato dal Protocollo finale del Congresso di Vienna (1815), al quale
non è estranea la natura collettiva degli interessi implicati nella concettualizzazione di
“minoranza nazionale”, quale soggetto destinatario di tutela giuridica. Più tardi, al termine
della prima guerra mondiale, la diversa definizione dei confini europei (conseguente allo
55
Cfr. Austria (art. 8 Cost.); Spagna (artt. 2 e 3); Belgio (artt. 2, 11, 30); Svezia (Cap. I, art. 2 u.c.
e Cap. II, art. 15); Irlanda (art. 44). Tra le Costituzioni più recenti si veda, ad esempio, Cost.
Lituania (art. 68); Finlandia (art. 17); Bielorussia (artt. 14 e 15); Croazia (art. 15); Estonia (art. 50);
Macedonia (artt. 7, 8, 19, 48); Polonia (art. 35). Sul punto, v. E. Palici Di Suni Prat, Intorno alle
minoranze, cit., 111 ss.
16
smembramento dei grandi Stati multinazionali)56 dà rinnovato vigore alla questione dei
‘gruppi’ connotati da una peculiare identità religiosa, etnica o linguistica, come testimonia il
fiorire di accordi bilaterali, trattati speciali o disposizioni ad hoc incluse nei trattati di pace,
posti sotto la garanzia della Società delle Nazioni57.
Nel periodo successivo alla conclusione del secondo conflitto mondiale, invece, il
fenomeno minoritario è affrontato all’interno delle Nazioni Unite e di altre organizzazioni
a carattere internazionale e regionale alle quali ha aderito la gran parte delle democrazie
europee. Accomuna, però, queste distinte esperienze l’idea che la tutela dei diritti del
singolo sia sufficiente a garantire anche la posizione delle minoranze58, cosicché il
soddisfacimento delle istanze collettive appartenenti alle diverse realtà minoritarie è lasciata
in via prevalente all’autonomia e disponibilità degli Stati.
Ritroviamo questo approccio nella Carta delle Nazioni Unite (1945) e nella
Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (1948), ma anche nella Convenzione europea
dei diritti dell’uomo (1950), nelle quali si afferma il principio di non discriminazione, senza
alcun richiamo all’eguaglianza sostanziale e a specifiche esigenze di tutela delle minoranze.
Una logica parzialmente diversa è ravvisabile solo nell’art. 27 del Patto Internazionale sui
diritti civili e politici del 1966, secondo cui negli Stati in cui esistono minoranze etniche,
religiose o linguistiche le persone che vi appartengono «non possono essere privat[e] del diritto di
avere una vita culturale propria, di professare e praticare la propria religione, o di usare la propria lingua,
in comune con gli altri membri del proprio gruppo». Questa formula, in una dinamica ‘circolare’ in
cui il soddisfacimento dei bisogni individuali realizza (anche) la garanzia delle istanze
collettive della comunità minoritaria e viceversa, sembra evocare, come è stato
opportunamente messo in luce, la «pretesa» a misure, anche a carattere positivo, che
consentano al singolo di coltivare il patrimonio linguistico e di tradizioni che condivide con
una data realtà minoritaria, con riflessi anche sulla condizione del nucleo sociale di cui
l’individuo è parte59.
La norma, richiamandosi ad un criterio di eguaglianza sostanziale, riesce in un certo qual
modo a contemplare anche la dimensione collettiva dei diritti delle minoranze60.
Nell’effettiva garanzia di una vita culturale e religiosa è infatti da ascrivere anche la tutela
56
V. R. Toniatti, Minoranze (diritti delle), cit., 700 ss. e V. Piergigli, Art. 6 Cost., cit., 156. La
gestione diplomatica dei conflitti assegnata a tale organizzazione intergovernativa vede il suo
fallimento nella Seconda guerra mondiale, al termine della quale l’attività di mantenimento della
sicurezza e della pace al livello internazionale viene affidata alle Nazioni Unite.
57
A. Pizzorusso, Art. 6 Cost., cit., 297.
58
Così A. Pizzorusso, Art. 6 Cost., cit., 298; S. Ortino, La tutela delle minoranze nel diritto
internazionale: evoluzione o mutamento di prospettiva?, in Studi in onore di Leopoldo Elia, Tomo II, Milano,
Giuffrè, 1999, 1117-1118; V. Piergigli, Art. 6 Cost., cit., 157 e, di recente, F. Palermo, J. Woelk,
Diritto costituzionale comparato dei gruppi, cit., 89.
59
V. Piergigli, Art. 6 Cost., cit., 166-167.
60
In tal senso V. Piergigli, Diritti dell’uomo e diritti delle minoranze nel contesto internazionale ed europeo:
riflessioni su alcuni sviluppi nella protezione dei diritti linguistici e culturali, in Rass. parl., 1996, 45 ss. e F.
Palermo, J. Woelk, Diritto costituzionale comparato dei gruppi, cit., 99.
17
della sfera di socialità del singolo e, quindi, del gruppo all’interno del quale può esprimere i
propri caratteri identitari.
E’ evidente che la disposizione richiamata, come tutto il diritto per le minoranze,
presume la ricerca di un punto di equilibrio fra garanzie di uniformità nella tutela delle
situazioni giuridiche soggettive, da un lato, e istanze di differenziazione, dall’altro61. E il
possibile conflitto fra il ricorso ad ‘azioni positive’ volutamente orientate a privilegiare
realtà minoritarie e la protezione di diritti universalmente riconosciuti è risolto dalla
Dichiarazione sulle minoranze nazionali o etniche, religiose e linguistiche, adottata dall’Assemblea
Generale delle Nazioni Unite nel 1993, con l’affermazione secondo cui (art. 8, par. 3) «le
misure adottate dagli Stati per assicurare il godimento effettivo dei diritti proclamati in questa dichiarazione
non saranno considerate prima facie contrarie al principio di eguaglianza contenuto nella Dichiarazione
Universale dei Diritti Umani». Il criterio adottato da questo documento sembra dunque
presupporre un controllo sulla necessità, proporzionalità, e quindi ragionevolezza, delle
misure preferenziali riconosciute nelle singole situazioni concrete.
4. Come si è anticipato, la tendenza che chiaramente emerge nella protezione sovrastatale
delle minoranze è quella che attribuisce al singolo la titolarità di situazioni giuridiche
soggettive riferibili a realtà minoritarie, sebbene non manchi la consapevolezza che
l’esercizio delle medesime possa collocarsi in un ‘contesto collettivo’.
Il quadro normativo di riferimento del Consiglio d’Europa non attribuisce alcun esplicito
riconoscimento ai diritti delle minoranze.
Uno sguardo alla CEDU rivela come tale strumento contempli una serie di diritti e
libertà per gli individui appartenenti a gruppi nazionali, ma non garantisca espressamente le
minoranze in quanto tali62. L’impostazione accolta nel documento valorizza l’autonomia
individuale e si concretizza nel divieto per le Parti contraenti di imporre restrizioni al
singolo in relazione alla sua appartenenza a comunità minoritarie.
Nella Convenzione la lingua appare un ‘bene’ legato alla sfera personale del singolo, sia
con riguardo al divieto di discriminazione (art. 14), sia nelle garanzie processuali previste
dall’art. 6: il diritto ad essere informati delle accuse mosse a proprio carico in una lingua
conosciuta e di farsi assistere da un interprete qualora non si comprenda la lingua usata in
giudizio si rivolge, infatti, a qualsiasi soggetto indipendentemente dal legame che questi
possa avere con un idioma minoritario.
61
Così F. Palermo, J. Woelk, Diritto costituzionale comparato dei gruppi, cit., 47, che ascrivono questo
costante bilanciamento fra diritti individuali e collettivi ad «una concezione dinamica del diritto
delle minoranze».
62
In tal senso anche E. Palici Di Suni Prat, Minoranze, cit., 558.
18
Il vuoto testuale in merito a diritti propri dei gruppi minoritari non è stato colmato
nemmeno dai documenti più specifici che il Comitato dei Ministri ha adottato negli anni
novanta del XX secolo nel tentativo di favorire la pacifica coabitazione fra etnie diverse a
fronte delle spinte nazionalistiche riemerse con la dissoluzione del blocco sovietico e alla
base degli aspri conflitti dell’area balcanica.
La Carta europea delle lingue regionali e minoritarie del 1992 63 non può farsi rientrare
pienamente nel «diritto delle minoranze tout court», in quanto ha lo scopo di preservare e
promuovere la diversità degli idiomi minoritari, come fattori di arricchimento del
patrimonio linguistico e culturale europeo, e non (direttamente) i diritti di coloro che in essi
si riconoscono64.
Allo stesso modo, la Convenzione quadro per la protezione delle minoranze nazionali
del 1995, sebbene sia l’unico strumento internazionale che si occupa in modo specifico del
fenomeno minoritario65, non contempla l’attribuzione di diritti ad entità collettive, ma
rimane atto di riconoscimento di posizioni giuridiche individuali. Ha la stessa impronta
della CEDU, adeguando i diritti da questa previsti alle diverse realtà minoritarie66.
Muovendo da questa finalità, la Convenzione quadro incorpora fattispecie che possono
essere esercitate «in comune» dai membri del nucleo minoritario, e che quindi possono
anche essere espressione di interessi condivisi dallo stesso gruppo, ma ciò non ne elide la
qualificazione di diritti del singolo67.
Nondimeno, anche rispetto a questo tipo di approcci normativi al tema delle minoranze,
è da osservare che quando il ‘legislatore’ codifica strumenti di tutela a carattere positivo, la
63
Al momento solo firmata, ma non ancora ratificata dall’Italia. Alla Camera dei Deputati è stata
presentata, in questa legislatura, la proposta di legge n. 555 di autorizzazione alle ratifica ed
esecuzione dell’atto. In argomento, v. M. Podetta, Il lungo, maldestro surplace del legislatore statale a
proposito della tutela delle lingue minoritarie e le recenti aperture regionalistiche del giudice costituzionale, in Forum
Quad cost., 2012, 1 ss.
64
Così F. Palermo, J. Woelk, Diritto costituzionale comparato dei gruppi, cit., 103, i quali mettono in
evidenza come il carattere «flessibile» della Carta – che propone un elenco di istituti di promozione
delle lingue minoritarie fra i quali gli Stati possono adottare le misure che meglio si addicono alla
propria realtà – non consente di attribuire a tale documento la funzione di individuare uno
«standard» comune «nell’ambito dei diritti minoritari» (104). Il Rapporto esplicativo conferma,
infatti, che «La carta non istituisce dei diritti individuali o collettivi per gli individui che parlano
delle lingue regionali o minoritarie», sebbene si riconosca che «nondimeno, gli obblighi degli Stati
parti contraenti per quanto concerne lo status di tali lingue … dovranno avere un effetto evidente
sulla situazione delle comunità interessate e dei loro singoli membri» (punto 11).
65
Come affermato da F. Palermo, J. Woelk, Diritto costituzionale comparato dei gruppi, cit., 105, la
Convenzione quadro «è l’unico trattato multilaterale esistente al mondo relativo alla tutela delle
minoranze, e ha dunque un’importanza fondamentale nella determinazione del diritto
internazionale delle minoranze».
66
Cfr. F. Palermo, J. Woelk, Diritto costituzionale comparato dei gruppi, cit., 112.
67
In tal senso, v. S. Bartole, Una convenzione per la tutela delle minoranze nazionali, in Il Mulino, 1995,
341-342. Si legge infatti, nell’Explanatory Report, che la Convenzione «does not imply the
recognition of collective rights. The emphasis is placed on the protection of persons belonging to
national minorities, who may exercise their rights individually and in community with others».
19
forza inclusiva dell’eguaglianza sostanziale – la sua inclinazione alla dimensione collettiva realizza (indirettamente) un sistema di protezione che ha ricadute anche sulla posizione
dell’intero gruppo. E proprio da qui, come vedremo, si può partire per analizzare logiche
interpretative che vanno oltre i ‘consueti’ schemi della tutela dei diritti individuali.
Ciò nella consapevolezza che l’obiettivo di assicurare l’unità e la sicurezza del vecchio
Continente, posto a fondamento delle principali organizzazioni intergovernative europee fra le quali, insieme al Consiglio d’Europa e all’Unione europea, anche l’OSCE -, non può
rimanere confinato nelle sole pieghe dell’eguaglianza formale, e quindi dell’irrilevanza della
proiezione sociale del singolo, ma passa anche attraverso il riconoscimento delle diversità
che interagiscono sul piano collettivo, in ragione dell’appartenenza degli individui a nuclei
sociali connotati da particolari e oggettive specificità.
4.1. Nell’ambito dell’Unione Europea, la tutela giuridica delle minoranze appare, ancora
oggi, prevalentemente assorbita dalla logica antidiscriminatoria.
Fin dai Trattati istitutivi il diritto comunitario ha dedicato solo brevi cenni alle questioni
dei gruppi minoritari, per lo più con riferimento al principio di non discriminazione sulla
base della nazionalità (art. 12 TCE).
Solo a partire dal Trattato di Maastricht (art. 128) e poi di Amsterdam (art. 151), la
valorizzazione del pluralismo e della diversità culturale attribuiscono nuovo vigore al tema
delle minoranze, attraverso clausole che certamente possono sorreggere politiche rivolte
alle espressioni (e questioni) identitarie intrinseche alla conformazione di una società
multietnica. Garanzie che oggi sono ribadite dall’art. 167 TFUE, secondo cui l’Unione
«contribuisce» al pieno sviluppo delle culture degli Stati membri «nel rispetto delle loro diversità
nazionali e regionali» e tiene conto, nello svolgimento delle politiche delineate nel Trattato,
degli aspetti culturali che caratterizzano gli Stati membri.
Nondimeno, anche con la riforma di Lisbona, lo scenario della normazione primaria non
rimanda, tuttavia, ad una specifica competenza dell’Unione nella tutela delle minoranze e
ancor meno con specifico riguardo alle minoranze linguistiche68.
La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (che ora ha lo stesso rango dei
Trattati) ripercorre, nell’art. 21, la tradizionale logica antidiscriminatoria (e individualistica),
contemplando la lingua quale ‘fattore di appartenenza’ che non può essere causa di alcun
trattamento deteriore del singolo. Nel successivo art. 22, invece, è stata opportunamente
colta «una più spiccata propensione» alla protezione della ‘diversità minoritaria’ intesa come
68
Sulla carenza di competenze comunitarie in tema di minoranze nel diritto primario
antecedente il Trattato di Lisbona Così C. Hillion, Enlargement of the European Union. The Discrepancy
Between Membership Obligations and Accession Conditions as Regards the Protection of Minorities, in Fordham
International Law Journal, vol. 27, 2003, 727.
20
‘dato collettivo’69. La norma infatti, che si esprime con una formula priva di riferimenti
soggettivi, enuncia in modo generale il rispetto da parte dell’Unione della «diversità culturale,
religiosa e linguistica», al quale può ascriversi anche la finalità di impedire che questi ‘valori’,
come tratti identitari di un gruppo, possano essere motivo di differenziazioni
irragionevoli70.
Entrambe le disposizioni citate, comunque, sono improntate ad una tutela di carattere
negativo e non promozionale, ed è inoltre da considerare che, per espressa previsione
dell’art. 51, il catalogo di diritti oggi inserito nei Trattati non amplia in alcun modo le
competenze dell’Unione.
Più innovativo il tenore dell’art. 2 TUE, sebbene la norma, da sola, appaia insufficiente a
fondare un intervento dell’Unione in tema di protezione delle minoranze71, poiché si limita
a richiamare i valori che reggono il sistema comunitario, specificando come la garanzia dei
diritti fondamentali racchiuda al suo interno anche «i diritti delle persone appartenenti a
minoranze»72.
Non è da trascurare però, come si cercherà di dimostrare più oltre (cfr. par. 7), il modo
in cui tale previsione può interagire con l’art. 19 TFUE, norma (già introdotta con l’art. 13
TCE) che legittima il Consiglio ad adottare i provvedimenti opportuni per “combattere” ogni
forma di discriminazione che sia fondata sul sesso, la razza o l’origine etnica, la religione o
le convinzioni personali, gli handicap, l’età o le tendenze sessuali. Un precetto, questo,
idoneo peraltro a giustificare anche il ricorso ad azioni positive, ammettendo così che le
misure promosse a garanzia di un modello di eguaglianza inclusiva (sostanziale) possano
avere ricadute anche ‘collettive’, ossia allargate all’intera categoria dei soggetti discriminati.
Sul piano della tutela delle minoranze linguistiche, infine, è da considerare che eventuali
politiche statali che siano annoverabili fra gli interventi di sostegno alla «promozione della
cultura» e al «mantenimento del patrimonio culturale» possono beneficiare dell’ ‘esenzione’ dal
rigido regime comunitario degli aiuti di Stato (art. 107, lett. d), TFUE (ex art. 87 TCE)).
Tuttavia, occorre tenere presente che eventuali sovvenzioni finanziarie dei Paesi membri,
per essere compatibili con il diritto dell’Unione, non debbono in alcun modo «alter[are] le
condizioni degli scambi e della concorrenza … in misura contraria all’interesse comune».
69
Per questa lettura, v. A. Celotto, Artt. 21-22, in R. Bifulco, M. Cartabia, A. Celotto (cur.),
L’Europa dei diritti. Commento alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, Bologna, Il Mulino,
2001, 176.
70
In argomento, v. G. Rolla, E. Ceccherini, Il riconoscimento delle diversità culturali e linguistiche
nell’ordinamento costituzionale eutopeo, in questa Rivista, 2/2007, 660 ss.
71
In tal senso, fra i tanti, D. Kochenov, EU minority protection: a modest case for a synergetic approach,
in Amsterdam Law Forum, vol. 3-4, 2011, 42 e 52.
72
Detta formula, peraltro, sembra ripiegare, ancora una volta, su una visione individualistica del
principio di eguaglianza.
21
5. Pur nello scarno quadro normativo internazionale e comunitario, la questione delle
minoranze linguistiche è più volte approdata alle Corti sovranazionali europee.
La Corte europea dei diritti dell’uomo non solo non è rimasta insensibile ai riflessi che la
protezione dei diritti individuali sanciti dalla Convenzione produce sulla dimensione
collettiva di comunità linguistiche minoritarie, ma è arrivata ad ‘utilizzare’ gli strumenti di
tutela previsti dalla Convenzione anche nell’ottica di garantire le istanze di cui questi gruppi
sono portatori.
In primo luogo, è possibile notare che nella giurisprudenza in cui la Corte ha esaminato
casi di presunta discriminazione del singolo, in ragione dell’appartenenza ad una minoranza
linguistica, emerge - di riflesso - anche il problema della tutela della complessiva
formazione sociale riconducibile all’idioma minoritario, attraverso il bilanciamento fra
‘diritti riservati’ e principio di eguaglianza.
Per dare l’idea di questo modo di argomentare, si possono richiamare alcuni casi in cui la
Corte ha ricompreso nell’art. 8, sul rispetto della vita privata e familiare, la libertà di
utilizzare la lingua minoritaria nella corrispondenza dei carcerati e nell’ortografia dei nomi.
Il diritto del detenuto ad utilizzare un idioma minoritario nell’esercizio della libertà di
corrispondenza può, come dimostra il caso Mehmet Nuri Özen et autres c. Turquie73, essere
legittimamente limitato in ragione del perseguimento di altre esigenze meritevoli di
protezione (come la sicurezza all’interno dell’istituzione carceraria, o la necessità di
impedire la comunicazione tra organizzazioni terroristiche o criminali). Tuttavia, le
restrizioni imposte a questo diritto, in cui il soggetto esprime una ‘specifica’ appartenenza,
oltre che previste dalla legge, devono essere proporzionate rispetto al fine perseguito74.
Nella fattispecie, le autorità penitenziarie turche si erano rifiutate di spedire la
corrispondenza inviata da alcuni detenuti ai propri familiari, perché, essendo scritta in
kurdo, non avevano potuto valutarne il tenore per verificarne la conformità alle
prescrizioni di legge75.
73
Sent. 11-1-2011, ric. n. 15672/08 e altri.
Questo modo di argomentare, sulla necessità e ragionevolezza delle restrizioni alle libertà in
carcere trova corrispondenza anche nell’orientamento della Corte costituzionale italiana che, con
rigore, ha sempre affermato che le limitazioni ai diritti del detenuto non devono intaccarne la
dignità, che permane anche quando un soggetto sia privato della propria libertà personale, e
devono essere strettamente proporzionate alle esigenze della condizione di detenuto (cfr., fra le
tante, Corte cost. 264/1974).
75
Secondo i dettami della legge turca (sez. 68, l. 13-12-2004, n. 5275), il divieto spedizione
riguarda «letters [that] are a threat to order and security in the prison, single out serving officials as
targets, permit communication between terrorist or criminal organisations, contain false or
misleading information likely to cause panic in individuals or institutions, or contain threats or
insults». Il giudice dell’esecuzione considerò le decisioni impugnate legittime, perché l’uso della
lingua minoritaria aveva reso il contenuto delle lettere incomprensibile e quindi impossibile
l’attività di controllo richiesta dalla legge, avendo riguardo anche alla circostanza che nessuna
previsione richiede alle autorità carcerarie di accollarsi i costi per la traduzione delle lettere in
lingua diversa da quella turca.
74
22
I Giudici di Strasburgo, però, hanno ritenuto il diniego opposto un’interferenza
illegittima nella libertà dei ricorrenti, in quanto non disciplinando l’ordinamento turco
l’ipotesi di una corrispondenza dei carcerati in una lingua diversa da quello ufficiale, la
decisione dell’istituzione penitenziaria di impedire gli scambi epistolari dei detenuti avrebbe
potuto basarsi unicamente sul contenuto delle lettere (che non deve compromettere la
sicurezza e l’ordine nell’istituto penitenziario o favorire attività criminali), ma non sulla
lingua utilizzata.
Degno di nota, proprio con riguardo alla garanzia collettiva di una situazione minoritaria,
è il passaggio della sentenza in cui la Corte rileva che, in assenza di riferimenti giuridici atti
a precisare le modalità di trattamento della corrispondenza scritta in una lingua straniera, la
prassi avviata dal personale penitenziario di imporre una preventiva traduzione a spese dei
carcerati contrasta con l’art. 8 della Convenzione, perché automaticamente priva della
protezione offerta da questa norma «un’intera categoria di scambi epistolari privati» e, di
conseguenza, anche un’intera categoria di soggetti, costretta a rinunciare alla propria libertà di
corrispondenza se non in grado di sostenere le spese a ciò necessarie76.
Anche nella garanzia dell’ortografia dei nomi conforme alla lingua minoritaria la Corte ha
riconosciuto agli Stati un ampio margine di apprezzamento, alla luce dei molteplici fattori
storici, religiosi e culturali che condizionano le scelte dei vari Paesi e impediscono di
individuare un denominatore comune nelle legislazioni nazionali77.
Al riguardo, nella giurisprudenza della Corte è ormai costante l’affermazione per cui la
libertà linguistica in sé non costituisce un diritto sancito dalla Convenzione 78 e, ad
eccezione dei diritti operanti in ambito processualpenalistico, tale documento non consacra
il diritto di utilizzare una lingua diversa da quella ufficiale nei rapporti con le autorità
pubbliche, né il diritto di ricevere informazioni nella lingua da ciascuno prescelta79.
76
Nelle parole del Giudice dei diritti umani, «Imposer aux détenus la traduction préalable, et à leurs frais,
des lettres écrites dans leur langue maternelle, langue qui n’est pas comprise par le personnel pénitentiaire chargé d’en
apprécier le contenu, est jugée contraire à l’article 8. En effet, cette pratique « conduit à exclure d’office du champ de
protection de cette disposition une catégorie entière d’échanges épistolaires privés dont les prisonniers pouvaient
souhaiter bénéficier».
77
Cfr. Mentzen c. Lettonie, ric. n. 71074/01, 7 dicembre 2004; Bulgakov c. Ukraine, ric. n. 59894/00,
11-9-2007; Baylac-Ferrer et Suarez c. France ric. n. 27977/04, 25-9-2008.
78
Cfr. Podkolzina c. Lettonie, ric. n. 46726/99; Pahor c. Italie, ric. n. 19927/92, decisione della
Commissione del 29-6-1994; Kozlovs c. Lettonie, ric. n. 50835/99, 10-1-2002.
79
Nell’affaire Güzel, peraltro, i Giudici di Strasburgo concludono per la violazione dell’art. 8
CEDU di fronte al rifiuto delle autorità turche di accogliere la richiesta di una cittadina di
rettificare l’ortografia del suo nome nel registro di stato civile per conformarla alla pronuncia in
lingua kurda. Ma la decisione della Corte conferma il principio dell’ampia discrezionalità degli Stati
nel regolare tali aspetti e fonda la violazione della Cedu sulla insufficiente chiarezza della normativa
turca nel definire le condizioni e le modalità attraverso cui i pubblici poteri possono imporre
restrizioni e/o modifiche all’ortografia dei nomi. Nel caso Kemal Taşkin et autres c. Turquie, invece, la
Corte ha giudicato non incompatibile con l’art. 8 il rifiuto delle autorità turche di sostituire la
lingua kurda alla lingua turca nell’ortografia del nome dei ricorrenti riportato in documenti ufficiali,
perché ciò avrebbe comportato l’utilizzo di caratteri non presenti nell’alfabeto della lingua turca.
23
Ne consegue che, in via di principio, gli Stati contraenti possono legittimamente imporre
l’utilizzo della lingua nazionale nei documenti di identità e in altri documenti ufficiali, al
fine di preservare l’unità linguistica del Paese80.
Nelle decisioni che si sono occupate di questa problematica, - fra le più recenti, v. i casi
Güzel Erdagöz c. Turquie81 e Kemal Taşkin et autres c. Turquie82 - sebbene i Giudici di
Strasburgo non facciano espresso riferimento ai diritti di un “gruppo minoritario”, emerge
chiaramente che l’esigenza di garantire l’identità linguistica di uno Stato non è solo il
parametro per valutare se vi sia stata discriminazione nei confronti del ricorrente, ma
rappresenta anche il termine di bilanciamento di una pretesa di differenziazione che è
imputabile ad una “comunità”. Da ciò si evince, pertanto, che il riconoscimento (o il
diniego) di tali misure preferenziali non si esaurisce nella situazione del singolo, ma si
riflette inevitabilmente sull’intera categoria sociale di cui questi è parte.
Ma gli esempi possono continuare.
Nel campo della rappresentanza politica, i Giudici di Strasburgo hanno messo a
confronto i vincoli di utilizzo della lingua ufficiale nelle istituzioni elettive statali con le
garanzie di rappresentanza di collettività espressione di idiomi minoritari.
Il noto affaire Podkolzina83 ha riguardato, ad esempio, la cancellazione di una candidata
appartenente alla minoranza russofona presente in Lettonia dalle liste per l’elezione
dell’Assemblea legislativa, in ragione dell’insufficiente conoscenza della lingua nazionale.
Qui la Corte ha valutato la presunta discriminazione denunciata dalla candidata esclusa
con la prerogativa degli Stati di definire le condizioni di esercizio dei diritti elettorali. Ma,
come trapela da alcuni passi della sentenza, la questione ha riflessi che vanno oltre il profilo
della tutela antidiscriminatoria della ricorrente e investono anche la garanzia delle istanze di
partecipazione politica e istituzionale delle minoranze linguistiche come soggetti collettivi.
In effetti, il requisito della conoscenza della lingua ufficiale, se richiesto senza congrue
garanzie (sostanziali e procedurali), potrebbe configurare una limitazione sproporzionata e,
quindi, un trattamento deteriore dei gruppi linguistici minoritari, rispetto all’opportunità di
avere propri rappresentanti in seno all’Assemblea elettiva.
In via di principio, i Giudici di Strasburgo mostrano di non trascurare questo aspetto, ma
ritengono legittimo lo scopo perseguito dal legislatore lettone con la restrizione imposta ai
candidati all’elezione del Parlamento. Tenuto conto del margine di apprezzamento
riconosciuto alle Parti contraenti nella disciplina dei diritti elettorali (con il vincolo della
Per altri riferimenti, v. Mentzen c. Lettonie, ric. n. 71074/01, cit.; Bulgakov c. Ukraine, ric. n. 59894/00,
cit.; Baylac-Ferrer et Suarez c. France ric. n. 27977/04, cit.
80
Nell’affaire Mentzen alias Mencena c. Lettonie, 7 dicembre 2004, ric. n. 71074/01, la Corte parla di
«necessità di preservare l’integrità del sistema grammaticale e le tradizioni ortografiche» della lingua ufficiale di
un Paese.
81
Sent. 21-10-2008, ric. n. 37483/02.
82
Sent. 2-2-2010, ric. n. 30206/04 e altri.
83
Cfr. Podkolzina c. Lettonia, sent. 9-4-2002, ric. n. 46726/99.
24
ragionevolezza e proporzionalità delle limitazioni prescritte), l’obbligo di conoscere la
lingua ufficiale si riconnette all’interesse legittimo di ciascuno Stato di assicurare il buon
funzionamento del proprio sistema istituzionale, anche attraverso la definizione della lingua
impiegata nei lavori dell’Assemblea nazionale. Una scelta che, essendo dettata anche da
considerazioni di ordine storico e politico legate all’esperienza delle singole realtà statali, è
da ritenersi di esclusiva competenza degli ordinamenti interni.
La pronuncia in commento dichiara, quindi, la violazione dell’art. 3 del Protocollo n. 1
(diritto ad elezioni libere) non sulla base delle motivazioni per cui la candidata è stata
esclusa dalla competizione elettorale, ma perché la procedura che ne ha determinato
l’ineleggibilità (ai sensi dell’art. 5, par. 7 della disciplina elettorale) non è stata ritenuta
compatibile con le garanzie di un giusto procedimento e di certezza del diritto.
Nel dibattimento è emerso che, pur avendo prodotto un valido certificato attestante un
livello «superiore» di conoscenza della lingua lettone (come richiesto dall’art. 11, par. 5 della
legge elettorale), la ricorrente fu sottoposta ad una prova linguistica non conforme alla
normativa statale vigente84, sia con riguardo alla formazione della commissione
giudicatrice, sia per le dubbie garanzie di obiettività della procedura di valutazione85.
Per la Corte, i provvedimenti che dispongono la ricusazione di candidature, per
inosservanza dei necessari requisiti giuridici, devono essere adottati secondo criteri che
tutelino gli interessati da decisioni arbitrarie, mentre nella fattispecie esaminata sono
mancate quelle condizioni di oggettiva e imparziale applicazione della legge che debbono
essere assicurate in materia di eleggibilità (punto 36).
La garanzia dell’eguale accesso alla rappresentanza politica, da un lato, e la salvaguardia
delle opportunità di partecipazione democratica delle minoranze etnico-linguistiche,
dall’altro, rappresentano le chiavi di lettura di questo giudizio, in cui si incrociano istanze di
uniformità di trattamento nell’esercizio del diritto di concorrere per un ufficio elettivo ed
esigenze di integrazione sociale e istituzionale dei gruppi minoritari.
Infine, anche in ordine all’uso della lingua minoritaria nell’esercizio del diritto
all’istruzione ben si può evidenziare come il riconoscimento o la negazione di misure
preferenziali abbia effetti oltre la mera tutela antidiscriminatoria del singolo e si rifletta,
invece, anche sui gruppi cui questi appartiene.
Già nel 1968, nella causa Belgian Linguistics86, la Corte ha dovuto bilanciare la pretesa di
ricevere l’istruzione nella lingua minoritaria (avanzata da un gruppo di famiglie di lingua
84
Regolamento del 1992 sull’attestazione della conoscenza della lingua di Stato
La valutazione delle conoscenze linguistiche della ricorrente fu rimessa all’apprezzamento di
questa unica funzionaria (anziché di una commissione di esperti) cha esercitò, a giudizio della
Corte «un pouvoir exorbitant». La candidata fu infatti interrogata essenzialmente sulle ragioni della
propria scelta politica, soggetto che era del tutto estraneo all’esigenza di valutarne le buone
conoscenze linguistiche (punto 36).
86
Sent. 23-7-1968 (ric. n. 1474/62; 1677/62; 1691/62; 1769/63; 1994/63; 2126/64).
85
25
francese residenti in una regione del Belgio di lingua olandese) con le esigenze di
contenimento dei costi per la scuola pubblica o sovvenzionata dallo Stato.
In quell’occasione, i Giudici di Strasburgo rigettarono il ricorso e fecero salva
l’assimilazione linguistica determinata dal legislatore belga nell’imporre l’istruzione in
francese o olandese sulla base di un criterio di prevalenza di una di queste due lingue nella
regione considerata. Nei territori monolingue, infatti, non sarebbe stata economicamente
praticabile la scelta di offrire diverse modalità di fruizione del diritto allo studio a seconda
degli idiomi in essi presenti.
Come si può notare, il giudizio fu impostato alla stregua di un controllo di
ragionevolezza-proporzionalità fra l’istanza rivendicata dalle famiglie della comunità
francofona (il presunto diritto di ottenere l’istruzione in una lingua diversa da quella
maggioritaria) e l’esigenza di un utilizzo razionale delle risorse pubbliche.
All’interno di questo schema di valutazione diviene centrale il rapporto fra “diritti
riservati” o “differenziati” (anche alla luce della loro valenza collettiva) e diritti riconosciuti
alla generalità dei soggetti (parità di trattamento dei singoli nell’accesso all’istruzione,
sostenibilità dei bilanci pubblici, etc.) da cui la Corte ha ricavato il principio per cui la tutela
della lingua minoritaria non può configurarsi come diritto ad una prestazione pubblica, ma
solo come libertà, per le famiglie appartenenti ad un gruppo minoritario, di ricorrere
all’istruzione privata nella lingua madre.
Alla lettura combinata dell’art. 14 CEDU (divieto di discriminazione) con l’art. 2, Prot. n.
1 (in tema di diritto all’istruzione), dice la Corte, non è ascrivibile il diritto di ricevere
l’istruzione nella lingua prescelta. Al contrario, la tutela fornita da queste norme è più
limitata e attiene all’obbligo di ogni Parte contraente di assicurare a tutti il diritto allo
studio, senza discriminazione alcuna (anche sulla base della lingua), ossia di avere accesso
garantito all’istruzione nella lingua stabilita dallo Stato a prescindere dalla propria
appartenenza linguistica. «Questo è il significato ordinario» delle due disposizioni, richiamate - si
legge nella sentenza -, mentre interpretarle in modo diverso «conduirait à des résultats absurdes,
car chacun pourrait ainsi revendiquer une instruction donnée dans n’importe quelle langue dans l’un
quelconque des territoires des Parties Contractantes»87.
In linea con tale indirizzo, nella sentenza Catan e altri c. Repubblica di Moldova e Russia,
dell’ottobre 201288, il Giudice dei diritti umani si è pronunciato sul ricorso di alcune
87
Questo stesso modo di argomentare porta invece la Corte (nella sentenza Cipro v. Turchia) a
ritenere incompatibile con l’art. 2 del Protocollo n. 1 il rifiuto della autorità cipriote di assicurare ad
alcuni bambini di lingua greca residenti nella parte nord del Paese (dove è predominante il turco)
l’istruzione in lingua greca. Nel bilanciamento fra esigenze ‘particolari’ di una data comunità
linguistica e garanzie di uniformità, la preferenza accordata alla tutela dell’idioma minoritario è
stata dettata dalla constatazione che, avendo ricevuto l’istruzione primaria in lingua greca, i
medesimi bambini non avrebbero potuto iscriversi ad una scuola secondaria se non alle stesse
condizioni. La lingua, in definitiva, ha rappresentato, per questa fattispecie, il presupposto per
assicurare l’accesso allo studio.
88
Del 19-10-2012, ric. n. 43370/04, 8252/05 e 18454/06.
26
famiglie appartenenti alla comunità moldava della Transnistria che lamentavano la lesione
del diritto allo studio dei propri figli in ragione della politica linguistica adottata dal regime
separatista nel 1992 e nel 1994, da cui è derivato il divieto di utilizzo dell’alfabeto latino
negli istituti scolastici e la chiusura forzata delle scuole di lingua moldava-romena89.
La decisione ribadisce che l’art. 2, Prot. n. 1 assicura il diritto all’istruzione nella lingua
nazionale (o nelle lingue nazionali) di uno Stato, e sulla base di questo assunto ne dichiara
la violazione, in quanto i genitori appartenenti alla comunità moldava altro non
rivendicavano che l’opportunità, per i loro figli, di ricevere «un enseignement dans la langue
officielle de leur pays, qui était aussi leur propre langue maternelle» (par. 143)90.
In conclusione, per riassumere in poche battute ciò che si percepisce – sebbene come
semplice sfumatura – dalla rassegna giurisprudenziale qui proposta, si può affermare che,
pur nell’applicazione di norme concepite e formulate rispetto ad una concezione
individualistica dei diritti fondamentali, la dialettica fra eguaglianza formale e sostanziale ha
introdotto nel sistema CEDU anche una dimensione collettiva della tutela dei diritti legati
al fenomeno minoritario.
5.1. In alcuni giudizi affrontati dalla Corte dei diritti umani le garanzie di non
discriminazione previste dalla Convenzione sono state espressamente indirizzate anche alla
protezione di ‘situazioni’ linguistiche minoritarie91.
La tutela di un idioma minoritario, come elemento identificativo di peculiari collettività
sociali, è emersa in modo esplicito nell’orientamento che la Corte europea ha espresso nelle
recenti pronunce che hanno affrontato la questione dell’integrazione scolastica di minori
89
La decisione sancisce la violazione dell’art. 2 del Protocollo n. 1 alla CEDU da parte della
Federazione russa, in quanto il regime separazionista non sarebbe continuato senza l’appoggio
militare, politico ed economico della Russia, ravvisando, di conseguenza, una responsabilità di
questo Paese sul piano della garanzia dei diritti riconosciuti dalla Convenzione. La motivazione
porta invece la Corte a non riconoscere alcuna responsabilità in capo alla Moldavia, Paese che si è
astenuto dal sostenere il regime separatista e anzi, come rilevato nel giudizio, ha speso sforzi
considerevoli per venire in aiuto alla comunità moldava in Transnistria.
90
In luogo di questa protezione, riconosce la Corte, i membri della comunità moldava della
Transnistria sono stati «messi nella situazione ingrata di dover scegliere» fra due alternative sfavorevoli
rispetto alle proprie legittime aspettative: «d’une part, envoyer leurs enfants dans des écoles où ils seraient
désavantagés par le fait de devoir accomplir toute leur scolarité secondaire dans une combinaison langue/alphabet que
les parents requérants jugent artificielle, qui n’est reconnue nulle part ailleurs dans le monde et qui implique
l’utilisation d’un matériel pédagogique conçu à l’époque soviétique et, d’autre part, obliger leurs enfants à effectuer de
longs trajets ou à aller dans des locaux ne répondant pas aux normes, et à subir des actes de harcèlement et
d’intimidation».
91
Come affermano anche F. Palermo, J. Woelk, Diritto costituzionale comparato dei gruppi, cit., 102,
con riferimento all’applicazione del principio di eguaglianza, «nell’ultimo decennio la
giurisprudenza della Corte … si [è] spinta frequentemente a decidere su questioni relative a diritti
delle minoranze».
27
appartenenti a gruppi di etnia rom. In questo filone giurisprudenziale si può osservare
come i Giudici di Strasburgo abbiano messo al centro dei propri giudizi la garanzia dei
diritti di queste minoranze, in quanto gruppi che versano in una condizione di svantaggio
sociale, e hanno ricavato dalla Convenzione misure di tutela delle istanze collettive dalle
stesse rivendicate92.
I ricorsi presentati hanno riguardato normative e prassi statali che prevedevano scuole o
classi separate (poste al di fuori degli edifici scolastici) destinate prevalentemente - o
addirittura in via esclusiva - a bambini rom. Uno dei problemi principali legati a queste
“nuove minoranze” etnico-linguistiche, infatti, concerne l’analfabetismo e la bassa
scolarizzazione, profilo che ha inevitabilmente a che fare anche con le politiche di
integrazione linguistica. E proprio in ordine all’inserimento scolastico, la Corte europea,
avvalendosi della nozione di discriminazione indiretta, si è preoccupata di fissare rigorosi
limiti alla possibilità di destinare a studenti rom un trattamento differenziato, nell’ottica di
evitare, anche solo come riflesso di politiche formulate in modo neutro, il prodursi di
effetti segreganti93.
Già nel 2007, la Grande Camera ebbe ad affermare, nel caso D.H. e altri c. Repubblica ceca,
che la pratica, all’epoca in vigore in questo Paese, di inserire gran parte dei minori rom in
scuole per alunni con deficit di apprendimento, non è compatibile con la garanzia di un
eguale accesso all’istruzione, con conseguente violazione degli artt. 14 CEDU e 2 Prot. n.
1.
92
Si precisa, però, che oltre alla lingua, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha considerato
anche la salvaguardia dello “stile di vita nomade” come tradizione e fattore meritevole di
protezione che contraddistingue una collettività, quale la minoranza rom, bisognosa di peculiari
attenzioni ad opera degli ordinamenti statali ‘ospitanti’, tenuto conto della propria condizione di
vulnerabilità (un orientamento abbozzato già nel caso Buckley c. Royaume-Uni (1996), ma espresso in
modo esplicito a partire dalla sentenza Chapman et autres c. Royaume-Uni (del 18-1-2001), nella quale,
in una fattispecie riguardante il diniego di autorizzazione opposto ad una donna rom di nazionalità
britannica a stazionare con un caravan su un terreno di sua proprietà, i Giudici di Strasburgo
hanno ascritto alla tutela dell’art. 8 della Convenzione non solo la libertà di domicilio e la
protezione della vita familiare della ricorrente, ma anche il diritto della comunità rom di preservare
la propria «identità zigana» (cfr. par. 73: «La Cour considère que la vie en caravane fait partie intégrante de
l'identité tsigane de la requérante car cela s'inscrit dans la longue tradition du voyage suivie par la minorité à
laquelle elle appartient»), affermando l’obbligo positivo delle Parti contraenti di adottare misure
idonee a facilitarne «il modo tradizionale di vita» (sul punto, v. P. Bonetti, I nodi giuridici della
condizione di Rom e Sinti in Italia, in P. Bonetti, A. Simoni, T. Vitale (cur.), La condizione giuridica di
Rom e Sinti in Italia, Milano, Giuffré, 2011, 107). In linea con questo indirizzo anche le decisioni
Connors c. Royaume-Uni, del 27-5-2004, e Yordanova et autres c. Bulgarie, del 24-4-2012, su cui v. M.C.
Locchi, Alcune considerazioni su limiti e ambiguità del riconoscimento giuridico delle differenze culturali a partire
dalla giurisprudenza sui rom della Corte europea dei diritti dell’uomo, in www.diritti-cedu.unipg.it, 2012, 1
ss.
93
Cfr. D. Strazzari, C’è un giudice a Strasburgo! La Corte europea dei diritti dell’uomo e la tutela contro la
discriminazione degli appartenenti all’etnia rom, in S. Baldin, M. Zago (cur.), Il mosaico rom. Specificità
culturali e governance multilivello, Milano, Franco Angeli, 2011, 196 ss. e S. Baldin, Le minoranze rom fra
esclusione sociale e debole riconoscimento giuridico. Uno studio di diritto pubblico europeo e comparato, Bologna,
Bononia University Press, 2012, 93 ss.
28
La scelta del legislatore ceco di diversificare le modalità di inserimento nella scuola
primaria in ragione dei risultati di test psico-attitudinali, al fine di assegnare ad istituti
speciali quelle categorie di bambini sprovvisti delle conoscenze di base, evidenziava come
in tali strutture fosse collocata la quasi totalità degli alunni di etnia rom (una percentuale fra
l’80 e il 90%)94.
Una siffatta sproporzione viene dalla Corte considerata, di per sé, indice sufficiente per
fondare una discriminazione indiretta a danno della comunità rom (par. 195), i cui minori
sono stati posti in una situazione di netto svantaggio (visto il livello inferiore dei
programmi seguiti) rispetto all’opportunità di intraprendere un adeguato percorso
formativo.
Il sistema di scolarizzazione preso in esame non ha saputo «aiutare i bambini rom ad
inserirsi in scuole ordinarie e a sviluppare capacità atte a facilitare la loro vita all’interno
della popolazione maggioritaria» ma, al contrario, i ricorrenti «hanno ricevuto
un’educazione che ne ha accentuato le difficoltà e compromesso l’ulteriore personale
sviluppo» (par. 207)95. Per la Corte, dunque, la normativa censurata ha prodotto, di fatto,
ripercussioni pregiudizievoli oggettivamente eccessive su un gruppo etnico in particolare e, di
conseguenza, un impatto discriminatorio che si riconnette alle origini etniche degli scolari,
alle quali si lega anche la diversa appartenenza linguistica96.
94
Cfr. par. 192. Con questa decisione, del 13-12-2007, la Grande Camera ha riformato quanto
stabilito da una precedente pronuncia della seconda Sezione del 7-2-2007, che non aveva
riscontrato alcun riflesso discriminatorio nel modello di istruzione della Repubblica Ceca, in
quanto l’inserimento nelle scuole speciali non era determinato dall’origine etnica, ma queste erano
state istituite con lo scopo legittimo di fornire un sistema educativo che si adattasse alle esigenze di
soggetti con difficoltà di apprendimento. Per un commento su questa vicenda, v. F. Staiano, Diritto
dei minori rom all’istruzione in condizioni di non discriminazione: il caso Oršuš e altri c. Croazia, in Diritto
Immigrazione Cittadinanza, 1/2011, 93 ss.
95
«Dans ces conditions, la Cour, tout en reconnaissant les efforts fournis par les autorités tchèques en vue de
scolariser les enfants roms, n’est pas convaincue que la différence de traitement ayant existé entre les enfants roms et
les enfants non roms reposât sur une justification objective et raisonnable et qu’il existât un rapport raisonnable de
proportionnalité entre les moyens employés et le but à atteindre» (par. 208).
96
Al riguardo, i ricorrenti contestano (par. 138 della sentenza) il fatto che le difficoltà
linguistiche degli alunni rom (insieme ad altri fattori, quali la povertà o una condizione sociale
differente) possano costituire giustificazioni ragionevoli e oggettive al diverso trattamento ad essi
riservato e rammentano che lo stesso governo ceco ha ammesso che «un requérant avait été placé dans
une école spéciale alors qu’il possédait de bonnes capacités d’expression verbale» (par. 141). E, in effetti, anche
la Corte rileva (par. 200) che il Comitato consultivo della Convenzione quadro per la protezione
delle minoranze nazionali ha osservato che anche bambini non affetti da handicap mentale sono
stati comunque collocati in scuole speciali «en raison d’une différence linguistique ou culturelle réelle ou
supposée par rapport à la majorité». Non a caso, molte delle organizzazioni intervenute in giudizio a
sostegno dei ricorrenti (tra cui, Minority Rights Group International, European Network Against Racism e
European Roma Information Office, nonché International Step by Step Association, Roma Education Fund et
European Early Childhood Education Research Association) hanno sottolineato (parr. 167 e 168) questa
forma di discriminazione sulla base della appartenenza linguistica, di cui non si è tenuto conto nella
definizione dei test di valutazione per l’orientamento degli alunni. Ciò che ha portato i soggetti
intervenienti a sostenere che, al fine di assicurare un eguale trattamento dei bambini rom nella
29
L’affaire D.H. e altri c. Repubblica ceca segna una svolta importante, che trova
consolidamento e argomentate delucidazioni nei diversi casi che in questi anni sono stati
portati alla cognizione del Giudice dei diritti umani. Da essi si ricava che la tutela
antidiscriminatoria fornita dalla Convenzione al diritto allo studio non impedisce un
trattamento differenziato rivolto a particolari categorie di minori, se serve ad adattare il
sistema educativo ai bisogni specifici di questi soggetti. Un approccio diversificato
nell’accesso all’educazione scolastica non è certo illegittimo, ma anzi può essere
indispensabile in ragione di una situazione oggettiva di ineguaglianza degli allievi che ne
sono destinatari.
Nondimeno, per escludere l’esistenza di pratiche segregazioniste, anche indirette, ogni
provvedimento che si diriga in via prevalente o esclusiva ad un’etnia deve superare uno
scrutinio particolarmente rigoroso. Lo Stato ha l’onere di provare non solo che le politiche
adottate nei confronti del gruppo minoritario servono a ristabilire una condizione di parità
sostanziale, ma anche che i mezzi adoperati sono appropriati al fine perseguito e
accompagnati da garanzie idonee ad evitare riflessi discriminatori97.
Così, il caso Oršuš e altri c. Croazia98 dichiara il contrasto con l’art. 14 CEDU e con l’art 2,
Prot. n. 1 della decisione con cui le istituzioni scolastiche croate hanno creato classi
composte esclusivamente da alunni di origine rom, collocate al di fuori degli edifici
scolastici, al fine (dichiarato) di sopperire alle carenze linguistiche di questi allievi.
Per la Corte, pur nell’ambito del margine di apprezzamento riconosciuto agli Stati nel
campo delle politiche educative, il ‘doppio’ modello di inserimento nella scuola primaria
avviato in Croazia non appare ragionevolmente calibrato sulle specifiche esigenze dei
minori appartenenti a questa minoranza e nemmeno è affiancato da garanzie idonee a
prevenire ricadute discriminatorie. Oltre a constatare che la collocazione in classi separate,
in ragione della diversità linguistica, è avvenuta in assenza di criteri definiti in modo preciso
e trasparente dalla legge99, i Giudici di Strasburgo accertano altresì che tale pratica non è
fruizione del diritto allo studio, «les Etats doivent donc apporter des modifications à cette procédure
d’évaluation … et prendre des mesures positives dans le domaine de la formation aux langues et aux aptitudes
relationnelles».
97
Così la citata pronuncia D.H. e altri c. Repubblica ceca, parr. 195 ss. e par. 207, in cui la Corte
afferma che «il ressort des faits de l’espèce que le processus de scolarisation des enfants roms n’a pas été entouré de
garanties … permettant de s’assurer que, dans l’exercice de sa marge d’appréciation en matière d’éducation, l’Etat a
tenu compte des besoins spécifiques de ces enfants découlant de leur position défavorisée».
98
Sent. 16-3-2010, ric. n. 15766/03.
99
La Corte nota che all’epoca dei fatti la legislazione croata sulla scuola primaria e sul numero
massimo di allievi per classe non prevedeva la creazione di classi separate per bambini che non
avessero raggiunto un’adeguata conoscenza della lingua ufficiale e che i test utilizzati per collocare
gli alunni rom in classe separate non sono stati concepiti per valutare il livello linguistico ma per
verificarne il grado di sviluppo psico-fisico (cfr. parr. 158-159).
30
stata sorretta da idonee garanzie in merito alla possibilità di migliorare la conoscenza della
lingua croata e al passaggio dei minori rom a classi miste100.
Di fatto, quindi, la normativa si è tradotta in una sorta di “segregazione” a motivo della
lingua, e lo stesso schema di giudizio si ripropone anche nelle sentenze con cui sono stati
decisi due analoghi ricorsi contro le autorità greche, nel 2008 e nel 2012, in cui la Corte dei
diritti umani ha, ancora una volta, giudicato incompatibili con il principio di non
discriminazione nell’accesso allo studio provvedimenti di scolarizzazione ‘riservata’ o
‘separata’ nei confronti di minori rom101.
Anche qui, alla luce di una valutazione di necessità e di proporzionalità delle misure
speciali adottate, l’argomento che sorregge la doppia bocciatura di Strasburgo attiene
all’assenza di sufficienti misure di protezione di «una minoranza svantaggiata e vulnerabile» e,
perciò, bisognosa di speciali attenzioni da parte degli Stati102, anche sul piano delle diversità
di lingua e di cultura103. Come si può evincere dalle cause analizzate, infatti, un’adeguata
politica di integrazione linguistica si riconnette alla possibilità di soddisfare il diritto
all’istruzione dei minori rom, che la Corte definisce un “interesse primordiale” proprio con
riguardo a gruppi sociali che versano in una condizione di debolezza strutturale rispetto alla
popolazione maggioritaria104.
La Corte certamente è consapevole che la ricerca del «modo migliore per risolvere le difficoltà di
apprendimento di bambini non dotati di una sufficiente conoscenza della lingua in cui è impartita
l’istruzione» è il frutto di una delicata operazione di «bilanciamento dei diversi interessi in gioco»
(par. 180). Il che impedisce, ovviamente, di entrare nel merito delle scelte statali riguardanti
modelli e programmi scolastici, ma ciò non toglie che il potere discrezionale delle Parti
100
I Giudici di Strasburgo rilevano che gli alunni iscritti nelle classi speciali non hanno
beneficiato di programmi speciali e che i corsi supplementari di lingua croata non sono stati
assicurati in modo costante. Inoltre, nel corso del giudizio è emerso che alcuni degli allievi rom
non sono mai passati ad una classe ‘convenzionale’ anche dopo aver raggiunto un’adeguata
conoscenza della lingua ufficiale.
101
Corte europea dei diritti dell’uomo, sez. I, 5-6-2008, ric. n. 32526/05, Sampanis e altri c. Grecia
e 11-12-2012, Sampani e altri c. Grecia.
102
Cfr. D.H. e altri c. Repubblica Ceca, cit., par. 181; Oršuš e altri c. Croazia, cit., par. 147.
103
Sia nella pronuncia del 2008 che in quella del 2012 mancano, ad avviso della Corte, i
presupposti per configurare una ragionevole e congrua soluzione alle specifiche esigenze di questa
categoria di minori. Gli allievi di tali scuole (quasi esclusivamente rom sebbene, dopo la pronuncia
del 2008, i motivi relativi a specifiche esigenze di apprendimento avrebbero dovuto riguardare
indistintamente qualsiasi bambino) sono stati costretti a studiare in sedi separate dagli istituti
‘ordinari’ e in condizioni materiali che hanno reso, se non impossibile, particolarmente difficoltoso
il raggiungimento di un livello sufficiente di scolarizzazione (dalle carenze strutturali degli edifici, ai
libri di testo inadatti a bambini non parlanti la lingua greca). L’esito dei giudizi conduce allora ad
accertare una pratica che, sebbene apparentemente neutra, finisce con l’avere ricadute indirette in
chiave discriminatoria riconducibili alla identità etnico-linguistica di un intero nucleo sociale.
104
Cfr. D.H. e altri c. Repubblica Ceca, cit., par. 182; Oršuš e altri c. Croazia, cit., par. 147, in cui si
parla d’«un intérêt primordial».
31
contraenti deve manifestarsi entro limiti necessari a preservare l’eguaglianza nella garanzia
del diritto allo studio.
E’ in tale ambito che può, dunque, operare il controllo sul rispetto delle clausole della
Convenzione sui diritti umani, diretto ad appurare la presenza di istituti e garanzie che
assicurino un rapporto di ragionevole proporzionalità fra le politiche adottate e gli scopi
perseguiti. E, al riguardo, in tutti i casi analizzati, invece, l’approccio diversificato nei
confronti dei bambini rom ha avuto come (unica) conseguenza quella di acuire la
condizione di emarginazione di una minoranza già “particolarmente sfavorita”.
L’importanza di queste fattispecie, per l’indagine qui condotta, deriva dalla constatazione
che la Corte accerta una violazione della Convenzione proprio come lesione di una
situazione del “gruppo” minoritario. Ricorrendo, come si è anticipato, alla nozione di
“discriminazione indiretta”, intesa come comportamento in sé neutro, ma che di fatto dà
vita ad un trattamento deteriore di una particolare categoria di soggetti, la Corte arriva ad
utilizzare la Convenzione per garantire gli interessi e i diritti a carattere “collettivo”,
riferibili cioè alla condizione di un’intera comunità linguistica105.
In altre parole, la necessità di ‘includere’ nei propri parametri di valutazione anche
l’appartenenza linguistico-culturale ed etnica106 porta la Corte a proiettare le tutele della
Convenzione direttamente ed esplicitamente nella dimensione collettiva delle minoranze.
5.2. Anche la giurisprudenza della Corte di Giustizia ha preso in esame i diritti delle
minoranze linguistiche alla luce delle discipline che gli Stati membri hanno adottato per la
tutela degli interessi propri di tali comunità ‘parziali’. Fino ad ora, però, l’approccio di
questo Giudice si è rivolto, in via prevalente, a garantire il principio della parità di
trattamento fra i cittadini degli Stati membri e a bilanciare i “diritti speciali” riconosciuti alle
minoranze linguistiche con la garanzia dell’eguaglianza formale, al fine di evitare casi di
discriminazione a contrario.
Al riguardo, sono noti i casi Mutsch (1985)107 e Bickel e Franz (1998)108, in cui la Corte ha
consentito l’utilizzo di una lingua minoritaria nell’ambito di procedimenti giudiziari a carico
di cittadini comunitari non appartenenti alla minoranza espressione di quell’idioma109.
105
Nell’affaire D.H e altri c. Repubblica ceca, cit., par. 181, si legge che «la Cour a … observé qu’un
consensus international se faisait jour au sein des Etats contractants du Conseil de l’Europe pour reconnaître les
besoins particuliers des minorités».
106
Sui possibili rischi e limiti della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo
rispetto a soluzioni giuridiche che tengano conto delle specificità culturali v. M.C. Locchi, Alcune
considerazioni su limiti e ambiguità del riconoscimento giuridico delle differenze culturali, cit., 7 ss.
107
Corte di Giustizia, sent. 11-7-1985, causa 137/84, in Racc., 2681 ss., su cui B. De Witte, Il caso
Mutsch: libertà di circolazione dei lavoratori e uso delle lingue, in Foro it., IV, 1985, 8 ss.
108
Corte di Giustizia, sent. 24-11-1998, causa 274/96, in Racc., I-7637.
109
Nel primo caso alla Corte è stato chiesto se, in relazione all’art. 220 TCEE, un cittadino
lussemburghese residente in Belgio avesse il diritto di utilizzare il tedesco (sua lingua madre) in un
32
Per la Corte la normativa di uno Stato membro che agevoli l’espressione linguistica di un
gruppo presente sul proprio territorio costituisce obiettivo legittimo, ma, in virtù dei
principi di non discriminazione sulla base della nazionalità, la stessa garanzia deve essere
estesa anche ad altri cittadini dell’Unione che soddisfino tutte le condizioni cui è
subordinato l’esercizio di questo diritto da parte degli appartenenti alla comunità linguistica
interessata.
L’estensione di una prerogativa riconosciuta ad una minoranza insediata in uno Stato
membro ad altri cittadini dell’Unione non pregiudica, infatti, il fine perseguito sul piano
interno e concorre ad assicurare l’effettiva libertà di circolazione e di soggiorno in ambito
comunitario.
Nello spirito dell’abolizione di ogni ostacolo all’unione economica si inserisce anche la
successiva sentenza Roman Angonese c. Cassa di Risparmio di Bolzano110, che vede la Corte
affrontare in modo più specifico il problema della compatibilità di misure “differenziate”
introdotte a favore di una minoranza linguistica con la vocazione universale dei diritti
fondamentali.
La causa riguarda la riserva di posti di lavoro nel settore pubblico e nei servizi di
pubblico interesse, che nella Provincia di Bolzano è riconosciuta a favore dei gruppi di
lingua tedesca e ladina attraverso il meccanismo della «proporzionale etnica». L’istituto
opera subordinando l’accesso alle procedure di assunzione al possesso di un attestato di
bilinguismo (il c.d. “patentino”), rilasciato dalla Provincia di Bolzano111.
procedimento penale promosso in un comune di lingua tedesca, dato che la legge tale Paese
accordava tale diritto ai cittadini belgi ivi residenti. La risposta affermativa, nella fattispecie, è
giustificata dal fatto che la facoltà per un lavoratore migrante di utilizzare la propria lingua nei
procedimenti giudiziari alla pari dei lavoratori cittadini dello Stato deriva dai principi della non
discriminazione sulla base della nazionalità (art. 7 TCEE) e della libera circolazione dei lavoratori
negli Stati membri (art. 48 TCEE) ed è strumento di integrazione sua e della sua famiglia nel paese
ospitante, tale da ascriversi alla nozione di «vantaggio sociale» di cui all’art. 7, c. 2, reg. (CEE) n.
1612/68 del Consiglio, del 15-10-1968 (per un commento a dette pronunce, v. E. Palici Di Suni
Prat, Intorno alle minoranze, cit., 174 ss. e ora anche S. Sau, Le garanzie linguistiche nel processo penale.
Diritto dell'interprete e tutela delle minoranze riconosciute, Padova, Cedam, 2010, 248).
Ampliando ulteriormente la garanzia dell’uso di una lingua minoritaria, nella causa Bickel e Franz,
la Corte ribadisce che il principio della parità di trattamento fra cittadini comunitari può essere
invocato anche da parte di soggetti che esercitano la propria libertà fondamentale di circolazione,
senza tuttavia avere la residenza in un altro Stato membro. In tale fattispecie infatti il Giudice
comunitario ha ammesso un austriaco ed un tedesco, perseguiti penalmente per fatti commessi
mentre si trovavano in Alto-Adige (guida in stato di ebbrezza e possesso di arma proibita), ad
utilizzare nei rispettivi procedimenti penali la lingua tedesca, quale diritto già riconosciuto alla
minoranza residente nella Provincia di Bolzano.
110
Corte di giustizia, sent. 6-6-2000, causa C-281/98, Roman Angonese vs. Cassa di risparmio, in
Racc., 2001, I-4139, su cui v. la nota di F. Palermo, Diritto comunitario e tutela delle minoranze: alla ricerca
di un punto di equilibrio, in questa Rivista, 2000, 769 ss. e E. Palici Di Suni Prat, Intorno alle minoranze,
cit., 175 s.
111
In argomento, v. G. Poggeschi, La proporzionale «etnica», in J. Marko, S. Ortino, F. Palermo
(cur.), L’ordinamento speciale della provincia autonoma di Bolzano, Padova, Cedam, Padova, 2001, 686 ss.
33
La Corte conferma che l’adozione di normative speciali che in alcuni territori siano
dirette a salvaguardare e valorizzare situazioni linguistiche minoritarie persegue una finalità
legittima degli Stati ma ritiene, allo stesso tempo, che occorra una “gestione” ragionevole di
questi provvedimenti, tale da bilanciare in modo proporzionato le istanze collettive di
diversità con la tutela contro arbitrarie discriminazioni112.
Nel caso di specie, se appare legittimo limitare la libertà di circolazione dei lavoratori,
imponendo il requisito della conoscenza di entrambe le lingue ufficiali della Provincia di
Bolzano, l’obbligo di presentare il certificato di bilinguismo conferito dall’autorità del
luogo, con conseguente impossibilità di provare i titoli richiesti con altre qualifiche
equivalenti ottenute in altri Stati membri, non può che considerarsi sproporzionato rispetto
allo scopo di proteggere le particolari identità linguistiche del territorio, così da integrare un
fattore discriminante sulla base della cittadinanza113.
Per evitare, quindi, che il meccanismo preferenziale denunciato produca una
discriminazione sulla base della cittadinanza (vietata ai sensi dell’art. 48 del Trattato), le
conclusioni della Corte impongono una necessaria equiparazione fra gli attestati di
bilinguismo conseguiti fuori dalla Provincia di Bolzano e il “patentino” rilasciato dalle
autorità locali.
Ragionevolezza, adeguatezza e congruità rispetto agli scopi individuati dai legislatori
statali sembrano, dunque, essere i presupposti sulla cui base i Giudici di Lussemburgo
hanno verificato la dialettica fra principi comunitari e normative nazionali di tutela
minoritaria.
Tali parametri di valutazione hanno però riguardato giudizi che, in relazione agli interessi
propri delle minoranze linguistiche come soggetti collettivi, hanno affrontato solo la
questione dei limiti entro cui le misure positive messe in campo dai Paesi membri, al fine di
preservare le specifiche peculiarità linguistiche di alcune comunità, sono da ritenersi
conformi alle inderogabili esigenze di uniformità su cui si basa l’ordinamento comunitario.
112
F. Palermo, Diritto comunitario e tutela delle minoranze: alla ricerca di un punto di equilibrio, cit., 972.
La causa origina dal ricorso al Pretore di Bolzano che un cittadino italiano di lingua materna
tedesca, residente in Italia nella Provincia di Bolzano, promuove a seguito della partecipazione al
concorso di assunzione per un posto di lavoro presso la Cassa di Risparmio di Bolzano. Il Sig.
Angonese aveva trascorso in Austria un periodo di perfezionamento dei propri studi fra il 1993 e il
1997. Tornato in Italia, nell’agosto del 1997 si candida al concorso indetto dall’istituto bancario,
dal quale viene escluso per non aver prodotto (come richiesto dal bando) il certificato di
bilinguismo (italiano-tedesco) rilasciato dalle autorità locali. Il candidato, però, era perfettamente
bilingue, e ai fini dell’ammissione al concorso di assunzione aveva allegato il suo diploma di
maturità per geometri, i certificati attestanti studi linguistici in inglese, sloveno e polacco, compiuti
presso la Facoltà di filosofia dell’Università di Vienna, e aveva dichiarato che tra le sue esperienze
lavorative figurava l’esercizio delle attività di geometra e di traduttore dal polacco in italiano.
Per queste ragioni il signor Angonese si rivolge al Pretore di Bolzano per chiedere che sia
dichiarata illegittima la clausola relativa al possesso obbligatorio dell’attestato per presentarsi al
concorso e, in tal sede, il giudice solleva rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia affinché ne
verifichi la compatibilità con il principio comunitario della libera circolazione dei lavoratori.
113
34
Come si è opportunamente rilevato, l’orientamento della Corte di Giustizia si è diretto,
per lo più, verso la garanzia del principio di parità114, tanto che da questa giurisprudenza si
è finanche ricavata l’idea che il mercato comune possa non solo limitare la capacità
dell’Unione di adottare politiche che abbiano riflessi sulla protezione delle minoranze, ma
anche incidere sulla possibilità degli Stati di definire discipline ad hoc per i gruppi minoritari
presenti nei propri territori115.
E’ mancato, in altri termini, in assenza di norme attributive di una specifica competenza,
un intervento dell’Unione diretto a tutelare le minoranze linguistiche, come soggetti
collettivi titolari di diritti, rispetto alle discriminazioni di cui queste possano essere vittime
al suo interno.
6. Il difetto di clausole identificative di specifiche tutele sovranazionali a favore delle
minoranze non sembra poter escludere, come si cercherà di illustrare, un contributo della
Corte di giustizia ad un’interpretazione delle legislazioni nazionali che possa anche
correggerne eventuali riflessi lesivi sulla garanzia di situazioni minoritarie, anche sul piano
linguistico.
Del resto, la carenza di competenze comunitarie in tale ambito è da più parti segnalata
come nota di contraddizione (o meglio come una «discrepanza»116) rispetto al sistema di
condizionalità individuato dal Consiglio di Copenaghen, basato anche sulla presenza negli
ordinamenti nazionali di istituzioni stabili in grado di assicurare «il rispetto e la protezione delle
minoranze».
Detto criterio politico, cui sono stati subordinati i più recenti processi di allargamento ad
Est dell’Europa unita117, e al quale dovranno allinearsi le future adesioni, perderebbe di
significato se non fosse ‘supportato’ da adeguati meccanismi sovranazionali per vigilare
sulla tutela dei gruppi minoritari da parte degli Stati membri. La clausola sul rispetto delle
114
Così E. Palici Di Suni Prat, Intorno alle minoranze, cit., 141 ss.
Di questo avviso D. Kochenov, op. cit., 52.
116
Così C. Hillion, op. cit., 727, ma dello stesso avviso anche B. Burns, The “Idea of Europe” and the
EU Minority Protection Conditionality, in UACES papers, Academic Association for Contemporary
European Studies, Cambridge, 2001, 18 ss.; B. De Witte, Politics versus law in the EU’s Approach to
Ethnic Minorities, in J. Zielonka (cur.), Europe Unbound: Enlarging and Reshaping the Boundaries of the
European Union, London, Routledge, 2002, 7, 139, nonché, più di recente, N. Bhatia, Lost in
Translation: Linguistic Minorities in the European Union, in Human Rights & Human Welfare, 2010, 16 ss.
e D. Kochenov, op. cit., 47.
117
Per questo aspetto v. M. Ganino, Democrazia e diritti umani nelle Costituzioni dei Paesi dell'Europa
orientale, in M. Ganino, G. Venturini (cur.), L’Europa di domani. Verso l’allargamento dell'Unione,
Milano, Giuffrè, 2002, 117 ss.
115
35
minoranze rimarrebbe un limite solo di carattere preventivo che l’Unione non riesce a far
valere nella propria sfera di giurisdizione118.
Una questione paradigmatica che, in tale prospettiva, è stata più volte segnalata riguarda
la condizione delle minoranze russofone presenti nelle Repubbliche baltiche, con
particolare riferimento all’Estonia e alla Lettonia119.
Si tratta di realtà linguistiche che vedono un ridotto accesso a diritti e istituti
fondamentali per lo sviluppo e l’integrazione nei Paesi in cui sono insediate e dove i propri
membri risiedono in modo permanente.
Nel 1991, quando (a seguito del dissolvimento dell’URSS) Estonia, Lettonia e Lituania
hanno riacquistato la propria indipendenza, hanno concesso in modo automatico la
cittadinanza solo a quelle persone che risultavano possedere la nazionalità di tali Paesi al 17
giugno 1940, data dell’annessione all’Unione sovietica. Le popolazioni provenienti da altre
repubbliche sovietiche, che durante il periodo dell’ “occupazione” si sono trasferite in
questi territori, invece, non hanno potuto assumere la cittadinanza dei neonati Stati. Questi
gruppi minoritari, per lo più russofoni120, e i loro discendenti sono, quindi, considerati
apolidi e possono ottenere lo status di cittadino solo attraverso un processo di
naturalizzazione che prevede, fra i requisiti richiesti, anche il superamento di un esame di
conoscenza della lingua ufficiale e della storia del Paese121.
Nella fase di ricostruzione della propria identità politica, la riemersione di spinte
nazionalistiche ha portato tali ordinamenti a ripristinare le leggi sulla cittadinanza in vigore
118
R.F. Weber, Individual Rights and Group Rights in the European Community’s Approach to Minority
Languages, in Duke Journal of Comparative & International Law, vol. 17, 2007, 378-379, per il quale
«Protection of minority rights is a sine qua non for admission into the EC, but once a state enters, it
seems, rights for the minorities residing within its boundaries lose their legal protection. In a sense,
the requirement emphasizes the blind spot within the EC framework: the EC pressures future
members to shore up constitutional and legal protection for minorities ex ante, because it knows
that once admitted, such efforts are currently outside the scope of the Treaties, and the EC will be
powerless to address them».
119
Fra i tanti, v. i già citati B. Burns, op. cit., 25 ss. e C. Hillion, op. cit., 727, ma anche P. Van
Elsuwege, Russian-Speaking Minorities in Estonia and Latvia: Problems of Integration at the Threshold of the
European Union, in ECMI Working Paper, 2004, 1 ss. J-B. Adrey, Minority Language Rights Before and
After the 2004 EU Enlargement: The Copenhagen Criteria in the Baltic States, in Journal of Multilingual &
Multicultural Development, 26, n. 5, 2005, 453 ss. Per la dottrina italiana, v. F. Forni, Cittadinanza
dell’Unione europea e condizione delle minoranze negli Stati membri, in Dir. Un. eur., 4/2010, 835 ss.
120
Nota opportunamente A. Carteny, Autonomismi regionali e minoranze nazionali in Europa dal 1989,
in E. Pföstl (cur.), Regionalismi e integrazione europea, Roma, Istituto Studi politici S. Pio V, 2005, 173
come, in tali Paesi si sia verificato un «rovesciamento dei rapporti maggioranza/minoranza» in
quanto le Nazioni lituana, estone e lettone sono passate «da minoranze all’interno di uno Stato
totalitario dominato dall’elemento nazionale russo» a maggioranze rispetto alle popolazioni
russofone che ora vivono sui propri territori.
121
Sul punto, v. A. Carteny, Autonomismi regionali e minoranze nazionali, cit., 173 ss. Solo in
Lituania, che per prima ottenne l’indipendenza dall’URSS, e dove è certamente più esigua la
percentuale di popolazione di etnia non lituana, è stato abolito, già con la riforma del 1991, l’esame
di lingua e la cittadinanza è riconosciuta automaticamente a tutti i residenti permanenti sul
territorio nazionale.
36
negli anni trenta, riaffermando una rigorosa interpretazione del principio dello ius
sanguinis122.
I rinnovati appelli delle istituzioni comunitarie123 (insieme alle raccomandazioni e agli
inviti delle Nazioni Unite, del Consiglio d’Europa e dell’OSCE)124 sono stati fondamentali
per vedere modificati gli aspetti più critici di tali legislazioni e adeguarle alle condizioni
minime richieste per avviare i negoziati di adesione all’Unione europea. Il nodo principale
ha riguardato proprio la necessità di semplificare i test linguistico-culturali, che rimangono
l’ostacolo più arduo che scoraggia le richieste di naturalizzazione125.
Ancora oggi, però, non mancano aspetti di ‘tensione’ con l’acquis communautaire, di cui
sono parte caratterizzante le garanzie dei diritti inviolabili, quale “patrimonio” comune e
intangibile del costituzionalismo europeo126.
Resta infatti la problematica di una consistente minoranza di lingua russa che si trova in
una significativa situazione di debolezza sotto il profilo dell’integrazione sociale e politica,
122
Cfr. G. Mentré, Hongrie, Estonie, Lettonie: l’Union européenne e la citoyenneté, in Politique étrangère,
1/2004, 141 s.
123
Già nella Nota tematica n. 42 del Parlamento europeo dal titolo «La minoranza russa negli Stati
baltici e l’ampliamento dell’Unione europea» (Lusseburgo, 3 maggio 1999), si segnalava (p. 7) che il
trattamento riservato a questo gruppo etnico nelle repubbliche baltiche «rischia potenzialmente di
destabilizzare la situazione di tali paesi e di influire negativamente sullo sviluppo delle relazioni con
l’Unione europea». Sul punto v., inoltre, il parere della Commissione sulla domanda di adesione
dell'Estonia all'Unione europea (COM(97)2006 - C4-0378/97) e la Risoluzione sulla relazione
periodica della Commissione sui progressi dell’Estonia verso l’adesione (COM(98)0705 - C40110/99); il parere della Commissione europea sulla richiesta di adesione all’Unione europea della
Lettonia, DOC/97/14. In argomento, v. H.M. Morris, EU Enlargement and Latvian Citizenship Policy,
in Centre for European Policy Studies, Brussels, Belgium, Issue 1/2003, 1 ss.
124
Nell’ambito dell’OSCE, v. Décision du Comité des hauts fonctionnaires, 18e réunion, 3 février 1993,
journal n. 2, annexe 1; Décision du Comité des hauts fonctionnaires, 23e réunion, 23 septembre 1993,
journal n. 3, annexe 3. Fra i documenti dell’ONU, invece, v., Assemblée générale, Situation des droits
de l’homme en Estonie et en Lettonie, résolution 48/155, 20 décembre 1993.
125
Le modifiche alla legge lettone sulla cittadinanza introdotte nel 1994 hanno disciplinato la
procedura di naturalizzazione, prima di allora rimasta senza una precisa regolamentazione. In virtù
degli emendamenti approvati nel 1998 (attraverso un referendum), tale procedura è stata poi
modificata per facilitarne l’accesso. E’ stato infatti abolito il c.d. “sistema delle finestre”, che
limitava il numero di richieste di naturalizzazione sulla base di criteri anagrafici che privilegiavano i
soggetti più giovani, e semplificata la prova storico-linguistica per le persone di età superiore ai
sessantacinque anni. Inoltre, la riforma ha previsto la concessione della cittadinanza ai figli di non
cittadini nati sul territorio nazionale, se richiesta da entrambi i genitori (cfr. Nota tematica n. 42 del
Parlamento europeo dal titolo «La minoranza russa negli Stati baltici e l’ampliamento dell’Unione europea»,
cit., 11-13).
Sempre nel 1998, anche la legge estone sulla cittadinanza (del 26 febbraio 1992) è stata riveduta,
prevedendo la possibilità di ottenere la cittadinanza tramite naturalizzazione per i bambini apolidi
di età inferiore a quindici anni nati sul territorio nazionale dopo la riconquista dell’indipendenza e
di cui uno o entrambi i genitori abbiano vissuto in Estonia per un periodo non inferiore a cinque
anni e non siano in possesso della cittadinanza di alcuno Stato. I due Paesi hanno inoltre promosso
programmi di sostegno per l’apprendimento della lingua nazionale. Sul punto G. Mentré, op. cit.,
148.
126
A. Pizzorusso, Il patrimonio costituzionale europeo, Il Mulino, Bologna, 2002.
37
anche in rapporto agli standards europei127, impedendo una piena condivisione dei valori
fondativi del sistema comunitario. Non sono dunque poche le questioni che agitano il
dibattito politico nei Paesi baltici e all’interno dell’Unione in merito al trattamento della
minoranza russofona.
I “non cittadini”, come è qualificata in Lettonia ed Estonia gran parte degli appartenenti
a questo gruppo linguistico, sono riconosciuti in tali Paesi come “residenti permanenti”,
posizione che consente l’accesso ai servizi sanitari e di protezione sociale128. Sul loro
passaporto è riportata la dicitura “aliens”, in virtù della quale, fino ad un passato non troppo
lontano, hanno visto significativamente limitata la propria libertà di movimento,
necessitando di un visto per circolare all’interno dell’Unione europea129.
127
La Commissione europea contro il razzismo e l’intolleranza (ECRI), nel suo terzo rapporto
(febbraio 2008), ha osservato che «il numero delle differenze tra i cittadini lettoni e i non cittadini
rimane significativo per ciò che concerne alcuni diritti politici, civili, sociali e di altro tipo». Inoltre,
nel Rapporto di Amnesty International «Latvia and Lithuania: Human rights on the march» (EUR
53/001/2008), si legge che «il Relatore Speciale delle Nazioni Unite sul razzismo, nel riferire di una
sua visita compiuta nel settembre 2007, ha espresso preoccupazione per il gran numero di cittadini
non lettoni residenti in Lettonia. Egli ha esortato il governo a rivedere gli attuali requisiti richiesti
per la naturalizzazione, specialmente per i figli di cittadini non lettoni nati in Lettonia e le persone
anziane, le quali avrebbero potuto godere di un più facile accesso alla cittadinanza lettone».
128
Cfr. Commissione europea, I diritti di previdenza sociale in Lettonia, 2012, 7 ss. e I diritti di
previdenza sociale in Estonia, 2012, 5, in cui si legge che i requisiti i diritti previdenziali e di assistenza
sociale si fondano oggi prevalentemente sul principio di residenza. Sul punto è importante
ricordare che la Corte dei diritti umani ha considerato discriminatoria la decisione dello Stato
Lettone di non riconoscere il trattamento pensionistico a chi è residente permanente solo perché
“non cittadino”. La sentenza Andrejeva c. Lettonia, del 18-2-2009, affronta il problema del
trattamento pensionistico di un’ex cittadina dell’Unione Sovietica non naturalizzata nella
Repubblica baltica. La Sig.ra Andrejeva citò infatti in giudizio a Strasburgo il Governo lettone per
il rifiuto di riconoscerle il periodo di lavoro prestato in uno Stato dell’ex URSS prima del 1991
(anno in cui il Paese baltico riacquistò la propria indipendenza), ai fini del computo della pensione
di vecchiaia. La ricorrente contestava l’applicazione dell’art. 1 della legge sulle pensioni di Stato del
1995, che attribuiva tale beneficio per i periodi di lavoro all’estero solo ai cittadini. La Corte
giudica tale differenziazione non fondata su una motivazione ragionevole, ma su un mero criterio
di nazionalità. Da qui l’accertata lesione degli artt. 14 CEDU e 1, Prot. n. 1 perché ai non cittadini
residenti la Lettonia riservava un trattamento deteriore rispetto ad altri soggetti che si trovassero
nella medesima condizione ma ai quali fosse stato riconosciuto lo status di cittadino. «Il n’est pas
contesté [si legge nella pronuncia] qu’un citoyen letton se trouvant dans les mêmes conditions que la requérante et
ayant travaillé dans la même entreprise pendant la même période se verrait accorder la part litigieuse de la pension de
retraite. Qui plus est, les parties s'accordent à dire que, si la requérante devenait lettonne par voie de naturalisation,
elle recevrait automatiquement la pension au titre de toute sa vie professionnelle. La nationalité constitue donc le seul
et unique critère de la distinction en cause; or la Cour a jugé que seules des considérations très fortes peuvent l’amener
à estimer compatible avec la Convention une différence de traitement exclusivement fondée sur la nationalité» (par.
87).
Nella citata pronuncia, quindi, i Giudici di Strasburgo concludono che la ricorrente, come ogni
altro cittadino che abbia lavorato per un periodo all’estero, risulta avere un rapporto stabile solo
con la Lettonia, unico Stato, quindi, che può oggettivamente prenderla in carico per ciò che attiene
alla sicurezza sociale (par. 88).
129
La normativa comunitaria in materia di visti disponeva all’art. 3, secondo trattino, del
regolamento n. 539/2001 che gli apolidi potessero essere esentati dall’obbligo del visto se il paese
38
Lo status di “non citizen” comporta inoltre, ancora oggi, marcate restrizioni nelle
opportunità di partecipazione politica. In Lettonia i non cittadini non hanno alcun diritto di
elettorato attivo e passivo130, mentre in Estonia, se residenti permanenti, possono votare
solo alle elezioni amministrative locali131. In entrambi i Paesi non possono né fondare né
aderire ad organizzazioni politiche, sono ancora esclusi da buona parte degli impieghi
pubblici132 e sono soggetti a regole specifiche nell’esercizio del diritto di proprietà133.
terzo di residenza che avesse rilasciato il documento di viaggio fosse uno dei Paesi compresi
nell’elenco dell’allegato II. All’adozione di tale regolamento, la Lettonia era un Paese terzo
rientrante nell’allegato II del citato regolamento, ma nel momento in cui la Lettonia è divenuta uno
Stato membro, la formula dell’articolo 3 ha reso difficile la possibilità di esentare dall’obbligo del
visto i cittadini non lettoni, perché tali da non potersi più considerare come residenti in un Paese
terzo. Tuttavia, come si legge nella risposta data dalla Commissione per le petizioni del Parlamento
europeo alla Petizione 214/2005, sui diritti della minoranza russofona in Lettonia, «il riconoscimento
di diritti più ampi agli apolidi nel caso in cui risiedano in un paese terzo anziché in uno Stato
membro sarebbe (…) paradossale e difficile da giustificare», per cui si deve ritenere «che i cittadini
lettoni apolidi possano continuare a beneficiare della possibilità di esenzione dall’obbligo del visto
di cui all’articolo 3 del regolamento n. 539/2001». Su proposta della stessa istituzione, il Consiglio
ha poi approvato, il 21 dicembre 2006, il Reg. (CE) n. 1932/2006, che modifica la normativa
richiamata nel senso di ricomprendere tra i soggetti esentati dall’obbligo di visto anche gli apolidi
residenti in un Paese membro (art. 1, lett. b), terzo trattino).
130
Cfr. artt. 8 e 9 della Costituzione lettone: «All citizens of Latvia who enjoy full rights of citizenship
and, who on election day have attained eighteen years of age shall be entitled to vote. Any citizen of Latvia, who
enjoys full rights of citizenship and, who is more than twenty-one years of age on the first day of elections may be
elected to the Saeima» e art. 101 «… Local governments shall be elected by Latvian citizens and citizens of the
European Union who permanently reside in Latvia». Sul punto, v. la Nota tematica n. 42 del Parlamento
europeo dal titolo «La minoranza russa negli Stati baltici e l’ampliamento dell’Unione europea», cit., 14 e, in
dottrina, L. Monti, L’altra Europa: diario di un viaggio nella povertà, Soveria Mannelli, Rubettino, 2005,
76. Al riguardo, è da considerare che il Comitato delle Nazioni Unite per i diritti umani, il
Comitato dell’ONU per l’eliminazione della discriminazione razziale, ma anche l’Assemblea
parlamentare e il Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa, nonché la Commissione
europea contro il razzismo e l’intolleranza e l’Assemblea parlamentare dell’OSCE hanno
raccomandato l’adozione di provvedimenti atti a consentire ai non cittadini di prendere parte alle
elezioni locali in Lettonia.
Inoltre, una buona conoscenza della lingua lettone costituisce presupposto (anche per chi ha
ottenuto la cittadinanza) per accedere a cariche elettive. V., retro, su questo profilo, la decisione
della Corte europea dei diritti dell’uomo sul caso Podkolzina c. Lettonie, ric. n. 46726/99, cit., nonché
i rilievi critici mossi dalla Commissione dei diritti dell’Uomo delle Nazioni Unite nella
Comunicazione relativa al caso Ignatane v. Latvia, Communication n. 884/1999, Latvia 31/07/2001,
CCPR/C/72/D/884/1999) n. 884/1999. In dottrina, sull’argomento, F. Palermo, J. Woelk, Diritto
costituzionale comparato dei gruppi, cit., 131 e U.H. Quercia, Rappresentanza politica delle minoranze. Gli
strumenti costituzionali di rappresentanza delle minoranze in chiave comparata, working papers del
Dipartimento politiche pubbliche e scienze dell’amministrazione dell’Università degli Studi
Guglielmo Marconi, 2011, 5, in http://www2.unimarconi.it/DPPSA.
131
Il diritto di voto ai non cittadini (ma non l’eleggibilità) è stato introdotto con una modifica
all’art. 156, 2 par. della Costituzione estone approvata nel 2003 ed entrata in vigore il 17 ottobre
2005: «In elections to local government councils, persons who reside permanently in the territory of the local
government and have attained eighteen years of age have the right to vote, under conditions prescribed by law».
132
Cfr. art. 101 della Costituzione lettone: «Every citizen of Latvia has the right, as provided for by law,
to participate in the work of the State and of local government, and to hold a position in the civil service … . Every
39
Non ci si può nascondere che questa particolare situazione può sollevare alcuni profili
critici in merito al rapporto fra una ‘gestione’ interna così restrittiva dello status di
cittadinanza e le garanzie sovranazionali dei diritti fondamentali.
Fra questi, il più evidente attiene al fatto che, non essendo cittadini dell’Unione, i noncitizens di Lettonia ed Estonia non possono votare per il Parlamento europeo, a differenza
dei cittadini di altri Paesi membri residenti in questi due Stati (art. 20, c. 2, lett. b), TFUE).
E, da questo punto di osservazione, si può notare che, sebbene l’attribuzione della
cittadinanza (come pure l’accesso ai diritti elettorali) siano riconosciute come competenze
statali, il loro concreto esercizio va ad incidere sulla composizione del corpo elettorale per
le elezioni europee, materia di sicuro interesse dell’Unione. Ne consegue che, in forza di
questa correlazione, potrebbe valere il monito della Corte di Giustizia a disciplinare i
requisiti di cittadinanza (e i diritti elettorali) in modo da non contrastare con il diritto
comunitario134, anche in ragione dell’influenza di tale prerogativa statale sulla «costituzione
della maggioranza parlamentare» e sul «consolidamento di una democrazia europea
realmente rappresentativa»135.
citizen of the European Union who permanently resides in Latvia has the right, as provided by law, to participate in
the work of local governments. The working language of local governments is the Latvian language». G. Mentré,
op. cit., 143.
133
Cfr. Nota tematica n. 42 del Parlamento europeo dal titolo «La minoranza russa negli Stati baltici e
l’ampliamento dell’Unione europea», cit., 14.
134
In tema di diritti elettorali appare opportuno richiamare le sentenze della Corte di Giustizia,
Eman e Sevinger c. College van burgemeester en wethouders van Den Haag, causa C-300/04 e Regno di Spagna
c. Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord, del 12-9-2006, causa C-145/04, che hanno chiarito
alcune importanti questioni interpretative.
In primo luogo, il Giudice di Lussemburgo ha sottolineato che sebbene spetti agli Stati la
determinazione dei titolari del diritto di elettorato attivo e passivo per le elezioni del Parlamento
europeo, tale competenza deve essere esercitata «nel rispetto del diritto comunitario».
Inoltre, ha affermato che le norme del Trattato CE non ostano alla concessione del diritto di
elettorato attivo e passivo a persone che possiedano stretti legami con gli Stati membri, pur non
essendo loro cittadini o cittadini dell’Unione residenti sul loro territorio. Ciò in quanto «né gli artt.
189 TCE e 190 TCE, né l’atto relativo all’elezione dei rappresentanti al Parlamento europeo a
suffragio universale diretto indicano in modo esplicito e preciso chi siano i beneficiari del diritto di
elettorato attivo e passivo per il Parlamento europeo». Fra le disposizioni sulla cittadinanza
dell’Unione solo l’art. 19 TCE si occupa specificamente, al n. 2, del diritto di voto per il
Parlamento europeo, ma come precisa la Corte «tale articolo si limita ad applicare all’esercizio di
tale diritto il principio di non discriminazione in base alla nazionalità».
Infine, sul «legame tra la cittadinanza dell’Unione e il diritto di elettorato attivo e passivo, il
quale imporrebbe che tale diritto sia riservato ai cittadini dell’Unione, nessuna chiara conclusione
in proposito può essere ricavata dagli artt. 189 TCE e 190 TCE, relativi al Parlamento europeo, i
quali indicano che lo stesso è composto da rappresentanti dei popoli degli Stati membri. Il termine
«popoli», che non è definito, può, infatti, assumere significati differenti a seconda degli Stati
membri e delle lingue dell’Unione».
135
Così F. Forni, op. cit., 835 ss.
40
Gli “aliens” della Lettonia, inoltre, come si è visto, non possono nemmeno partecipare
alle elezioni amministrative locali, diritto invece riconosciuto ai cittadini comunitari ivi
residenti (art. 20, c. 2, lett. b), TFUE).
La problematica si presenta complessa, perché impone di considerare i rapporti fra
ordinamento sovranazionale e ordinamenti interni rispetto ai contenuti e ai diritti di cui si
compone la cittadinanza dell’Unione europea, concetto che individua uno status meramente
complementare e subordinato al possesso della cittadinanza nazionale136.
L’accesso a detto istituto - non a caso definito “aggiuntivo” dal Trattato di Lisbona – è
cioè rimesso alla potestà degli Stati di disciplinare autonomamente i modi di acquisto e di
perdita della cittadinanza nazionale, non contemplando il diritto dell’Unione alcuna
disposizione vincolante sul punto.
Tuttavia, la Corte di Giustizia, pur ribadendo la competenza di ciascun Paese membro in
questo ambito, ha da subito precisato (nel caso Micheletti del 1992) che detta prerogativa
«deve essere esercitata nel rispetto del diritto comunitario», segnando così un legame concreto fra il
diritto degli Stati di definire le condizioni per ottenere lo status di cittadino e le politiche
dell’Unione137. Un collegamento che pare essere divenuto un ‘vincolo’ sempre più
stringente nella più recente giurisprudenza comunitaria.
Pur rimanendo ferma l’idea che non possa sorgere alcun diritto connesso allo status di
cittadino europeo se non con il conseguimento della cittadinanza di uno Stato membro138,
con la sentenza Rottman139 sembra che i Giudici di Lussemburgo abbiano comunque voluto
sottolineare il primato del diritto comunitario anche in questa sfera di intervento statale,
ritenendosi legittimati a pronunciarsi sulla compatibilità ad esso (almeno in termini di
ragionevolezza rispetto alle finalità perseguite) di un provvedimento con cui si intendeva
privare un soggetto della cittadinanza nazionale.
136
Cfr., sul punto, M. Cartabia, Cittadinanza europea, in Enc. giur. Treccani, vol., VI,
Aggiornamento, 1995, 4 ss. e S. Cassese, La cittadinanza europea e le prospettive di sviluppo dell’Europa, in
Rivista italiana di diritto pubblico comunitario, 1996, 870 ss.
137
Sentenza della Corte di giustizia del 7 luglio 1992 in causa n. C-369/90, Mario Vicente Micheletti
e altri c. Delegación del Gobierno en Cantabria, in Raccolta, 1992, I, 4239, par. 10). Tale passaggio è stato
successivamente ribadito dalle sentenze della Corte di giustizia del 20 febbraio 2001 in causa n. C192/99, The Queen c. Secretary of State for the Home Department, ex parte Manjit Kaur, interveniente: Justice,
in Raccolta, 2001, I, 1237.
138
Sentenza della Corte di giustizia del 20-2-2001, causa n. C-192/99, The Queen c. Secretary of
State for the Home Department, ex parte Manjit Kaur, interveniente: Justice, cit., par. 25. Secondo la Corte
«l’adozione di questa dichiarazione [del 1972 sulla cittadinanza] non ha avuto come effetto di
privare una persona che non rispondesse alla definizione di cittadino del Regno Unito di diritti che
essa poteva pretendere di avere in applicazione del diritto comunitario, ma ha avuto come
conseguenza che tali diritti non sono mai sorti per essa».
139
Sentenza della Corte di giustizia del 2-3-2010, causa n. C-135/08, Janko Rottmann c. Freistaat
Bayern.
41
«spetta al giudice nazionale [dice la Corte di giustizia] verificare se la decisione
di revoca rispetti il principio di proporzionalità per quanto riguarda le conseguenze che
essa determina sulla situazione dell’interessato in rapporto al diritto dell’Unione
[e]…… tener conto delle possibili conseguenze che tale decisione comporta per
l’interessato e, eventualmente, per i suoi familiari sotto il profilo della perdita dei
diritti di cui gode ogni cittadino dell’Unione»
Tale più rigoroso indirizzo sull’applicazione delle normative statali in tema di
cittadinanza potrebbe prefigurare, oggi, nuovi scenari anche sul piano di una tutela
antidiscriminatoria dell’Unione nei confronti delle minoranze140.
Del resto, accade ormai sempre più di frequente che, anche in settori di pertinenza degli
Stati, la Corte imponga un’interpretazione delle normative nazionali tale da assicurare il
perseguimento degli obiettivi dell’Unione141 e, pertanto, se fino ad ora la Commissione ha
dichiarato di non avere titolo per porre rimedio al trattamento della minoranza russofona
in Lettonia ed Estonia, ritenendo che la definizione dei requisiti per la concessione della
cittadinanza rimanga una prerogativa esclusiva dei Paesi membri142, i recenti sviluppi
giurisprudenziali sull’istituto della cittadinanza europea potrebbero contribuire a segnare
una svolta anche su questo fronte.
140
Di tale avviso anche F. Forni, op. cit., 835 ss.
Si pensi, per fare un esempio, all’influenza del diritto comunitario nella materia penale sancito
dalla sentenza Pupino (CGCE 16 giugno 2005, causa C-105/03). Più in generale, sull’obbligo di
interpretazione comunitariamente orientata del diritto interno in ordine a direttive non self-executing,
v., fra le tante, CGCE 13-11-1990, causa C-106/89, Marleasing; 14-7-1994, causa C-91/92, Faccini
Dori; 5-10-2005, cause C-397/01 e C- 403/01, Pfeiffer. In dottrina, ex multis, A. Ruggeri, Alla ricerca
del fondamento dell’interpretazione conforme, in Forum Quad. cost., www.forumcostituzionale.it, 2008, 1 ss.
e Id., Interpretazione conforme e tutela dei diritti fondamentali, tra internazionalizzazione (ed “europeizzazione”)
della Costituzione e costituzionalizzazione del diritto internazionale e del diritto eurounitario, in
www.associazionedeicostituzionalisti.it., 2010, ss.; C. Acocella, Interpretazione conforme al diritto
comunitario ed efficienza economica: il principio di concorrenza, in M. D’Amico, B. Randazzo (cur.),
Interpretazione conforme e tecniche argomentative, Torino, Giappichelli, 2009, 98 ss.; G. Pistorio,
Interpretazione e giudici. Il caso dell'interpretazione conforme al diritto dell’Unione europea, Napoli, Editoriale
Scientifica, 2012, passim e, da ultimo, V. Piccone, L’interpretazione conforme nell’ordinamento integrato, in
R. Cosio, R. Foglia (cur.), Il diritto europeo nel dialogo delle Corti, Milano, Giuffrè, 2013, 277 ss.
142
Cfr. Quinta relazione della Commissione sulla cittadinanza dell’Unione (1 maggio 2004 – 30 giugno
2007), COM(2008) 85 definitivo, del 15-2-2008, 3. Nello stesso senso si è espressa anche la
Commissione per le petizioni del Parlamento europeo nella risposta alla petizione 975/2005,
presentata da Sergejs Lazarevs, apolide, sul rifiuto da parte delle autorità lettoni di concedergli la
cittadinanza. In tale documento si afferma, infatti, che «le questioni relative alla concessione della
cittadinanza nazionale sono di esclusiva competenza degli Stati membri» e, quindi, pur essendo
«consapevole del fatto che il numero rilevante di persone apolidi russofone in Lettonia rappresenta
un problema specifico per la società di quello Stato membro», può solo «incoraggia[re] … ulteriori
sforzi in vista dell’integrazione di tali persone», ma «in base alle disposizioni del trattato che
istituisce la Comunità europea e del trattato sull’Unione europea, la Commissione non dispone di
competenza generale per intervenire, tranne che nel caso di violazione di diritti nell’ambito del
diritto comunitario».
141
42
In parallelo con il caso Rottman è in effetti da considerare la vis espansiva che la Corte di
giustizia ha conferito al diritto europeo in funzione della garanzia di situazioni giuridiche di
cui è titolare il cittadino dell’Unione. A partire dalla nota sentenza Zambrano143, appare
chiaro come la salvaguardia del nucleo dei diritti afferenti a tale status possa costituire un
limite alla discrezionalità degli Stati membri anche rispetto ad ambiti storicamente ad essi
riservati, come – nella fattispecie – la definizione delle politiche migratorie e il trattamento
di cittadini provenienti da Paesi terzi144.
Ciò accade - come si precisa anche nelle successive pronunce McCarthy e Dereci et al.
(sebbene delimitando le capacità pervasive della cittadinanza UE)145 - quando le misure
adottate da uno Stato membro nell’esercizio del potere di regolamentare lo status giuridico
di cittadini extracomunitari abbiano l’effetto di privare un cittadino comunitario dei diritti
ad esso riconosciuti dall’Unione, con la conseguenza di ammettere, in tali circostanze,
deroghe alla legislazione nazionale che siano ‘comunitariamente’ necessarie.
E’ evidente come tale approccio ermeneutico, insieme ai limiti che per i Giudici di
Lussemburgo circoscrivono la potestà degli Stati di definire l’acquisto e la perdita della
cittadinanza nazionale (e quindi europea), sia in grado di avallare una significativa apertura
verso una tutela europea dei cittadini di Paesi terzi146, con possibili implicazioni anche sulla
condizione dei gruppi minoritari presenti nell’Unione che sono esclusi dai benefici della
cittadinanza comunitaria.
143
Cfr. CGCE Gerardo Ruiz Zambrano v. Office national de l’emploi (ONEm), dell’8-3-2011, causa C34/09.
144
Di questo avviso A. Lollo, Il paradigma inclusivo della cittadinanza europea e la solidarietà
transnazionale, in www.gruppodipisa.it, 2012, 3 ss. La Corte di giustizia ha obbligato lo Stato belga a
riconoscere il diritto di soggiorno e il permesso di lavoro al cittadino di un Paese terzo perché
nello Stato membro risiedevano i due figli di cui il genitore si faceva carico, al fine di non
costringere gli stessi, cittadini comunitari, ad abbandonare il territorio dell’Unione. La sentenza
Zambrano dunque, sebbene non incida sulla competenza esclusiva degli Stati di definire l’accesso
alla cittadinanza nazionale (e quindi europea), apre comunque interessanti prospettive di tutela
europea dei cittadini extracomunitari. L’‘erosione’ delle attribuzioni statali in questo settore è
peraltro testimoniata anche dalla dir. 2003/109/CE ha istituito un trattamento uniforme per i
cittadini di paesi terzi che soggiornino legalmente e ininterrottamente nel territorio di uno Stato
membro da almeno cinque anni, al fine di armonizzare le legislazioni nazionali sul punto.
145
Cfr. Corte di Giustizia UE, sent. 5-5-2011, causa C-434/09 e 15-11-2011, causa C-256/11, su
cui v. L. Montanari, Quali diritti per i cittadini europei: la complessa definizione dei contenuti della cittadinanza
europea tra interventi della Corte di giustizia e ruolo dei giudici nazionali, in www.diritticomparati.it, 2012, 1
ss.).
146
Non a caso si è opportunamente sottolineato come i Giudici di Bruxelles, con la sentenza
Zambrano, abbiano implicitamente dato concreto risvolto ai contenuti della Carta dei diritti che
riconoscono «ad ogni persona» presente sul territorio dell’UE, a prescindere dal legame con una
determinata comunità statale, la garanzia delle tutele e degli istituti di sicurezza sociale come
previsti dal diritto europeo e degli Stati (art. 34). Cfr. C. Salazar, A Lisbon story: la Carta dei diritti
fondamentali dell’Unione europea da un tormentato passato… a un incerto presente?, Relazione al Convegno
su “I diritti sociali dopo Lisbona. Il ruolo delle Corti. Il caso italiano. Il diritto del lavoro fra riforme delle regole e
vincoli di sistema”, Università “Mediterranea” di Reggio Calabria, 5 Novembre 2011, paper, 22.
43
L’inevitabile intreccio dei sistemi giuridici nazionali con la centralità delle garanzie
europee facenti capo allo status di cittadino dell’Unione, nella duplice dinamica illustrata
dalla giurisprudenza Rottmann/Zambrano, potrebbe allora contribuire a dare un’ulteriore
spinta al processo di adeguamento di quelle legislazioni interne che ancora faticano, sotto
questo profilo, a trovare un equilibrato rapporto con la questione delle minoranze etnicolinguistiche.
Proprio l’interazione con l’ordinamento comunitario147 ha, molto probabilmente, giocato
un ruolo essenziale anche nell’ultima riforma che, nel maggio di quest’anno, ha interessato
la legge lettone sulla cittadinanza148.
Frutto di un lungo e difficile dibattito parlamentare149, le modifiche introdotte, operative
dal 1° ottobre 2013, vanno nella direzione di ampliare le opportunità di integrazione della
minoranza russofona nei diritti di cittadinanza.
Si prevede infatti che i figli di “non cittadini” o di apolidi nati sul territorio nazionale
dopo il 21 agosto 1991 potranno essere riconosciuti cittadini lettoni su richiesta di uno dei
genitori.
Inoltre, nuove regole disciplinano anche la naturalizzazione. Rimane ferma la necessità di
superare un test di lingua e cultura nazionale che, però, risulta semplificato per coloro che
abbiano conseguito l’istruzione primaria con un curriculum che contempli almeno la metà
147
Il costante monitoraggio delle politiche di cittadinanza dello Stato lettone, ad opera
dell’Unione, trova riscontro nel sito ufficiale del Ministero degli Affari esteri dello stesso Paese, nel
quale il documento che riporta i dati statistici relativi alle richieste di naturalizzazione fino al 2011,
precisa che «The European Union has commented positively on the enforcement of the Citizenship Law and on
the naturalisation process in general».
Occorre poi considerare che all’azione dell’Unione europea si sono affiancate le sollecitazioni
provenienti dalle principali organizzazioni internazionali: cfr. Comitato dei diritti dell’uomo delle
Nazioni Unite, Esame dei rapporti presentati dagli Stati membri conformemente all’art. 40 del Patto
Internazionale sui diritti civili e politici, CCPR/CO/79/LVA/Add.1, del 17-12-2004; Comitato dei
diritti economici, sociali e culturali delle Nazioni Unite, Esame del rapporto iniziale presentato dalla
Lettonia sulle misure prese da questo Paese per conformarsi alle disposizioni del Patto sui diritti economici, sociali e
culturali (E/1990/5/Add.70); Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, Resolution
CM/ResCMN(2011)6 on the implementation of the Framework Convention for the Protection of National
Minorities by Latvia, del 31-3-2011; Venice Commission, Study on “NonCitizens and Minority Rights”
(CDL-AD(2007)001); OSCE, Office for Democratic Institutions and Human Rights, Statement on
National minorities in Latvia, dell’1-10-2008.
148
Cfr. Latvian Citizenship Law, secondo le modifiche approvate dal Saeima il 9-5-2013. Il testo in
lingua inglese della legge è reperibile sul sito del Ministero degli affari esteri lettone al seguente
indirizzo: http://www.mfa.gov.lv/en/policy/4641/4642/4651/law-on-citizenship/.
149
La decisione di avviare un processo di modifica della cittadinanza è intervenuta dopo che la
Corte Suprema di Riga ha dichiarato illegittima, il 1° novembre 2012, una richiesta di referendum
per il conferimento automatico della cittadinanza ai membri della comunità russofona non ancora
naturalizzati. Si è poi tentata la via referendaria anche per l’adozione del russo come seconda lingua
ufficiale, ma la proposta è stata respinta (con la maggioranza schiacciante dei 75% dei voti) il 17
febbraio 2012. Un esito, per la verità, abbastanza scontato, dato che buona parte della minoranza
russofona non ha accesso al voto.
44
degli insegnamenti in lettone o che abbiano seguito un corso di studi secondari interamente
in lingua lettone (sez. 19-21).
In conclusione, allora, nello scenario di un progressivo avvicinamento degli strumenti di
garanzia dei diritti fondamentali, (anche) l’apporto del diritto dell’Unione appare
imprescindibile al fine di affrontare in modo uniforme e condiviso il discorso
dell’integrazione delle minoranze linguistiche.
7. L’indagine sulla dimensione effettiva delle garanzie riservate ai gruppi linguistici
minoritari si è sviluppata, muovendo dal dato teorico-normativo, soprattutto sul piano del
dialogo tra giudici,
Questo percorso ci consente di affermare che il contesto europeo (dei sistemi ‘aperti’ e
in sinergia) è caratterizzato da una dinamica circolare delle tecniche di tutela dei diritti nella
quale non mancano gli agganci giuridici per avallare una più incisiva azione dell’Unione a
salvaguardia delle minoranze. E in quest’ottica si ritiene che debbano essere interpretati i
riferimenti offerti dal diritto primario.
La protezione delle persone appartenenti ad una minoranza, inclusa fra gli obiettivi di cui
all’art. 2 TUE, se non introduce nuove competenze dell’Unione, è però, certamente, un
criterio guida per l’esercizio di quelle che ad essa fanno capo. Ciò comporta che le
istituzioni dell’Unione (e gli Stati membri) dovranno agire nel più rigoroso rispetto dei
diritti dei gruppi minoritari nella produzione e applicazione del diritto sovranazionale.
Il monito al rispetto delle minoranze sembra ricadere, ad esempio, sui poteri che il
Trattato attribuisce al Consiglio per rimuovere, anche mediante azioni positive,
disuguaglianze «fondate sul sesso, la razza o l’origine etnica, la religione o le convinzioni
personali, gli handicap, l’età o le tendenze sessuali» (art. 19 TFUE, ex art. 13 TCE). L’art. 2
TUE, abbinato a tale precetto, potrebbe quindi, con il richiamo alla salvaguardia delle realtà
minoritarie, arricchire di nuovi significati la normativa antidiscriminatoria dell’UE150 e
marcare anche la connotazione collettiva delle istanze legate a questi fattori di
discriminazione, se radicati nell’appartenenza ad una particolare formazione sociale151.
150
Ritiene che un’evoluzione della normativa antidiscriminatoria alla luce dei principi del nuovo
Trattato di Lisbona potrebbe condurre ad una regolamentazione dell’Unione in settori collegati alla
situazione di minoranze vulnerabili anche D. Kochenov, op. cit., 43.
151
I riflessi della nuova impronta finalistica impressa dall’art. 2 TUE potrebbero cioè
manifestarsi nel senso di aprire ad una rinnovata lettura della normativa comunitaria in tema di
parità di trattamento (si pensi alle direttive 2000/43/CE, sull’uguaglianza razziale, e 2000/78/CE
sulla parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro) che tenga in
considerazione anche i ‘diritti di gruppo’ e non solo quelli individuali legati a situazioni minoritarie.
Ciò che contribuirebbe a superare quello che è stato definito «a traditional non-discrimination
approach» di questi provvedimenti, i quali senza l’ausilio di una specifica direttrice interpretativa,
potrebbero essere «insufficient to promote the effective integration of ethnic and religious minorities
45
Appare, al riguardo, importante un passo della Quinta relazione sulla cittadinanza
dell’Unione152, in cui la Commissione, pur rigettando una propria competenza ‘tipica’ nella
garanzia della minoranza russofona presente nei Paesi baltici, non si sottrae ad un
coinvolgimento nella vicenda, ma ribadisce il proprio impegno nel contribuire, con «gli
strumenti comunitari disponibili», allo sviluppo dei processi di integrazione di tale popolo,
assicurando che «gli Stati membri applichino rigorosamente la normativa comunitaria
antidiscriminazione»153. Parole in cui trova conferma una via ‘indiretta’ per arrivare a forme di
tutela – anche sovranazionale – delle minoranze.
Inoltre, sempre sulla base delle competenze attribuite al Consiglio, non è da escludere
che l’art. 2 possa condurre all’adozione di specifici strumenti diretti all’integrazione dei
gruppi minoritari, anche linguistici, dal momento che tale disposizione (insieme alla tutela
sancita dall’art. 22 della Carta dei diritti UE) sembra poter dare copertura anche alla lingua
come possibile causa di discriminazione non espressamente contemplata dall’art. 19 TFUE,
ma certamente da includere fra i caratteri che individuano un’etnia e, quindi, l’eventuale
esistenza di una popolazione minoritaria154.
Infine, se la garanzia dell’eguaglianza - annoverata tra i principi generali del diritto
comunitario155 - è ormai elemento qualificante della giurisprudenza della Corte di Giustizia,
il richiamo all’art. 2 TUE, può orientare in modo specifico le tecniche argomentative di
questo Giudice alla salvaguardia dei fattori di “identità” linguistica, etnica, culturale e
religiosa all’interno del contesto europeo, con riferimento non solo alle situazioni
individuali, ma anche ai risvolti collettivi della tutela antidiscriminatoria.
A rafforzare questa impostazione concorre, ora, l’ormai innegabile processo di
integrazione della tutela multilivello dei diritti umani. Il sistema di garanzia delle libertà
fondamentali sembra, infatti, sempre più convergere verso un unico ‘progetto’ al quale
partecipano più attori, tutti indistintamente mossi dalla ricerca del più intenso grado di
protezione delle situazioni giuridiche soggettive (individuali e collettive)156.
in the Union» (cfr. O. De Schutter, Recognition of the Rights of Minorities and the EU’s Equal
Opportunities Agenda, in European Antidiscrimination Law Review, n. 11/2010, 25-26).
152
COM(2008) 85 definitivo, cit., 3.
153
Corsivo di chi scrive.
154
Di tale avviso O. De Schutter, op. cit., 26.
155
Sentt. 19 ottobre 1977, cause riunite 117/76 E 16/77; 25-10-1978, cause riunite 103 e
145/77; 17-4-1997, causa C-15/1995; 13-4-2000, C-292/97 e, più di recente, 13-9-2007, causa C307/05; 8-9-2011, causa C-177/10.
156
Esplicitano questo concetto, ad esempio, le sentt. 311 e 317/2009 della Corte costituzionale
in merito al rapporto fra ordinamento interno e CEDU, nelle quali si precisa che «il contrasto con
la Convenzione può essere determinato solo da un tasso di tutela della norma nazionale inferiore a
quello garantito dalla norma CEDU». Ne consegue, si precisa, che «il rispetto degli obblighi
internazionali non può mai essere causa di una diminuzione di tutela rispetto a quelle già
predisposte dall’ordinamento interno, ma può e deve, viceversa, costituire strumento efficace di
ampliamento della tutela stessa». Sul punto, L. Fanotto, La tutela dei diritti nell’ordinamento dell’Unione
europea: profili sostanziali e processuali, in L. Mezzetti (cur.), Diritti e doveri, Torino, Giappichelli, 2013,
134, per il quale, nella complessità del sistema di tutela dei diritti fondamentali delineato dal
46
L’art. 6, c. 2, TUE prevede l’adesione dell’Unione europea alla CEDU, le cui
disposizioni, insieme “alle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri”, sono parte
integrante dei “principi generali” del diritto comunitario (c. 3). Detta norma, sebbene non
ancora concretizzatasi157, crea un esplicito ‘collegamento’ fra diversi piani ordinamentali
che conforta una lettura delle potenzialità di crescita dell’Unione verso la promozione delle
minoranze come entità collettive.
Si è visto, infatti, che la Corte dei diritti umani ha ricompreso tale principio fra i
significati normativi della Convenzione e, allo stesso modo, la garanzia dei diritti delle
minoranze (già presente in alcune Costituzioni nazionali 158) potrebbe considerarsi parte
delle tradizioni comuni degli Stati membri che vanno ad ‘arricchire’ il diritto dell’Unione in
quanto funzionali agli “obiettivi” dalla stessa perseguiti.
L’art. 6 TUE si dirige, insomma, verso una progressiva “osmosi” fra ordinamenti
nazionali e regionali europei159, nell’ambito di uno scenario che prospetta una vera e
propria incorporazione dello strumento convenzionale, collocato - nei significati in cui
questo vive nell’interpretazione del suo Garante – alla base degli indirizzi giurisprudenziali
di Strasburgo e Lussemburgo. Un percorso di ‘naturale’ avvicinamento, che già oggi è il
Trattato di Lisbona, «il concorso di fonti risulterà regolato dal principio dello standard massimo di
protezione, privilegiando l’applicazione della fonte che assicuri il livello di tutela più elevato, senza
stabilire aprioristicamente alcun ordine gerarchico tra le stesse».
157
Cfr. Corte cost. 11-3-2011, n. 80, in Giur. cost., 2011, 1224 ss., che ha negato che la
Convenzione possa operare direttamente nell’ordinamento nazionale, con conseguente obbligo dei
giudici di disapplicare le norme interne con essa in conflitto, poiché «nessun argomento in tale
direzione può essere tratto, anzitutto, dalla prevista adesione dell’Unione europea alla CEDU, per
l’assorbente ragione che l’adesione non è ancora avvenuta» (Considerato in diritto, punto 5.3).
Sulla stessa linea interpretativa anche la Corte di Giustizia dell’UE (sent. 24-4-2012, causa C571/10, Kamberaj c- Istituto per l‘Edilizia Sociale della Provincia autonoma di Bolzano, su cui v. N.
Lazzerini, Sulla parità di trattamento dei cittadini di Paesi terzi in materia di prestazioni sociali ed alcuni (non
superflui) chiarimenti sulla presunta ‘comunitarizzazione’ della CEDU da parte del Trattato di Lisbona: la
sentenza della Corte di Giusticia nella causa C-571/2010, Kamberaj, in Osservatoriosullefonti.it, 2012, 1 ss. e
G. Bronzini, A. Allamprese, Cittadini stranieri e discriminazione nell'accesso a prestazioni sociali a carattere
essenziale: la Corte di Giustizia valorizza la Carta di Nizza, in www.europeanrights.eu, 2012, 1 ss.
158
Cfr., per alcuni riferimenti, nota n. 55. E in tal modo, si verrebbe a concretizzare un riflesso
di ciò che R. Bin, P. Caretti, Profili costituzionali dell’Unione Europea. Cinquant’anni di processo costituente,
Bologna, Il Mulino, 2009, 152 hanno definito, con una felice espressione, il “rapporto di filiazione”
che lega i Trattati alle Costituzioni nazionali.
159
Sull’argomento v. N. Parisi, Considerazioni sulla natura giuridica dell’Unione europea alla luce dei
rapporti fra Stati membri e fra questi e l’Organizzazione, in I quaderni europei, Centro di documentazione
europea, Università di Catania, Online Working Paper 1/2008, 10 ss. e ora A. D’Aloia, The
Protection of Rights in a Multilevel System: the European Model, Relazione presentata all’Eacle ConferenceMultilevel Governance and Federalism, University System of Baltimore – Center of International and
Comparative Law, Baltimora, 22 maggio 2013, 4, in corso di pubblicazione in T. Sellers (cur.),
Multilevel Governance and Federalism, Dordrecht-Heidelberg-New York-London, Springer, 2014.
47
risultato di un costante rapporto dialettico, intorno al quale si sviluppa il diritto europeo
delle libertà fondamentali160.
In tale contesto, per tornare alla questione della minoranza russofona in Lettonia,
l’orientamento della Corte di Strasburgo segna, nell’ottica di quella spontanea
‘contaminazione’ di cui sopra, un significativo punto di incontro fra tutela convenzionale,
statale ed eurounitaria, tracciando la via per un’interpretazione evolutiva e ‘adeguatrice’ dei
Trattati. L’Ue, dunque, con questi parametri di riferimento, ben può contribuire ad una
armonizzazione dei sistemi normativi nazionali (nei loro standards minimi) per colmare le
lacune che ancora in alcuni Paesi membri caratterizzano la condizione delle minoranze.
Del resto, nella logica del modello europeo “integrato” e della sussidiarietà, ciò che conta
non è tanto l’individuazione di specifiche competenze, perché la tutela delle minoranze,
come ha affermato anche la Corte costituzionale con riguardo all’ordinamento interno 161, è
essenzialmente un obiettivo, una finalità trasversale per il conseguimento della quale
cooperano diversi livelli di governo, ciascuno dei quali si fa carico delle specificità ‘locali’ in
relazione ai propri compiti istituzionali e sulla base di indirizzi di coordinamento unitario
che sono espressione delle garanzie necessarie ad un equilibrato bilanciamento degli
interessi in gioco162. Indirizzi, per lo più, impressi da un diritto giurisprudenziale che, nel
dialogo fra i giudici nazionali e «i due circuiti giurisdizionali europei»163, ricerca una
«paritaria e reciproca convergenza» degli strumenti giuridici che fondano il
costituzionalismo europeo dei diritti umani164.
Tali ultime considerazioni conducono alle battute conclusive di questo lavoro, per
segnalare come la questione delle minoranze offra un significativo spaccato di quel
fenomeno che è stato efficacemente descritto come «internazionalizzazione (ed
“europeizzazione”)» delle Costituzioni e, al contempo, di costituzionalizzazione del diritto
internazionale e comunitario165.
In questo senso, il diritto europeo delle minoranze, come «fattore paradigmatico
dell’attuale processo di costruzione di uno spazio costituzionale europeo»166, mostra che il
160
In tal senso, A Ruggeri, Cedu, diritto “eurounitario” e diritto interno: alla ricerca del “sistema dei
sistemi”, in www.diritticomparati.it, 2013, 1 ss., secondo cui si può parlare di una «convergenza dei
punti di vista», grazie allo «sforzo poderoso col tempo prodotto da ciascun sistema per avvicinarsi
agli altri, se non pure per raggiungerli e con essi integrarsi appieno, componendo un unico ed
unitario sistema, sempre uguale a se stesso quale che sia il punto di vista dal quale ad esso si
guardi».
161
Cfr. Corte cost. 159/2009, cit.
162
Così F. Palermo, J. Woelk, Diritto costituzionale comparato dei gruppi, cit., 348-349.
163
L’espressione è di A. D’Aloia, The Protection of Rights in a Multilevel System, cit., 1 ss.
164
Cfr. R. Conti, Cedu, Costituzione e diritti fondamentali: una partita da giocare alla pari, in R. Cosio, R.
Foglia (cur.), Il diritto europeo nel dialogo delle Corti, cit., 182.
165
A. Ruggeri, Interpretazione conforme e tutela dei diritti fondamentali, tra internazionalizzazione (ed
“europeizzazione”) della Costituzione e costituzionalizzazione del diritto internazionale e del diritto eurounitario,
in Rivista dell’Associazione dei Costituzionalisti, www.associazionedeicostituzionalisti.it, 2010, 1 ss.
166
F. Palermo, J. Woelk, Diritto costituzionale comparato dei gruppi, cit., 119.
48
rapporto sinergico fra le “Carte” e le “Corti” dei diritti si pone al centro di una dialettica fra
«circuiti interpretativi» 167 che è orientata alla ricerca delle più adeguate tecniche di tutela
delle libertà dalle stesse riconosciuti.
In particolare, nel campo della protezione minoritaria, ai giudici (europei e nazionali)
spetta il compito di individuare un ragionevole contemperamento fra eguaglianza e
attribuzione di ‘diritti collettivi speciali’, da cui prende forma un vero e proprio «diritto
europeo delle diversità»168. Si tratta di un ruolo fondamentale, perché il raffronto tra
uniformità e ‘diritti riservati’ – inevitabile in uno spazio comune allargato - serve, da un
lato, a garantire la ‘tenuta’ del sistema europeo e, dall’altro, a sottrarre le garanzie (minime)
delle minoranze alle vicende (e alla completa disponibilità) delle maggioranze politiche169.
Ecco, allora, perché, come si anticipava, il diritto europeo delle minoranze, soprattutto
nella sua dimensione giurisprudenziale (o del dialogo) può rispecchiare il grado di
integrazione raggiunto dalla ‘costruzione europea’ e, conseguentemente, la capacità di
questa di realizzare un disegno di stabilità e sicurezza fondato sul pluralismo democratico.
167
Così ancora A. D’Aloia, The Protection of Rights in a Multilevel System, cit., 2.
Parlano di «diritto delle diversità», come espressione che meglio all’istanza di garantire
specifiche forme di tutela delle minoranze in «una società culturalmente complessa», F. Palermo, J.
Woelk, Diritto costituzionale comparato dei gruppi, cit., 352.
169
Sui limiti che lo Stato costituzionale di diritto impone al principio democratico anche con
riguardo al governo delle minoranze v., ancora, F. Palermo, J. Woelk, Diritto costituzionale comparato
dei gruppi, cit., 350 ss.
168
49
www.dirittifondamentali.it - Università degli studi di Cassino e del Lazio Meridionale – ISSN: 2240-9823
Data pubblicazione 01.03.2014
I diritti delle minoranze linguistiche e il ‘primato’ della cittadinanza europea
di
Paola Torretta
SOMMARIO: 1. Il caso Grauel Rüffer v. Katerina Pokorná: la lingua tedesca della minoranza
altoatesina ancora davanti ai Giudici dell’Unione europea; 2. La tutela minoritaria non
contro (ma per) la libera circolazione e la cittadinanza europea: aporie di una
giurisprudenza a senso unico; 3. Uguaglianza e diversità linguistica in Unione europea: un
disegno di integrazione ancora a metà
1. Il caso Grauel Rüffer v. Katerina Pokorná: la lingua tedesca della minoranza
altoatesina ancora davanti ai Giudici dell’Unione europea
Con la sentenza del 27 marzo scorso (causa C-322/13, Ulrike Elfriede Grauel Rüffer v.
Katerina Pokorná), la Corte di Giustizia è tornata a ribadire che la deroga all’uso della
lingua italiana in giudizio, prevista per gli organi giurisdizionali dislocati nella
Provincia autonoma di Bolzano a tutela della minoranza etnico-culturale germanofona
residente nel territorio, deve operare anche nei confronti di tutti i cittadini UE di lingua
tedesca. Questi possono, quindi, avvalersi del tedesco nei procedimenti giudiziari
celebrati in loco, pur se non appartenenti al gruppo linguistico riconosciuto dell’Alto
Adige.
Per estrapolare il principio racchiuso nella pronuncia, le misure speciali destinate
ad alcuni soggetti, in ragione del legame con una comunità linguistica minoritaria
protetta all’interno di un Paese membro, non possono rimanere ‘chiuse’ a detta
formazione sociale oggetto di specifica tutela da parte dello Stato, ma – se necessario –
debbono essere accessibili ad ogni cittadino comunitario che parli la stessa lingua.
Il quesito sottoposto ai Giudici di Lussemburgo è stato sollevato, tramite rinvio
pregiudiziale, dal Tribunale di Bolzano (Landesgericht Bozen), adito, a seguito di un
incidente sciistico avvenuto sulle montagne del Südtirol, per una causa di risarcimento
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danni intentata da una donna tedesca. La particolarità della controversia nasce dal fatto
che l’atto di citazione è stato redatto in lingua tedesca, così come la comparsa di
risposta presentata dalla convenuta, cittadina ceca che non ha eccepito alcuna
obiezione in merito alla lingua del processo.
La normativa italiana prescrive, infatti, il ricorso alla lingua ufficiale di fronte agli
organi giurisdizionali, ad eccezione della fattispecie, introdotta a garanzia delle
minoranze linguistiche presenti nella Provincia di Bolzano, che contempla la facoltà dei
cittadini italiani di lingua tedesca ivi residenti di utilizzare tale idioma nei rapporti con
gli organi giudiziari situati nel territorio (art. 122, C.p.c.; artt. 99 e 100, DPR n. 670/1972
e art. 1, DPR n. 574/1988). E una tale garanzia è stata interpretata come tutela speciale
riservata solo a questa categoria di cittadini italiani, con conseguente nullità degli atti
processuali che non rientrino nella peculiare deroga legislativamente prevista (Cass.
civ., sez. II, sentenza 22 novembre 2012, n. 20715)1.
Al giudice di Bolzano non è dunque sfuggita la questione della lingua in cui
proseguire il procedimento (quella tedesca o quella italiana), dato che la convenuta,
come si anticipava, ha implicitamente accolto l’opzione per la prima, mentre la legge
italiana, nell’interpretazione seguita dal diritto vivente, richiede l’uso della seconda.
Al riguardo, non vi sarebbe stata alternativa alla dichiarazione di nullità degli atti
già presentati, non potendo la scelta della parte resistente sanare il vizio di forma
dovuto al mancato rispetto della lingua ufficiale. Nondimeno, il Landesgericht Bozen ha
dubitato della compatibilità dell’orientamento giurisprudenziale richiamato con il
diritto dell’Unione e, pertanto, ha chiesto l’intervento della Corte di Giustizia, trovando
in questo Giudice un sostegno all’idea che le regole preferenziali disposte a favore di
alcune particolari posizioni soggettive possano servire alla piena realizzazione di
(altre) situazioni giuridiche ad esse comparabili, nel perseguimento di una ragionevole
‘distribuzione’ delle opportunità di sviluppo della personalità umana.
La decisione in commento ha infatti confermato il noto indirizzo che impone di
estendere le misure destinate a minoranze linguistiche disseminate sul territorio degli
In Giur. it., 2013, 5, p. 1143, con osservazioni A. REINSTADLER, che critica l’assenza nella
pronuncia di qualsiasi riferimento alla giurisprudenza comunitaria sul tema, con la quale il
giudice italiano avrebbe dovuto, invece, coordinarsi.
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Stati membri ad ogni cittadino dell’Unione, quando la sua lingua sia la stessa del
gruppo minoritario protetto dall’ordinamento nazionale.
Già nei casi Mutsh (sentenza 11/7/1985, causa 137/84)2 e Bickel e Franz (causa C274/96, sentenza 24/11/1998)3, la Corte di giustizia ebbe a stabilire l’applicabilità di
questo istituto con riguardo a procedimenti penali in cui fossero parti cittadini UE
parlanti una lingua cui lo Stato membro riservi un regime ad hoc in favore di ‘proprie’
minoranze etnico-culturali.
Nella prima decisione aveva giocato un ruolo fondamentale il trattamento
paritario dei lavoratori migranti rispetto ai lavoratori dello Stato membro ospitante,
con la finalità di assicurare le necessarie condizioni di integrazione (allargate al nucleo
familiare) nel luogo della prestazione professionale4.
Un cittadino lussemburghese residente in un comune di lingua tedesca del Belgio
si era così visto riconosciuto il diritto di utilizzare detta lingua davanti al giudice
penale del luogo, al pari dei cittadini belgi suoi compaesani.
In senso estensivo, nella pronuncia sulla causa Bickel e Franz la libertà di
circolazione ha ricevuto una copertura ancora più ampia, poiché la medesima tutela
linguistica del cittadino comunitario è stata sganciata dal presupposto della residenza
nello Stato membro in cui viene rivendicata.
La fattispecie esaminata dalla Corte ha visto, in tal caso, accogliere la pretesa di un
austriaco e di un tedesco ad essere penalmente processati nell’idioma minoritario
protetto nella Provincia di Bolzano, per fatti commessi in occasione di un soggiorno in
territorio altoatesino5.
Su cui B. DE WITTE, Il caso Mutsch: libertà di circolazione dei lavoratori e uso delle lingue, in Foro
it., IV, 1985, c. 8 ss.
3 Commentata da A. GATTINI, La non discriminazione di cittadini comunitari nell'uso della lingua
nel processo penale: il caso Bickel, in Riv. dir. internaz., 1999, p. 106 ss. e E. PALICI DI SUNI PRAT, L’uso
della lingua materna tra tutela delle minoranze e parità di trattamento nel diritto comunitario, in Dir.
pubbl. comp. ed europeo, 1999, p. 171 ss.
4 Un principio che la Corte ascrive alla nozione di “vantaggio sociale” di cui all’art. 7 II c., Reg.
(CEE) n. 1612/68 e che, trainato dalla progressiva evoluzione della libertà di circolare all’interno
dell’UE, ha conosciuto un costante sviluppo nella successiva giurisprudenza comunitaria: v.
Corte di Giustizia, 17 aprile 1986, Olanda v. Ann Florence Reed, causa C-59/85 nonché, più di
recente, sentenza 14 giugno 2012, Commissione/Paesi Bassi, C-542/09 e sentenza 18 luglio 2013,
Laurence Prinz v. Region Hannover, Philipp Seeberger v. Studentwerk Heidelberg, cause C- 523/11 e C585/11.
5 Nei confronti dei due cittadini UE, perseguiti per guida in stato di ebbrezza e possesso di
arma proibita, la Corte ha stabilito che l’accesso alla peculiare tutela linguistica della Provincia
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Oggi, l’ultimo passo segnato dalla sentenza Ulrike Elfriede Grauel Rüffer v. Katerina
Pokorná sembra poter chiudere il cerchio, poiché la Corte esplicita, ove non si fosse
intesa la portata generale della protezione a suo tempo sancita, che l’uso della lingua
minoritaria nei rapporti con la giustizia, qualora sia garantito in una porzione del
territorio di un Paese membro per i propri cittadini ivi residenti, è un diritto (anche per
altri cittadini comunitari) riferibile a qualsiasi procedura giudiziaria che si svolga
nell’area in cui opera detta specifica tutela.
2. La tutela minoritaria non contro (ma per) la libera circolazione e la cittadinanza
europea: aporie di una giurisprudenza a senso unico
Il fil rouge che ripercorre le soluzioni adottate dai Giudici di Lussemburgo, fino ad
arrivare al quadro odierno, corre lungo due dei canoni essenziali che da sempre –
congiuntamente - alimentano lo sviluppo dell’ordinamento comunitario: il divieto di
discriminazioni fondate sulla nazionalità e la libera circolazione dei cittadini
dell’Unione6. Si tratta di principi immediatamente protesi verso la vocazione
universalistica della tutela multilivello dei diritti, dai quali si evincono anche
riferimenti per comprendere, nella prospettiva inversa, l’atteggiamento del diritto
europeo di fronte alla salvaguardia delle realtà minoritarie, nel caso di specie quelle
caratterizzate dall’elemento linguistico-culturale.
Il ragionamento sviluppato dalla giurisprudenza comunitaria, su questo tema,
postula la (legittima) facoltà di ogni Stato membro di introdurre specifici istituti
promozionali per le comunità linguistiche del proprio territorio, precisando, però, che
anche altri soggetti che soddisfino gli stessi requisiti di specialità, pur avendo la
autonoma è strumento necessario per rendere piena ed effettiva la libertà di circolazione e di
soggiorno, che comprende, ad avviso dello stesso Giudice, anche il diritto di essere destinatari
dei servizi che lo Stato membro prevede per i propri cittadini, al fine di non creare ‘squilibri’
che si riverberino in una condizione di svantaggio per gli stranieri comunitari. A commento
delle pronunce richiamate, v. E. PALICI DI SUNI PRAT, Intorno alle minoranze linguistiche, Torino,
Giappichelli, 2002, p. 174 ss. e ora anche S. SAU, Le garanzie linguistiche nel processo penale. Diritto
dell'interprete e tutela delle minoranze riconosciute, Padova, Cedam, 2010, p. 248.
6 Sulla spinta propulsiva che la tutela della libertà di circolazione ha avuto e continua ad avere
su tutto il sistema UE, usata a mo’ di “cavallo di Troia” che ha permesso alla Corte di giustizia
di assicurare una serie di tutele, in particolar modo sociali, ai lavoratori e alle proprie famiglie,
v. I. RICCI, La forza espansiva della libera circolazione dei lavoratori: la sentenza della Corte di Giustizia
del 20 giugno 2013, Elodie Giersch e altri, causa C-20/12, in www.diritticomparati.it, 2013, p. 1 ss.
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cittadinanza di un altro Paese UE, devono poter usufruire di questa copertura
garantistica. Per la Corte, infatti, l’espansione della tutela minoritaria, da un lato, non
pregiudica le finalità perseguite sul piano interno e, dall’altro, costituisce un
indispensabile corollario del principio di uguaglianza (formale), per rendere effettive la
libertà di circolazione e soggiorno e la parità di trattamento a prescindere dalle origini
nazionali7.
In quest’ottica deve essere, quindi, analizzato l’impianto motivazionale della
pronuncia che rigetta le tesi difensive del Governo italiano.
L’esigenza di evitare un appesantimento dei procedimenti, qualora altri cittadini
UE possano servirsi del tedesco nelle aule giudiziarie di Bolzano, non viene assunta
come valido criterio di giudizio, perché ‘smentita’ dallo stesso Landesgericht Bozen, che
chiarisce come la lingua di svolgimento dei processi non incida sull’efficienza del
sistema giudiziario nella Provincia autonoma, essendo i giudici del luogo in grado di
servirsi indifferentemente dell’italiano e del tedesco.
Allo stesso modo, non appare rilevante l’argomento dei costi connessi
all’attuazione di un regime linguistico diversificato, perché la Corte di Giustizia ricorda
“che motivi di natura puramente economica non possono costituire ragioni imperative
di interesse generale idonee a giustificare una limitazione di una libertà fondamentale
garantita dal Trattato”. Di conseguenza, il Giudice comunitario non ritiene
ragionevole, sulla base di questi rilievi, negare ad un cittadino UE di lingua tedesca,
che circoli e soggiorni nella Provincia di Bolzano, il trattamento qui riconosciuto agli
italiani che parlino la medesima lingua, non considerando una garanzia equiparabile (e
sufficiente) la messa a disposizione degli strumenti che consentono di partecipare al
processo pur non conoscendo la lingua ufficiale dello Stato ospitante (e così si
esprimeva già anche la decisione Bickel e Franz).
Per la verità, e solo per aprire una breve digressione che meriterebbe ben più
adeguati spazi argomentativi, suona un po’ come una ‘stonatura’ un passaggio così
radicale e categorico sulla irrilevanza dei costi della più estesa (e appunto
‘comunitaria’) protezione linguistica, di fronte ad una ben nota giurisprudenza
sovranazionale che, in altre situazioni, si è mostrata di tutt’altro segno. Sono ricorrenti
7
Cfr. Bickel e Franz, cit.
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le riflessioni critiche sul ruolo centrale che le istanze economiche continuano ad
occupare nel processo di integrazione, anche a scapito del soddisfacimento di diritti
che, non solo all’interno degli ordinamenti nazionali ma anche nel ‘costituzionalismo
europeo’, sono definiti come valori fondamentali8.
Il tono perentorio della Corte di Giustizia, a ben vedere, si spiega avendo riguardo
ai riflessi ‘sovranazionali’ della posizione giuridica che, nel caso di specie, viene
tutelata: la libertà di circolazione e di soggiorno in UE, quale diritto (e soprattutto
obiettivo) ‘schiettamente’ comunitario.
Ciò che induce ad una considerazione - forse un po’ amara – sui paradossi di
questo approccio ‘asimmetrico’: sul piano interno, le istanze finanziarie non possono
condizionare i diritti riconosciuti dal Trattato (fermi, però, in ogni caso, i rigorosi
vincoli europei imposti ai bilanci degli Stati9); sul versante opposto, invece, la Corte di
Giustizia ha più volte accolto la visione di una tutela sovranazionale (solo) “indiretta”
dei diritti (soprattutto quelli sociali), che si realizza cioè di riflesso, se ed in quanto non
interferisca con il perseguimento di interessi e politiche (in particolare di natura
economica) dell’Unione10 (v., per tutti, il noto snodo giurisprudenziale che dal primo
giudizio sul caso Laval è arrivato alla sentenza Commissione v. Lussemburgo, passando
per le cause Viking e Rüffert e segnando, di volta in volta, la vis espansiva dei principi
della libera iniziativa economica e della concorrenza in rapporto alle garanzie dei
lavoratori)11.
Inoltre, da un diverso punto di osservazione del costituzionalismo europeo
multilivello, la pretesa dei Giudici di Lussemburgo di ‘aprire’ a tutti (sempre e
V., fra i tanti, S. GAMBINO, Diritti fondamentali e Unione Europea. Una prospettiva costituzionalcomparatistica, Milano, Giuffrè, 2009, p. 164; G. PINO, La «lotta per i diritti fondamentali» in Europa.
Integrazione europea, diritti fondamentali e ragionamento giuridico, in I. TRUJILLO, F. VIOLA (a cura
di), Identità, diritti, ragione pubblica in Europa, Bologna, il Mulino, 2007, p. 109 ss. e G. SILVESTRI,
Tutela nazionale ed europea dei diritti civili e dei diritti sociali, in C. SALVI, (a cura di), Diritto civile e
principi costituzionali europei e italiani, Torino, Giappichelli, 2012, p. 64.
9 C. GOLINO, I vincoli al bilancio tra dimensione europea e ordinamento nazionale, in
http://www.amministrazioneincammino.luiss.it, 2013, part. p. 2 ss.
10 Sul punto, v. S. GAMBINO, Diritti e cittadinanza (sociale) nelle costituzioni nazionali e nell’Unione,
Relazione al Convegno “Diritti e cittadinanza nell’Unione Europea”, Università della Calabria,
9 maggio 2013, in La cittadinanza europea, 2/2013, p. 26.
11 Definito, non a caso, il “Laval quartet” da C. SALAZAR, Crisi economica e diritti fondamentali, in
Rivista AIC, 4/2013, p. 23. In argomento, v. fra i tanti, A. ANDREONI, B. VENEZIANI (a cura di),
Libertà economiche e diritti sociali nell’Unione europea. Dopo le sentenze Laval, Viking, Rüffert e
Lussemburgo, Roma, Ediesse, 2009.
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comunque) i meccanismi statali di protezione delle lingue minoritarie deve essere
messa in relazione, nella necessaria dialettica con il sistema convenzionale, con la
giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, la quale in un lontano ma
significativo precedente ha definito un più rigoroso bilanciamento fra garanzie di
accesso alle misure speciali per la diversità linguistica ed esigenze di contenimento
della spesa pubblica.
Nell’affaire Belgian Linguistics12 venne rigettata la richiesta di ricevere l’istruzione
nella lingua minoritaria avanzata da un gruppo di famiglie di lingua francese residenti
in una regione del Belgio di lingua olandese. La necessità di circoscrivere i costi per la
scuola pubblica o sovvenzionata dallo Stato rappresentò la giustificazione per ritenere
non irragionevole il criterio di ‘assimilazione’ adottato dalla legge belga nell’imporre
l’insegnamento in francese o olandese in ragione della prevalenza di una di queste due
lingue nella regione considerata. I Giudici sostennero, infatti, che nei territori
tendenzialmente monolingue non sarebbe stata economicamente praticabile la scelta di
offrire diverse modalità di fruizione del diritto allo studio a seconda degli idiomi in
essi presenti13.
E il profilo delle scelte finanziariamente sostenibili – complice anche il diffuso
contesto di crisi che attanaglia l’Europa – non sembra oggi poter essere trascurato,
costituendo, ormai, un essenziale canone di ragionevole definizione delle politiche
pubbliche, al fine di predisporre strumenti di effettiva e realistica garanzia dei diritti
(per le generazioni presenti e future).
Corte europea dei diritti dell’uomo, Sent. 23 luglio 1968 (ric. n. 1474/62; 1677/62; 1691/62;
1769/63; 1994/63; 2126/64).
13 Più in generale, l’attenzione della Corte alla necessità delle Parti contraenti di ricercare un
ponderato contemperamento della tutela dei diritti con le risorse pubbliche disponibili è
confermata in altre decisioni: cfr., Campbell e Cosans c. Regno Unito, del 25 febbraio 1982, in cui la
soluzione comportante un maggior esborso finanziario per lo Stato viene accolta dalla Corte per
l’assenza di opzioni alternative, oppure, più di recente, sentenza 18 maggio 2010, Plalam S.p.a. c.
Italia, sentenza 2 aprile 2013, Tarantino e altri c. Italia, (par. 44).
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3. Uguaglianza e diversità linguistica in Unione europea: un disegno di integrazione
ancora a metà
Il discorso che taglia trasversalmente le pronunce della Corte di Giustizia passate
in rassegna è sorretto dall’idea che la tutela delle minoranze linguistiche non può
tradursi in una situazione di privilegio che si esaurisce nelle formazioni etnico-culturali
preservate da uno Stato, e nemmeno può comprimere la sfera dei diritti derivanti dalla
cittadinanza europea.
Come dimostra anche il caso Roman Angonese v. Cassa di Risparmio14), l’approccio
della giurisprudenza sovranazionale è quello di chiedere agli Stati di bilanciare
secondo criteri di ragionevolezza istanze di diversificazione e inderogabili esigenze di
uniformità, affinché le misure destinate alla salvaguardia di situazioni linguistiche
minoritarie non siano, a loro volta, causa di arbitrarie discriminazioni a contrario
all’interno dell’Unione.
Occasione di ‘conflitto’ fra uguaglianza e tutela delle differenze fu, nella
fattispecie, il c.d. “patentino” di bilinguismo (italiano/tedesco) rilasciato dalle autorità
di Bolzano e necessario per partecipare alle selezioni per determinati impieghi.
L’obbligo di certificare la qualifica richiesta solo con la documentazione fornita, previo
esame, da amministrazioni pubbliche locali, quale meccanismo preferenziale di
identità linguistiche caratterizzanti specifiche comunità interne agli Stati membri,
venne considerato sproporzionato rispetto allo scopo perseguito.
Per la Corte, infatti, l’impossibilità di provare i titoli di ammissione ad una
procedura valutativa per l’accesso all’impiego attraverso attestazioni equivalenti crea
uno svantaggio alle persone non residenti nell’ente locale interessato, consistente nella
concreta difficoltà ad acquisire la certificazione in oggetto e, di riflesso, in minori
opportunità di concorrere per un posto di lavoro. Il che si traduce, di fatto, in una
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Corte di Giustizia, 6 giugno 2000, causa C-281/98.
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inammissibile discriminazione sulla base della cittadinanza15 destinata a riverberarsi,
ancora una volta, sul principio della libera circolazione16.
Anche oggi, dalla sentenza Ulrike Elfriede Grauel Rüffer v. Katerina Pokorná si evince
che non è cambiato l’atteggiamento dei giudici europei: la tutela delle minoranze
linguistiche è ancora un affare degli Stati, come confermato dalla preoccupazione che i
“diritti speciali” riconosciuti dagli ordinamenti nazionali ai propri gruppi minoritari
non interferiscano con le posizioni giuridiche soggettive e gli interessi tutelati
dall’Unione.
Rimane, invece, ancora in ombra, o solo ‘abbozzata’, la prospettiva della
salvaguardia di queste (e di altre) minoranze nel diritto europeo.
Eppure le potenzialità di sviluppo di questo percorso non sono, in realtà, mancate
e trovano rinnovato impulso nel nuovo Trattato.
Che la questione minoritaria sia da tempo ‘dentro’ l’acquis communautaire si
percepisce chiaramente nei criteri (politici) ai quali il Consiglio di Copenaghen del 1993
ha subordinato l’allargamento dell’Unione17. Ora, poi, una base giuridica di diritto
primario può sostenere un ruolo ‘attivo’ dell’Unione in tale ambito.
La stagione europea inaugurata a Lisbona sembra portare con sé un’accresciuta
sensibilità per la protezione delle minoranze, inclusa fra gli obiettivi di cui all’art. 2
Si conferma nella pronuncia che il divieto di disparità in ambito lavorativo opera, sia nel
settore pubblico sia in quello privato, con riguardo all’accesso all’occupazione, alla retribuzione
e alle altre condizioni di lavoro.
16 La causa origina dal ricorso al Pretore di Bolzano che un cittadino italiano di lingua materna
tedesca, residente in Italia nella Provincia di Bolzano, promuove a seguito della partecipazione
al concorso per l’assunzione ad un posto di lavoro presso la Cassa di Risparmio di Bolzano. Il
Sig. Angonese, dopo aver trascorso in Austria un periodo di perfezionamento dei propri studi
fra il 1993 e il 1997, torna in Italia e, nell’agosto del 1997, si candida alle selezioni indette
dall’istituto bancario, dalle quali però viene escluso per non aver prodotto (come richiesto dal
bando) il certificato di bilinguismo (italiano-tedesco) rilasciato dalle autorità locali. Il candidato,
perfettamente bilingue, si rivolge all’autorità giudiziaria per chiedere che detta clausola sia
dichiarata illegittima, essendosi visto rifiutare i titoli equipollenti allegati ai fini dell’ammissione
al concorso: il diploma di maturità per geometri, i certificati attestanti studi linguistici in
inglese, sloveno e polacco, compiuti presso la Facoltà di filosofia dell’Università di Vienna, e la
dichiarazione secondo cui tra le sue esperienze lavorative figurava l’esercizio delle attività di
geometra e di traduttore dal polacco in italiano.
In tal sede, il Pretore di Bolzano solleva rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia affinché ne
verifichi la compatibilità con il principio comunitario della libera circolazione dei lavoratori.
17 V. F. PALERMO, J. WOELK, Diritto costituzionale comparato dei gruppi e delle minoranze, II ed.,
Padova, Cedam, 2011, p. 112 ss.
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TUE, in aggiunta ai richiami all’eguaglianza e alla promozione delle differenze
contenuti nella Carta dei diritti (artt. 21 e 22).
In tale ottica, quindi, sul versante delle specifiche competenze dell’Unione,
possono oggi interpretarsi i poteri che i Trattati (già a partire da Amsterdam (art. 13
TCE)) attribuiscono al Consiglio per rimuovere, anche mediante azioni positive, le
disparità di trattamento in relazione all’origine etnica (art. 19 TFUE).
L’impianto assiologico e strutturale del sistema UE non esclude, in sostanza,
un’azione di difesa e di valorizzazione delle minoranze da parte delle Istituzioni
europee. Tuttavia, fino ad ora, queste si sono fermate a verificare che le tutele nazionali
non pregiudichino esigenze e libertà sancite al livello comunitario.
Forse è solo mancata l’occasione per andare oltre. Di certo, però, un esplicito
indirizzo di riconoscimento sovranazionale del fenomeno minoritario, come elemento
caratterizzante non solo la realtà degli Stati ma anche quella dell’Europa unita, non
sembra poter minare l’impronta universale dei diritti europei e tanto meno ‘indebolire’
lo status dei cittadini dell’Unione18.
Il completamento del percorso di tutela delle minoranze in ambito comunitario
(anche con interventi di carattere positivo) può, al contrario, arricchire il disegno di
integrazione delle diversità e delle conoscenze, con un positivo impatto sulla coesione
sociale, sulla promozione del patrimonio culturale e sull’innovazione nella dimensione
europea.
Anche in un parere del Comitato delle Regioni compare l’“auspic[io] (…) che cresca la
consapevolezza in Commissione e Consiglio sulla necessità che una base giuridica rafforzata
consenta di avere una politica specifica, opportunamente finanziata, a favore delle minoranze
linguistiche” (cfr. Parere del Comitato delle regioni «La protezione e lo sviluppo delle minoranze
linguistiche storiche nel quadro del trattato di Lisbona», in GUCE, C 259, del 2 settembre 2011, p. 31–
33).
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