o bianco o nero: il separatismo nei media

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I SIGNORI DELLA RETE
O BIANCO O NERO:
IL SEPARATISMO
NEI MEDIA AMERICANI
di Danny SCHECHTER
Nel sistema radiotelevisivo e nell’informazione di massa
statunitense ogni gruppo etnico ha i suoi canali.
Ma resta una enorme disparità a sfavore dei neri.
Il caso di Colin Powell. L’esperimento di Bet.
P
1.
ER MOLTI ANNI HO SCRITTO SERVIZI E INchieste sul Sudafrica dell’apartheid. Uno degli aspetti che caratterizzava quel regime oppressivo era la netta separazione razziale nella vita reale e nei mezzi di comunicazione di massa. Il sistema dei media sudafricano esisteva solo a scopo di
propaganda e pacificazione. Era diviso e iniquo come il resto della società, presupponendo che ogni razza, tribù e gruppo etnico volesse essere informato esclusivamente sulle cose di propria pertinenza.
Ormai quei tempi sono finiti nel «paese adorato», come si usava definirlo, ma il
separatismo nel mondo dei media non è ancora morto. Sopravvive nel sistema dell’informazione di massa statunitense, dove ciascun gruppo etnico e razziale ha i
propri mezzi di comunicazione mirati a quelle che sono ritenute le sue priorità. C’è
una radio nera e una radio bianca, emittenti ispaniche e perfino stazioni radiofoniche rivolte solo ai nativi americani. Eppure, malgrado l’apparente diversità, vi predomina un’uniformità di vedute e obiettivi. Senza dubbio ci sono media che dedicano maggior spazio alle tematiche delle minoranze, ma nell’insieme sono una
parte dell’informazione che si va riducendo.
Molti di questi canali – a stampa, radio e tv, e adesso anche su Internet – sono
al servizio di interessi culturali e di bisogni informativi specifici. Diffondono notizie
di attualità per le comunità di minoranza, notizie spesso non trattate dalle principali emittenti. In taluni casi, l’informazione che offrono è anche qualitativamente migliore. Molti canali ispanici, per esempio, hanno ricevuto premi importanti per reportage internazionali nel momento stesso in cui i principali network erano costretti a chiudere alcune sedi e a ridurre i notiziari esteri.
Ad analizzare il panorama dei media americani se ne vedono i molti paradossi. Personaggi afro-americani come Oprah Winfrey sono tra i presentatori più popolari dell’etere. Atleti, stelle del cinema e della musica di colore godono di grande
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visibilità e fanno registrare un forte seguito tra gli spettatori e i lettori di tutte le razze. Molti di essi si sono straordinariamente arricchiti e sono ormai membri permanenti di una classe di celebrità costantemente sotto l’occhio del pubblico. A quanto
pare, le minoranze si stanno imponendo. C’è un’attrice comica cinese, dei musicisti latini, e molti ebrei e persone di colore citati di frequente come esempi di gente
«che ce l’ha fatta», a dimostrazione che in America chiunque può sfondare. È la versione mediatica del mito di Horatio Alger, che presuppone che tutti possono diventare miliardari.
Sulla scena dell’informazione si distingue un pugno di brillanti bramini di colore come i giornalisti Clarence Page e Faye M. Anderson, ma la maggior parte dei
talk show politici resta prevalentemente bianca. Alle minoranze si chiede di solito
di commentare i «propri» argomenti. A volte appaiono anche alcuni ispanici, ma
sono molti meno dei nativi americani.
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2. Negli ultimi anni il nostro sistema dei media è stato soggetto a importanti
mutamenti strutturali che si sono concentrati soprattutto sulla proprietà, con frequenti fusioni e un controllo detenuto da un numero di persone e di gruppi sempre più ristretto. Dieci anni fa, nel suo fertile libro sui monopoli dell’informazione,
il giornalista Ben Bagdikian aveva documentato come cinquanta società controllassero la maggior parte dei mass media. Di recente, questo numero si è ridotto: tali società sono ormai tra cinque e sette, e vedono impegnati nei ruoli chiave protagonisti non americani come Bertelsmann, News Corporation, Sony e Vivendi.
Nello stesso arco di tempo, il numero di stazioni radio a proprietà nera si è dimezzato, passando dal 3% all’1,5%. La proprietà di colore dei canali televisivi è anche più ridotta. Alcuni alti dirigenti appartengono a minoranze, ma difficilmente
possono essere considerati i difensori delle loro esigenze. Mi vengono in mente tre
esempi. Il nuovo segretario di Stato Colin Powell, prima di essere nominato nel governo Bush era nel consiglio di amministrazione di America On Line (Aol), di recente fusasi con la Time Warner. Al figlio di Powell, Michael, è stata da poco affidata la guida della Federal Communications Commission, la Commissione federale
per le comunicazioni, il principale ente di regolamentazione delle trasmissioni.
Dick Parsons, un repubblicano di colore ed ex banchiere, è oggi un dirigente amministrativo della Aol-Time Warner. Nessuno di essi si è distinto per aver contestato le iniquità dei mezzi di informazione.
Il pigmento della pelle non è un punto di riferimento su cui contare. Gli uomini d’affari di qualunque tinta sono soprattutto interessati al colore dei soldi. Raramente sfidano lo status quo della crescente disuguaglianza della vita americana,
malgrado possano dire tutto ciò che pensano in merito alla separazione del mondo digitale. (Powell ha recentemente sminuito questa disparità paragonandola al
«divario della Mercedes», in virtù del quale tutti desidererebbero una macchina di
lusso, ma non tutti possono permettersela.)
Dare accesso a un numero sempre maggiore di americani finora esclusi dall’èra digitale non è solo importante per ragioni morali e democratiche: è anche eco-
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nomicamente conveniente. Attrarre mercati più ampi diventa più facile. Più gente
c’è in onda, più acquirenti saranno all’ascolto.
È difficile per molti dirigenti di colore resistere alla tentazione di assorbire e rilevare compagnie. Concludere affari a proprio vantaggio rappresenta lo stadio più
alto della loro probità. Robert Johnson, per molti anni l’uomo dietro le quinte di
Black Entertainment Television (Bet), un’emittente via cavo che asseriva di essere
al servizio del trascurato mercato di colore, è stato recentemente acquisito da Viacom, proprietaria, fra l’altro, di Mtv e Cbs. Johnson ne ha ricavato un enorme profitto, continuando inoltre a svolgere un ruolo importante nella società. Ma in sostanza ben poco è cambiato sullo schermo. Molti spettatori di Bet hanno espresso
critiche sulla mancanza di originalità della programmazione e di qualità dei notiziari. Come in altre televisioni via cavo, le necessità di più basso profilo determinano le scelte di programmazione. Non la si può considerare una voce dell’America
nera: sta lì per vendere, non per raccontare.
Effettivamente molte minoranze si sentono come prive di voce, con scarse
possibilità di influenzare gli impegni dei mass media e far conoscere le proprie esigenze a pubblici più vasti. Un anno fa la Naacp, tuttora la più grande organizzazione per la difesa dei diritti civili degli Stati Uniti, aveva minacciato di indire un boicottaggio dei telespettatori per chiedere che alle minoranze fossero garantiti maggiori posti di lavoro e una migliore immagine. (Le concessioni simboliche ottenute
da parte di alcune reti e le difficoltà di organizzare un boicottaggio del genere lo
hanno fatto revocare.)
Per anni, gruppi di colore hanno protestato contro la propensione dimostrata
dai notiziari delle tv locali a insistere sulla piccola criminalità di strada a opera delle minoranze, sorvolando invece sulle incriminazioni contro associazioni a delinquere bianche. Tradizionalmente, i programmi di carattere positivo imperniati sulle tematiche dei neri sono concentrati, qualcuno dice segregati, nel mese di febbraio, che è il mese storico dei neri, malgrado sia sempre più forte il coro di lamentele contro questa tendenza che comporta una riduzione di tali programmi nel
resto dell’anno.
Alcuni gruppi etnici si organizzano per esercitare pressioni e introdurre cambiamenti. A Washington il Minority Media Council, ossia il Consiglio per la rappresentanza delle minoranze nei mezzi di informazione, si batte perché siano offerte
maggiori opportunità ai neri di lavorare nei media e di possederne, ma negli ultimi
anni si sono fatti pochi progressi. Semmai, giudici conservatori stanno demolendo
le leggi e le regole finora approvate per accrescere le possibilità di minoranze e
donne nel mondo dell’informazione.
Alla metà di gennaio 2001 una Corte di appello ha sentenziato che tali norme
creano «pressione» e sono incostituzionali. Così l’industria dell’informazione s’è cavata di impaccio e non si sente più in dovere di assumere altri esponenti di minoranze in un mondo a straripante maggioranza bianca. L’amministrazione Bush appoggia questa posizione e l’industria di settore si è compattata per difenderla attraverso l’Associazione nazionale degli enti radiofonici e televisivi (Nab), che gode di
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molta influenza a Washington grazie a tutti i soldi politici che distribuisce. (Il presidente della Nab e il leader della maggioranza al Senato erano compagni di stanza
all’università.)
La nuova Commissione federale per le comunicazioni dominata dai repubblicani sostiene che non ci sono prove a sufficienza per dimostrare una connessione
diretta tra la disparità esistente nei posti di lavoro e quella dei contenuti. Il presidente uscente della Federazione, anch’egli un nero, Michael Kennard, ha definito
«oltraggiosa» la recente decisione della Corte e ha detto che essa «ha profonde implicazioni per tutti i programmi di governo»: «Si è prodotto un grave scollamento
tra le immagini che la gente vede alla televisione e la realtà della nostra società
multiculturale», ha detto.
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3. E che dire della qualità dei «programmi per neri»?
È un tipo di programmazione fatto di comicità insensata e sit-com tutte uguali,
sfruttato dalla United Paramount Network e dalla Warner Brothers alla conquista
del «consumatore urbano» – «urbano» nel senso di nero ai fini del mercato. Come rileva il columnist Earl Ofari Hutchinson, che è un afro-americano, alcuni di questi
«spettacoli per neri» sono in realtà rivolti a un pubblico di bianchi: «Hanno saturato
l’etere con una sfilza di sciocchezze, varietà scollacciati e pettegoli talk show, architettati deliberatamente per attrarre un pubblico di giovani bianchi della classe
media. Molti neri in questi programmi non scorgono alcuna attinenza con i propri
gusti e bisogni». È vero che grazie alla sua minaccia di boicottaggio la Naacp è riuscita a ottenere alcune concessioni in materia di disparità, ma la qualità della programmazione è rimasta pietosa come è sempre stata.
Questo tipo di trasmissioni prevede la partecipazione di alcuni presentatori
di colore di tv locali che solitamente solo nei fine settimana spuntano fuori nei
notiziari di maggior ascolto, incentrati sui neri intesi più come criminali che cittadini. Sebbene un numero maggiore di persone di colore lavori oggi nei telegiornali, le immagini di povertà che questi trasmettono sono ancora – in modo sproporzionato rispetto alla realtà – connesse prevalentemente alle minoranze di colore.
I programmi per i neri esibiscono comici alla moda come Chris Rock e i vari
rapper della Def Jam che talvolta si lanciano in pungenti critiche della società e
delle sue ipocrisie, ma raramente nobilitano le comunità di appartenenza. (Anni fa
gli Staple Singers ebbero un grande successo con la canzone Respect Yourself – Abbi stima di te stesso: alcuni di questi artisti mica-tanto-comici tendono piuttosto a
«disistimare se stessi».)
Sono programmi che ruotano intorno all’«ossessione nazionale» per lo sport,
dove gli atleti di colore ricevono compensi astronomici per le loro prestazioni fisiche, ma raramente sollevano dibattiti sul fatto che essi costituiscono dei modelli di
gladiatore in una cultura che preferisce farli gareggiare senza aprire bocca. Al tempo stesso i neri sono presenze ancora piuttosto invisibili tra le file dirigenziali dello
sport e delle trasmissioni sportive.
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L’unica tv via cavo a proprietà afro-americana – la Black Entertainment Television – trasmette uno di seguito all’altro video musicali il più possibile ignoranti,
maschilisti e sessisti, e questo è un argomento assai dibattuto su siti web come The
Black World Today. Associazioni come l’Aftra (Federazione americana degli artisti
radio e televisivi) hanno accusato la Bet di non pagare le tariffe sindacali, mentre i
critici si preoccupano per la precipitosa contrazione della percentuale effettiva di
mezzi di informazione a proprietà nera.
La programmazione destinata al pubblico di colore tende a essere rappresentata da spettacoli a tema che inducono attori e sceneggiatori neri a lavorare solo su
soggetti di argomento razziale o a diventare delle presenze simboliche nella programmazione di prima serata. È vero, c’è più integrazione, ma come ha rivelato un
recente studio di Children Now, solo il 17% dei programmi in onda in prima serata
annovera personaggi appartenenti a razze diverse.
In un articolo dedicato al crescente identificarsi dei gusti di bianchi e neri, la
rivista di settore Variety scrive che le commedie tv e la generale varietà di interpreti
stanno «riducendo la divisione tra razze». Questo è il titolo. Più avanti nell’articolo,
si legge: «Le scelte televisive di bianchi e neri sono ancora agli opposti (…) come il
bianco e il nero».
Ma, e questo vale per tutti i programmi dedicati alle minoranze, ci sono anche
numerosi personaggi ricchi di talento, idee, capacità artistiche e impegno che hanno molte cose da dire e da fare, eppure raramente passano in televisione. Abbiamo assistito a un programma eccellente come Eyes on the Prize (Occhio al
premio) e a svariate trasmissioni della tv pubblica finanziate dal Servizio per una
televisione indipendente, che offrono esempi del tipo di programmazione di qualità che potremmo avere se solo ci fossero i soldi.
Esistono organizzazioni per i diritti civili e movimenti di minoranze – come
Uomini per una tv migliore – che lanciano crociate per rivendicare maggiori possibilità di accesso e diversificazione. C’è stata anche una proliferazione di siti Internet creati e gestiti da appartenenti a minoranze, sebbene la maggior parte resti
bianca come un giglio. Molti dei discorsi che si fanno sul digitale vertono anch’essi
sulla separazione economica e sulla disparità di opportunità nella vita americana.
Sono temi fondamentali ed è incoraggiante sapere che un’importante rivista
italiana se ne interessi. Mi auguro solo che le pubblicazioni americane dedicate all’argomento aumentino. Sono felice di annunciare che esiste adesso un canale
web consacrato ai media (www.mediachannel.org), che attraverso una rete di più
di 600 link a realtà multimediali svolge un servizio di monitoraggio e informazione. Sono problemi di cui non si sa mai abbastanza. Chi di noi lavora nel mondo
dei media ha il dovere di fare pulizia a casa propria.
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