Domenica 30 marzo 2014 - Luca 15,11-32
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Domenica 30 marzo 2014 - Luca 15,11-32
SERMONE Domenica 30 Marzo 2014 Predicatore: Nicola Tedoldi “VOGLIO TORNARE DA MIO PADRE!” Meditazione sul Vangelo di Luca 15, 11-32 Fratelli e sorelle oggi abbiamo ascoltato un brano del Vangelo di Luca che voi tutti conoscete e su cui avrete ascoltato tante meditazioni e sermoni e letto commenti o studi biblici. La cosiddetta “parabola del Figliol prodigo” è per sua stessa natura un testo interessante per la discussione, coinvolgente per la meditazione. Gesù stesso potrebbe averlo usato proprio come strumento di discussione con i farisei del suo tempo. I Padri della Chiesa lo hanno usato come strumento per cantare la bontà e la misericordia di Dio. D’altra parte il Padre di cui parla la parabola è chiaramente identificabile con il Dio d’Israele così come il giovane figlio è paragonabile ai peccatori convertiti e il figlio più vecchio a coloro che, come i Farisei, si sentono figli perfetti. Ma oggi, vorrei con voi spostare la meditazione su un piano diverso da quello propriamente teologico della misericordia di Dio, o da quello politico del rapporto tra Gesù e i Farisei. Vorrei invece parlare di quel giovane figlio che un bel giorno della sua vita pensa a dare un taglio con il suo presente per cercare lontano una diversa felicità. Il Vangelo non ci dice nulla di questo giovane, non ci racconta nulla della sua vita, del suo lavoro, della sua condizione. Leggendo tutto il brano, veniamo a conoscenza che ha vissuto con suo padre ed un fratello maggiore, probabilmente orfano di madre, di cui mai si parla. Leggiamo ancora che il padre aveva dei servitori e quindi che doveva essere ricco. Si può quindi presupporre che il giovane abbia trascorso una vita agiata, senza problemi, in una famiglia solida che viveva con la coltivazione della terra e l’allevamento degli animali dove entrambe i figli erano fortemente impegnati. Poco era il tempo da dedicare al divertimento e alle amicizie; forse anche per la mancanza di una figura materna, i due ragazzi sono dovuti crescere in fretta, aiutare il padre nel lavoro e nella gestione della casa. Ma al più giovane dei due fratelli, quella vita fatta di lavoro senza tante distrazioni non bastava più: eppure aveva tutto ciò di cui aveva bisogno: una casa, un padre meraviglioso, ricchezza, un lavoro. Quante volte anche noi che abbiamo tutto non ce ne rendiamo conto e cerchiamo altre strade, altre libertà, altre emozioni. Questo ragazzo non certo in un giorno, matura la sua decisione: me ne andrò, voglio cambiare vita, voglio di più. Voglio conoscere paesi diversi, persone diverse, voglio divertirmi, avere i miei momenti. Non voglio più dover rendere conto a mio padre di quello che faccio, non voglio più stare alle sue regole. E così prende la forza di parlare con suo padre e lo fa con una frase che alle nostre orecchie suona come terribile: “Padre, dammi la parte dei beni che mi spetta”. Chiedere al padre la parte di eredità, significa considerare quel padre come morto, un padre che non si sarebbe più rivisto. Colpisce la forza delle parole del figlio: dammi la parte dei beni che mi spetta. Su quale base egli ritiene di avere una parte di beni che gli spettano? In fondo suo padre è lì davanti a lui, è vivo, pronto a dare al figlio ogni cosa di cui ha bisogno. Ma questo al figlio non basta più, lui vuole la parte di beni che gli sarebbe spettata dopo la morte del padre, ma la vuole subito, perché non accetta più di essere un uomo guidato, amministrato sottoposto a regole. Quando si legge questa frase, così cruda, la prima reazione è quella di provare un senso di sdegno per questo giovane. Come si permette di trattare così il genitore che ha messo da parte per lui delle ricchezze, per dargli un futuro sereno quando non ci sarà più lui ad occuparsene! Ma per il ragazzo il futuro è ora, non vuole più aspettare, non vuole essere un’ appendice, vuole poter essere lui ad amministrare la propria vita. L’evangelista Luca in poche righe, senza lasciar spazio all’immaginazione, traccia il quadro della situazione: un uomo aveva due figli, il più giovane disse “padre dammi la parte dei beni che mi spetta” ed egli divise fra loro i beni. Sì, quel padre, all’apparenza senza discutere, calcola quanto ha messo da parte per i suoi figli e fa una divisione attribuendone una parte all’uno e una parte all’altro. Questo padre rispetta la richiesta del figlio, che lo sta considerando come un uomo morto, e lo accontenta. Quale dolore per quest’uomo che vede tutti i suoi sforzi per tenere unita la famiglia, dissolversi in un attimo. Ed ora cosa farai figlio mio? Dove andrai?, Cosa troverai lontano da me? Cosa cerchi che io non possa darti? Ancora una volta Gesù con poche parole traccia l’epilogo della vicenda. Il giovane partì per un paese lontano e vi sperperò i suoi denari vivendo dissolutamente. Poche parole per un finale terribile. Ma non è questa la storia che Gesù ci vuole raccontare. Fin qui lascia che siamo noi a giudicare questo ragazzo. Chi di noi leggendo queste prime righe della parabola non si è indignato contro questo figlio irrispettoso e pretenzioso? Chi di noi non si è sentito mosso a compassione per quel padre trattato come fosse già morto, parte di un passato già concluso, che in un atto di estrema bontà ha accondisceso alla richiesta del figlio? Chi di noi non ha pensato anche: ha fatto male a dividere i suoi averi, io avrei cacciato mio figlio... se la facesse lui la sua ricchezza con il suo lavoro, con il suo sudore! Ebbene se tutti questi sentimenti sono normali per noi, per Gesù non c’è spazio per i commenti o i giudizi. A Lui interessa raccontare quanto succederà dopo. Per Gesù la storia importante avviene dopo e non è fatta di pretese ed offese, non è fatta di peccato e cattiveria, ma è piena di quel desiderio di redenzione che la rende una delle più dolci storie d’amore dell’intero evangelo. Il nostro ragazzo dopo aver sperperato i beni conservati da suo padre che sarebbero dovuti servirgli per la costruzione del suo futuro, che dovevano essere la base per formare una famiglia, il seme per il suo raccolto da uomo adulto, si trova improvvisamente solo con se stesso, con la sua povertà, fatta di fame e paura, fatta di dolore e solitudine. Tutto è finito. Scopre improvvisamente cosa significa essere adulto, cosa vuol dire camminare con le proprie gambe. Scopre che il denaro è qualcosa che non dura, e che senza denaro si esauriscono anche i rapporti che sono basati sulla ricchezza e sul potere. Ha cercato l’ebrezza nelle feste delle grandi città, ha vissuto le passioni con le prostitute, ha cercato amicizie che gli dessero risposte pronte ed immediate senza troppe regole, senza troppe rinunce. Tutto era bello quando aveva denaro per poter pagare la sua presunta libertà. Ma quando il denaro è finito, tutto, davvero tutto quello che aveva trovato sembra svanire. Nessuno più versa un bicchiere di vino a questo giovane che non può permettersi di pagarlo. Quelle donne che offrivano il loro corpo al prezzo pattuito non hanno nessuna intenzione di fare regali a chi non può più pagarle. Eppure gli avevano giurato amore eterno. Lo stesso amore di quei falsi amici che nel momento del bisogno svaniscono lasciando attorno a lui solo silenzio e buio. In questo silenzio e in questo buio il giovane scopre d’improvviso quanto sarebbe bello poter ancora sentire il calore del suo letto nelle fredde notti, il muggire dei vitelli e il belare delle sue pecore. Quanto gli manca la sua casa! Quanto gli manca la mano di suo padre che dopo un giorno di lavoro, ormai stanca ma sempre forte, lo accarezza così come faceva quando era piccolo. Ancora una volta la nostra reazione a questa situazione è spesso quella della rivincita. Ben gli sta! Così capisce quello che ha lasciato. Ora deve rubare le ghiande ai maiali per nutrirsi mentre prima aveva tutto il necessario per vivere bene. Ancora una volta il nostro giudizio dà una nuova sterzata alla storia. Ma ancora una volta Gesù ci guida a continuare una lettura che è completamente diversa dalla nostra. Quante veglie per il giovane, veglie al mattino, alla sera, in ogni momento. Per lui è il momento della svolta, della conversione. Quante preghiere avrà rivolto a Dio per cercare un senso a quello che ha fatto, quanto avrà meditato per avere il coraggio di voltarsi indietro. Come nell’inno che abbiamo sentito cantare prima, tante veglie, tanta preghiera e tanta fedeltà, servono per potersi convertire. Una conversione che ha senso solo se fatta con l’animo puro che cerca l’uscita dall’inferno del proprio egoismo. Gesù non lascia dubbi nel suo racconto: il giovane ad un certo momento “rientra in sé”. Qualcosa in lui era svanito nell’atto dell’abbandono della casa del padre. Qualcosa che lo ha spinto a cercare una libertà lontano, qualcosa che gli ha fatto credere di essere prigioniero di un sistema fatto solo di regole e certezze. Ma ora qualcosa in lui è cambiato: “Io qui muoio di fame mentre a casa di mio padre anche i servi hanno pane in abbondanza!” La consapevolezza di non essere nemmeno in grado di provvedere al pane per vivere gli chiude ogni speranza del futuro. Non esiste un’altra eredità, non esiste un futuro per lui. Quella terra promessa a cui aveva posto lo sguardo ora vive nella carestia e il denaro che ora sarebbe servito per fronteggiare la crisi è stato sperperato alla ricerca di un senso per la propria scelta. Sì ormai tutto è deciso: tornerò da mio padre. Qui avviene il vero miracolo della conversione, un miracolo che non è dettato dall’opportunismo, che non è stabilito dalla fame come molto spesso ad una prima lettura possiamo credere. Andrò da mio padre e gli dirò: Padre ho peccato verso il cielo e contro di te. Verso il cielo, quel cielo fatto dal Dio altissimo che il giovane si sente di aver offeso per aver trascurato i suoi doveri di figlio, per aver abbandonato le braccia di chi lo ama. Un peccato verso quel cielo che ci vuole tutti figli, un peccato contro quel padre che lo ha voluto come figlio. Qui il testo greco ci dà una informazione bellissima che purtroppo la gran parte delle traduzioni tradiscono per lasciar spazio ad una lettura più scorrevole. Abbiamo ascoltato questa frase: “mi alzerò e andrò da mio padre e gli dirò” Ma il primo verbo che viene sempre tradotto con un futuro in greco non ha nessun valore di futuro, anzi esprime una azione che è avvenuta nel momento in cui la si sta esprimendo. In italiano pertanto questa azione si traduce con un tempo gerundio. Possiamo quindi tradurre in questo modo: “essendomi alzato, andrò da mio padre”. Questo significato di alzarsi è lo stesso che si usa in molti passi nei vangeli per esprimere la resurrezione dai morti. E allora possiamo tradurre così: “essendo risorto, andrò da mio padre e gli dirò: padre ho peccato verso il cielo e contro di te: non sono più degno di essere chiamato tuo figlio!” Fratelli e sorelle se in quel verbo al futuro, mi alzerò, potevamo leggere un piano del giovane che decide di tornare a casa per pura convenienza, in questa traduzione “essendo risorto” vediamo che tutto il movimento del ragazzo è legato ad un suo ritorno alla vita, a quella vita che aveva abbandonato lasciando la casa di suo padre, a quella vita che ha perso mescolandosi senza freni alla mondanità delle passioni. E così scopriamo che il vero morto in tutta questa storia è proprio lui, il figlio giovane. Una morte, la sua, che ha sperimentato nel momento in cui ha compreso che in quel mondo fatto solo di opportunismo, il suo valore era legato solo al valore di ciò che possedeva e che il suo valore è svanito proprio al momento della perdita di tutti i suoi averi. E’ lui il vero morto, quello che è dovuto scendere nelle profondità del nulla per rendersi conto che la luce non è lì, che non è lì la vera gioia. In quel silenzio fatto dell’assenza di ogni legame, in quella morte spirituale che lo ha reso un corpo senza vita, in quel vagabondare tra le tenebre e le paure, sente che ancora un alito di vita lo lega al suo passato. Sì ora ha capito. Ora che sono risorto posso tornare a casa! Questa è la quaresima del giovane, questo è il suo tempo di passione, fatto di una conversione totale, del riconoscimento che non c’è libertà più grande di quella che il Padre gli ha sempre offerto, non c’è regola più dolce da sopportare di quella che il Padre gli ha chiesto di rispettare. E questa fratelli e sorelle, deve essere anche la nostra quaresima! Questa deve essere la nostra conversione in questo tempo che ci separa dalla Pasqua. Quante volte anche noi siamo distratti da mille cose che ci allontano dal nostro Padre che è nei cieli. Quante volte viviamo assetati di una libertà fatta di inganni e di illusioni, desiderosi di avere tutto quello che Dio invece ci nega. Crediamo che la vera felicità stia in quello che non conosciamo, quello che ci è lontano. Abbiamo la vita vera a portata di mano, ma il nostro sguardo cerca qualcosa di diverso. Che bello fratelli e sorelle se in questa quaresima potessimo essere come il figlio prodigo. Che bello sarebbe riuscire davvero a scoprire quanto volte siamo morti per seguire la fragilità delle emozioni. Che bello sarebbe riuscire a risorgere da queste morti e poter dire: eccomi, ora sono risorto, tornerò da mio Padre e gli dirò: Padre ho peccato, accoglimi tra le tue braccia. Non chiamarmi più figlio, non trattarmi più come figlio, ma almeno permettimi di chiamarti ancora padre! Il resto della storia lo conosciamo. Il giovane figlio torna a casa. Il Padre che mai ha smesso di guardare oltre l’orizzonte nella speranza di vederlo tornare, gli corre incontro e ne ebbe compassione. Nel gergo ebraico diremmo che le sue viscere di padre e di madre vengo scosse da una emozione profonda. E gli si gettò al collo, e lo baciò e lo ribaciò. Che bello, che gioia, che amore, quanta dolcezza in questo padre che sente che questo suo figlio è tornato in vita. Quel Padre ha perdonato il figlio fin dal primo momento, lo ha atteso, lo ha amato, ha suscitato in lui nostalgia del ritorno con quell’amore che supera ogni bene. Questa è l’immagine della GRAZIA di Dio che gratuitamente ci perdona, ci accoglie, ci fa uomini nuovi! Fratelli e sorelle, non gioite ora per questo giovane che era morto e che ora è risorto? O provate la stessa insana invidia del fratello maggiore? “Padre, io sono sempre stato con te, ti ho servito e tu non mi hai mai dato nulla in più del necessario. E ora che questo tuo figlio, che ha sperperato i tuoi beni, torna a casa, tu lo accogli a braccia aperte, uccidi per lui il vitello grasso, lo vesti come un re!” Quale amarezza! Tanto è accecato dalla rabbia e dall’invidia che non riesce a chiamare il fratello con il nome di fratello e dice, “questo tuo figlio”, come se parlasse di uno sconosciuto. Il fratello maggiore uccide il minore ancora una volta, perché non riesce a comprendere nella sua povera umanità la bontà del padre. Lo uccide ancora, come Caino uccise Abele, inconsapevole di cosa sia l’amore di un Padre per le sue creature. Quante volte, fratelli e sorelle, siamo anche noi accecati dall’invidia, quante volte pensiamo che Dio non è poi così giusto se a noi che lo invochiamo rende meno che a tanti peccatori. Quanta ostilità nei confronti di coloro che si pentono prima di morire dopo una vita dissennata e lontana da Dio mentre noi abbiamo sempre creduto di essere i figli perfetti. Ascoltiamo l’insegnamento di quel Padre che è l’insegnamento stesso di Dio: “Figliolo tu sei sempre con me e ogni cosa mia è tua. Ma bisognava far festa perché questo tuo fratello (e non dice questo mio figlio!) questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita; era perduto ed è stato ritrovato.” Signore nostro Dio, fonte di ogni bene, guida i nostri passi verso di te. Fa’ che giorno dopo giorno possiamo sentire sempre più la nostalgia del tuo amore, di quel tuo abbraccio che ci fa sentire tuoi figli e fratelli del nostro prossimo. Così sia. Amen! Nicola Tedoldi