pagina 1 - Fausto Biloslavo

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pagina 1 - Fausto Biloslavo
ANNO XII NUMERO 34 - PAG 2
Dopo le lettere
D’Alema incontra Spogli e
resta “civile” sull’Afghanistan
A Herat si rischia che la cooperazione
non decolli. Parisi: pronti tre mezzi
Un incontro “di ricognizione”. Di concerto con la Farnesina, nelle ultime 48 ore l’entourage di Massimo D’Alema ha cercato di
ammorbidire l’approccio dei cronisti all’inFARNESINA
contro di ieri che ha “definitavente chiuso”
il caso diplomatico creatosi tra Italia e Stati Uniti: la visita a Palazzo Chigi dell’ambasciatore americano, Ronald Spogli, che di
fronte al ministro degli Esteri italiano e al
premier, Romano Prodi, è stato molto chiaro. Non è serio tergiversare troppo su questioni di interesse bilaterale, perché gli Stati Uniti hanno bisogno di programmare una
politica estera, un’agenda e non pochi investimenti, alcuni dei quali in Europa (non necessariamente in Italia). L’Amministrazione
Bush esige maggiore chiarezza non solo sul
fronte pratico – come l’Afghanistan sul quale D’Alema e Prodi hanno assicurato lealtà,
“con meno militari e più civili” – ma anche
sul piano politico.
Cooperazione in attesa di villino. Sull’Afghanistan, Rifondazione comunista esige a
ogni costo la separazione fra civili e militari nel Prt di Herat, creando problemi finanziari, logistici e di sicurezza. Dei dodici funzionari della Cooperazione che avrebbero
dovuto potenziare la missione civile nel capoluogo dell’Afghanistan occidentale, soltanto tre sono sul terreno. Il piccolo nucleo
era ospite del Prt italiano a Herat, dove i
soldati garantivano scorte e sicurezza che
permettevano di lavorare e sopravvivere.
Ora il viceministro degli Esteri, Patrizia
Sentinelli, vorrebbe separarli dai militari.
Il risultato è che la minuta pattuglia della
Cooperazione è stata trasferita a Kabul in
attesa di una sede a Herat. Alla Farnesina
s’avanzano i dubbi: dalla capitale come dovrebbero seguire i progetti di sviluppo nell’altra parte del paese, a due passi dall’Iran? Alcuni funzionari sibilano che a Herat
è stato individuato un villino “per soddisfare i rossi”. La “base civile”, però, ha bisogno di essere attrezzata per garantirne la sicurezza e i lavori inizieranno entro pochi
mesi. Il distacco dal contingente comporterà una spesa per guardie private locali, la
cui affidabilità è relativa. Il rischio, fanno
sapere dal ministero, “è che la missione civile a Herat non riparta mai”. Così il peso
dell’intervento umanitario rimarrà sulle
spalle del reparto “Cimic” di cooperazione
civile e militare – un’unità della Nato di civili arruolati temporaneamente – che opera fin dall’arrivo del contingente italiano.
Avvicendamenti afghani. Sarà Massimiliano D’Antuono, giovane primo segretario
dell’ambasciata di Riad, in Arabia Saudita,
a sostituire il pensionando Carlo Ungaro a
Herat, in Afghanistan. A fine gennaio Ungaro ha concluso con serietà il mandato.
A Siviglia le mezze verità di Roma. Al vertice della Nato che si è aperto ieri a Siviglia
l’Italia non è stata accolta troppo bene. In
settimana la sinistra radicale ha smorzato
l’impegno in Afghanistan quasi fino a negare che il contingente italiano sia tenuto a
imbracciare le armi, tanto che il ministro
Arturo Parisi ha accelerato i tempi dell’annuncio: pronti per l’Afghanistan un C-130
da trasporto e due aerei da ricognizione
senza pilota, ha detto ieri a Siviglia. Il segretario generale della Nato ha chiarito
che i nostri soldati sono autorizzati ad attaccare preventivamente le forze talebane
a Kabul e a Herat, e che per le emergenze
il comando dell’Alleanza può impiegare
nel sud la forza italiana. Non è necessaria
un’autorizzazione, gli accordi sono chiari
da aprile. Agli alleati è stata chiesta maggiore correttezza, anche nei toni, altrimenti i paesi esposti alle minacce talebane in
futuro saranno costretti a guardare a Roma
con una certa perplessità.
Ambasciatori “special” al Quirinale. Ieri
il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha ricevuto nella Sala degli Specchi alcuni ambasciatori dell’Unicef: “Tra i
miei compiti ho quello di firmare credenziali. Fate conto che firmi anche per voi
perché siete ciò che di meglio è in grado di
esprimere il popolo italiano”. A far sorridere i presenti – “per quanto possibile” – uno
scambio di battute con Lino Banfi. L’unica
onorificenza che non ha ancora ricevuto è
quella dei capi di stato, ha detto Napolitano: “Chissà se un giorno Banfi non possa
aspirarvi”.
PICCOLA POSTA
di Adriano Sofri
Caro Piero Fassino, non
avrei speso una sola parola
attorno alla controversia
sulla mia partecipazione a
un dibattito. Ma non posso rinunciare a dirti che non ho mai preso le
distanze dal terrorismo. Infatti non mi è
mai capitato di andargli vicino. Tanti sentiti auguri di buon lavoro.
Tornando d’attualità clericalismo e anticlericalismo, ho riletto quel terribile
“Inno a Satana” di Carducci – “Salute, o
Satana/ O ribellione,/ O forza vindice/ De
la ragione!” – che contiene però una strofetta cantabile e suggestiva – “Ma d’altre
imagini/ D’età più bella/ Talor si popola/
L’insonne cella” – e una che anticipa la
Locomotiva di Guccini – “Un bello e orribile/ Mostro si sferra,/ Corre gli oceani,/
Corre la terra”. Vittorio Gorresio ricordava che l’Unità cattolica aveva rinfacciato
a Carducci d’esser stato clericale da giovane, quando aveva scritto un’ode alla
Beata Diana Giustizi. E Carducci spiegò
che l’aveva scritta solo per dimostrare
che “pur senza fede si potevano rifare le
forme della fede del beato Trecento: era
come una scommessa”.
IL FOGLIO QUOTIDIANO
VENERDÌ 9 FEBBRAIO 2007
L’ A P E R T U R A D E L F E S T I V A L D E L C I N E M A
C’è fisco e fisco
Parigi invade Berlino e scompagina i drammi della Piaf
Esultano i
francesi, titolari dell’apertura
e della chiusura. Un altro paio
di pellicole made
in France sono in
concorso, altre cinque compaiono
nella sezione Panorama. Variety – dopo aver contato 34 titoli in un modo o nell’altro imputabili alla
grandeur, coproduzioni incluse – chiede cosa abbia versato l’Unifrance nel bicchiere
del direttore della Berlinale Dieter Kosslick, l’ultima volta che lo hanno invitato a
Parigi. L’agenzia gemella che promuove all’estero il cinema italiano dovrebbe farsi
dare la ricetta del drink. Sarebbe sicuramente più utile che organizzare a Berlino
manifestazioni intitolate “Filming in Lazio
Makes Sense”, con discorso d’apertura di
Piero Marrazzo.
Poiché di Francia dobbiamo morire, arriva subito il film più temuto, che in originale si chiama “La môme” (uscita il giorno di
San Valentino) e nel resto del mondo si concederà sotto forma di “La vie en rose”. Mette paura perché Edith Piaf è un mito, perché i francesi i biopic non li sanno fare (e
per giunta si rifiutano di imparare dagli
americani, che magari li fanno banali ma
vedibili), perché la quantità di disgrazie
concentrate in 47 anni di vita indurrebbe
qualsiasi serio sceneggiatore a glissare su
qualcuna, se vuole essere creduto. Nascita
e infanzia per strada, rischio cecità, padre
acrobata da circo che affida la piccola Edith
alla proprietaria di un bordello: e ancora
non abbiamo visto un palcoscenico neppure da lontano. Dirige Olivier Dahan, ultimo
film pervenuto “I fiumi di porpora 2”, non
propriamente una garanzia.
La prima scena – collasso sul palco, con
l’ambulanza che arriva prima che la cantante sia crollata a terra – fa capire che la tro-
vata sta nello spariglio del copione. Niente
rimane al suo posto. La donna innamorata
del pugile Cerdan si alterna alla bambina
che per strada canta La Marsigliese. Poi arriva la Piaf amica di Cocteau (che aveva
scritto l’orazione funebre e morì poche ore
dopo di lei), poi le lezioni di canto e di portamento. Come punteggiatura, la donnina
curva con i capelli color carota, sulla sdraio
con una coperta di lana, che sta per morire.
Scenografo, costumista e direttore della fotografia complottano per urtare il nostro
senso estetico: la miseria è pittoresca, lo
sfarzo tende al pacchiano, quando arriva
Marlene Dietrich a complimentarsi le hanno sbagliato anche la tinta e la pettinatura.
Marion Cotillard, troppo bella per il ruolo,
si fa seppellire sotto il trucco e lavora di
imitazione (le registrazioni sono originali,
pagate a peso d’oro). Speriamo nella chiusura, con “Angel” di François Ozon, dal romanzo di Elizabeth Taylor (nessuna parentela con l’attrice, esce da Giano Editore).
Sarà invece un americano – Steve Buscemi – a certificare per la prima volta durante un festival cinematografico (dopo l’omicidio rituale di 2 anni fa) l’esistenza di un cineasta che si chiamava Theo van Gogh. Nella sezione Panorama sarà proiettato “Interview”, remake statunitense del film che il
regista olandese girò nel 2003 con lo stesso
titolo: la storia di un giornalista politico che
con molta puzza sotto il naso andava a intervistare una popstar. Steve Buscemi, oltre a
dirigere, fa la parte del giornalista. Sienna
Miller è una diva delle soap americane. Variety applaude entrambi e loda il film. Il
primo piccolo scandalo riguarda il mercato.
Dovrebbe essere aperto a tutti. Pare invece
che sia stato rifiutato – anzi, dirottato sull’American Film Market – un film spagnolo. Titolo: “Missione impensabile: hanno rubato
il pisello di Hitler”. Grato di tanta pubblicità, il regista Pedro Temboury sta organizzando proiezioni clandestine.
Mariarosa Mancuso
L’ I S L A M I N T R A N S I G E N T E E L A “ M E D I A Z I O N E ” D I D A N I E L A S A N T A N C H E ’
La guerra dei mondi al funerale di Hina, sgozzata dal padre sei mesi fa
Brescia. Chissà qual è stato il vero film del
funerale di Hina Saleem, la ragazza sgozzata
sei mesi fa da suo padre perché aveva disonorato la famiglia e le sue tradizioni, e seppellita ieri al cimitero Vantiniano di Brescia
in una bara rivolta verso la Mecca. Arrivato
il nullaosta dalla magistratura, ognuno ha inscenato il proprio rito di commiato da un cadavere “conteso fra due mondi”, come ha
ammesso ieri il responsabile della comunità
pachistana di Brescia, Sajid Hossein. Prima
delle invocazioni dell’imam che al cimitero
ripeteva “Allah la aiuti, Allah la perdoni”, i
due universi che ruotavano intorno alla vita
di Hina, e al suo netto rifiuto delle ferree leggi pachistane e musulmane, si sono scontrati all’obitorio. Da una parte il suo fidanzato,
Giuseppe Tempini, che lei probabilmente
amava, e con il quale ha sperimentato tutti
gli eccessi della libertà occidentale, che imprecava in dialetto bresciano perché gli era
stato vietato l’accesso. “Qui non puoi entrare
perché hai bevuto”, gli ha intimato il fratello
di Hina, Suleman, “la nostra religione non lo
permette”. E dall’altra gli uomini della famiglia, i parenti maschi arrivati dalla Spagna e
dalla Francia, che fuori dalla stanza angusta
in cui era stata messa la bara, difendevano
l’intimità delle donne, alle quali spetta solo
il compito di lavare il corpo senza poterlo seguire al cimitero. Da una parte il fidanzato
che chiedeva invano di poter entrare per stare accanto alla bara, e dall’altra la madre di
Hina, coperta da un velo integrale di color
rosa, che si abbandonava a un urlo straziante, che “dura da sei mesi”, diceva un parente che vive a Barcellona. E in mezzo la parlamentare di An, Daniela Santanchè, vestita di
nero, che cercava di calmarlo, obbligata suo
malgrado a fare da “assistente sociale”, e a
dirgli “Beppe stai tranquillo, che alla sepoltura potrai assistere anche tu”. Arrivata a
Brescia per rammentare a tutti la sua battaglia contro il fondamentalismo, la parlamentare ha avviato una trattativa con gli uomini
della famiglia per far accettare l’indesiderato fidanzato – visto che anche lui esigeva il
suo rito, il suo commiato, da Hina.
Prima ancora del rito islamico al cimitero,
dove gli uomini hanno seguito la bara fino al
luogo della sepoltura – la sezione del cimitero destinata ai musulmani – e si sono tolti le
scarpe per pregare, erano tutti lì, in attesa di
celebrare un tardivo rito funebre, a inscenare la commedia, questa sì reale, di due mondi che fanno finta di dialogare. Da una parte
la madre di Hina, che non vuole parlare con
nessuno, che secondo l’onorevole Santanchè
dovrebbe costituirsi parte civile al processo
contro il marito, anche se tutti sanno che non
lo farà mai, e continuerà a vivere privatamente la violenza di cui è stata vittima sua figlia, e dall’altra gli amici italiani di Hina. Come Leo, che fa capire di avere cercato di aiutare Hina, e ha fatto da tramite fra lei e Beppe, prima che si mettessero insieme, e lei finisse a lavorare alla pizzeria Antica India,
dove si poteva trovarla fino alle cinque del
mattino, con quelle mise audaci, minigonna
e top, inaccettabili per chi vive su un solo binario: famiglia e religione.
Il funerale di Hina, che bisognerebbe de-
finire simbolico, se non fosse che questa parola suona un po’ banale, perché solleva molte questioni, tutte legate al multiculturalismo, si conclude così: con il gesto tenero di
una ragazza, pachistana ma “svelata” che
cerca di gettare una rosa nella fossa: un’amica di Hina, conosciuta ai tempi della sua prima ribellione quando ha cercato rifugio dalla famiglia in una comunità – e quello, ignorato da tutti, del fidanzato che, dopo aver
pianto sulla spalla della Santanchè, finalmente può avvicinarsi alla fossa, per buttare
la sua, di rosa. Certo, prima c’è tempo per registrare le dichiarazioni a favore del dialogo
pronunciate dal sindaco di Brescia, Paolo
Corsini, e quelle della parlamentare di An
che promette che si batterà perché il corpo
di Hina Saleem rimanga a Brescia “perché
questa era la patria che aveva scelto”, dice.
E anche per ascoltare Sajid Hossein, che invece dice: “Abbiamo pregato per chiedere la
misericordia di Allah”. Se per l’anima corrotta di Hina o per il gesto inconsulto di suo
padre, nessuno di noi lo sa. (cg)
LA VIA SPAGNOLA ALLE GENERALI
Una Capitalia molto ospitale per Botín fa arrabbiare gli olandesi di Abn
Roma. Ieri Rijkman Groenink, capo di
AbnAmro, svolte alcune rituali e amichevoli considerazioni sulla situazione, ha detto
che gli sviluppi della governance dell’istituto capitolino sono sotto osservazione per
quella che è emersa – ha spiegato – come
una chiara differenza di posizioni tra Matteo Arpe e il presidente di Capitalia Cesare Geronzi. Il Banco Santander, prima banca spagnola, ha l’1,89 per cento di Capitalia.
L’ingresso degli spagnoli non è piaciuto all’amministratore delegato della banca romana Arpe, considerato vicino al principale azionista individuale di Capitalia, la banca olandese AbnAmro.
Per Geronzi, invece, l’ingresso nel capitale della banca degli spagnoli è vantaggioso.
Serve a tenere a bada gli olandesi, per negoziare con Unicredit, e per tenere le posizioni nella guerra che lo contrappone a Giovanni Bazoli, presidente di Banca IntesaSanPaolo. Ecco un breve riepilogo delle posizioni in campo: Capitalia detiene quasi il
nove per cento di Mediobanca e poco meno
del tre per cento di Generali. Anche Unicredit ha il nove per cento di Mediobanca e poco meno del quattro di Generali. Siccome
Mediobanca è azionista di riferimento (14,1
per cento) di Generali, Capitalia è una pedina chiave nel risiko finanziario italiano. Generali, preda tra le prede del sistema finanziario italiano, in ragione delle sue riserve
tecniche (denaro liquido a volontà), è sostanzialmente governata sulla base di una
lista di consiglieri espressa da Mediobanca
e sostenuta dai suoi alleati – in tutto circa il
30 per cento del capitale, compresa una
simbolica partecipazione di Santander. Negli ultimi mesi, però, è cresciuto l’interesse
per Generali da parte di Giovanni Bazoli,
che può contare insieme ai suoi alleati circa il dieci per cento del capitale.
Per dissuadere Bazoli dal suo pressing a
tutto campo – dalla grande fusione IntesaSanPaolo alla piccola fusione Bpu-Lombarda, dal fondo infrastrutturale F2I alle mire
espansionistiche su Rcs – Geronzi parte dal
suo sistema di alleanze in Mediobanca, a
partire dai soci francesi che fanno capo a
Vincent Bolloré, a loro volta legati, per il
tramite del finanziere franco-tunisino Tarak Ben Ammar, al mondo Fininvest. Bolloré ha dichiarato di essere stato lui a chiedere a Emilo Botín di entrare in Capitalia.
Ma quale potrebbe essere, invece, l’obiettivo degli spagnoli? Le banche spagnole per
il momento hanno chiuso male le loro campagne italiane. Bbva ha perduto la partita
per Bnl, una sconfitta determinata da alcune ingenuità tattiche. Santander, per il momento, ha dovuto rinunciare alle mire su
SanPaolo-Imi di cui era il principale azionista a causa dell’intervento di Intesa, che poteva contare su un gioco di sponda con le
istituzioni di governo del paese (e Botín non
ha voluto rischiare lo scontro frontale con il
sistema Italia). Oggi, però, gli si presenta
un’occasione molto interessante. Fare da
cavaliere bianco in soccorso di una banca
appetibile, Capitalia, con partecipazioni
strategiche, ben gestita sul mercato da un
manager che ha fatto bene il suo lavoro (Ar-
pe), guidata da un leader strutturato com’è
Geronzi, con un azionista di riferimento che
ha le sue difficoltà. Abn, infatti, è una specie di holding che raggruppa unità separate
in Olanda, Brasile, Stati Uniti e Italia. Per
questo è sotto osservazione da parte di
Royal Bank of Scotland e di un grande gruppo americano, interessati a comprare e fare
un redditizio spezzatino. Se Santander decidesse di crescere in Capitalia porrebbe certe condizioni, la principale delle quali sarebbe: o noi o Abn. E poi, c’è un’altra suggestione nell’aria. Siccome al dossier Capitalia è da sempre interessato Alessandro Profumo, capo di Unicredit, alcuni osservatori
ipotizzano un fantascenario di questo tipo:
due anni fa c’era un dossier elaborato dagli
spagnoli in cui si ragionava su una ipotesi
SanPaolo-Santander-Unicredit. Se al posto
di SanPaolo ci fosse Capitalia? Il risultato
sarebbe la nascita del primo gruppo bancario europeo con circa 190 miliardi di euro di
capitalizzazione. Capitalia sarebbe il laboratorio di questa partita.
ECONOMIA E POLITICA A BASSA VELOCIT A’
Infrastrutture, l’Italia presto pagherà il conto del suo immobilismo
MEGLIO DI NOI ORMAI LE AUTOSTRADE SPAGNOLE, LE FERROVIE CINESI, I CENTRI CONGRESSI VIETNAMITI, I GRATTACIELI RUMENI
a Spagna, in quest’ultimo ventennio, ha
realizzato uno straordinario miracolo
L
economico. Il premier Zapatero, esagerando nell’entusiasmo ma venendo subito preso sul serio da alcuni ambienti catastrofistici italiani, ha detto, di recente, che la Spagna mira a superare economicamente l’Italia. L’obiettivo però è tutt’altro che a portata di mano perché il ritmo di crescita della
Spagna si è andato affievolendo in questi ultimi anni. Resta il fatto che, in un paio di decenni, la Spagna è uscita dal suo sottosviluppo. Partendo da un’economia prevalentemente agricola, è riuscita a costruirsi una
ragguardevole dimensione industriale e
una struttura di servizi non meno importante (basti pensare alle sue grandi banche che
oggi sono presenti in modo economicamente aggressivo in molti paesi stranieri compresa l’Italia).
Alla base del boom economico spagnolo,
lo dicono gli studi più accreditati, ci stanno
le opere pubbliche e l’edilizia privata. In
Spagna infatti le grandi opere infrastrutturali sono state realizzate in tempi brevi, utilizzando ampiamente i fondi europei e mobilitando su di esse tutte le risorse private
disponibili, ottenendo così dei risultati economici sorprendenti.
Per misurare questo boom, in confronto
all’Italia, bastano pochi dati. Quando il nostro paese aveva già realizzato l’intera Autostrada del Sole, la Spagna non disponeva
di un chilometro di autostrada. Adesso invece la Spagna può fare affidamento su 237
chilometri di autostrada per milione di abitanti contro i nostri 111, meno della metà. In
Italia si paga ancora il conto salato dello
slogan pauperistico, vetero-rurale e sostanzialmente demente di “piccolo è bello” in
omaggio al quale, durante questi ultimi 25
anni, sono state boicottate tutte le grandi
opere. Il raddoppio dell’autostrada Bologna-Firenze (opera necessaria agli occhi di
tutti), pur prevista da oltre un ventennio,
non è mai stata mai realizzata. E’ passato,
ma dopo un lunghissimo braccio di ferro
con le forze politiche contrarie alle grandi
opere, solo uno scampolo come quello della cosiddetta “Variante di valico” che, per
di più, un quarto di secolo dopo, non è ancora entrata completamente in funzione.
Fu un buon interprete di questa assurda
posizione il relatore del Pci che, nei primi
anni Sessanta, spiegò alla Camera che le autostrade non erano “assolutamente necessarie” ed era “meglio che lo stato devolvesse
quei denari al miglioramento della rete
stradale già esistente”. L’avversione alle
grandi infrastrutture era da noi così acuta
che l’Italia, unico paese al mondo, approvò
addirittura per legge il divieto di costruzione di nuove autostrade. Con tale legge si riuscì a bloccare non solo le nuove autostrade
finanziate dallo stato, ma anche quelle che
eventualmente fossero state realizzate con
il solo capitale privato. Con quella legge infatti non si voleva ridurre la spesa pubblica
ma si voleva semplicemente strozzare, per
via legislativa, la stessa idea che potessero
essere costruite nuove autostrade, considerate evidentemente, all’epoca, come strumenti del demonio, non come infrastrutture idonee a facilitare lo spostamento delle
persone e delle merci senza per questo gravare sulle casse dello stato, visto che sono
gli stessi utenti a pagare, con il pedaggio, la
costruzione e la manutenzione delle autostrade stesse.
Anche se la legge che blocca la costruzione di nuove autostrade è stata abolita, resta,
in molti, la mentalità anti-industrialista ed
anti-modernizzatrice che si propone di bloccare in Italia tutte le grandi infrastrutture:
dalle nuove autostrade, alla Tav in Val di
Susa, al Mose e così via.
E’, questa, la stessa mentalità che, ai tempi del primo centrosinistra, con la benedizione di Ugo la Malfa, finì per bloccare l’introduzione in Italia della tv a colori, nella
convinzione che essa avrebbe rammollito
gli italiani distogliendoli da compiti ben più
importanti. Tale motivazione, oggi, fa ridere
a crepapelle, tanto sembra inutilmente didattico-precettiva ma, allora, l’idea era considerata così seria da guadagnarsi agevol-
mente la maggioranza parlamentare . Il risultato di quella legge fu un doppio fallimento. Primo, perché non riuscì a bloccare
le trasmissioni tv a colori che finirono per
imporsi ugualmente, se non altro perché, al
nord, i più danarosi, comprando i nuovi apparecchi tv all’estero, potevano seguire le
trasmissioni a colori della Tv svizzera italiana. Il secondo fallimento consistette nel fatto che, quando, per forza di cose, anche in
Italia furono adottate le trasmissioni tv a colori, l’industria italiana dei televisori (dalla
Geloso alla Brionvega) che prima di questa
trovata legislativa era in ottima forma, fu
letteralmente travolta dalla concorrenza
straniera che possedeva linee di prodotti
consolidate nella ricezione dei programmi
tv a colori.
E cosi, mentre i cinesi hanno realizzato,
in soli cinque anni e due giorni, i 1.142 chilometri della Pechino-Lasha, in Tibet, una
ferrovia che si inerpica quindi fino al tetto
del mondo, le rotaie per l’alta velocità fra
Milano e Roma, la cui posa in opera era iniziata trent’anni fa, deve essere, da noi, ancora conclusa.
Anche il progetto dell’alta velocità in Val
di Susa, a sentire il ministro Alessandro
Bianchi, va tenuto ancora a bagnomaria per
poterlo discutere adeguatamente con tutti
gli aventi diritto (e anche quelli che il diritto non ce l’hanno) nonostante la realizzazione dell’opera sia stata annunciata diciotto
anni fa dal Consiglio dei ministri della Cee,
diciassette anni fa ci sia stata presentazione
ufficiale del tunnel della Val di Susa, tredici fa venne apposta la firma dell’accordo fra
Francia ed Italia, dodici fa venne formulata la promessa che la nuova tratta sarebbe
stata ultimata “entro il duemila”, dieci fa
venne assunta la decisione di convincere
anche i più renitenti con ulteriori approfondimenti. Intanto nella Corea del Sud stanno
realizzando, a tempo di record e in un colpo
solo, una linea ferroviaria ad alta velocità di
410 chilometri dei quali 120 saranno su ponti e 190 in galleria.
Mentre in Italia si discute senza limiti di
tempo, negli altri paesi, anche i più arretrati (ma per quanto?) si sta andando a rotta di
collo. La sede per l’ultima riunione dei paesi asiatici, ad esempio, è stata decisa a favore di Hanoi (Vietnam) a gennaio del 2006.
Non disponendo di una struttura idonea ad
ospitarla, il governo vietnamita ha deciso di
costruirne una che il 18 dicembre 2006 (otto
mesi dopo) ha accolto l’Apec Summit. Il palazzo non è una catapecchia ma dispone di
un sala conferenze in grado di ospitare 3.800
persone (pur avendone bisogno, non abbiamo, in Italia, una sala congressi così capiente) e di altre 30 sale riunioni. La sala ristorante può mettere a tavola 1.500 persone. Il
palazzo ospita anche una banca, l’ufficio postale, bar, ristoranti, negozi.
Da noi invece il Centro Congressi Italia di
Roma, progettato da Massimiliano Fuksas e
selezionato nel febbraio del 2000, a sei anni
di distanza non è stato ancora nemmeno iniziato. Persino in Romania ci battono: il grattacielo che è in corso di realizzazione a Bucarest vicino alla chiesa di San Giuseppe (e
che per questo ha provocato le proteste del
Vaticano) pur essendo stato iniziato solo
nell’ottobre scorso, quattro mesi dopo è già
arrivato al decimo piano.
Pierluigi Magnaschi
Chi più tassa meno incassa
Il bilancio di Bush e la sobria
considerazione di Draghi
una recente intervista al Journal of EcoPerspectives (Fall 2006), Bob MunIdell,nnomic
Nobel per l’economia nel 1999, osservava che “la supply-side economics ha sollevaDIARIO DI DUE ECONOMISTI
to la questione che esistono normalmente
due aliquote fiscali che forniscono lo stesso
gettito. Ad esempio, sia un’aliquota nulla sia
una proibitiva generano zero entrate fiscali.
Un’aliquota bassa e una al di sotto del livello proibitivo possono produrre lo stesso gettito. Solo nel punto in cui il gettito viene massimizzato esiste un’unica aliquota”. Si tratta
della relazione tra entrate fiscali e aliquote a
forma di U-rovesciata, divenuta famosa col
nome di “Curva di Laffer”. La forma della
curva e l’esistenza della connessa relazione
non sono in discussione, e perciò, anche se
nella realtà nessun paese si trova alla destra
del punto in cui il gettito viene massimizzato
e oltre il quale un aumento ulteriore delle
tasse implica una riduzione delle entrate fiscali, esiste sempre la possibilità di ottenere
lo stesso gettito con un’aliquota bassa anziché con una alta. L’idea dell’economia dell’offerta consiste, come si sa, nello stimolare
quest’ultima anziché la domanda attraverso
la riduzione dell’imposte: la produzione, l’occupazione e gli investimenti aumentano e
con essi le entrate fiscali perché viene rimossa una parte delle distorsioni associate alla
tassazione che provocano inefficienza. Dietro
questa visione c’è la convinzione che l’economia privata sia più efficiente di quella pubblica e che prima di preoccuparsi di come distribuire il reddito si dovrebbe puntare a farlo crescere. Però, tagliare le tasse e insieme
aumentare la spesa provoca un deficit, in
presenza del quale occorre tagliare le spese
se si vogliono ridurre le tasse.
Il bilancio per il 2008 che George W. Bush
ha presentato al Congresso raggiunge il pareggio nel 2012. “La mia formula per un bilancio in pareggio riflette le priorità del nostro paese in questo momento della sua storia: proteggere il territorio nazionale e combattere il terrorismo, mantenere l’economia
forte attraverso tasse basse, e mettere sotto
controllo la spesa rendendo i programmi federali più efficaci”. In pratica il piano di Bush consiste nel rendere permanenti gli sgravi fiscali attuati nel 2001 e 2003 (ma che scadranno nel 2010), nell’aumentare del 30 per
cento le entrate tributarie nei prossimi 5 anni grazie alla forte crescita economica provocata dai tagli delle tasse, nel mantenere la dinamica delle spese discrezionali, escluse
quelle per la sicurezza, al di sotto dell’inflazione (e comunque non al di sopra dell’1 per
cento l’anno), di aumentare le spese per la difesa di un altro 10,5 per cento (dopo l’incremento del 41 nel periodo 2002-2006). A dispetto dei grossi guai che l’America ha dovuto
fronteggiare in questi anni (dalle guerre ai disastri naturali, dalla recessione all’instabilità
del mercato mondiale dell’energia), sinora la
politica di Bush ha funzionato: come conseguenza del forte aumento delle entrate e delle limitazioni della spesa, il deficit nel 2006
non è stato il previsto 3,2 per cento del pil ma
il ben più modesto 1,9 (248 miliardi di dollari). Su queste basi, l’obiettivo del pareggio del
bilancio nel 2012 non appare così irrealistico
come vorrebbero i critici, democratici in testa ovviamente, che giudicano ottimistiche le
previsioni dell’Amministrazione sulle entrate fiscali. Al contrario, la politica economica
di Bush sta dimostrando possibile una nozione di disciplina fiscale del tutto diversa da
quella praticata in Europa e soprattutto da
noi: ridurre il deficit attraverso la limitazione delle spese e l’aumento delle entrate generato dalle politiche pro crescita, in primo
luogo il taglio delle tasse.
E’ necessario ripetere per l’ennesima volta che da noi la conclamata disciplina fiscale
viene perseguita con una politica esattamente opposta – aumentando sia le tasse che le
spese? Certo, si può fare l’elogio delle imposte quale mezzo indispensabile a finanziare
le spese pubbliche necessarie al “progresso,
alla coesione sociale e alla sicurezza della
nazione”, come fanno i sottoscrittori di un appello lanciato dal mensile Alternatives Economiques e sponsorizzato da Liberation, che
chiamano la sinistra francese all’attacco della “demagogia fiscale” di Sarkozy, il quale viceversa il fisco vorrebbe alleggerirlo. Più sobriamente Mario Draghi, governatore della
Banca d’Italia, ha rilevato che il livello dell’imposizione tributaria in Italia è elevato,
che penalizza le imprese e le famiglie che
compiono il loro dovere fiscale, che perciò
occorre una riduzione delle tasse e, per stabilizzare le finanze pubbliche, anche della
spesa. Voilà.
Ernesto Felli e Giovanni Tria
PREGHIERA
di Camillo Langone
Lo so, ho sbagliato, ho comprato Repubblica, e ho letto di cattoabortisti alla riscossa, di pippibaudi ingrati. Per
sapere quanto manca alla fine del mondo
ho cominciato a leggere perfino Stefano Rodotà ma non tutto il male viene per nuocere perché alla terza riga mi è crollata la palpebra e, al posto di istituzioni e costituzioni, nell’occhio sono comparsi i bustini che
la mia amica Ketty produce nel suo laboratorio sul porto di Trani. Bustini settecenteschi su misura, naturaliter monarchici,
steccati ma non rigidi, in taffettà di seta. Potesse vederli Francesco Merlo, compagno
di pagina di Rodotà e confezionatore di pozioni appena meno soporifere. I bustini di
Ketty sono meglio di un trattato teologico.
Se Merlo potesse vederli capirebbe finalmente qualcosa del cattolicesimo, religione
sommamente inclusiva: verificato che l’anima e la zinna non sono in contraddizione,
ma anzi si valorizzano a vicenda, capirebbe
che nemmeno Cristo e sant’Agata sono in
contraddizione, come invece sostiene. Ma
Francesco Merlo sta a Parigi e non a Trani
e quindi non può accorgersi di niente.