pagina 1 - Fausto Biloslavo
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ANNO XII NUMERO 34 - PAG 2 Dopo le lettere D’Alema incontra Spogli e resta “civile” sull’Afghanistan A Herat si rischia che la cooperazione non decolli. Parisi: pronti tre mezzi Un incontro “di ricognizione”. Di concerto con la Farnesina, nelle ultime 48 ore l’entourage di Massimo D’Alema ha cercato di ammorbidire l’approccio dei cronisti all’inFARNESINA contro di ieri che ha “definitavente chiuso” il caso diplomatico creatosi tra Italia e Stati Uniti: la visita a Palazzo Chigi dell’ambasciatore americano, Ronald Spogli, che di fronte al ministro degli Esteri italiano e al premier, Romano Prodi, è stato molto chiaro. Non è serio tergiversare troppo su questioni di interesse bilaterale, perché gli Stati Uniti hanno bisogno di programmare una politica estera, un’agenda e non pochi investimenti, alcuni dei quali in Europa (non necessariamente in Italia). L’Amministrazione Bush esige maggiore chiarezza non solo sul fronte pratico – come l’Afghanistan sul quale D’Alema e Prodi hanno assicurato lealtà, “con meno militari e più civili” – ma anche sul piano politico. Cooperazione in attesa di villino. Sull’Afghanistan, Rifondazione comunista esige a ogni costo la separazione fra civili e militari nel Prt di Herat, creando problemi finanziari, logistici e di sicurezza. Dei dodici funzionari della Cooperazione che avrebbero dovuto potenziare la missione civile nel capoluogo dell’Afghanistan occidentale, soltanto tre sono sul terreno. Il piccolo nucleo era ospite del Prt italiano a Herat, dove i soldati garantivano scorte e sicurezza che permettevano di lavorare e sopravvivere. Ora il viceministro degli Esteri, Patrizia Sentinelli, vorrebbe separarli dai militari. Il risultato è che la minuta pattuglia della Cooperazione è stata trasferita a Kabul in attesa di una sede a Herat. Alla Farnesina s’avanzano i dubbi: dalla capitale come dovrebbero seguire i progetti di sviluppo nell’altra parte del paese, a due passi dall’Iran? Alcuni funzionari sibilano che a Herat è stato individuato un villino “per soddisfare i rossi”. La “base civile”, però, ha bisogno di essere attrezzata per garantirne la sicurezza e i lavori inizieranno entro pochi mesi. Il distacco dal contingente comporterà una spesa per guardie private locali, la cui affidabilità è relativa. Il rischio, fanno sapere dal ministero, “è che la missione civile a Herat non riparta mai”. Così il peso dell’intervento umanitario rimarrà sulle spalle del reparto “Cimic” di cooperazione civile e militare – un’unità della Nato di civili arruolati temporaneamente – che opera fin dall’arrivo del contingente italiano. Avvicendamenti afghani. Sarà Massimiliano D’Antuono, giovane primo segretario dell’ambasciata di Riad, in Arabia Saudita, a sostituire il pensionando Carlo Ungaro a Herat, in Afghanistan. A fine gennaio Ungaro ha concluso con serietà il mandato. A Siviglia le mezze verità di Roma. Al vertice della Nato che si è aperto ieri a Siviglia l’Italia non è stata accolta troppo bene. In settimana la sinistra radicale ha smorzato l’impegno in Afghanistan quasi fino a negare che il contingente italiano sia tenuto a imbracciare le armi, tanto che il ministro Arturo Parisi ha accelerato i tempi dell’annuncio: pronti per l’Afghanistan un C-130 da trasporto e due aerei da ricognizione senza pilota, ha detto ieri a Siviglia. Il segretario generale della Nato ha chiarito che i nostri soldati sono autorizzati ad attaccare preventivamente le forze talebane a Kabul e a Herat, e che per le emergenze il comando dell’Alleanza può impiegare nel sud la forza italiana. Non è necessaria un’autorizzazione, gli accordi sono chiari da aprile. Agli alleati è stata chiesta maggiore correttezza, anche nei toni, altrimenti i paesi esposti alle minacce talebane in futuro saranno costretti a guardare a Roma con una certa perplessità. Ambasciatori “special” al Quirinale. Ieri il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha ricevuto nella Sala degli Specchi alcuni ambasciatori dell’Unicef: “Tra i miei compiti ho quello di firmare credenziali. Fate conto che firmi anche per voi perché siete ciò che di meglio è in grado di esprimere il popolo italiano”. A far sorridere i presenti – “per quanto possibile” – uno scambio di battute con Lino Banfi. L’unica onorificenza che non ha ancora ricevuto è quella dei capi di stato, ha detto Napolitano: “Chissà se un giorno Banfi non possa aspirarvi”. PICCOLA POSTA di Adriano Sofri Caro Piero Fassino, non avrei speso una sola parola attorno alla controversia sulla mia partecipazione a un dibattito. Ma non posso rinunciare a dirti che non ho mai preso le distanze dal terrorismo. Infatti non mi è mai capitato di andargli vicino. Tanti sentiti auguri di buon lavoro. Tornando d’attualità clericalismo e anticlericalismo, ho riletto quel terribile “Inno a Satana” di Carducci – “Salute, o Satana/ O ribellione,/ O forza vindice/ De la ragione!” – che contiene però una strofetta cantabile e suggestiva – “Ma d’altre imagini/ D’età più bella/ Talor si popola/ L’insonne cella” – e una che anticipa la Locomotiva di Guccini – “Un bello e orribile/ Mostro si sferra,/ Corre gli oceani,/ Corre la terra”. Vittorio Gorresio ricordava che l’Unità cattolica aveva rinfacciato a Carducci d’esser stato clericale da giovane, quando aveva scritto un’ode alla Beata Diana Giustizi. E Carducci spiegò che l’aveva scritta solo per dimostrare che “pur senza fede si potevano rifare le forme della fede del beato Trecento: era come una scommessa”. IL FOGLIO QUOTIDIANO VENERDÌ 9 FEBBRAIO 2007 L’ A P E R T U R A D E L F E S T I V A L D E L C I N E M A C’è fisco e fisco Parigi invade Berlino e scompagina i drammi della Piaf Esultano i francesi, titolari dell’apertura e della chiusura. Un altro paio di pellicole made in France sono in concorso, altre cinque compaiono nella sezione Panorama. Variety – dopo aver contato 34 titoli in un modo o nell’altro imputabili alla grandeur, coproduzioni incluse – chiede cosa abbia versato l’Unifrance nel bicchiere del direttore della Berlinale Dieter Kosslick, l’ultima volta che lo hanno invitato a Parigi. L’agenzia gemella che promuove all’estero il cinema italiano dovrebbe farsi dare la ricetta del drink. Sarebbe sicuramente più utile che organizzare a Berlino manifestazioni intitolate “Filming in Lazio Makes Sense”, con discorso d’apertura di Piero Marrazzo. Poiché di Francia dobbiamo morire, arriva subito il film più temuto, che in originale si chiama “La môme” (uscita il giorno di San Valentino) e nel resto del mondo si concederà sotto forma di “La vie en rose”. Mette paura perché Edith Piaf è un mito, perché i francesi i biopic non li sanno fare (e per giunta si rifiutano di imparare dagli americani, che magari li fanno banali ma vedibili), perché la quantità di disgrazie concentrate in 47 anni di vita indurrebbe qualsiasi serio sceneggiatore a glissare su qualcuna, se vuole essere creduto. Nascita e infanzia per strada, rischio cecità, padre acrobata da circo che affida la piccola Edith alla proprietaria di un bordello: e ancora non abbiamo visto un palcoscenico neppure da lontano. Dirige Olivier Dahan, ultimo film pervenuto “I fiumi di porpora 2”, non propriamente una garanzia. La prima scena – collasso sul palco, con l’ambulanza che arriva prima che la cantante sia crollata a terra – fa capire che la tro- vata sta nello spariglio del copione. Niente rimane al suo posto. La donna innamorata del pugile Cerdan si alterna alla bambina che per strada canta La Marsigliese. Poi arriva la Piaf amica di Cocteau (che aveva scritto l’orazione funebre e morì poche ore dopo di lei), poi le lezioni di canto e di portamento. Come punteggiatura, la donnina curva con i capelli color carota, sulla sdraio con una coperta di lana, che sta per morire. Scenografo, costumista e direttore della fotografia complottano per urtare il nostro senso estetico: la miseria è pittoresca, lo sfarzo tende al pacchiano, quando arriva Marlene Dietrich a complimentarsi le hanno sbagliato anche la tinta e la pettinatura. Marion Cotillard, troppo bella per il ruolo, si fa seppellire sotto il trucco e lavora di imitazione (le registrazioni sono originali, pagate a peso d’oro). Speriamo nella chiusura, con “Angel” di François Ozon, dal romanzo di Elizabeth Taylor (nessuna parentela con l’attrice, esce da Giano Editore). Sarà invece un americano – Steve Buscemi – a certificare per la prima volta durante un festival cinematografico (dopo l’omicidio rituale di 2 anni fa) l’esistenza di un cineasta che si chiamava Theo van Gogh. Nella sezione Panorama sarà proiettato “Interview”, remake statunitense del film che il regista olandese girò nel 2003 con lo stesso titolo: la storia di un giornalista politico che con molta puzza sotto il naso andava a intervistare una popstar. Steve Buscemi, oltre a dirigere, fa la parte del giornalista. Sienna Miller è una diva delle soap americane. Variety applaude entrambi e loda il film. Il primo piccolo scandalo riguarda il mercato. Dovrebbe essere aperto a tutti. Pare invece che sia stato rifiutato – anzi, dirottato sull’American Film Market – un film spagnolo. Titolo: “Missione impensabile: hanno rubato il pisello di Hitler”. Grato di tanta pubblicità, il regista Pedro Temboury sta organizzando proiezioni clandestine. Mariarosa Mancuso L’ I S L A M I N T R A N S I G E N T E E L A “ M E D I A Z I O N E ” D I D A N I E L A S A N T A N C H E ’ La guerra dei mondi al funerale di Hina, sgozzata dal padre sei mesi fa Brescia. Chissà qual è stato il vero film del funerale di Hina Saleem, la ragazza sgozzata sei mesi fa da suo padre perché aveva disonorato la famiglia e le sue tradizioni, e seppellita ieri al cimitero Vantiniano di Brescia in una bara rivolta verso la Mecca. Arrivato il nullaosta dalla magistratura, ognuno ha inscenato il proprio rito di commiato da un cadavere “conteso fra due mondi”, come ha ammesso ieri il responsabile della comunità pachistana di Brescia, Sajid Hossein. Prima delle invocazioni dell’imam che al cimitero ripeteva “Allah la aiuti, Allah la perdoni”, i due universi che ruotavano intorno alla vita di Hina, e al suo netto rifiuto delle ferree leggi pachistane e musulmane, si sono scontrati all’obitorio. Da una parte il suo fidanzato, Giuseppe Tempini, che lei probabilmente amava, e con il quale ha sperimentato tutti gli eccessi della libertà occidentale, che imprecava in dialetto bresciano perché gli era stato vietato l’accesso. “Qui non puoi entrare perché hai bevuto”, gli ha intimato il fratello di Hina, Suleman, “la nostra religione non lo permette”. E dall’altra gli uomini della famiglia, i parenti maschi arrivati dalla Spagna e dalla Francia, che fuori dalla stanza angusta in cui era stata messa la bara, difendevano l’intimità delle donne, alle quali spetta solo il compito di lavare il corpo senza poterlo seguire al cimitero. Da una parte il fidanzato che chiedeva invano di poter entrare per stare accanto alla bara, e dall’altra la madre di Hina, coperta da un velo integrale di color rosa, che si abbandonava a un urlo straziante, che “dura da sei mesi”, diceva un parente che vive a Barcellona. E in mezzo la parlamentare di An, Daniela Santanchè, vestita di nero, che cercava di calmarlo, obbligata suo malgrado a fare da “assistente sociale”, e a dirgli “Beppe stai tranquillo, che alla sepoltura potrai assistere anche tu”. Arrivata a Brescia per rammentare a tutti la sua battaglia contro il fondamentalismo, la parlamentare ha avviato una trattativa con gli uomini della famiglia per far accettare l’indesiderato fidanzato – visto che anche lui esigeva il suo rito, il suo commiato, da Hina. Prima ancora del rito islamico al cimitero, dove gli uomini hanno seguito la bara fino al luogo della sepoltura – la sezione del cimitero destinata ai musulmani – e si sono tolti le scarpe per pregare, erano tutti lì, in attesa di celebrare un tardivo rito funebre, a inscenare la commedia, questa sì reale, di due mondi che fanno finta di dialogare. Da una parte la madre di Hina, che non vuole parlare con nessuno, che secondo l’onorevole Santanchè dovrebbe costituirsi parte civile al processo contro il marito, anche se tutti sanno che non lo farà mai, e continuerà a vivere privatamente la violenza di cui è stata vittima sua figlia, e dall’altra gli amici italiani di Hina. Come Leo, che fa capire di avere cercato di aiutare Hina, e ha fatto da tramite fra lei e Beppe, prima che si mettessero insieme, e lei finisse a lavorare alla pizzeria Antica India, dove si poteva trovarla fino alle cinque del mattino, con quelle mise audaci, minigonna e top, inaccettabili per chi vive su un solo binario: famiglia e religione. Il funerale di Hina, che bisognerebbe de- finire simbolico, se non fosse che questa parola suona un po’ banale, perché solleva molte questioni, tutte legate al multiculturalismo, si conclude così: con il gesto tenero di una ragazza, pachistana ma “svelata” che cerca di gettare una rosa nella fossa: un’amica di Hina, conosciuta ai tempi della sua prima ribellione quando ha cercato rifugio dalla famiglia in una comunità – e quello, ignorato da tutti, del fidanzato che, dopo aver pianto sulla spalla della Santanchè, finalmente può avvicinarsi alla fossa, per buttare la sua, di rosa. Certo, prima c’è tempo per registrare le dichiarazioni a favore del dialogo pronunciate dal sindaco di Brescia, Paolo Corsini, e quelle della parlamentare di An che promette che si batterà perché il corpo di Hina Saleem rimanga a Brescia “perché questa era la patria che aveva scelto”, dice. E anche per ascoltare Sajid Hossein, che invece dice: “Abbiamo pregato per chiedere la misericordia di Allah”. Se per l’anima corrotta di Hina o per il gesto inconsulto di suo padre, nessuno di noi lo sa. (cg) LA VIA SPAGNOLA ALLE GENERALI Una Capitalia molto ospitale per Botín fa arrabbiare gli olandesi di Abn Roma. Ieri Rijkman Groenink, capo di AbnAmro, svolte alcune rituali e amichevoli considerazioni sulla situazione, ha detto che gli sviluppi della governance dell’istituto capitolino sono sotto osservazione per quella che è emersa – ha spiegato – come una chiara differenza di posizioni tra Matteo Arpe e il presidente di Capitalia Cesare Geronzi. Il Banco Santander, prima banca spagnola, ha l’1,89 per cento di Capitalia. L’ingresso degli spagnoli non è piaciuto all’amministratore delegato della banca romana Arpe, considerato vicino al principale azionista individuale di Capitalia, la banca olandese AbnAmro. Per Geronzi, invece, l’ingresso nel capitale della banca degli spagnoli è vantaggioso. Serve a tenere a bada gli olandesi, per negoziare con Unicredit, e per tenere le posizioni nella guerra che lo contrappone a Giovanni Bazoli, presidente di Banca IntesaSanPaolo. Ecco un breve riepilogo delle posizioni in campo: Capitalia detiene quasi il nove per cento di Mediobanca e poco meno del tre per cento di Generali. Anche Unicredit ha il nove per cento di Mediobanca e poco meno del quattro di Generali. Siccome Mediobanca è azionista di riferimento (14,1 per cento) di Generali, Capitalia è una pedina chiave nel risiko finanziario italiano. Generali, preda tra le prede del sistema finanziario italiano, in ragione delle sue riserve tecniche (denaro liquido a volontà), è sostanzialmente governata sulla base di una lista di consiglieri espressa da Mediobanca e sostenuta dai suoi alleati – in tutto circa il 30 per cento del capitale, compresa una simbolica partecipazione di Santander. Negli ultimi mesi, però, è cresciuto l’interesse per Generali da parte di Giovanni Bazoli, che può contare insieme ai suoi alleati circa il dieci per cento del capitale. Per dissuadere Bazoli dal suo pressing a tutto campo – dalla grande fusione IntesaSanPaolo alla piccola fusione Bpu-Lombarda, dal fondo infrastrutturale F2I alle mire espansionistiche su Rcs – Geronzi parte dal suo sistema di alleanze in Mediobanca, a partire dai soci francesi che fanno capo a Vincent Bolloré, a loro volta legati, per il tramite del finanziere franco-tunisino Tarak Ben Ammar, al mondo Fininvest. Bolloré ha dichiarato di essere stato lui a chiedere a Emilo Botín di entrare in Capitalia. Ma quale potrebbe essere, invece, l’obiettivo degli spagnoli? Le banche spagnole per il momento hanno chiuso male le loro campagne italiane. Bbva ha perduto la partita per Bnl, una sconfitta determinata da alcune ingenuità tattiche. Santander, per il momento, ha dovuto rinunciare alle mire su SanPaolo-Imi di cui era il principale azionista a causa dell’intervento di Intesa, che poteva contare su un gioco di sponda con le istituzioni di governo del paese (e Botín non ha voluto rischiare lo scontro frontale con il sistema Italia). Oggi, però, gli si presenta un’occasione molto interessante. Fare da cavaliere bianco in soccorso di una banca appetibile, Capitalia, con partecipazioni strategiche, ben gestita sul mercato da un manager che ha fatto bene il suo lavoro (Ar- pe), guidata da un leader strutturato com’è Geronzi, con un azionista di riferimento che ha le sue difficoltà. Abn, infatti, è una specie di holding che raggruppa unità separate in Olanda, Brasile, Stati Uniti e Italia. Per questo è sotto osservazione da parte di Royal Bank of Scotland e di un grande gruppo americano, interessati a comprare e fare un redditizio spezzatino. Se Santander decidesse di crescere in Capitalia porrebbe certe condizioni, la principale delle quali sarebbe: o noi o Abn. E poi, c’è un’altra suggestione nell’aria. Siccome al dossier Capitalia è da sempre interessato Alessandro Profumo, capo di Unicredit, alcuni osservatori ipotizzano un fantascenario di questo tipo: due anni fa c’era un dossier elaborato dagli spagnoli in cui si ragionava su una ipotesi SanPaolo-Santander-Unicredit. Se al posto di SanPaolo ci fosse Capitalia? Il risultato sarebbe la nascita del primo gruppo bancario europeo con circa 190 miliardi di euro di capitalizzazione. Capitalia sarebbe il laboratorio di questa partita. ECONOMIA E POLITICA A BASSA VELOCIT A’ Infrastrutture, l’Italia presto pagherà il conto del suo immobilismo MEGLIO DI NOI ORMAI LE AUTOSTRADE SPAGNOLE, LE FERROVIE CINESI, I CENTRI CONGRESSI VIETNAMITI, I GRATTACIELI RUMENI a Spagna, in quest’ultimo ventennio, ha realizzato uno straordinario miracolo L economico. Il premier Zapatero, esagerando nell’entusiasmo ma venendo subito preso sul serio da alcuni ambienti catastrofistici italiani, ha detto, di recente, che la Spagna mira a superare economicamente l’Italia. L’obiettivo però è tutt’altro che a portata di mano perché il ritmo di crescita della Spagna si è andato affievolendo in questi ultimi anni. Resta il fatto che, in un paio di decenni, la Spagna è uscita dal suo sottosviluppo. Partendo da un’economia prevalentemente agricola, è riuscita a costruirsi una ragguardevole dimensione industriale e una struttura di servizi non meno importante (basti pensare alle sue grandi banche che oggi sono presenti in modo economicamente aggressivo in molti paesi stranieri compresa l’Italia). Alla base del boom economico spagnolo, lo dicono gli studi più accreditati, ci stanno le opere pubbliche e l’edilizia privata. In Spagna infatti le grandi opere infrastrutturali sono state realizzate in tempi brevi, utilizzando ampiamente i fondi europei e mobilitando su di esse tutte le risorse private disponibili, ottenendo così dei risultati economici sorprendenti. Per misurare questo boom, in confronto all’Italia, bastano pochi dati. Quando il nostro paese aveva già realizzato l’intera Autostrada del Sole, la Spagna non disponeva di un chilometro di autostrada. Adesso invece la Spagna può fare affidamento su 237 chilometri di autostrada per milione di abitanti contro i nostri 111, meno della metà. In Italia si paga ancora il conto salato dello slogan pauperistico, vetero-rurale e sostanzialmente demente di “piccolo è bello” in omaggio al quale, durante questi ultimi 25 anni, sono state boicottate tutte le grandi opere. Il raddoppio dell’autostrada Bologna-Firenze (opera necessaria agli occhi di tutti), pur prevista da oltre un ventennio, non è mai stata mai realizzata. E’ passato, ma dopo un lunghissimo braccio di ferro con le forze politiche contrarie alle grandi opere, solo uno scampolo come quello della cosiddetta “Variante di valico” che, per di più, un quarto di secolo dopo, non è ancora entrata completamente in funzione. Fu un buon interprete di questa assurda posizione il relatore del Pci che, nei primi anni Sessanta, spiegò alla Camera che le autostrade non erano “assolutamente necessarie” ed era “meglio che lo stato devolvesse quei denari al miglioramento della rete stradale già esistente”. L’avversione alle grandi infrastrutture era da noi così acuta che l’Italia, unico paese al mondo, approvò addirittura per legge il divieto di costruzione di nuove autostrade. Con tale legge si riuscì a bloccare non solo le nuove autostrade finanziate dallo stato, ma anche quelle che eventualmente fossero state realizzate con il solo capitale privato. Con quella legge infatti non si voleva ridurre la spesa pubblica ma si voleva semplicemente strozzare, per via legislativa, la stessa idea che potessero essere costruite nuove autostrade, considerate evidentemente, all’epoca, come strumenti del demonio, non come infrastrutture idonee a facilitare lo spostamento delle persone e delle merci senza per questo gravare sulle casse dello stato, visto che sono gli stessi utenti a pagare, con il pedaggio, la costruzione e la manutenzione delle autostrade stesse. Anche se la legge che blocca la costruzione di nuove autostrade è stata abolita, resta, in molti, la mentalità anti-industrialista ed anti-modernizzatrice che si propone di bloccare in Italia tutte le grandi infrastrutture: dalle nuove autostrade, alla Tav in Val di Susa, al Mose e così via. E’, questa, la stessa mentalità che, ai tempi del primo centrosinistra, con la benedizione di Ugo la Malfa, finì per bloccare l’introduzione in Italia della tv a colori, nella convinzione che essa avrebbe rammollito gli italiani distogliendoli da compiti ben più importanti. Tale motivazione, oggi, fa ridere a crepapelle, tanto sembra inutilmente didattico-precettiva ma, allora, l’idea era considerata così seria da guadagnarsi agevol- mente la maggioranza parlamentare . Il risultato di quella legge fu un doppio fallimento. Primo, perché non riuscì a bloccare le trasmissioni tv a colori che finirono per imporsi ugualmente, se non altro perché, al nord, i più danarosi, comprando i nuovi apparecchi tv all’estero, potevano seguire le trasmissioni a colori della Tv svizzera italiana. Il secondo fallimento consistette nel fatto che, quando, per forza di cose, anche in Italia furono adottate le trasmissioni tv a colori, l’industria italiana dei televisori (dalla Geloso alla Brionvega) che prima di questa trovata legislativa era in ottima forma, fu letteralmente travolta dalla concorrenza straniera che possedeva linee di prodotti consolidate nella ricezione dei programmi tv a colori. E cosi, mentre i cinesi hanno realizzato, in soli cinque anni e due giorni, i 1.142 chilometri della Pechino-Lasha, in Tibet, una ferrovia che si inerpica quindi fino al tetto del mondo, le rotaie per l’alta velocità fra Milano e Roma, la cui posa in opera era iniziata trent’anni fa, deve essere, da noi, ancora conclusa. Anche il progetto dell’alta velocità in Val di Susa, a sentire il ministro Alessandro Bianchi, va tenuto ancora a bagnomaria per poterlo discutere adeguatamente con tutti gli aventi diritto (e anche quelli che il diritto non ce l’hanno) nonostante la realizzazione dell’opera sia stata annunciata diciotto anni fa dal Consiglio dei ministri della Cee, diciassette anni fa ci sia stata presentazione ufficiale del tunnel della Val di Susa, tredici fa venne apposta la firma dell’accordo fra Francia ed Italia, dodici fa venne formulata la promessa che la nuova tratta sarebbe stata ultimata “entro il duemila”, dieci fa venne assunta la decisione di convincere anche i più renitenti con ulteriori approfondimenti. Intanto nella Corea del Sud stanno realizzando, a tempo di record e in un colpo solo, una linea ferroviaria ad alta velocità di 410 chilometri dei quali 120 saranno su ponti e 190 in galleria. Mentre in Italia si discute senza limiti di tempo, negli altri paesi, anche i più arretrati (ma per quanto?) si sta andando a rotta di collo. La sede per l’ultima riunione dei paesi asiatici, ad esempio, è stata decisa a favore di Hanoi (Vietnam) a gennaio del 2006. Non disponendo di una struttura idonea ad ospitarla, il governo vietnamita ha deciso di costruirne una che il 18 dicembre 2006 (otto mesi dopo) ha accolto l’Apec Summit. Il palazzo non è una catapecchia ma dispone di un sala conferenze in grado di ospitare 3.800 persone (pur avendone bisogno, non abbiamo, in Italia, una sala congressi così capiente) e di altre 30 sale riunioni. La sala ristorante può mettere a tavola 1.500 persone. Il palazzo ospita anche una banca, l’ufficio postale, bar, ristoranti, negozi. Da noi invece il Centro Congressi Italia di Roma, progettato da Massimiliano Fuksas e selezionato nel febbraio del 2000, a sei anni di distanza non è stato ancora nemmeno iniziato. Persino in Romania ci battono: il grattacielo che è in corso di realizzazione a Bucarest vicino alla chiesa di San Giuseppe (e che per questo ha provocato le proteste del Vaticano) pur essendo stato iniziato solo nell’ottobre scorso, quattro mesi dopo è già arrivato al decimo piano. Pierluigi Magnaschi Chi più tassa meno incassa Il bilancio di Bush e la sobria considerazione di Draghi una recente intervista al Journal of EcoPerspectives (Fall 2006), Bob MunIdell,nnomic Nobel per l’economia nel 1999, osservava che “la supply-side economics ha sollevaDIARIO DI DUE ECONOMISTI to la questione che esistono normalmente due aliquote fiscali che forniscono lo stesso gettito. Ad esempio, sia un’aliquota nulla sia una proibitiva generano zero entrate fiscali. Un’aliquota bassa e una al di sotto del livello proibitivo possono produrre lo stesso gettito. Solo nel punto in cui il gettito viene massimizzato esiste un’unica aliquota”. Si tratta della relazione tra entrate fiscali e aliquote a forma di U-rovesciata, divenuta famosa col nome di “Curva di Laffer”. La forma della curva e l’esistenza della connessa relazione non sono in discussione, e perciò, anche se nella realtà nessun paese si trova alla destra del punto in cui il gettito viene massimizzato e oltre il quale un aumento ulteriore delle tasse implica una riduzione delle entrate fiscali, esiste sempre la possibilità di ottenere lo stesso gettito con un’aliquota bassa anziché con una alta. L’idea dell’economia dell’offerta consiste, come si sa, nello stimolare quest’ultima anziché la domanda attraverso la riduzione dell’imposte: la produzione, l’occupazione e gli investimenti aumentano e con essi le entrate fiscali perché viene rimossa una parte delle distorsioni associate alla tassazione che provocano inefficienza. Dietro questa visione c’è la convinzione che l’economia privata sia più efficiente di quella pubblica e che prima di preoccuparsi di come distribuire il reddito si dovrebbe puntare a farlo crescere. Però, tagliare le tasse e insieme aumentare la spesa provoca un deficit, in presenza del quale occorre tagliare le spese se si vogliono ridurre le tasse. Il bilancio per il 2008 che George W. Bush ha presentato al Congresso raggiunge il pareggio nel 2012. “La mia formula per un bilancio in pareggio riflette le priorità del nostro paese in questo momento della sua storia: proteggere il territorio nazionale e combattere il terrorismo, mantenere l’economia forte attraverso tasse basse, e mettere sotto controllo la spesa rendendo i programmi federali più efficaci”. In pratica il piano di Bush consiste nel rendere permanenti gli sgravi fiscali attuati nel 2001 e 2003 (ma che scadranno nel 2010), nell’aumentare del 30 per cento le entrate tributarie nei prossimi 5 anni grazie alla forte crescita economica provocata dai tagli delle tasse, nel mantenere la dinamica delle spese discrezionali, escluse quelle per la sicurezza, al di sotto dell’inflazione (e comunque non al di sopra dell’1 per cento l’anno), di aumentare le spese per la difesa di un altro 10,5 per cento (dopo l’incremento del 41 nel periodo 2002-2006). A dispetto dei grossi guai che l’America ha dovuto fronteggiare in questi anni (dalle guerre ai disastri naturali, dalla recessione all’instabilità del mercato mondiale dell’energia), sinora la politica di Bush ha funzionato: come conseguenza del forte aumento delle entrate e delle limitazioni della spesa, il deficit nel 2006 non è stato il previsto 3,2 per cento del pil ma il ben più modesto 1,9 (248 miliardi di dollari). Su queste basi, l’obiettivo del pareggio del bilancio nel 2012 non appare così irrealistico come vorrebbero i critici, democratici in testa ovviamente, che giudicano ottimistiche le previsioni dell’Amministrazione sulle entrate fiscali. Al contrario, la politica economica di Bush sta dimostrando possibile una nozione di disciplina fiscale del tutto diversa da quella praticata in Europa e soprattutto da noi: ridurre il deficit attraverso la limitazione delle spese e l’aumento delle entrate generato dalle politiche pro crescita, in primo luogo il taglio delle tasse. E’ necessario ripetere per l’ennesima volta che da noi la conclamata disciplina fiscale viene perseguita con una politica esattamente opposta – aumentando sia le tasse che le spese? Certo, si può fare l’elogio delle imposte quale mezzo indispensabile a finanziare le spese pubbliche necessarie al “progresso, alla coesione sociale e alla sicurezza della nazione”, come fanno i sottoscrittori di un appello lanciato dal mensile Alternatives Economiques e sponsorizzato da Liberation, che chiamano la sinistra francese all’attacco della “demagogia fiscale” di Sarkozy, il quale viceversa il fisco vorrebbe alleggerirlo. Più sobriamente Mario Draghi, governatore della Banca d’Italia, ha rilevato che il livello dell’imposizione tributaria in Italia è elevato, che penalizza le imprese e le famiglie che compiono il loro dovere fiscale, che perciò occorre una riduzione delle tasse e, per stabilizzare le finanze pubbliche, anche della spesa. Voilà. Ernesto Felli e Giovanni Tria PREGHIERA di Camillo Langone Lo so, ho sbagliato, ho comprato Repubblica, e ho letto di cattoabortisti alla riscossa, di pippibaudi ingrati. Per sapere quanto manca alla fine del mondo ho cominciato a leggere perfino Stefano Rodotà ma non tutto il male viene per nuocere perché alla terza riga mi è crollata la palpebra e, al posto di istituzioni e costituzioni, nell’occhio sono comparsi i bustini che la mia amica Ketty produce nel suo laboratorio sul porto di Trani. Bustini settecenteschi su misura, naturaliter monarchici, steccati ma non rigidi, in taffettà di seta. Potesse vederli Francesco Merlo, compagno di pagina di Rodotà e confezionatore di pozioni appena meno soporifere. I bustini di Ketty sono meglio di un trattato teologico. Se Merlo potesse vederli capirebbe finalmente qualcosa del cattolicesimo, religione sommamente inclusiva: verificato che l’anima e la zinna non sono in contraddizione, ma anzi si valorizzano a vicenda, capirebbe che nemmeno Cristo e sant’Agata sono in contraddizione, come invece sostiene. Ma Francesco Merlo sta a Parigi e non a Trani e quindi non può accorgersi di niente.