IL CORAGGIO DI ESSERE FELICI Incontro con gli arbitri di calcio di

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IL CORAGGIO DI ESSERE FELICI Incontro con gli arbitri di calcio di
IL CORAGGIO DI ESSERE FELICI
Incontro con gli arbitri di calcio di Barletta
20 novembre 2015
Don Michele Maria Porcelluzzi
Per il suo stesso ruolo, ogni arbitro si trova al centro di molteplici relazioni. È facile immaginare innanzitutto
quelle in campo, con i dirigenti e i calciatori. Di questo aspetto si occupano in modo rilevante le RTO, con
relatori più esperti e capaci di noi. Ci sembra interessante, invece, approfondire le relazioni che ognuno di
noi ha fuori dal campo, sia all’interno dell’associazione - specialmente della sezione – sia quelle all’esterno
di essa. Ci chiederemo, in particolar modo, in quale modo l’attività arbitrale influenza la vita di tutti i giorni.
L’appartenenza
Quello che ci rende arbitri è la relazione di appartenenza che abbiamo con l’associazione.
Un ragazzo diventa arbitro perché entra in relazione con una sezione (frequentando il corso, le Riunioni
Tecniche, stringendo amicizie con i colleghi…). Non è il contrario: nessuno può pretendere da un Presidente
di Sezione di diventare associato perché si è proclamato arbitro di calcio.
Questa relazione richiede che un arbitro debba mantenere sempre la disponibilità a farsi educare, cioè a
cambiare anche le proprie abitudini, se necessario.
La sezione, dunque, è una vera e propria “comunità educante”, perché si prende cura della formazione
integrale dei suoi associati. Essa non si occupa solamente di educare tecnicamente e di organizzare sedute di
allenamento, ma anche di far maturare gli arbitri, specialmente quelli più giovani.
Proprio per questo, da parte di tutti, è necessaria una certa umiltà, una certa disposizione ad imparare. C’è
sempre il rischio, infatti, di credersi ormai arrivati, di non avere più nulla da apprendere né dai propri Organi
Tecnici, né dai propri colleghi di categorie superiori, e di trattarli con sufficienza. Questa tentazione è molto
forte anche negli arbitri più giovani, che rischiano di esaltarsi oltre modo dopo una brillante stagione.
Nella maggior parte dei casi non mantenere una saggia dose di umiltà porta ad errori clamorosi, sia in campo
che fuori. Sia perché confrontandosi con i colleghi più esperti si può imparare ad affrontare situazioni nuove,
anche difficilmente prevedibili; sia perché un’eccessiva sicurezza può portare a trascurare dettagli
fondamentali.
Pertanto, ascoltare le discussioni su quesiti tecnici, allenarsi in gruppo, partecipare alla vita di sezione, aiuta
a migliorarsi e a crescere.
Si cresce solo se si appartiene.
Il Presidente, dunque, ha proprio il compito di custodire queste relazioni, oltre che di curare la nostra crescita
tecnica. A lui il compito di ricordarci continuamente la nostra appartenenza all’associazione. È lui il
responsabile ultimo di quella “comunità educante” che è la sezione. I suoi richiami, così come i consigli
degli osservatori e degli organi tecnici, rappresentano la cura dell’Associazione verso ogni singolo associato.
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Arbitro Effettivo della Sezione di Barletta; Diacono della Diocesi d i M ilano, candidato al presbiterato nel 2016.
L’Autore ringrazia il Presidente Savino Filannino per l’opportunità concessagli.
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Eterni debitori
Dato il contesto associativo, possiamo facilmente intuire che tutto ciò che sappiamo dell’arbitraggio lo
abbiamo imparato dagli altri. Il regolamento ci è stato spiegato durante il corso da altri colleghi; lo
spostamento ci è stato illustrato nelle riunioni; abbiamo bisogno di OA e OT che ci osservino perché
possiamo migliorare.
Se notiamo questo, capiamo che è impossibile che un arbitro dica “mi sono fatto da solo”. Un arbitro
qualsiasi, anche un arbitro internazionale, potrà dire di avere talento, di impegnarsi tanto, ma non potrà non
sentirsi debitore verso chi gli ha insegnato ad arbitrare.
Così è anche nella vita: non esiste nessun self made man. Nessuno si è fatto da solo. Pensate solo al
linguaggio: nessuno di noi quando è nato sapeva già parlare. Abbiamo tutti imparato sentendo gli altri: la
lingua è un sistema di citazioni.
“Siamo chi siamo” grazie agli incontri che abbiamo fatto, perché gli incontri più veri ci segnano per sempre.
Pensate non solo alla vostra famiglia , ma anche alle amicizie, o alla storia con una ragazza, o a quanto vi
cambia avere a che fare ogni domenica con dirigenti e calciatori. In questo senso, siamo degli eterni debitori.
Certo, tutti ci mettiamo del nostro, ma nessuno può dire che si è fatto da solo. In qualche modo dipende
sempre dagli altri.
Questa crescita deve insegnarci ad affrontare anche i problemi quotidiani della nostra vita. Mi sembra che
molti adolescenti e giovani occidentali siano in balia della “vertigine del nulla” come direbbe Montale,
quella che Fedez chiama “arte di accontentare”. La necessità di far contenti gli altri, i genitori o persino la
propria ragazza o qualche amico, ma rimanere in fondo insoddisfatti.
Deve, inoltre, insegnarci a prendere nella maniera giusta l’arbitraggio, con una mentalità che ci stimoli
sempre a dare il massimo senza crearci aspettative.
Come l’arbitraggio, allora, ci insegna ad essere felici anziché crearci angosce? Innanzitutto facendoci vedere
la vita come una chiamata. Inoltre, ci insegna a prendere decisioni su noi stessi. Infine ci richiama a quella
vita piena, veramente felice, che Gesù promette chiamandola “vita eterna”.
Chiamati a…
Abbiamo iniziato ad arbitrare per motivi differenti. Alcuni attratti dalla tessera o dal rimborso spese, altri
perché sono affascinati dalla nostra figura fin da piccoli. Dopo qualche tempo, però, molti si rendono conto
di essere presi così tanto dall’arbitraggio che è come se si fossero sentiti chiamati ad essere arbitri. Possiamo,
quindi, spingerci nel dire che fare l’arbitro significa rispondere ad una vocazione, cioè ad una chiamata, che
viene scoperta attraverso modi differenti, a volte anche completamente casuali.
Per un cristiano tutta la vita è la risposta ad una chiamata. Tutti siamo chiamati ad essere santi, cioè ad essere
veramente felici ora e per sempre, ma ognuno in modo differente. Ognuno di noi è chiamato a dare alla storia
il proprio contributo originale, che solo lui – e nessun altro – può dare. La vocazione non riguarda solo la
scelta di diventare prete o sposarsi, ma tutta gli ambiti della vita. Anche la professione è una chiamata di Dio:
alcuni son chiamati a fare i medici, altri gli avvocati o gli ingegneri o gli operai, i mangiatori di spada, o i
poliziotti. Possiamo ben dire che alcuni son chiamati a fare i calciatori, altri agli arbitri. La volontà di Dio su
di noi corrisponde ai nostri più profondi desideri.
Qualsiasi sia il nostro ruolo nella storia, sappiamo però che siamo destinati alla santità, cioè ad una felicità
piena, che inizia nel presente e dura per sempre. La santità non è una truffa.
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Stiamo per festeggiare la Madonna, l’8 dicembre, e Sant’Ambrogio, patrono di Milano, il giorno prima, il
7.Entrambi sono per noi esempi di persone che hanno saputo decidersi nella vita.
Maria viene chiamata dal Signore attraverso l’angelo Gabriele e prende subito due decisioni concrete: decide
di accettare la misteriosa maternità di Gesù e di mettersi in viaggio, a piedi, per alcuni giorni, per andare a
trovare sua cugina, anche lei incinta.
Sant’Ambrogio viene chiamato ad essere Vescovo non da un angelo, ma dal grido di un bambino in mezzo
alla folla. La nomina del nuovo capo della chiesa di Milano stava diventando molto difficile, a causa di
alcune discordie tra il popolo. Ambrogio, che era un magistrato dell’Imperatore e non era nemmeno
battezzato, sedò una grossa discussione in piazza tra due diverse fazioni rivali e la folla lo acclamò Vescovo.
Recentemente il Vescovo di Milano ha detto ai nostri colleghi della locale sezione che Sant’Ambrogio può
essere considerato il patrono degli arbitri. Egli è sempre rappresentato con la disciplina, una specie di frusta,
che ricorda la sua decisione: si oppose spesso con fermezza sia all’imperatore Teodosio sia ad alcuni gruppi
eretici. Tuttavia un altro simbolo ambrosiano è l’ape, per l’eleganza dei suoi discorsi e dei suoi modi di fare.
Deve essere capace di decidere velocemente e di imporsi sempre con l’educazione e l’eleganza, senza cadere
mai nelle provocazioni.
La nostra sfida, pertanto, starà nel comprendere la volontà di Dio, che si manifesta ogni giorno, e nell’agire
di conseguenza.
La felicità passa attraverso le nostre scelte. Non è frutto del caso, non scende magicamente dall’alto, richiede
il nostro impegno quotidiano. Ognuno di noi ha un ruolo unico nella storia da giocare e non sarà mai
soddisfatto fino a quando non capirà il disegno di Dio per lui e non lo metterà in pratica. Non ci sono
alternative.
Quando dentro c’è un incendio, non ci sono uscite di emergenza.
Osservare Decidere Agire
Come capire a cosa siamo chiamati? Possiamo intuirlo a partire dalla nostra esperienza in campo. Un arbitro
osserva, decide, agisce. Queste sono anche le tre azioni principali che compiamo ogni volta che arbitriamo.
Dobbiamo osservare il gioco, cioè dobbiamo saperlo seguire, intuire gli sviluppi e non disturbare l’azione.
Tutte le questioni inerenti all’allenamento e allo spostamento riguardano proprio questa azione principale.
Dobbiamo saper decidere, cioè sapere la decisione giusta da prendere. La conoscenza e la capacità di
applicare il regolamento sono le abilità necessarie per una corretta decisione.
Il coraggio di intervenire, la scelta del momento giusto per farlo (con l’attenzione al vantaggio), il modo in
cui si notificano i provvedimenti disciplinari sono diversi aspetti dell’agire dell’arbitro.
Può essere utile rivedere la propria prestazione dopo ogni gara ripartendo da queste tre azioni. Cioè, prendere
del tempo per ripensare alla partita e verificare dove sono stati commessi gli errori, al di là della valutazione
delle squadre.
Arbitrare aiuta ad applicare questa dinamica, queste tre azioni principali dell’osservare, decidere e agire,
anche alla vita quotidiana, alla realtà fuori dal campo. C’è infatti sempre il rischio di “lasciar correre” alcuni
aspetti della vita, nell’illusione di non pagare mai alcuna conseguenza. In ambito scolastico, ad esempio, c’è
il rischio di non decidere mai di studiare seriamente con la falsa illusione di cavarsela a fine anno, o agli
esami. In ambito affettivo c’è il rischio di non avere il coraggio di legarsi seriamente,vivendo tante storie
leggere che però non danno pienezza. O anche quello di vivere una relazione senza la dovuta
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consapevolezza, lasciando che le cose vadano da sole, senza intervenire. Ugualmente nei rapporti in
famiglia, con gli amici, a lavoro.
È, allora, sempre necessario, a tutte le età, qualsiasi sia la professione o il grado di istruzione, prendere del
tempo per riflettere sulla propria vita e sui propri desideri, per poi prendere delle decisioni e agire di
conseguenza, senza paura. È importante allenarsi nelle piccole scelte quotidiane per essere pronti a prendere
quelle importanti nei momenti opportuni.
Nella vita è importante saper sempre rivedere i propri comportamenti quotidiani, anche quelli più banali. Per
fare questo è necessario prendere un momento ogni giorno, magari prima di andare a dormire, per riflettere
sulla giornata, sulle cose belle vissute, sui propri errori e su ciò che si potrebbe migliorare. Questo ci aiuta
anche a capire quello che ci succede. Ci si può abituare, pian piano, a parlare così con Dio: pregare non
significa ripetere formule a memoria, ma confidare a Lui i propri desideri e le proprie paure, in un dialogo
continuo
Inoltre, un confronto con qualche amico fidato che si ritiene maturo può spesso essere utile. Raccontarsi
serve sempre a conoscersi e il parere di un altro ci permette di scoprire cose su noi stessi che da soli non
potremmo vedere. Io penso che questo atteggiamento – cioè, il consiglio – sia la caratteristica principale
dell’amicizia umana. Per questo, spesso, frasi come “fai come ti senti” rappresentano più un sentimento di
disinteresse nei confronti dell’altro che un segno di amicizia. Avere cura di un amico significa anche
richiamarlo se i suoi comportamenti non stanno facendo il suo bene. Bisognerà certamente scegliere i tempi
giusti, i modi, le parole, ma tacere volontariamente significherebbe essere suo complice, cioè fargli del male.
Ecco allora che così può essere compreso il sacramento della Confessione: non un luogo in cui essere
giudicati, ma un momento in cui riconoscere ciò che ci viene donato e chiedere scusa per gli errori; un
momento in cui raccontarsi senza vergogna per capire le radici del male che compiamo.
Conoscere se stessi è sempre doloroso, perché porta a scoprire anche i propri limiti, a volte in modo
inaspettato, ed è un esercizio che richiede la pazienza di sopportare un lavoro lungo e la fatica di ascoltare
delle critiche.
Conoscere se stessi, stare attenti alla propria vita, porta ad essere più sicuri nei momenti in cui è necessario
prendere decisioni importanti.
E’ come quando si fa un tuffo. Prima si prende la misura della rincorsa e si controlla che sotto non ci siano
gli scogli, cioè ci si conosce. Poi si prendi la decisione, cioè ci si butta. Una volta staccato dalla roccia, e
sospeso in aria, non si può fare altro che cadere in acqua anche se è gelida o se sotto c’è una pietra: in ogni
caso ormai si è in gioco. Se però si sono prese bene le misure, cioè si conosce bene la situazione, si sono
valutati i consigli di persone di cui abbiamo fiducia, non si ha niente da temere.
Amare significa sempre rischiare, affidarsi ad un’altra persona. Chi non ha il coraggio di rischiare non riesce
a prendere decisioni su se stesso, non riesce ad amare.
In fondo, Gesù ci salva, cancella i nostri peccati, ci apre le porte del Paradiso non semplicemente perché
muore in croce, ma perché decide di obbedire al Padre fino alla fine, fino alla sua crudelissima Passione. In
ultima analisi, dunque, è la sua decisione di essere obbediente che ci procura la felicità.
Vi è però un altro punto importante: se ci è dato un compito, è perché qualcuno ha fiducia in noi. Così,
banalmente, un arbitro può avere fiducia nelle sue capacità e non andare eccessivamente in ansia prima della
partita, sapendo che è stato scelto dal suo OT per questo. Ugualmente il cristiano può trovare conforto nel
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fatto che nessuna situazione, anche quella ch che sembra più difficile, va oltre le nostre forze. Nessuna scelta
è più grande di noi.
Il servizio del potere
L’unico modo per vivere serenamente l’arbitraggio – ottenendo anche ottimi risultati – sta nel vederlo come
un modo per servire gli a ltri. Senza arbitro i calciatori non possono giocare, ma i protagonisti della partita
sono solo loro. Offriamo un servizio molto particolare, il servizio dell’autorità, che è facilmente paragonabile
ad un bisturi. Il bisturi è un coltello e se usato bene serve ad un intervento chirurgico. Tuttavia con un bisturi
ci si può anche ferire o si può fare del male. Esercitare l’autorità per il bene degli altri – cioè i calciatori, i
dirigenti, il pubblico – porta a tutte le altre conseguenze positive a cui spesso facciamo riferimento: il
divertimento, la crescita umana, la scalata delle varie categorie, il rimborso spese. Tutte queste cose, poi, ci
portano ad essere migliori nella nostra vita ordinaria, fuori dal campo, e questo bene si riflette sulle persone
che ci stanno intorno tutti i giorni. Quindi, in ultima istanza, sarebbe bene considerare che arbitriamo per far
del bene agli altri, sia per i componenti del gioco, sia per chi ci sta vicino tutti i giorni.
Questo vale anche per tutte le realtà quotidiane, come il lavoro o lo studio. Esse acquistano veramente valore
quando si capisce che il loro fine è servire gli altri: sia la società, sia la propria famiglia. I soldi o il successo
in sé, infatti, non portano la felicità, ma un continuo aumento dei bisogni.
Questo vale ancor di più per le nostre relazioni. Un uomo ed una donna, sposandosi, non decidono forse di
donare reciprocamente la propria vita? La donna che dilata il suo grembo per accogliere il nascituro, e poi gli
dedica forze e notte insonni per farlo crescere, non dona forse la propria vita al figlio? Ogni altra visione
delle relazioni, che metta al primo posto la reciproca soddisfazione di bisogni o una narcisistica volontà di
affermarsi, porta solo frustrazioni. Solo mettendosi in gioco, uscendo da sé, l’uomo capisce il senso della sua
esistenza. Quando uno gioca può sempre ritirarsi, ma quando uno si mette in gioco, si compromette, non può
tornare indietro senza ferirsi.
La prospettiva della donazione all’altro può sembrare esagerata ed irreale, in ogni caso difficile da realizzare.
Sicuramente il nostro istinto ci porta innanzitutto a guardare a noi stessi. Ma io sono convinto che un
quotidiano esercizio di meditazione, di confronto nella preghiera con Dio e con se stessi possa aiutare molto.
Ma soprattutto ci può essere d’aiuto la partecipazione consapevole alla Messa.
La Messa ci ripresenta l’ultima cena e l’offerta di Gesù che dona tutto se stesso per gli uomini. Dunque,
durante la celebrazione, noi siamo immersi in un Mistero: davanti ai nostri occhi si ripete il sacrificio di
Gesù, che dona la sua vita per la nostra vita eterna. Ricevere la Comunione ci aiuta a vivere come Lui e ad
amare la nostra ragazza, la nostra famiglia, i nostri amici donando noi stessi.
Vi è, infatti, un rischio sempre in agguato. Arbitrando ognuno di noi fa specchiare la parte migliore di se
stesso e se innamora. In campo esercitiamo un potere che sembra assoluto, siamo atletici, affrontiamo con
grinta tante difficoltà – specie le proteste che sediamo con autorità. Tiriamo fuori una parte di noi che nella
vita ordinaria rimane nascosta e questa parte ci piace tanto. Pian piano, l’arbitraggio diventa parte di noi
stessi ed è naturale che arrivi a conquistare anche i nostri sogni.
Questo certamente è normale, è un bene per tutti. Ma il rischio più comune per un arbitro è quello di
diventare narcisista. Cioè, quello di credersi in campo il protagonista e fuori dal campo il migliore in
assoluto. Le ricadute negative sono tantissime, alcune le ricordavo già nella prima riflessione. C’è il rischio
di non accettare i consigli e i richiami, di non prestare le dovute attenzioni e di cadere in errori grossolani, di
rendersi insopportabili agli occhi di chi ci circonda.
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Il narcisismo fa male perché siamo fatti per uscire da noi stessi, ed invece il rischio in cui spesso cadiamo è
quello di “ripiegarci”, di chiuderci in noi stessi, di farci i complimenti guardandoci allo specchio. Alla lunga
ci si ama talmente tanto che si diventa incapaci di amare gli altri.
Mantenere l’umiltà – che non significa ritenersi il peggiore di tutti gli arbitri del mondo, ma riconoscere di
avere sempre la necessità di imparare – è un esercizio difficile ma necessario. Richiede una certa vigilanza,
una certa attenzione ai propri pensieri e alle proprie azioni. Dopo una partita eccellente o una stagione
prodigiosa è sempre bene sforzarsi per rimanere con i piedi per terra.
La storia di Gesù ci insegna l’esatto contrario del narcisismo: Dio non ha deciso di rimanere in cielo beato in
se stesso, ma ha liberamente deciso di uscire, di venire sulla Terra, per servire l’Uomo che era triste a causa
dei suoi errori.
Ciò che ci rende davvero felice nella vita è servire gli altri nella realtà quotidiana. Per fare questo, è
necessario avere il coraggio di decidere su se stessi. “La vita è fatta per andare lontano, cresce quando la si
spende. Se la conserviamo solo per noi stessi, la si soffoca. La vita splende quando viene donata.” 1
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CLEMENTE VISMARA, Lettera dalla Birmania per il suo ottantesimo compleanno, 6 settembre 1977, in ENNIO APECIT I,
La vita è bella se donata con gioia, Centro Ambrosiano, Milano 2011, 101.
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