Mai senza l`altro Riflessioni quaresimali per arbitri di calcio Dal

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Mai senza l`altro Riflessioni quaresimali per arbitri di calcio Dal
Mai senza l’altro
Riflessioni quaresimali per arbitri di calcio
Dal vangelo di Luca, cap. 22
Quando fu l'ora, prese posto a tavola e gli apostoli con lui, e disse: «Ho desiderato
ardentemente di mangiare questa Pasqua con voi, prima della mia passione, poiché
vi dico: non la mangerò più, finché essa non si compia nel regno di Dio». E preso un
calice, rese grazie e disse: «Prendetelo e distribuitelo tra voi, poiché vi dico: da
questo momento non berrò più del frutto della vite, finché non venga il regno di Dio».
Poi, preso un pane, rese grazie, lo spezzò e lo diede loro dicendo: «Questo è il mio
corpo che è dato per voi; fate questo in memoria di me». Allo stesso modo dopo aver
cenato, prese il calice dicendo: «Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue,
che viene versato per voi».
«Ma ecco, la mano di chi mi tradisce è con me, sulla tavola. Il Figlio dell'uomo se ne
va, secondo quanto è stabilito; ma guai a quell'uomo dal quale è tradito!». Allora
essi cominciarono a domandarsi a vicenda chi di essi avrebbe fatto ciò.
Sorse anche una discussione, chi di loro poteva esser considerato il più grande. Egli
disse: «I re delle nazioni le governano, e coloro che hanno il potere su di esse si fanno
chiamare benefattori. Per voi però non sia così; ma chi è il più grande tra voi diventi
come il più piccolo e chi governa come colui che serve. Infatti chi è più grande, chi sta
a tavola o chi serve? Non è forse colui che sta a tavola? Eppure io sto in mezzo a voi
come colui che serve. »
Ognuno di noi nella vita ha una chiamata, un invito a giocare nella storia un ruolo
singolare. Un compito che ognuno di noi è libero di adempiere o di lasciare andare.
È il nostro modo di essere felice, unico e originale.
Tuttavia, qualunque esso sia, esso non può non consistere in un modo di donarsi agli
altri. C’è sempre il rischio di vivere una vita buona, piena di successi di ogni tipo, ma
tutta e solo per sé e per questo ci si sente vuoti e insoddisfatti.
Per il nostro naturale narcisismo, spesso siamo portati a vedere l’arbitraggio
innanzitutto come un’opportunità di carriera, di affermazione personale. Tuttavia,
penso che l’unico modo per vivere serenamente il nostro sport – ottenendo anche
ottimi risultati – sia il vederlo come un modo per servire gli altri. Senza arbitro i
calciatori non possono giocare, ma i protagonisti della partita sono solo loro, non noi.
Esercitare l’autorità per il bene degli altri – cioè i calciatori, i dirigenti, il pubblico –
porta a tutte le altre conseguenze positive a cui spesso facciamo riferimento: il
divertimento, la crescita umana, la scalata delle varie categorie, il rimborso spese.
Tutte queste cose, poi, ci portano ad essere migliori nella nostra vita ordinaria, fuori
dal campo, e questo bene si riflette sulle persone che ci stanno intorno tutti i giorni.
Inoltre, nessuno impara ad arbitrare da solo, ma ha bisogno delle istruzioni e dei
consigli dei colleghi più esperto. Un ragazzo diventa arbitro proprio perché entra in
relazione con l’associazione (frequentando il corso, le Riunioni Tecniche, stringendo
amicizie con i colleghi…). Non è il contrario: nessuno può pretendere dal Presidente
di Sezione di diventare associato perché si è proclamato arbitro di calcio.
Quindi, in ultima istanza, sarebbe bene considerare che arbitriamo perché riceviamo
del bene dagli altri con il fine di far del bene per gli altri: sia per i componenti del
gioco, sia per chi ci sta vicino tutti i giorni.
Questo vale anche per tutte le realtà quotidiane, come il lavoro o lo studio. Esse
acquistano veramente valore quando si capisce che il loro fine è servire gli altri: sia
la società, sia la propria famiglia. I soldi o il successo in sé, infatti, non portano la
felicità, ma un continuo aumento dei bisogni.
Questo vale ancor di più per le nostre relazioni. Un uomo ed una donna, sposandosi,
non decidono forse di donare reciprocamente la propria vita? La donna che dilata il
suo grembo per accogliere il nascituro, e poi gli dedica forze e notte insonni per farlo
crescere, non dona forse la propria vita al figlio? Ogni altra visione delle relazioni,
che metta al primo posto la reciproca soddisfazione di bisogni o una narcisistica
volontà di affermarsi, porta solo frustrazioni. Solo mettendosi in gioco, uscendo da
sé, l’uomo capisce il senso della sua esistenza. Quando uno gioca può sempre
ritirarsi, ma quando uno si mette in gioco, si compromette, non può tornare indietro
senza ferirsi.
La prospettiva della donazione all’altro può sembrare esagerata ed irreale, in ogni
caso difficile da realizzare. Sicuramente il nostro istinto ci porta innanzitutto a
guardare a noi stessi. Ma io sono convinto che un quotidiano esercizio di
meditazione, di confronto nella preghiera con Dio e con se stessi possa aiutare
molto. Ma soprattutto ci può essere d’aiuto la partecipazione consapevole alla
Messa.
Gesù non esita a mettersi in gioco, a venire sulla Terra e poi a morire per i nostri
peccati. A causa del nostro peccato, infatti, saremmo destinati a morire per sempre.
Ma Gesù, morendo per noi, ci rende capaci di essere felici ora e per sempre se lo
imitiamo, cioè se amiamo come lui nonostante le difficoltà e nonostante non siamo
sempre compresi.
La Messa ci ripresenta l’ultima cena e l’offerta di Gesù che dona tutto se stesso per
gli uomini. Dunque, durante la celebrazione, noi siamo immersi in un Mistero:
davanti ai nostri occhi si ripete il sacrificio di Gesù, che dona la sua vita per la nostra
vita eterna. Ricevere la Comunione ci aiuta a vivere come Lui e ad amare la nostra
ragazza, la nostra famiglia, i nostri amici donando noi stessi.
Per essere felici non basta non uccidere. È necessario dare la vita.