Bruna Peyrot Costruire una “Cittadinanza Interiore” Il mio
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Bruna Peyrot Costruire una “Cittadinanza Interiore” Il mio
Bruna Peyrot Costruire una “Cittadinanza Interiore” Il mio intervento, all’interno del titolo della tavola rotonda di questa mattina – le frontiere della cittadinanza: manodopera migrante – intende cogliere una dimensione più personale, più legata al soggetto, più situata nella sua interiorità. Il percorso proposto è scendere dalla foresta alla visione dell’albero singolo, la cui cura tuttavia, rende la bellezza dell’insieme della foresta stessa. L’idea che desidero presentare può essere sintetizzata in un titolo che è anche il titolo del mio ultimo libro: “La Cittadinanza Interiore”. Questo titolo è forse difficile da tradurre in portoghese, perché, come si sa, tradurre è anche tradire, non saper corrispondere esattamente alla visione del mondo sottesa a una lingua. Il titolo che ho scelto non è un semplice modo di dare nome a un libro. Per me è stato un approdo al quale sono arrivata dopo molti anni di ragionamenti, pensieri, riflessioni sulla mia pratica didattica, pedagogica e politica, sia come dirigente scolastica e formatrice nella scuola italiana, sia nel mio impegno politico nel movimento delle donne e come amministratrice di un Ente che in Italia viene detto “Comunità montana” (una unione di diversi comuni di area montana), dove sono stata responsabile dell’assessorato a cultura e turismo. Questa ormai lunga esperienza mi ha portata a definire la seguente ipotesi: per esercitare qualsiasi forma di diritto, la persona deve raggiungere alcune Consapevolezze fondamentali che la rendano in grado di esercitare il diritto individuale della sua cittadinanza. In altre parole ancora, per esercitare cittadinanza attiva, le persone devono aver raggiunto una maturità interiore basata su alcune conoscenze dell’umano ed essere persuase di avere valore. Se una persona non sente di valere, di essere importante per altri e soprattutto per la società, sia come se stesso, sia professionalmente, non ha la forza per farsi rispettare, né quella di esibire un diritto là dove si trova ad abitare. Nella lingua italiana la parola Consapevolezza significa “sapere con”, non solo sapere da soli, ma “con” altri, insieme ad altri, nel caso: insieme alla gente che fa la società. In altre parole, possiamo immaginare un sapere che non si fa da solo, un sapere che ha la sua segnaletica in una società, in una comunità umana che stabilisce le sue regole e i suoi valori, i quali devono però essere percepiti interiormente dai singoli perché la loro pratica sia garantita. Oppure potremmo interpretare la parola consapevolezza “con sapere”, una forma di conoscenza aggiunta al muoversi delle cose. Nella lingua portoghese troviamo due significati attribuiti alla parola Consapevolezza. Il primo significa coscienza, il secondo conoscenza (cum scientia). E’ esattamente questa accezione lo spirito in cui io intendo la parola consapevolezza: coscienza e conoscenza, sapere e ragioni profonde del suo motivare l’agire umano, come direbbe Gadamer, una forma di “intelligenza emotiva” in cui il ragionare ricomprenda, paradossalmente più ragioni, più strade possibili da percorrere per le strategie del soggetto, nel legame stretto fra mente e cuore, per dirla in modo popolare. Le Consapevolezze che ho individuato sono un processo di coscienza che richiede e prevede forme di conoscenza plurime. Sono le basi della dignità umana. Possiamo immaginarle anche come una costellazione di stelle, ognuna delle quali risulta importante per delineare la sua immagine dando un disegno luminoso che, scintillando nel cielo, orienta il viaggiatore. Le Consapevolezze della “Cittadinanza Interiore” possono essere considerate la parte soggettiva del diritto, la sua direzione interiore che rafforza la rappresentazione pubblica dell’individuo. Diritto e soggettività sembrano due universi incompatibili. Il diritto procede dalla tradizione giuridica, la soggettività è una categoria che appartiene allo statuto delle scienze umane, specialmente la psicanalisi e la psicologia, ma anche la linguistica, l’antropologia, la storia… Tuttavia, credo che non sia così, che il diritto e la soggettività soltanto all’apparenza siano un ossimoro. In realtà, qualsiasi forma di diritto ha bisogno di forza per essere attuato, di una certa forma di potere che lo agiti e che imponga il suo riconoscimento, che renda possibile la sua attuazione concreta. Questo stato di cose può essere verificato nella evoluzione dei movimenti sociali, nelle collettività umane e nei semplici atti individuali. Non basta dichiarare un diritto perché lo stesso sia realizzato. Ogni diritto per essere reso concreto ha bisogno di lunghe battaglie, come la storia di ogni continente dimostra. Il diritto non è un qualcosa di spontaneo che nasce come un fiore nel prato. E’ piuttosto un fiore di serra, da coltivare con passione e ragione. In questo contesto, ho individuato dieci Consapevolezze che elenco semplicemente nei loro titoli: del maschile e femminile; della Storia dentro la singola vita; del diritto all’autobiografia; del vincere la guerra in noi; dei luoghi “parlanti”; delle lingue “dimezzo”; della scelta dell’esilio per imparare a stare fermi; dell’educare come non violenza; della necessità di invade la politica con le parole della spiritualità e infine che la democrazia è un ragionamento complesso. Non abbiamo il tempo di esaminarle una a una. Mi limiterò, dunque, a presentarne due: la consapevolezza che la persona ha il diritto di avere la propria autobiografia e la consapevolezza che la democrazia non è un sentimento, ma un profondo e complesso ragionamento. Cominciamo dalla prima consapevolezza citata: il diritto all’autobiografia. Zygmunt Baumann definisce la modernità “liquida”. L’individuo oggi non è più inserito in una comunità che lo accoglie e definisce i confini della sua visione del mondo. Si è spezzato quello che Robert Redfield chiama il “cerchio caldo”, l’ambiente rassicurante che forti legami di gruppo offrono all’individuo, proteggendolo dall’ “esterno” e offrendogli anche gli schemi interpretativi di alleanze e conflitti fra simili. Siamo passati da un’epoca di capitalismo “pesante” nel quale trionfava il modello fordista dell’organizzazione del lavoro, con l’operaio concatenato alla macchina, a un’epoca di capitalismo “leggero”, il cui simbolo è il viaggiatore con bagaglio a mano, cellulare e computer. Non solo, oggi viviamo il tempo dell’individuo delocalizzato, sempre più mobile e abitante di mille luoghi. In questo contesto, dove passa la forza dell’individuo democratico? Privato dei vincoli comunitari, dove percepisce i contorni della sua identità? Perché questo accada, egli non può che fondarsi su un’autobiografia personale che egli stesso sia in grado di riconoscere. L’individuo, in altre parole, deve avere la capacità di leggere la traccia che ha lasciato nel suo percorso di umano e la possibilità di interpretare il cammino che ha fatto, solo e in compagnia dei suoi simili. L’autobiografia deve diventare un vero diritto. Il dinamismo dei legislatori nel mondo ha amplificato, nel corso dei secoli, il corpo del diritto e dei diritti a partire da quelli dell’uomo prima, della donna poi (prima “sciolta” nel concetto di uomo, poi lentamente dentro la sua dignità al femminile), fino a comprendere il diritto della “natura”, del verde, degli animali ecc. Per questo motivo, mi sembra che anche l’ “interiorità” umana possa essere considerata un vero e proprio diritto. Questo significa in primo luogo il suo rispetto. Il diritto all’autobiografia non significa indugiare in una operazione narcisistica di concentrazione solo su se stessi. Il narrarsi, infatti, è in primo luogo, scoprire chi si è, andare al fondo della nostra “ghianda”, come dice James Hillman, quel punto di forza interiore dal quale lasciar scaturire la nostra autenticità di vita. E in secondo luogo, narrarsi è scoprire che il nostro “io” è formato da tantissime relazioni, che non esiste l’ “io” senza il noi, che la nostra identità è contrattata costantemente nel rapporto con gli altri con i quali condividiamo la scena di vita. In questo duplice gioco che il narrarsi impone, di entrata in se stessi e di sguardo incrociato negli altri, l’autobiografia permette la creazione, potremmo dire, di una fiaba di se stessi che anche se non del tutto vera, restituisce senso e unitarietà alle nostre azioni, altrimenti slegate. Sempre ricordando Hillman, le storie curano, l’autobiografia è strumento di terapeutica sociale. Parlare di “diritto all’autobiografia” lancia poi una serie di provocazioni su un altro piano e la prima è una lettura diversa della Storia con la esse maiuscola, della Storia collettiva che non può più essere scritta e raccontata in modo piattamente oggettivo, con un’unica tonalità che rappresenti solo un gruppo sociale o un’unica dimensione della società (quella istituzionale, quella dei movimenti, quella dei soggetti particolari come donne e giovani ecc.). L’autobiografia introduce negli studi storici due aspetti importanti: la dimensione della complessità umana, con i suoi andirivieni, i suoi conflitti, le sue strategie, le sue incoerenze e i suoi valori da un lato, e l’osservazione delle dinamiche del potere viste e colte nel loro farsi quotidiano e in spazi ridotti rispetto alle grandi collettività. Ma proprio queste piccole pieghe della storia individuale, spesso fanno capire meglio i meccanismi di come un individuo riesce a sopraffarne un altro, a come la violenza prende diversi aspetti (da quella psicologica a quella fisica), e soprattutto aprono varchi interessanti per la storia delle mentalità. Nel ragionamento che una persona fa per sopravvivere o gestire la sua quotidianità, infatti, si trovano moventi, valori, miti, pregiudizi e simboli importanti per la ricostruzione della storia culturale di un paese, di un gruppo sociale o di un’area geografica. Inoltre, come l’individuo, ogni gruppo sociale ha sviluppato una memoria propria, come ben ha spiegato Maurice Halbwachs, con una cronologia propria che valorizza spesso eventi dimenticati dalla storia “ufficiale”, quella scritta sui libri di testo. Basti pensare alla storia delle minoranze linguistiche e religiose in Europa, oppure alla storia indigena del continente americano, oppure ancora alla cultura nera africana e così via. Ogni gruppo sociale, poi, sviluppa tradizioni particolari per potersi conservare. In questo contesto le autobiografie sono fonti preziose di testimonianza. Infatti, la conservazione di minoranze o gruppi sociali sconfitti dalla Storia non hanno che la loro memoria per poter ricordare. Il loro diritto a esistere è negato dalla parola scritta che conserva altre storie e altre memorie. Ragion per cui le autobiografie contengono un’altra Storia che deve ritrovare la strada del diritto a essere raccontata. Ma questo non può accadere se la persona che ne è portatrice non dà il valore che le spetta. Per questo mi sembra importante sostenere il diritto all’autobiografia: per far ripartire una “nuova” e una “diversa” Storia “grande”, dalle storie “piccole”. Certo, la storia “grande” non è il semplice riflesso di quella “piccola”, ma quella “piccola” è fonte preziosa per quella grande, come dimostra Marc Bloch. Soltanto riconoscendo, dunque, la dimensione soggettiva della storia possiamo anche di nuovo imparare a leggere le sue fonti documentarie nei loro respiri più profondi e nei segnali che possono lasciare intendere rivolti a relazioni di potere ancora da indagare, utili a ricostruire continuità e mutamento dei processi storici, non colti in una semplice linea direzionale, ma nei loro arresti, nel loro annodarsi e non risolversi, nel loro alternarsi nel corso dei secoli. Passiamo ora alla seconda Consapevolezza che concorre a formare la “Cittadinanza Interiore”: la democrazia è un ragionamento. Perché questa affermazione per definire una Consapevolezza? La democrazia non è solo un sistema di governabilità di un paese, né un insieme di leggi che ordinano la convivenza distribuendo funzioni e poteri. La democrazia non è neppure un semplice sentimento di bontà gli uni verso gli altri. La democrazia reclama razionalità per diventare un sentido che fonda un vero diritto praticato dalla persona e dalla società intera. Apparentemente è un altro ossimoro, ma non è così. Non di fa democrazia in un paese se manca il contributo individuale alla sua costruzione ogni giorno, nella quotidianità vissuta, dal supermercato alle poste, dalle scuole agli stadi ecc. Nel corso di questo seminario – intense giornate di dibattito e scambio di pensiero profondo, un grande momento di formazione per il quale ringrazio sentitamente la Fafisch e il prof. Horta, ho avuto la sensazione di un’inquietudine di base, difficile a dirsi, come se il pronunciarla lasciasse anche trapelare un poco di timore. Il nodo mi è parso questo: nel periodo dell’intensa vitalità del cosiddetto “campo democratico e popolare”, come affermava il prof. Roberto Veras de Oliveira ieri, l’individuo si poteva sentir rappresentato a più livelli e in tanti organismi, da quelli più piccoli a quelli più grandi: nei movimenti sociali, nel sindacato, e finanche in famiglia, senza vivere particolari contraddizioni. In altre parole, l’ente che raggruppava gli individui era anche in grado di farli sentire importanti, di recepire profondamente e sinceramente le loro istanze e di restituire loro un immagine di ruolo positivo che l’individuo poteva agire nella sua quotidianità. Questo era un modo per darsi valore e rispetto. Questo legame fra individuo ed ente, fra individuo e organizzazione, si è spezzato per diversi motivi. L’era della globalizzazione, con internet, il lavoro computerizzato e mobile, e la stessa affermazione dei diritti sempre più individuali hanno isolato il soggetto, soprattutto nello spazio pubblico. A questo si aggiunge - anche come suo riflesso – la secolarizzazione della militanza e la crisi di istanze come i partiti politici. Tutte le forme di rappresentazione collettiva hanno subito una grande trasformazione lasciando l’individuo sempre più solo con i pregi e i difetti di tale situazione. Pregi, perché l’azione individuale tende a non essere piú sopraffatta da norme coercitive almeno in forma esplicita, difetti perché l’individuo, proprio perché sprovveduto ricade in modalità di condotta eterodiretta che espropriano la sua coscienza (dai mass media alle nuove forme di religiosità fino alle ideologie di morte). Nello spazio pubblico, dicevo, l’individuo è solo e può contare solo sulla propria capacità di difendersi con la sapienza del diritto. Lui ha lottato nella storia per essere riconosciuto come fonte di diritto. Questo percorso lo ha rafforzato nel potere individuale, ma reso solo dal punto di vista affettivo. Da un altro punto di vista, l’individuo “solo” è un obiettivo del capitalismo perché “uno” diviso dai “molti” è maggiormente governabile e manipolabile. Così, l’uomo e la donna “soli” paiono il risultato di due visioni del mondo contrapposte (altro ossimoro!) che però arrivano, senza volerlo, né teorizzarlo, a un risultato uguale: la solitudine dell’uomo moderno. Come far barriera a questo? Come godere dei vantaggi della solitudine moderna, evitandone l’isolamento? La mia opinione è che si rende necessaria la “Cittadinanza Interiore”: sapere di essere soggetto di diritto. Per arrivare a questa percezione è necessaria una organizzazione democratica precisa e la democrazia stessa deve essere considerata un processo educativo permanente. Se la democrazia passa attraverso un’azione educativa, in ogni società è la scuola a diventare centrale. Uno stato democratico che sottovaluti l’istituzione scolastica nega le radici che lo alimentano. La scuola, nella rete culturale che diffonde e crea attitudine democratica, è l’agenzia centrale, se non altro perché vi passano generazioni di ragazzi e ragazze. Essendo uno spazio obbligatorio è entro i suoi confini che si plasma, almeno in parte, la personalità dei futuri cittadini. La democrazia, tuttavia, comincia dentro di noi e nelle nostre relazioni più prossime:sul lavoro, in famiglia, nella coppia, con gli amici e con i nostri figli. Luce Irigaray sostiene che la democrazia comincia dal numero due e anche altri sociologi e filosofi come Fatema Mernissi, Amartya Sen, Vandana Shiva, Boaventura de Sousa Santos invitano a considerare la democrazia non solo un sistema di rappresentanza tipico della tradizione liberale occidentale ed europea, ma un sistema di pratiche democratiche che ogni cultura possiede anche se a volte non le definisce con quel nome. In particolare, Boaventura de Sousa Santos invita a decifrare tutte le forme di “biodemocrazia” nel mondo, per valorizzarle proprio come le specie rare della natura. Infine, per concludere, mi pare di poter dire che il futuro sociale e culturale dell’individuo che pratica una cittadinanza attiva passa per la scoperta e la valorizzazione della “Cittadinanza Interiore” e che questo tipo di riconoscimento vada richiesto alla politica e alla storia in ogni paese di ogni continente, nelle forme culturali che gli sono propri. Breve Bibliografia di riferimento* Arendt Hanna, Le origini del totalitarismo, Milano, Edizioni di Comunità, 1967. Arendt Hanna, La vita della mente, Bologna, Il Mulino, 1987. Arendt Hanna, Che cos’è la politica, Milano, Edizioni di Comunità, 1995. Arendt Hanna, La banalità del male, Milano, Feltrinelli, 2001. Barcellona Pietro, Il ritorno dei legami sociali, Milano, Bollati Boringhieri,1990. Barcellona Pietro, Politica e passioni. 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