Criteri Per La Costruzione Di Mappe Di Pericolosità Sismica Di

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Criteri Per La Costruzione Di Mappe Di Pericolosità Sismica Di
Johann Facciorusso
DICeA. Università degli Studi di Firenze. Via di Santa Marta, n.3 50139 Firenze.
ANIDIS2009BOLOGNA
Criteri Per La Costruzione Di Mappe Di Pericolosità Sismica Di
Liquefazione Per Le Grandi Aree
Keywords: liquefazione, pericolosità, zonazione, GIS
ABSTRACT
Negli ultimi anni, in Italia, autorità governative, sia locali che nazionali, hanno mostrato un interesse e una
sensibilità crescente verso gli effetti indotti dalla liquefazione sismica sull’ambiente costruito ed hanno
conseguentemente promosso una raccolta sistematica di dati geologici, sismici e geotecnici su vasta scala
finalizzata anche alla definizione di mappe di pericolosità nei confronti della liquefazione da utilizzare nella
pianificazione territoriale e nelle operazioni di mitigazione del rischio sismico. In particolare, per la stima del
potenziale di liquefazione nelle grandi aree, sono in genere adottati metodi semplificati che operano sulla base di
criteri geologici di suscettibilità alla liquefazione e che in genere prescindono dall’azione sismica (analisi di primo
livello). Un’analisi di maggior dettaglio, basata sulla stima del potenziale di liquefazione ottenuto come rapporto
tra resistenza alla liquefazione e domanda sismica, può essere eseguita anche su vasta scala, applicando ad esempio
metodi di secondo livello basati sui risultati di prove in sito e sfruttando le potenzialità dei sistemi GIS per la
gestione di grandi banche-dati e l’elaborazione dei dati in esse contenuti. I risultati di tali analisi possono poi essere
restituiti sotto forma di mappe che consentano una zonazione il più possibile affidabile dell’area investigata e che
possano essere utilizzate come strumento per il governo del territorio e per la progettazione antisisimica. Nel
presente lavoro, con riferimento ad una specifica applicazione relativa ad un ampio database costituito da più di
1300 prove CPT distribuite su una vasta area della costa Adriatica Emiliano-Romagnola, vengono forniti i risultati
della stima del potenziale di liquefazione, sia in forma deterministica che probabilistica, ed illustrati alcuni criteri
per la costruzione di mappe di pericolosità di liquefazione. In particolare viene confrontato un criterio di zonazione
basato sulla interpolazione deterministica dei valori calcolati del potenziale di liquefazione con un criterio basato
sulla delimitazione di aree litologicamente e sismicamente omogenee, a cui sono attribuiti, sulla base della
distribuzione statistica dei dati, valori caratteristici del potenziale di liquefazione o della probabilità di liquefazione.
1
CONSIDERAZIONI GENERALI
Negli ultimi anni, anche in seguito alle più
recenti disposizioni normative introdotte per le
costruzioni in zona sismica sia a livello nazionale
(D.M. 14.01.2008) che europeo (EN-1998-5
2002), si è sviluppato in Italia un interesse
crescente verso gli effetti indotti dalla
liquefazione sismica sull’ambiente costruito.
Conseguentemente si sono moltiplicati gli studi e
le ricerche finalizzate alla zonazione del territorio
nei confronti della pericolosità di liquefazione,
specie su vasta scala, a livello di comune o di
provincia o anche su scale più grandi. Alcune di
queste ricerche hanno interessato la piana di
Gioia Tauro (Facciorusso e Vannucchi 2003),
l’area urbana di Catania (Crespellani et al. 2000),
il centro di Nocera Scalo (Crespellani e Madiai,
2002) e la costa adriatica romagnola (Crespellani
et al. 2003).
2
ANALISI DELLA PERICOLOSITÀ DI
LIQUEFAZIONE A GRANDE SCALA
In generale, le analisi di microzonazione
sismica del territorio, quando investono ampie
superfici, richiedono metodi semplificati di
analisi, spesso di natura empirica, che si
adeguano alle dimensioni della scala (1:50.000 o
superiori) e all’ampiezza dell’area considerata
(spesso delimitata da confini comunali,
provinciali o addirittura regionali). Nel caso
specifico, i metodi tradizionalmente impiegati per
stimare, a questo livello di dettaglio, il potenziale
di liquefazione, ovvero il rischio di attivazione
del fenomeno della liquefazione una volta che si
sia verificato l’evento sismico atteso, mostrano
evidentemente alcuni limiti legati alla natura
empirica del metodo ed al fatto di prescindere in
genere dall’azione sismica (analisi di primo
livello, TC4 1999), ma risultano comunque di
grande utilità per individuare le zone di interesse
su cui approfondire l’analisi ad una scala di
maggior dettaglio.
La tendenza sempre più diffusa a costituire
banche-dati geotecnici regionali, il moltiplicarsi e
l’affinamento di studi sulla pericolosità sismica e
la disponibilità di strumenti informatici adeguati
per l’interpretazione e l’elaborazione di un
elevato numero di dati, consentono di applicare,
anche su larga scala, analisi di secondo livello,
ovvero basate su metodi che permettono di
stimare, ad esempio a partire dai risultati di prove
in sito, la resistenza alla liquefazione dei singoli
strati di un deposito e di confrontarla con la
domanda sismica, desunta da analisi di
pericolosità sismica di base. Tali metodi, ben più
complessi di quelli semi-empirici (sia in termini
di parametri richiesti che di impegno di calcolo)
consentono di quantificare il potenziale di
liquefazione di un deposito sia in direzione
orizzontale che al variare della profondità.
3
I METODI DI SECONDO LIVELLO
BASATI SULLE PROVE IN SITO:
APPROCCIO
DETERMINISTICO
E
PROBABILISTICO
I metodi di secondo livello, basati sulle prove
in sito, consistono nell’applicazione di
correlazioni empiriche tra osservazioni di casi
reali di liquefazione (e non liquefazione)
effettuate in seguito ai terremoti più forti e recenti
(di cui si hanno sistematiche e dettagliate
osservazioni) e i corrispondenti parametri del
terreno misurati con le prove geotecniche in sito
correnti (quali il numero di colpi NSPT, la
resistenza alla punta qc, l’attrito laterale fs o la
velocità delle onde S, Vs), che sono in qualche
misura rappresentativi della resistenza del terreno
alla liquefazione sismica. Infatti, esprimendo
come rapporto di tensione ciclica (CSR) la
domanda sismica corrispondente agli eventi
sismici considerati e discriminando i casi di
liquefazione osservati da quelli non osservati, è
possibile costruire una curva di resistenza alla
liquefazione (o curva di stato limite) che esprime
la resistenza del terreno, in termini di rapporto di
tensione ciclica (CRR) in funzione del parametro
misurato (con le opportune correzioni e
normalizzazioni). Sebbene le correlazioni
utilizzate siano di natura empirica e perciò legate
alla territorialità dei dati utilizzati e alla loro
rappresentatività statistica, negli ultimi 15 anni
esse sono state ulteriormente affinate, grazie ad
una più qualificata ed estesa base-dati
disponibile, e all’utilizzo di criteri statistici più
raffinati, che hanno consentito di sviluppare tali
correlazioni anche in forma probabilistica. Vale la
pena di ricordare, però, che i metodi in questione
introducono una semplificazione nelle condizioni
al contorno (analisi monodimensionale, piano di
campagna orizzontale e assenza di sovraccarichi
o edifici nelle aree circostanti), che ne limita l’uso
a condizioni di “campo libero”, e che comunque
può essere ritenuta accettabile considerata la scala
di indagine e il fatto che le stime ottenute della
pericolosità di liquefazione sono in genere
cautelative.
Secondo l’approccio più tradizionale, e
scientificamente
consolidato
(approccio
deterministico), viene determinata in primo luogo
la curva di resistenza alla liquefazione
utilizzando, per separare i casi di liquefazione
osservati da quelli di non liquefazione, un criterio
“visuale” (nei primi metodi) o procedendo (nei
metodi più recenti) ad una regressione statistica
dei dati, senza alcun trattamento probabilistico
delle variabili che concorrono a determinare la
resistenza alla liquefazione CRR. In secondo
luogo, il verificarsi o meno della liquefazione
viene predetto calcolando il fattore di sicurezza
FSL, inteso come rapporto tra la resistenza alla
liquefazione del terreno (CRR) e la domanda
sismica corrispondente al terremoto atteso di
progetto, anch’essa espressa come rapporto di
tensione ciclica (CSR), e valutando se esso sia
minore di uno (liquefazione) o maggiore di uno
(non liquefazione). In tal caso il potenziale di
liquefazione è espresso come 1-FSL, quando FSL
< 1, ed è nullo per FSL >1.
Nell’approccio probabilistico si considera
simultaneamente l’influenza di più variabili
(ciascuna trattata come grandezza aleatoria) in
grado di contribuire alla liquefazione e, tramite
modelli probabilistici più o meno complessi,
vengono ottenute infinite curve di resistenza alla
liquefazione, ciascuna corrispondente a una
differente probabilità di inizio liquefazione. In tal
caso il potenziale di liquefazione di uno strato di
terreno, sempre in relazione a un evento sismico
prefissato, può essere descritto in termini di
probabilità di inizio di liquefazione, PL. A fronte
della maggiore semplicità e facilità di
applicazione delle formule proposte dai metodi
deterministici e dell’ampio consenso raccolto
nell’ambito
della
comunità
scientifica,
l’approccio probabilistico da un lato risulta
sicuramente più adeguato nel trattare un problema
intrinsecamente incerto come quello della
liquefazione,
in
quanto
considera
simultaneamente il contributo di più variabili in
grado di concorrere alla liquefazione, trattandole,
coerentemente con la loro natura, come grandezze
aleatorie, dall’altro richiede per la previsione del
fenomeno modelli probabilistici più o meno
complessi, nei quali occorre quantificare le
incertezze legate alla misura dei parametri di
ingresso e, in alcuni casi, le incertezze inerenti il
modello utilizzato. Inoltre i metodi probabilistici,
fornendo il risultato in termini di probabilità di
inizio di liquefazione PL, si prestano a una
migliore e più utile applicazione ingegneristica,
in quanto consentono di esprimere il potenziale di
liquefazione in un dato sito (ad una data
profondità) con una quantità probabilistica, legata
a un livello di incertezza e di assumere decisioni
basate su un prefissato livello di salvaguardia.
4
LE MAPPE DI PERICOLOSITÀ DI
LIQUEFAZIONE:
INTERPOLAZIONE
DETERMINISTICA E CLASSIFICAZIONE
LITOLOGICO-SISMICA BASATA SU
CRITERI STATISTICI
Per una zonazione sismica del territorio,
finalizzata alla valutazione della pericolosità di
liquefazione, occorre fornire, per ciascuna delle
verticali investigate, una misura integrale del
potenziale di liquefazione stimato con i metodi
sopra citati. Tale misura deve estendersi fino ad
una profondità entro la quale si ritengano
significativi gli effetti della liquefazione (zcr = 20
m), ed allo stesso tempo attribuire un peso
progressivamente crescente agli strati più
superficiali. L’espressione di tale grandezza
(indice del potenziale di liquefazione, LPI) è stata
fornita da Iwasaki et al. (1982) in termini di
fattore di sicurezza, FSL, e, sulla base delle
osservazioni delle differenti tipologie di
manifestazioni di liquefazione e della gravità dei
loro effetti, è stato associata a specifiche classe di
pericolosità. La stessa espressione può essere
formalmente applicata (Facciorusso, 2008) anche
in termini di probabilità di liquefazione, PL,
l’indice così ottenuto (indice di probabilità di
liquefazione,
LPbI),
a
differenza
del
corrispondente indice deterministico LPI, non
rappresenta
un
semplice
formalismo
appositamente introdotto per quantificare la
pericolosità di liquefazione, ma rappresenta esso
stesso una probabilità di inizio di liquefazione
mediata e pesata sull’intera verticale esplorata.
Per la restituzione finale dei risultati
dell’analisi, nella forma di mappe di pericolosità
sismica di liquefazione o di probabilità di inizio
di liquefazione, occorre procedere ad una
interpolazione dei valori calcolati puntualmente,
sfruttando anche le potenzialità offerte dai sistemi
GIS.
L’affidabilità
dei
risultati
dell’interpolazione, sia che venga condotta
secondo metodi deterministici che geostatistici,
dipende strettamente dalla densità e dalla
distribuzione areale dei dati e comunque,
trattandosi di semplici processi matematici o
statistici, la delimitazione delle e aree a differente
pericolosità prescinde dalla geologia superficiale
e dalla sismicità locale, specie per le aree coperte
da un numero limitato di prove o dove le prove
sono del tutto assenti. Un’alternativa può essere
fornita da una zonazione preliminare del territorio
sulla base delle sole caratteristiche litologiche
degli strati più superficiali e della pericolosità
sismica locale, seguita da un’analisi statistica dei
valori del potenziale di liquefazione calcolati
all’interno di ciascuna zona con lo scopo di
definire un valore statisticamente rappresentativo
dell’indice del potenziale di liquefazione o una
probabilità di liquefazione.
5
5.1
IL CASO DI STUDIO: LA COSTA
ADRIATICA EMILIANO-ROMAGNOLA
Inquadramento geologico, litologico e
sismologico dell’area di studio
Il caso di studio riguarda la costa romagnola,
che è stata oggetto, negli anni passati, di
numerose ricerche sul rischio di liquefazione
promosse dalla Regione Emilia-Romagna
(Crespellani et al., 2003). Tali ricerche hanno
dimostrato come nell’area esistano le condizioni
sismiche e geotecniche affinché possa verificarsi
il fenomeno della liquefazione sismica, le cui
manifestazioni sono, tra l’altro, documentate
nelle cronache storiche relative ai terremoti che
hanno interessato l’area in passato (Galli e
Meloni, 1993). L’area delimitata per la ricerca ha
un’estensione di circa 1300 km2, comprende tutti
i Comuni della fascia costiera romagnola (da
Milano Marittima a Misano Adriatico) ed è
situata tra la costa adriatica ed il margine
appenninico-padano: nel settore meridionale sono
presenti i primi rilievi appenninici, mentre la
maggior parte del territorio, nella parte centrale e
settentrionale dell’area di studio, è in pianura. La
fascia costiera costituita da depositi marini litorali
e da dune eoliche, fortemente urbanizzata, ha
un’ampiezza piuttosto ridotta (circa 800-1000 m).
Per il calcolo della resistenza a liquefazione
CRR, secondo i metodi precedentemente
descritti, è stato utilizzato un database di prove
CPT che si compone di 1325 prove CPT, di cui
1082 CPT meccaniche (CPTM), 243 tra prove col
piezocono (CPTU), elettriche (CPTE), e col cono
sismico (SCPT). Le prove, ubicate nella mappa di
Figura 1, coprono in modo abbastanza uniforme
l’intera area di studio (con una densità media di
circa 1.1 CPT/km2), ad eccezione di una zona ben
delineata
nella
parte
settentrionale
(corrispondente alle Valli di Comacchio) per la
quale non risultano verticali indagate, e con una
maggiore concentrazione (densità media di circa
15 CPT/km2), in corrispondenza di una ristretta
fascia costiera (a meno di un km dalla linea di
costa). Tutte le prove hanno una profondità
maggiore di 15 m e tra queste, quelle che
raggiungono la profondità di 30 m sono 330
(25.4% del totale), mentre quelle di cui si dispone
della misura della posizione della falda sono 797
(58.3% del totale), per le altre è stata assunta una
profondità ricavata mediante interpolazione sulla
base delle misure effettuate nei sondaggi vicini
(comunque sempre variabile in media tra 1.5 e 2
m dal piano campagna).
Da un punto di vista litologico (Figura 1), si
distinguono zone con differenti litologie
affioranti procedendo dalla costa verso l’interno:
una ristretta fascia costiera che, nella parte
centrale
e
meridionale,
è
costituita
prevalentemente da sabbie medie, fini e finissime,
ben selezionate, di ambiente litorale (spiaggia e
dune eoliche), per uno spessore massimo
variabile da 8 a 12 metri, e nella parte
settentrionale da argille sabbiose di piana
costiera; segue poi una fascia intermedia
immediatamente più interna costituita, nella parte
settentrionale (che si spinge molto verso
l’interno), da limi argilloso-torbosi di piana
deltizia e da limi argilloso-sabbiosi di piana
alluvionale, nella parte meridionale. Si tratta di
depositi fluviali intravallivi e di piana alluvionale,
risalenti al Pleistocene Medio-Olocene, con
intercalazioni di sabbie litorali, il cui spessore
aumenta, procedendo progressivamente dal
margine appenninico verso il mare, fino a 20-25
metri, con spessori più esigui (che non superano i
10 m) nella parte centrale e settentrionale. Infine
vi è una fascia interna, di scarso interesse ai fini
della liquefazione, costituita da affioramenti
rocciosi nella parte meridionale, e da argille
limose e sabbie limoso-argillose di piana
alluvionale nella parte centrale. I terreni più
antichi che si trovano al di sotto dei depositi più
superficiali
sono
invece
costituiti
da
un’alternanza ciclica di argille organiche, limi,
sabbie e ghiaie di ambiente alluvionale e,
limitatamente
al
settore
costiero,
con
intercalazioni di sabbie litorali.
Per il calcolo della domanda sismica, CSR,
occorre prima definire l’evento sismico atteso,
con un assegnato periodo di ritorno,TR, attraverso
l’accelerazione massima orizzontale al suolo,
amax, e la magnitudo momento, Mw.
L’accelerazione amax può essere calcolata
come:
amax = ag x SS x S T
(1)
dove ag è l’accelerazione orizzontale massima
attesa in condizioni di campo libero su sito di
riferimento rigido con superficie topografica
orizzontale, SS il fattore di amplificazione
stratigrafica del deposito e ST il fattore di
amplificazione topografica. Per la stima di ag e
Mw occorre disporre dei risultati di un’analisi di
pericolosità sismica locale per l’area oggetto di
indagine, mentre per il calcolo dei fattori SS e ST
occorre far riferimento alle capacità amplificative
dei depositi interessati, sia dovute alla stratigrafia
sia dovute alla morfologia superficiale.
Figura 1. Carta litologica dell’area di studio e ubicazione
delle prove CPT.
L’analisi della pericolosità sismica di base
dell’area di studio è stata effettuata con
riferimento alla normativa nazionale vigente in
materia antisismica (D.M. 14.01.2008), che ha
fornito, per un periodo di ritorno TR = 475 anni
(corrispondente ad una verifica allo Stato Limite
di Salvaguardia della Vita su strutture ordinarie),
i valori di ag per ciascuna verticale investigata.
Tali valori sono risultati in genere abbastanza
uniformi, compresi tra un minimo di 0.07 g e un
massimo di 0.19 g, con i valori più bassi ottenuti
per la parte settentrionale dell’area di studio e i
valori più alti nella parte centro-meridionale.
Il fattore di amplificazione topografica, ST, è
stato assunto pari a uno, essendo prevalenti,
nell’area investigata, condizioni di pianura. Il
fattore di amplificazione stratigrafica, SS
specifico del sito è stato stimato, secondo le
indicazioni fornite dalla normativa, in funzione
dei valori desunti dall’analisi di pericolosità
sismica di base e della categoria del terreno,
definita in base alle caratteristiche stratigrafiche
del deposito e al valore della velocità media
equivalente delle onde S nei primi 30 m di
deposito, VS,30. Quest’ultima è stata stimata
adottando specifiche correlazioni regionali tra la
velocità delle onde S e gli indici della prova CPT
(Giretti et al. 2007). Per le verticali per le quali
non è stato possibile calcolare o stimare VS,30
(cioè che non raggiungono i 30 m di profondità),
è stato assunto cautelativamente come profilo di
terreno, quello peggiore (tipo D). I valori così
ottenuti del fattore di amplificazione stratigrafica
SS oscillano tra 1.7 e 1.8, con prevalenza dei
valori più alti, che risultano piuttosto diffusi su
tutto il territorio, ad eccezione della parte centrale
(sia interna che costiera), ove sono di poco più
bassi e con ampie zone non coperte da prove e
che quindi necessitano di ulteriori indagini.
I valori così calcolati (Eq.1) dell’accelerazione
massima orizzontale attesa in superficie, amax,
sono risultati compresi fra 0.127 g e 0.335g, con i
valori più elevati nella parte meridionale dell’area
investigata e progressivamente decrescenti
procedendo verso nord.
Per quanto riguarda la stima della magnitudo
momento attesa, Mw, col prefissato periodo di
ritorno di 475 anni, essa è stata definita come
valore massimo tra quelli ottenuti secondo due
differenti procedure: una basata sulla ricerca dell’
evento di massima intensità verificatosi, in un
intervallo di anni pari al periodo di ritorno,
all’interno della zona sismogenetica nella quale il
sito ricade ed una basata sulla deaggregazione dei
dati di pericolosità sismica, precedentemente
utilizzati. In particolare, è risultato un valore
atteso della magnitudo momento di 5.88 per la
parte centrale dell’area studiata (che ricade nella
zona sismogenetica ZS9) e 5.94 per la parte
meridionale (che rientra nella zona ZS12) e
compreso tra 5.0 e 5.3 nella parte settentrionale
(non coperta da alcuna zona sismogenetica).
5.2
Calcolo del potenziale di liquefazione
Per il calcolo del potenziale di liquefazione, in
termini deterministici, ovvero in funzione del
fattore di sicurezza FSL, tra i metodi basati sulle
prove CPT, è stato scelto, nell’ambito del
presente studio, quello senza dubbio di più ampia
diffusione, specie nella pratica ingegneristica, e di
più lunga sperimentazione, ovvero il metodo
proposto da Robertson e Wride, che, nel caso
specifico, è stato applicato nella sua forma più
aggiornata (Youd et al., 2001), apportando, sulla
base delle più recenti ricerche condotte
sull’argomento, alcune modifiche sia nella
formulazione del fattore di sicurezza FSL nei
confronti della liquefazione, sia nell’utilizzo di
quest’ultimo per il calcolo del potenziale di
liquefazione.
Tradizionalmente, nell’applicare il metodo di
Robertson e Wride (così come altri metodi di
natura deterministica), il valore di FSL
discriminante tra liquefazione e non liquefazione,
che dovrebbe tenere in conto tutte le incertezze
introdotte sia nei parametri utilizzati sia nel
modello adottato, è assunto pari a uno.
Nell’ambito della presente ricerca, per le ragioni
che saranno di seguito esposte, si è assunto come
valore discriminate 1.4. La funzione F(z), che
esprime il potenziale di liquefazione per ciascun
strato e che compare nell’espressione dell’indice
del potenziale di liquefazione introdotta da
Iwasaki (1982), è stata così modificata, secondo
la forma suggerita da Sonmez (2003):
⎧0 per FSL > 1.4
⎪
F (z ) = ⎨2 ⋅ 10 6 e −18.427⋅FSL per 0.95 < FSL ≤ 1.4
⎪1 − FSL per FSL ≤ 0.95
⎩
(2)
Anche la suddivisione delle classi di
pericolosità tradizionalmente adottata, è stata
modificata, come mostrato in Tabella 1.
Come già detto, il potenziale di liquefazione di
ciascun strato investigato, espresso dalla funzione
F(z), e quindi l’indice cumulativo corrispondente,
può anche essere determinato in forma
probabilistica, ovvero come probabilità di inizio
di liquefazione, PL = F(z), ricorrendo ad uno dei
numerosi metodi formulati in letteratura negli
ultimi anni.
Tabella 1. Classi di pericolosità di liquefazione (Sonmez,
2003).
Indice del potenziale di
liquefazione, LPI
LPI = 0
0 < LPI≤ 2
2 < LPI≤ 5
5 < LPI≤ 15
LPI > 15
Pericolosità di liquefazione
Nulla
Bassa
Moderata
Alta
Molto alta
Nell’ambito di questo studio, considerate le
differenze che tali metodi probabilistici possono
presentare tra loro ad esempio in termini di
normalizzazione delle grandezze misurate in sito,
o nel calcolo della domanda sismica e della
resistenza alla liquefazione (dovute al differente
modello probabilistico adottato per descrivere le
grandezze contenute nel data-base), e tutte le
incertezze legate alla loro sperimentazione ancora
poco consolidata, si è preferito applicare un
adattamento probabilistico del metodo di
Robertson e Wride, che offre il vantaggio di
essere formulato e tarato sulla stessa base di dati e
in funzione delle stesse grandezze. La
formulazione adottata rientra nei metodi basati
sull’ “approccio bayesiano” (“First Order
Reliability Method”), ed è stata messa a punto da
Juang et al. (2002). Gli Autori, per facilitare
l’applicazione del metodo, hanno anche
ricostruito una legge di corrispondenza tra il
valore di probabilità di inizio liquefazione, PL,
ottenuto con la procedura appena descritta e il
valore del fattore di sicurezza FSL, ottenuto in
modo deterministico, sempre utilizzando il
metodo di Robertson e Wride, (“Bayesian
mapping function”):
PL =
1
⎛ FSL ⎞
1+ ⎜
⎟
⎝ A ⎠
B
(3)
con A = 1.0 e B=3.3.
Dall’applicazione di tale procedura risulta che
il metodo di Robertson e Wride (quanto meno se
riferito alla banca-dati su cui è stato definito e
secondo l’analisi di affidabilità svolta) non è
affatto conservativo; per tale motivo, nel definire
il valore discriminante per il fattore di sicurezza
FSL tra casi di liquefazione e non liquefazione, è
opportuno assumere un valore maggiore di 1 che
tenga in conto tutte le incertezze introdotte sia nei
parametri utilizzati che nel modello adottato, in
modo da assumere delle scelte più conservative
basate sul rischio (“risk based design”) che
tengano conto anche delle strutture da
salvaguardare. A tale proposito è stata introdotta
una carta di classificazione della probabilità di
liquefazione (Chen e Juang, 2000) riportata in
Tabella 2, in base alla quale, ad esempio, il
Building Seismic Safety Council (1994)
raccomanda la classe 1 per le strutture strategiche
e la classe 2 per quelle ordinarie. Ciò significa
che il livello di salvaguardia da garantire
corrisponde, ad esempio, per le strutture ordinarie
(ovvero quelle più diffuse nell’area di studio) una
probabilità di inizio di liquefazione compresa tra
il 15% e il 35% (liquefazione improbabile). Ad
esempio, con riferimento al valore medio
dell’intervallo (25%), il valore del fattore di
sicurezza da assumere come discriminante tra
liquefazione e non, se si applica il metodo di
Robertson e Wride, risulta secondo l’equazione
(3) di 1.4, ovvero il valore assunto nell’equazione
(2).
Tabella 2. Classi di probabilità di liquefazione (Chen e
Juang, 2000).
5
4
Probabilità di
liquefazione, PL
PL ≥ 0.85
0.65 ≤ PL <0.85
3
0.35 ≤ PL <0.65
2
1
0.15 ≤ PL <0.35
PL < 0.15
Classe
6
6.1
Giudizio di pericolosità
Liquefazione quasi certa
Liquefazione molto probabile
Liquefazione e non
liquefazione ugualmente
probabili
Liquefazione improbabile
Non liquefazione quasi certa
MAPPE DI PERICOLOSITÀ E DI
PROBABILITÀ DI LIQUEFAZIONE
Interpolazione deterministica
Nelle Figure 2 e 3 sono riportate
rispettivamente la mappa di pericolosità di
liquefazione deterministica, in funzione di LPI, e
probabilistica, in termini di LPbI. Le aree a
differente pericolosità sono state classificate
secondo le indicazioni fornite rispettivamente
nelle Tabelle 1 e 2 e delineate attraverso una
procedura matematica di interpolazione basata sul
metodo della distanza inversa pesata, che
attribuisce ai punti vicini un peso pari all’inverso
della distanza (con una potenza arbitraria). Tale
metodo è stato impostato in modo tale che
venissero inclusi nel calcolo solo i punti ricadenti
entro un raggio di influenza prestabilito (che è
stato assunto pari a 3500 m), per evitare che
anche siti poco compatibili da un punto di vista
litologico o sismico potessero concorrere alla
stima del valore interpolato. In questo modo, non
viene restituito alcun risultato dell’interpolazione
per quelle aree caratterizzate da una totale
assenza di prove (evidenziate nelle mappe in
bianco).
affidabilità
ai
valori
così
ottenuti
dall’interpolazione.
In ogni caso, specie se la mappa ottenuta
risulta frammentata e incompleta, essa può essere
integrata con le informazioni derivanti dalla
litologia superficiale, dalle stratigrafie disponibili
e dall’analisi di suscettibilità di primo livello, per
ottenere una distribuzione più continua ed
omogenea del potenziale di liquefazione e per
disegnare in maniera più razionale le linee che
separano le aree a differente pericolosità.
6.2
Classificazione litologica e sismica dei
valori del potenziale basata su criteri
statistici
Allo scopo di superare parte dei limiti appena
esposti per le mappe ottenute mediante
interpolazione dei valori del potenziale, viene
suggerito in questa sede una procedura alternativa
di classificazione delle aree a differente
pericolosità. In primo luogo sono state ricercate le
aree che si potessero ritenere omogenee, nei
confronti della liquefazione, da un punto di vista
litologico (fattore predisponente) e sismico
(fattore scatenante).
Figura 2. Mappa di pericolosità di liquefazione ottenuta
mediante interpolazione dei valori calcolati di LPI.
Le stesse mappe, specie se sovrapposte
all’ubicazione delle prove utilizzate per
costruirle, evidenziano come esista una vasta
area, specie nella fascia interna centrale, coperta
da poche prove ed in cui solo pochi valori
concorrono alla definizione del valore interpolato
del potenziale di liquefazione, rendendo quindi
poco affidabile la conseguente classificazione.
Un’alternativa può essere escludere anche
queste zone dalla classificazione (riducendo il
raggio di influenza nel criterio di interpolazione
adottato), in modo da stabilire una sorta di soglia
minima di densità delle prove disponibili. Le
mappe così ottenute, sebbene poco omogenee e
incomplete, si possono ritenere più affidabili, in
quanto non si limitano a disegnare le aree a
differente pericolosità, ma evidenziano anche le
aree non sufficientemente coperte dalle prove che
necessitano quindi, di ulteriori approfondimenti.
Quando le prove disponibili non sono
omogeneamente distribuite, si può anche ricorrere
alla geostatistica per migliorare da un lato il
criterio di interpolazione adottato (definito sulla
base di modelli probabilistici spaziali che tengono
conto della distribuzione eterogenea e
asimmetrica dei dati nell’area di studio) e
dall’altro per associare un parametro di
LPbI < 15%
15% < LPbI< 35%
35% < LPbI< 65%
Figura 3. Mappa di probabilità di liquefazione ottenuta
mediante interpolazione dei valori calcolati di LPbI.
In questa zonazione preliminare, anche
assumendo che il terreno non mostri sensibili
variazioni in direzione verticale (limitatamente
alla profondità di interesse ai fini della
liquefazione, ovvero i primi 15-20m) e orizzontale (all’interno della stessa unità litologica),
occorre comunque ricercare un compromesso tra
due opposte esigenze. Da un lato il rispetto di
tutte le differenze basate non solo sulla natura
litologica degli strati affioranti, ma anche sulla
origine geologica e sulla storia deposizionale,
dall’altro la necessità di produrre una mappa il
più possibile omogenea, non troppo frammentata,
di facile utilizzo e consultazione (considerati la
scala di indagine e gli utilizzi previsti nel campo
ad esempio della pianificazione urbanistica).
Nel presente studio, la carta litologica è stata
quindi semplificata (Figura 4) accorpando per
affinità le litologie riportate in Figura 1
(L1=argille, L2 = ghiaie, L3 = limi e L4 = sabbie)
nel tentativo di verificare a posteriori una
eventuale omogeneità nella risposta al fenomeno
della liquefazione, all’interno di ciascuna zona.
Tali zone, come mostrato in Figura 4, sono state
poi ulteriormente suddivise sulla base del valore
atteso della magnitudo Mw in tre sottozone (1:
4.98<Mw<5.26; 2 : Mw =5.88; 3: Mw =5.94),
verificando che all’interno di ciascuna di esse la
variabilità del PGA atteso in superficie fosse
contenuta (i valori della deviazione standard sono
risultati compresi tra 0.02 e 0.18).
Gli istogrammi delle frequenze dei valori
calcolati
dell’indice
del
potenziale
di
liquefazione, LPI, relativi a ciascuna delle 11
sottozone così individuate, sono riportati in
Figura 5 insieme ad alcuni parametri statistici
significativi. Si osserva come in tutti i casi la
distribuzione sia fortemente asimmetrica,
probabilmente modellabile con una legge di
probabilità di tipo esponenziale, e come, in alcuni
casi, il coefficiente di variazione, specie se
rapportato con la numerosità dei dati, sia piuttosto
elevato (suggerendo una ulteriore suddivisione
della zona litologica, come nel caso della zona
L42). Il valore medio del potenziale sembra
comunque essere più elevato per le sabbie rispetto
a quello determinato per le argille, e all’interno
della stessa litologia, come era lecito attendersi,
lievemente maggiore per le zone a cui compete
una magnitudo attesa superiore.
In Figura 6 è riportato il complemento a uno
della frequenza cumulata sperimentale ricavata
per ciascuna delle 11 zone e che è stato utilizzato
per stimare la probabilità di superamento di una
certa soglia del potenziale di liquefazione. Tale
soglia è stata assunta pari a 5 (Toprak e Holzer,
2006) e in via più cautelativa, uguale a 2, sulla
base della nuova classificazione proposta in
Tabella 1. I valori medi dell’indice del potenziale
di liquefazione, i relativi campi di variazione e le
corrispondenti classi di pericolosità per ciascuna
delle zone individuate, sono riportati in Tabella 3.
Nella stessa tabella sono riportate le probabilità di
liquefazione, intese come probabilità di
superamento delle soglie prescelte. La mappa che
alla fine è stata ottenuta (Figura 4), ha il
vantaggio, rispetto alle mappe ottenute per
interpolazione, di avere un numero limitato di
zone che coprono l’intera area di studio e i cui
confini sono comunque giustificati da
considerazioni litologiche e sismiche. Inoltre tale
mappa, se utilizzata insieme ai dati forniti in
Tabella 3, consente di attribuire a ciascuna delle
zone individuate, una valore medio di LPI, e
quindi una classe di pericolosità di liquefazione,
oppure un range di variabilità (attraverso la
deviazione standard). Se, invece, si preferisce una
rappresentazione probabilistica, allora è possibile
assegnare a ciascuna zona una probabilità di
liquefazione una volta scelta la soglia per LPI che
si considera critica ai fini degli effetti della
liquefazione.
Figura 4. Identificazione delle zone litologicamente e
sismicamente omogenee
Figura 5. Istogrammi delle frequenze dei valori di LPI per ciascuna delle 11 zone (L1=argilla; L2=ghiaia; L3=limo;
L4=sabbia;1 : 4.98<Mw<5.26; 2: Mw=5.88; 3: Mw = 5.94).
Naturalmente l’affidabilità dei parametri
riportati in Tabella 3 ed ottenuti sulla base di
considerazioni puramente statistiche, è fortemente
influenzata dalla numerosità dei dati utilizzati e,
laddove il numero dei dati lo consente, è
preferibile ricalcolare tali parametri dopo avere
adattato una legge di distribuzione probabilistica
(ad esempio esponenziale) agli istogrammi e alle
curve cumulate sperimentali. Anche le zone,
inizialmente
identificate,
possono
essere
ridefinite, specie in quei casi in cui la variabilità
del potenziale calcolato è risultata elevata (ad es.
la zona L42). Tale variabilità, infatti, suggerisce
che sono stati messe insieme zone litologiche,
anche se affini, con una differente risposta alla
liquefazione, oppure è indicativa di una
variabilità delle proprietà geotecniche del terreno
sia in direzione verticale che orizzontale. In
quest’ultimo caso, è opportuno verificare la
fondatezza della suddivisione attraverso una più
attenta analisi delle stratigrafie dei sondaggi
disponibili o ricorrendo a una rappresentazione,
magari statistica, degli indici di classificazione
del terreno desunti dai risultati delle prove CPT
utilizzate.
7
OSSERVAZIONI CONCLUSIVE
Nel presente lavoro, con riferimento ad un
caso di studio relativo ad una vasta area (di circa
1300 km2) della costa Adriatica EmilianoRomagnola, vengono forniti i risultati di una
zonazione della pericolosità sismica di
liquefazione effettuata con metodi di secondo
livello, basati sui risultati di prove CPT. La stima
del potenziale di liquefazione è stata effettuata sia
in forma deterministica che probabilistica e
rappresentata con un indice cumulativo per
ciascuna delle verticali esplorate. Quindi sono
stati illustrati alcuni criteri per la costruzione di
mappe di pericolosità di liquefazione. In
particolare sono stati analizzati i limiti e le
potenzialità dei criteri basati sulla interpolazione
deterministica e confrontati con un criterio basato
sulla delimitazione di aree litologicamente e
sismicamente omogenee, a cui sono attribuiti,
sulla base della distribuzione statistica dei dati in
esse contenuti, valori caratteristici del potenziale
di liquefazione o della probabilità di liquefazione.
È
interessante
osservare
come,
indipendentemente
dal
criterio
di
rappresentazione adottato, le aree più critiche, a
cui competono i valori maggiori dell’indice del
potenziale o della probabilità di liquefazione,
corrispondano al cordone litorale costiero e
limitatamente alla parte centrale e meridionale,
mentre esista una vasta area a pericolosità bassa o
nulla (e con probabilità di liquefazione PL<15%).
Tabella 3. Valori medi di LPI e probabilità di superamento
(espresse in %) delle soglie LPI=2, PL2, e LPI=5, PL5.
Zona
L11
L12
L13
L22
L23
L31
L32
L33
L41
L42
L43
LPI (media ± dev.st.)
0.0±0.6 (bassa)
1.2±1.5 (bassa)
0.7±1.3 (bassa)
0.3±0.5 (bassa)
2.1±2.1 (moderata)
0.1±0.6 (bassa)
1.1±1.9 (bassa/moderata)
1.1±1.6 (bassa/moderata)
0.0±0.0 (nulla)
1.1±1.9 (bassa/moderata)
3.0±3.5 (moderata/alta)
PL2
0
21.2
7.4
0
18.5
1.3
15.2
20.3
0
16.2
49.7
PL5
0
3
1.9
0
5.5
0
2.4
3.1
0
4
19.1
Figura 6. Curva cumulata delle frequenze complementare
per ciascuna delle 11 zone individuate.
In particolare, la carta ottenuta secondo la
procedura di classificazione litologica e sismica
dei valori calcolati del potenziale, consente una
zonazione estesa all’intero territorio in esame con
una distribuzione più uniforme e continua dei
valori del potenziale, che, trattandosi di valori
medi, sono risultati in genere più bassi di quelli
riportati nelle mappe ottenute per interpolazione
(ad esempio scompaiono le zone a elevata
pericolosità, magari determinate dalla presenza di
poche prove).
RINGRAZIAMENTI
Si ringrazia la Regione Emilia-Romagna che ha finanziato
lo svolgimento della ricerca, il Sevizio Geologico, Sismico
e dei Suoli della Regione Emilia-Romagna che ha messo a
disposizione i dati e l’Ing. Catia Nassini che ha collaborato
alla gestione ed elaborazione dei dati.
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