istituzioni di diritto privato i

Transcript

istituzioni di diritto privato i
ISTITUZIONI DI DIRITTO PRIVATO I
(corso A-L, Prof. Carlo Granelli)
SEMINARIO III – 31.3.2011
Atti emulativi
Immissioni
Modi di acquisto della proprietà
MATERIALI
1. atti emulativi (Cass., sez. II, 03/04/1999 n. 3275………………………..…………………...p. 1
2. immissioni (Trib. Palermo, sez. III, 12/11/2008)……………………………………………p. 3
3. invenzione (Cass., sez. I, 11 agosto 2000, n. 10687)………………………………………….p. 9
4. specificazione (Cass., sez. II, 12 dicembre 1991, n. 13399)………………………………..p. 13;
5. accessione invertita (Cass., sez. II, 04-03-2005, n. 4774)…………………………….…….p. 16.
atti emulativi
Cassazione civile, sez. II 03/04/1999 n. 3275
Per aversi atto emulativo vietato ai sensi dell'art. 833 c.c. è necessario che l'atto di esercizio del
diritto sia privo di utilità per chi lo compie e sia posto in essere al solo scopo di nuocere o di recare
molestia ad altri, per cui non è riconducibile a tale categoria di atti l'azione del proprietario che
chieda l'eliminazione di una veduta aperta dal vicino a distanza illegale. (Nella specie si è esclusa
la natura di atti emulativi dell'acquisto di una striscia di terreno antistante l'immobile in cui si
aprono le vedute, in vista dell'aggiudicazione poi mancata del medesimo in sede di asta pubblica,
nonché dell'esercizio dell'azione di rispetto delle distanze legali).
Fatto
Con ricorso in data 7 luglio 1989 al Pretore di Mantova, sede distaccata di Revere, la s.a.s.
Immobiliare Sogno aggiudicataria all'incanto di un fabbricato sito in Poggio Rustico a seguito di
decreto 25-2-1989 del giudice dell'esecuzione presso il tribunale della stessa città, chiedeva ex art.
700 cpc di poter occupare per 18 mesi una striscia di terreno larga m. 1,70 e lunga m. 37,30 posta a
confine dell'immobile di proprietà della s.r.l. Gheda Immobiliare dovendo eseguire lavori di
ristrutturazione.
Il pretore accoglieva il 15-7-1989 il ricorso e rimetteva le parti dinanzi al tribunale per il giudizio di
merito.
Riassunta la causa dall'Immobiliare Sogno si costituiva la Gheda chiedendo in via riconvenzionale
che fossero trasformate da vedute in luci le aperture esistenti nel fabbricato della ricorrente perché a
distanza inferiore a quella prevista dall'art. 905 c.c..
Con sentenza 30 giugno 1983 il tribunale dichiarava che l'Immobiliare Sogno aveva legittimamente
occupato per diciotto mesi la striscia di terreno a confine della sua proprietà; la condannava a
ridurre a luci tutte le vedute prospicienti il fondo della Gheda Immobiliare.
Le impugnazioni, principale dell'Immobiliare Sogno e incidentale della Gheda, venivano respinte
dalla Corte d'Appello di Brescia con sentenza 21-9-1995.
Osservava la Corte, per quanto ancora interessa, che ai fini del rispetto delle distanze dell'art. 905
c.c. era sufficiente la possibile futura valorizzazione da parte della Gheda della striscia di terreno
chiusa da fondi di altri proprietari; che non poteva definirsi atto di emulazione la domanda della
stessa società perché fossero trasformate le vedute in luci.
Avverso la sentenza, notificata il 20-6-1996 ha proposto ricorso con atto del 2-10-1996 e con due
motivi di censura l'Immobiliare Sogno s.a.s.; resiste con controricorso la Gheda Immobiliare che ha
eccepito la nullità della notificazione del ricorso - ha chiesto - il risarcimento dei danni da
responsabilità processuale aggravata ex art. 96 cpc ed ha depositato memoria.
Diritto
L'eccezione sollevata dalla Gheda Immobiliare, di nullità della notificazione del ricorso perché ,
eseguita in Brescia, Via Vittorio Emanuele Il n. 43 presso l'avv. Antonietta Giannone che nel
giudizio di appello era stata domiciliataria del difensore della società avv.
Elio Benatti al diverso indirizzo di via C. Cima della stessa città, e perché consegnata la copia
dell'atto a persona che non sarebbe stata collega, nè dipendente dell'avv. Giannone, è per
quest'ultima parte infondata, perché la consegna dell'atto risulta avvenuta a mani di un'impiegata
dello studio legale incaricata della ricezione delle notifiche (Gasparini Patrizia).
L'inosservanza poi dell'art. 330 - 1 comma cpc per essere stato il luogo della consegna dell'atto a
persona avente diretto riferimento con la destinazione (si trattava sempre dell'avv. Giannone),
diverso da quello indicato nell'elezione di domicilio in grado di appello, dà luogo a nullità sanata
1
con efficacia ex tunc (artt. 156 - 3 comma e 164 - 3 comma c.p.c.) dalla proposizione del
controricorso.
Con il primo motivo denunciando violazione e falsa applicazione dell'art. 905 c.c.; insufficiente e
contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia (art. 360 nn. 3 e 5 c.p.c.) la
ricorrente lamenta che la sentenza impugnata confermando la sua condanna a trasformare in luci le
vedute prospicienti la striscia di terreno della Gheda Immobiliare, non ha tenuto conto del fatto che
le disposizioni di legge limitative delle vedute perseguono lo scopo di tutelare il proprietario di
immobili contro la molestia costituita dalle vedute stesse a troppo breve distanza, così da violare
l'intimità della vita privata (in tal senso: Cass. 2-8-1968 n. 2765); che il terreno in contestazione
acquistato dalla Gheda Immobiliare da tali Vincenzi non confina con altre proprietà della stessa; nel
rogito di acquisto Breviglieri 12-12-1988 la Gheda aveva consentito che in futuro la zona potesse
conteggiarsi in favore dei Vincenzi ai soli fini volumetrici secondo la normativa urbanistica per i
limiti di edificabilità della restante proprietà dei venditori.
La sentenza, ritenendo possibili due soluzioni alternative per l'utilizzazione del terreno, e cioè
l'accorpamento con zone viciniori da acquistarsi ovvero la cessione a terzi confinanti, non ha
considerato, quanto alla prima soluzione, che la striscia di terreno confina ad est con via Massarani
(già Via Garibaldi); a nord con i Vincenzi che non sono interessati all'acquisto ad ovest con Piazza
1 Maggio; a sud con l'immobile della ricorrente; quanto alla seconda soluzione, non è identificabile
un terzo confinante interessato all'acquisto se si escludono i Vincenzi costoro in base alle norme
tecniche di attuazione del P.R.G. potrebbero solo realizzare una costruzione di mq. 33 priva di
qualsiasi vantaggio economico.
Il motivo è infondato.
L'art. 905 c.c. è inteso a salvaguardare i fondi dalle indiscrezioni dipendenti dall'apertura di vedute
negli edifici vicini (v. Cass. 175 - 19974 n. 4401; Cass. 27-1-1988 n. 7419); il divieto che la norma
impone è di carattere assoluto; va rispettato anche se la veduta è limitata dalla presenza di un muro
cieco del fabbricato vicino (v.
Cass. 6-12-1991 n. 13157); prescinde dal danno che in concreto possa dalla sua violazione derivare
(V. Cass. 9-7-1975 n. 2692) e viene meno solo quando tra i due fondi vi sia una strada pubblica.
Sono quindi irrilevanti tutte le considerazioni della ricorrente sulla potenzialità edificatoria del
terreno della Gheda Immobiliare; l'art. 905 non consente al riguardo distinzioni; la tutela è
accordata al proprietario del fondo sottoposto indipendentemente dall'utilizzazione che possa farne.
Con il secondo motivo denunciando violazione e falsa applicazione dell'art. 833 insufficiente e
contraddittoria motivazione; travisamento dei fatti (art. 360 nn. 3 e 5 c.p.c.) la ricorrente lamenta
che la sentenza impugnata escludendo la configurabilità di un atto emulativo, nella domanda della
Gheda di modificazione in luci delle vedute non ha tenuto conto di alcune circostanze; la Gheda
aveva partecipato il 3-11- 1988 all'incontro nel quale era però risultata aggiudicataria dell'immobile
la ricorrente; il giorno precedente aveva stipulato con i Vincenzi un contratto per persona da
nominare di acquisto della striscia di terreno; aveva proceduto all'electio il 4-11-1988; il
frazionamento, già predisposto, redatto il 3-11-1988, era stato depositato presso il Comune il 4-111988 e approvato nella stessa data; il prezzo di 60 milioni era esorbitante perché non suscettibile il
terreno di proficua utilizzazione; la trascrizione dell'atto era avvenuta il 25-11-1988 con successiva
integrazione il 28-11-1988; nella scrittura privata di vendita i Vincenzi avevano consentito che gli
acquirenti dell'immobile già della fallita Gima s.r.l. a confine con la striscia di terreno venduto
potessero realizzare vedute anche a distanza inferiore a quella legale; da tutto questo la Corte
d'Appello avrebbe dovuto trarre il convincimento che da Gheda si era precostituita una situazione
favorevole per l'ipotesi che fosse risultata aggiudicataria dell'immobile e, non avendo realizzato
l'intento, la successiva azione era stata proposta al solo fine di nuocere alla ricorrente.
La sentenza non ha, infine, considerato che le vedute preesistevano all'acquisto all'incanto
dell'immobile della fallita Gima; che dalla striscia di terreno nessun vantaggio la Gheda può ritrarre;
che l'acquisto era preordinato a nuocere all'aggiudicataria dell'immobile ove non fosse stata la
2
Gheda; che gli estremi dell'atto emulativo erano ravvisabili nello stesso acquisto della striscia di
terreno.
Anche questo motivo è infondato.
Per aversi atto emulativo vietato dall'art. 833 c.c. e necessario che l'atto di esercizio del diritto non
arrechi utilità al proprietario ed abbia solo lo scopo di nuocere o recare molestia ad altri;
conseguentemente, non può considerarsi emulativa la domanda di eliminazione di una veduta aperta
dal vicino a distanza illegale, perché tende al riconoscimento della libertà del fondo ed alla
rimozione di una situazione illegale e pregiudizievole (V. Cass. 26-11-1997 n. 11852; Cass. 22-41992 n. 4803).
La sentenza impugnata, senza incorrere nei denunciati vizi di motivazione si è attenuta a questi
principi; ha escluso un comportamento emulativo della Gheda Immobiliare nell'azione di rispetto
delle distanze legali, rilevando come gli accordi dalla stessa conclusi con i Vincenzi non erano stati
fittizi rispondendo al preciso intento della società di accorpare la striscia di terreno con l'immobile
confinante ove ne fosse rimasta aggiudicataria o, comunque, a quello di mantenere integra la
facciata che sulla stessa sporgeva con aumento di pregio del compendio, ottenendo già dai Vincenzi
il consenso a non eliminare le vedute già esistenti.
Ha negato quindi la configurabilità di atti emulativi con riguardo sia all'acquisto da parte della
Gheda Immobiliare della striscia di terreno, sia alla successiva proposizione della negatoria
servitutis.
La sentenza ha pure evidenziato l'irrilevanza dell'anteriorità delle vedute all'acquisto della società
ricorrente posto che nessuna prova essa aveva fornito di poter esercitare la servitù di veduta per
usucapione, per destinazione del padre di famiglia o in base a titolo, rimaneva indifferente l'epoca di
creazione delle aperture.
Infondata è anche la domanda della controricorrente di condanna dell'Immobiliare Sogno al
risarcimento dei danni da responsabilità processuale aggravata ai sensi dell'art. 96 - comma 1 c.p.c..
La norma richiede l'accertamento sia dell'elemento soggettivo dell'illecito (mala fede o colpa grave
sia dell'elemento oggettivo (entità del danno sofferto).
E, non risultando dagli atti del processo elementi oggettivi dai quali desumere la concreta esistenza
del danno, pur in presenza di un ricorso infondato e dilatorio, nulla può essere liquidato ex art. 96
c.p.c., neppure ricorrendo a criteri equitativi (V. Cass. 1-12-1995 n. 12422; Cass. 2-6-1992 n. 6637).
Col rigetto del ricorso l'Immobiliare Sogno è tenuta al pagamento delle spese del giudizio liquidate
come in dispositivo.
p.q.m.
La Corte rigetta il ricorso e la domanda di danni ex art. 96 c.p.c.; condanna la ricorrente alle spese
liquidate in lire 506.550, oltre lire 3 milioni per onorari.
Roma 22-10-98-
immissioni
Tribunale Palermo, sez. III 12/11/2008
In tema di inquinamento elettromagnetico, il rispetto dei limiti normativi , anche per il loro
carattere pubblicistico, non implica una presunzione assoluta di liceità delle immissioni, ben
potendo sussistere una situazione che, pur rispettosa dei limiti, si riveli in concreto lesiva, anche
solo potenzialmente, del diritto alla salute. Pertanto, la tutela giudiziaria del diritto alla salute può
essere preventiva e dare luogo a pronunce inibitorie se sia possibile accertare che nella situazione
che si avrà una volta iniziato l'esercizio dell'impianto è insito un pericolo di compromissione per la
salute di chi agisce in giudizio.
3
Fatto
Con atto di citazione notificato il 4.2.2004, S. L., V. V. ed il Condominio di via Vittorio Emanuele
nr. 492, in persona dell'amministratore pro tempore convenivano in giudizio il Ministero
dell'Interno al fine di ottenere il risarcimento dei danni cagionati dalle radiazioni promananti dalle
antenne ad alta direttività ed omnidirezionali che si trovano sul tetto del complesso ove sono ubicati
gli Uffici della Questura di Palermo, complesso confinante con il condominio attore nel quale
abitano il S. L. ed il V. V..
Allegavano gli attori di avere accertato tramite due consulenti (ing. A. ed ing. F.) e tramite il
Ce.Ri.S.E.P. - Centro Sistemi di Potenza - Laboratorio di compatibilità elettromagnetica che i valori
delle onde elettromagnetiche provenienti da dette antenne superavano i limiti previsti dall'art. 4
comma II Decreto Interministeriale nr. 381/98 ed art. 3 D.P.C.M. 8.7.2003 (cfr. consulenza di parte
allegata al fascicolo degli attori); di avere quindi agito in sede cautelare, ottenendo dal Tribunale di
Palermo in data 29/31.12.2003 un provvedimento ex art. 700 c.p.c. che ordinava al Ministero
convenuto la dismissione delle antenne omnidirezionali esistenti sul tetto del Palazzo della Questura
e gli inibiva di puntare le antenne direzionali esistenti verso la terrazza del ricorrente (cfr. fascicolo
della fase cautelare), provvedimento confermato in sede di reclamo.
Richiamando infine gli studi più recenti sugli effetti dannosi legati all'esposizione ad onde
elettromagnetiche e lamentando di avere subito un danno patrimoniale consistente, per S. L. e V.
V., nel deprezzamento degli immobili di loro proprietà, oltre che un danno alla salute, concludevano
gli attori chiedendo al Tribunale di "ritenere e dichiarare che gli impianti per cui è causa producono
emissioni di campi elettromagnetici eccedenti i limiti consentiti dal D.I. 381/98 conf dal DPCM
8.7.2003, e/o che sono comunque altamente nocivi per la salute stante la loro potenzialità lesiva;
ritenere e dichiarare ex art. 32 Cost. o secondo più opportuna qualificazione giuridica la nocività
degli impianti meglio descritti in narrativa e collocati sul tetto dell'immobile della Questura sito in
Piazza Vittoria nr. 8, conseguentemente condannare il Ministero degli Interni, in persona del
Ministro pro tempore, al risarcimento dei danni per il deprezzamento subito dall'unità immobiliare
del prof. S. L., quantificati in euro 9.000, 00 o in quella maggiore o minore somma che il Giudice
riterrà opportuna, anche in via equitativa; condannare il Ministero degli Interni, in persona del
Ministro pro tempore, al risarcimento dei danni per il deprezzamento subito dall'unità immobiliare
del dr. V. V., quantificato in euro 7.000, 00 o in quella maggiore o minore somma che il giudice
riterrà opportuna anche in via equitativa; condannare il Ministero degli Interni in persona del
Ministro pro tempore, al risarcimento dei danni alla salute e del danno morale a favore del prof S.
L. e del dr. V. V. che si stimano nella somma di euro 1.500,00 per ciascuno ovvero nella maggiore
o minore somma che il Giudice riterrà opportuna anche in via equitativa; condannare il Ministero
degli Interni, in persona del Ministro pro tempore, a rimborsare al Condominio di Corso Vittorio
Emanuele nr. 492, in persona del suo amministratore pro tempore, la somma complessiva di euro
6.144,28 come meglio descritta in narrativa, quale pagamento delle somme avanzate per la perizia
del Ce. Ri.S.E.P., per la CTU dell'ing. Miraglia e per le spese legali della fase cautelare; con vittoria
di spese, competenze, onorari e rimborso forfetario ".
Si costituiva il Ministero dell'Interno in persona del Ministro pro tempore che, in via preliminare,
eccepiva la carenza di legittimazione attiva del Condominio attore, soggetto che non aveva
partecipato alla fase cautelare e che aveva formulato una domanda di rimborso del tutto esulante dal
thema decidendum.
Contestava poi le richieste attoree, esponendo, in fatto, che, in occasione di entrambe le
segnalazioni pervenute dal S. L. e relative alla presenza di antenne e tralicci sul tetto dell'edificio
che ospita la Questura, erano stati effettuati gli opportuni e necessari controlli che avevano escluso
la non conformità a legge delle antenne e dei tralicci presenti ed il rispetto dei limiti di emissione
previsti dalla normativa di settore (in seguito alla prima segnalazione del 13.4.1999, l'AUSL 6 di
Palermo aveva effettuato il rilevamento delle emissioni elettromagnetiche constatando che non
superavano i valori di legge - cfr. nota del 15.6.1999 in atti -, rilevamento che era stato confermato
dalla Polizia di Stato - Zona Telecomunicazioni "Sicilia Occidentale" - cfr. rapporto del 30.6.1999
4
in atti -; in seguito alla segnalazione del 26.4.2001 era stato accertato che i nuovi tralicci erano
inattivi - cfr. nota della Polizia di Stato - Zona Telecomunicazioni "Sicilia Occidentale" del
18.6.2001 - e comunque erano conformi alle disposizioni di legge vigenti - cfr. relazione dell'ing.
Capo del 31.7.2001 della SINT s.r.l. per conto di Ericsson Telecomunicazioni s.p.a. -). Richiamava
quindi la normativa di settore, sottolineando il particolare scopo cui erano destinate le antenne in
oggetto (ossia la tutela della sicurezza pubblica), e rilevava l'insussistenza sia del danno alla salute
sia dei danni patrimoniali, come rappresentati dagli attori.
Concludeva quindi il Ministero chiedendo al Tribunale di "ritenere e dichiarare che gli impianti
radioelettrici della Questura di Palermo, in piazza Vittoria nr. 8, come assemblati prima
dell'esecuzione dell'ordinanza cautelare dei 29-13.12.2003 sono conformi alla normativa vigente e
che essi non oltrepassano i limiti previsti inizialmente dal D.L. nr. 381/98 ed ora dal D.P.C.M.
dell'8.7.2003; per l'effetto, revocare l'ordinanza cautelare come sopra indicata; in linea subordinata,
modificare, previo espletamento di CTU da condurre sull'originario assetto degli impianti, la
suddetta misura cautelare, adottando gli accorgimenti necessari ad assicurare la piena e regolare
operatività degli impianti stessi; in ogni caso, rigettare tutte le domande risarcitorie formulate dal
prof S. L. e dal dr. V. V. perché infondate; ritenere e dichiarare il difetto di legittimazione attiva del
Condominio di via Vittorio Emanuele nr. 492 e comunque rigettare le domande perché infondate;
con condanna degli attori al pagamento delle competenze e degli onorari di giudizio, salve
beninteso ed a parte, le spese prenotate a debito, nell'importo che risulterà dalle annotazioni al
campione, la cui liquidazione spetta, secondo la normativa in vigore al competente ufficio
amministrativo che cura la tenuta del campione stesso".
La causa veniva istruita documentalmente e con l'esame di alcuni testimoni; infine, all'udienza del
20.6.2007, veniva trattenuta in decisione con la concessione dei termini di legge per lo scambio
delle memoria conclusionali e delle repliche.
Diritto
Va in primo luogo rigettata l'eccezione relativa alla carenza di legittimazione ad agire del
Condominio convenuto.
Ed invero, benché quest'ultimo soggetto non sia stato parte della fase cautelare, è ammissibile
l'azione dallo stesso esperita unitamente ai ricorrenti S. L. e V. V., attesa l'autonomia della fase
cautelare rispetto alla fase di merito (cfr. per tutte Cass. 3646/96).
Va poi ulteriormente premesso che il presente procedimento di merito riguarda un provvedimento
cautelare emesso ex art. 700 c.p.c. in data antecedente rispetto all'1.3.2006, ossia prima della data di
entrata in vigore delle norme che hanno svincolato questo tipo di tutela dalla necessità inesorabile di
un successivo giudizio di merito (decreto-legge 14 marzo 2005, n. 35, convertito, con
modificazioni, nella legge 14 maggio 2005, n. 80; decreto-legge 30 giugno 2005, n. 115 e legge di
conversione 17 agosto 2005, n. 168, nonché decreto-legge n. 273 del 2005, c.d. milleproroghe,
convertito nella legge 23 febbraio 2006 n. 51); pur tuttavia, nessuna conferma del provvedimento
cautelare va disposta in questa sede: ed invero, già nel vigore della disciplina antecedente alla
novella del c.p.c., era esclusa, nella fase di merito, la pronuncia di convalida dei provvedimenti
cautelari, attesa la loro natura strumentale che faceva si che rimanessero assorbiti dalla decisione
della causa della quale seguivano la sorte e che l'istante era tenuto ad iniziare nel termine perentorio
fissato dal Giudice: (Cass. Civ., Sez. 1, 1.4.1983 nr. 2365).
Passando al merito della questione, occorre premettere che gli attori hanno spiegato domanda di
risarcimento per l'asserita lesione dei diritto alla salute, del quale hanno sostanzialmente invocato la
tutela anche con la reintegrazione in forma specifica ex art. 2058; che poi quest'ultimo rimedio si
concreti in una richiesta di ordinare al Ministero convenuto un "facere", prima in via provvisoria poi
in via definitiva, costituisce una conseguenza normale dell'azione ex art. 2058 c.c. (e nella
giurisprudenza di legittimità si è ormai da tempo consolidato il principio secondo il quale a tutela
del diritto alla salute il soggetto danneggiato da immissioni può esercitare, anche cumulativamente,
l'azione inibitoria ex art. 844 c.c. - a tutela del diritto di proprietà e quindi di natura reale - , l'azione
5
di responsabilità aquiliana e l'azione di risarcimento in forma specifica ex art. 2058 c.c. - vedasi
Cass. sez. un. 15/10/1998 n. 10186, Cass. sez. un. 9/4/1973 n. 999 e Cass. 2/6/2000 n. 7420).
Deve peraltro ritenersi, sulla scorta della ormai unanime giurisprudenza, che non è necessario che il
danno si sia verificato perché il titolare del diritto possa reagire contro la condotta altrui, se essa si
manifesta in atti suscettibili di provocarlo, posto che la protezione apprestata dall'ordinamento al
titolare di un diritto si estrinseca, prima, nel vietare agli altri consociati di tenere comportamenti che
contraddicano il diritto, poi, nel sanzionare gli effetti lesivi della condotta illecita, obbligando il
responsabile al risarcimento del danno. Con particolare riferimento al diritto alla salute sarebbe, poi,
contraddittorio affermare che esso non tollera interferenze esterne che ne mettano in discussione
l'integrità ed ammettere che alla persona sia data la sola tutela del risarcimento del danno e non
anche quella preventiva (cfr. Corte Costituzionale sent. nr. 30 del 30.12.1987). È quindi del tutto
ammissibile chiedere al giudice di inibire all'amministrazione un comportamento che, iniziando a
funzionare con le modalità previste, è accertato possa determinare una situazione di messa in
pericolo della salute (Cass. Civ. sez, III, 27.7.2000 nr. 9383).
Va poi ulteriormente precisato che, a fronte di un pregiudizio attuale al bene fondamentale della
salute, nessuna incidenza sull'accoglimento o meno della domanda può essere attribuito al fatto che
detto accoglimento possa incidere sulle concrete modalità di erogazione del servizio: nel caso di
specie, quindi, a nulla rileva il richiamo operato dal Ministero convenuto a quegli "svariati
inconvenienti tecnici nell'utilizzo delle ricetrasmittenti da parte delle Forze dell'Ordine", lamentati
ma non dimostrati come ricollegabili alla ordinata dismissione delle antenne oggetto di causa
(vedasi sul punto Cass. sez. un. 20/2/1992 n. 2092: "qualora la Pubblica amministrazione,
nell'installazione di un impianto di depurazione con inosservanza delle distanze minime prescritte,
leda il diritto di salute del proprietario del fondo vicino, a quest'ultimo deve riconoscersi la facoltà
di adire il giudice ordinario non soltanto con azione risarcitoria, ma anche con richiesta di condanna
alla rimozione dell'opera, atteso che quel fatto lesivo, rispetto ad un diritto non suscettibile di
affievolimento, non è ricollegabile ad atti o provvedimenti amministrativi e si configura come
attività materiale illecita").
Quanto al quadro normativo di riferimento, la disciplina delle emissioni di onde elettromagnetiche é
regolamentata dalla Legge Quadro 22.2.2001 nr. 36 (sulla protezione della popolazione dalle
esposizione a campi elettromagnetici), che ha disciplinato in modo organico la materia, fissandone i
principi fondamentali, indicando anche le ripartizioni di competenze tra Stato ed Enti locali sulla
base del principio che compete esclusivamente allo Stato la fissazione delle soglie di esposizione e
la determinazione dei limiti di esposizione (come confermato anche dalla sentenza della Corte
Costituzionale nr. 103 dell'8.2.2006), in quanto titolare esclusivo della determinazione dei profili
della tutela ambientale e della salute pubblica.
Detta legge si ispira, poi, al principio di precauzione (richiamato espressamente dall'art. 1 comma
primo, punto b, quando indica, tra le finalità della normativa, quella di "promuovere la ricerca
scientifica per la valutazione degli effetti a lungo termine e attivare misure di cautela in
applicazione del principio di precauzione di cui all'art. 174, paragrafo 2, del trattato istitutivo
dell'Unione Europea") in base al quale sono stati fissati a livello nazionale dei valori soglia (non
derogabili da parte delle Regioni nemmeno in senso più restrittivo e rappresentanti il punto di
equilibrio fra le esigenze contrapposte di evitare al massimo l'impatto delle emissioni
elettromagnetiche, e di realizzare impianti necessari al paese), il cui superamento determina una
presunzione di pericolosità delle immissioni stesse.
Quanto ai limiti di esposizione, l'art. 4 comma II lett. A) rinvia al D.P.C.M. del 18.7.2003
("Fissazione dei limiti di esposizione, dei valori di attenzione e degli obiettivi di qualità per la
protezione della popolazione dalle esposizioni ai campi elettromagnetici generati dalle frequenze
comprese tra 100 KHz e 300 GHz"); i limiti di esposizione ed i valori di attenzione ivi fissati
dall'art. 3 II comma, ricalcano le disposizioni di cui al Decreto Interministeriale nr. 381/98 "Regolamento recante norme per la determinazione dei tetti di radiofrequenze compatibili con la
salute umana" - emanato in attuazione della delega contenuta nell'art. 1 comma 6 lett. A) nr. 15 L.
6
249/1979. Sempre l'art. 4, al comma II, prevede che, in corrispondenza di edifici adibiti a
permanenze non inferiori a quattro ore, non devono essere superati i seguenti valori,
indipendentemente dalla frequenza: 6 V/M per il campo elettrico, 0,0, 16°A/m per il campo
magnetico e per le frequenze comprese tra 3 mhz e 300 ghz, 0,10 W/m° per la densità di potenza:
detti valori sono riproposti nel D.P.CM. attuativo della legge quadro (tabella 2 del decreto).
Proprio l'esistenza di una siffatta disciplina dimostra inequivocabilmente che, allo stato delle
conoscenze scientifiche, l'esposizione ai campi elettrici, se siano superati determinati limiti
massimi, è considerata fonte di possibili effetti negativi sulla conservazione dello stato (ed infatti, il
D.P.C.M. è stato adottato all'esito di una istruttoria in cui sono intervenuti il Ministro della salute ed
il Comitato Internazionale di valutazione per l'indagine sui rischi sanitari derivanti dall'esposizione
ai campi elettromagnetici ed i limiti fissati dalle normative citate sono stati determinati in base ai
risultati raggiunti dalla comunità scientifica sugli effetti acuti e cronici dell'esposizione): detta
disciplina ha quindi lo scopo di impedire che possa essere tenuta una condotta che vi contrasti (ed a
tal fine sono previste anche sanzioni amministrative per i trasgressori).
La giurisprudenza prevalente ritiene, poi, che il rispetto dei limiti normativi, anche per il loro
carattere pubblicistico, non implichi una presunzione assoluta di liceità delle immissioni, ben
potendo sussistere una situazione che, pur rispettosa dei limiti, si riveli in concreto lesiva, anche
solo potenzialmente, del diritto alla salute - ed il principio é stato affermato dalla sentenza Cass.
27/7/2000 n. 9893 riguardante proprio un caso di inquinamento elettromagnetico -. La tutela
giudiziaria del diritto alla salute nei confronti della pubblica amministrazione può, infatti, essere
preventiva e dare luogo a pronunce inibitorie se, prima ancora che l'opera pubblica venga messa in
esercizio nei modi previsti, sia possibile accertare, considerando la situazione che si avrà una volta
iniziato l'esercizio, che nella medesima situazione è insito un pericolo di compromissione per la
salute di chi agisce in giudizio.
Orbene, nel caso in esame, è risultata provata la presunzione di pericolosità concreta delle
emissioni.
La consulenza espletata nel corso del giudizio cautelare, infatti, ha accertato che le antenne
contestate producono onde elettromagnetiche cd. ad alta frequenza, che si irradiano nell'ambiente
circostante sia sul piano orizzontale che su quello verticale: sulla base delle attuali conoscenze
scientifiche, a distanza dalla sorgente i campi elettromagnetici si distribuiscono su specifici sempre
più ampie e la loro intensità diminuisce man mano che si propagano. È evidente allora che la
concentrazione massima delle radiazioni si ha appunto nei luoghi immediatamente vicini alle
antenne, quali il condominio attore ed, in particolare, le abitazioni del S. L. e del V. V., posizionate
a ridosso dell'edificio della Questura ed a pochi metri da esso (circostanza questa non contestata).
Il consulente nominato d'ufficio, poi, pur avendo accertato che, al momento della perizia, i limiti di
legge sopra richiamati non erano stati superati, ha però sottolineato che gli impianti oggetto di causa
sono idonei a superare detti limiti e che l'unica misura realmente idonea a tutelare il diritto dei
ricorrente è costituita dalla dismissione delle antenne omnidirezionali e dalla inibizione di puntare
le antenne direzionali verso l'area di pertinenza dei ricorrenti, tenuto conto che il Ministero
convenuto non ha fornito elementi sulla base dei quali valutare gli effettivi stato ed utilizzazione
dell'impianto e che la potenza massima delle apparecchiature può essere variata in ogni momento,
sia regolando quelle esistenti sia con eventuali sostituzioni con altre antenne dello stesso tipo e
dimensioni.
Proprio le cennate conclusioni, pienamente condivisibili in quanto ben motivate ed esaustive,
rendono da un lato superfluo il rinnovo della consulenza richiesto dal Ministero convenuto, diretto
"ad appurare se sia possibile ripristinare lo stato originario degli impianti, adottando eventuali
accorgimenti tecnici volti a prevenire il pericolo di immissioni elettromagnetiche soprasoglia"
(l'individuazione di siffatti accorgimenti tecnici avrebbe potuto essere effettuata autonomamente ed allegata - dal convenuto, avendo il Ministero dell'Interno senz'altro la possibilità di accedere ai
mezzi tecnici ed alle professionalità necessarie a tal fine), dall'altro, confermano la bontà dei
risultati cui sono giunti i consulenti di parte Ing. A. ed ing. F. utilizzando i risultati della campagna
7
di misure effettuate il 30 e 31 luglio 2001 presso il Palazzo Asmundo dal Ce.Ri.S.E.P. (organismo
della cui attendibilità scientifica non vi è motivo di dubitare, anche se interessato alla misurazione
dalla parte in causa) che registrò valori di molto superiori ai limiti di legge, così superando quella
presunzione di non pericolosità che assiste il limite di cui al D.M. 387/98. Ne consegue allora che il
pericolo che l'utilizzo delle antenne in oggetto determini il superamento di quei limiti posti a tutela
della salute pubblica deve ritenersi accertato in concreto.
Peraltro, non può essere sottaciuto che il Ministero convenuto si é limitato a depositare
documentazione relativa allo stato delle antenne e dei tralicci presenti sul Palazzo ove ha sede alla
Questura nel 1999 (come accertato in seguito alla prima segnalazione proveniente dal S. L.),
mentre, con riferimento alla situazione alla data della seconda segnalazione dell'attore, ha
depositato esclusivamente il certificato di conformità rilasciato dalla SINT s.r.l. per conto della
Ericsson Telecomunicazioni s.p.a. nel quale, però, i risultati non sono stati ottenuti mediante la
misurazione delle emissioni ad antenne operanti, bensì sulla scorta dell'aggiunta, ai valori ottenuti
dalla misurazione dei campi magnetici preesistenti, di quegli che sarebbe stati provocati dalle nuove
antenne calcolati in via presuntiva: trattasi quindi di certificazione di conformità che non esclude
affatto, come è stato più sopra illustrato, il superamento dei limiti previsti dalla normativa di settore.
Va quindi accolta la domanda relativa all'accertamento della potenzialità lesiva per la salute delle
antenne ad alta direttività ed omnidirezionali che si trovano sul tetto del complesso ove sono ubicati
gli Uffici della Questura di Palermo.
Vanno invece rigettate le domande risarcitorie relative al danno alla salute, posto che nessuna
patologia è stata né accertata, né tantomeno lamentata e che non è possibile procedere alla
liquidazione di un danno biologico soltanto ipotetico (cfr. Cass. Civ., sez. II, 23.1.2007 nr. 1391),
ed al danno per il deprezzamento dell'immobile, tenuto conto che nessuna prova hanno fornito sul
punto gli attori, i quali non hanno nemmeno allegato quale fosse il valore degli immobili medesimi.
Va altresì rigettata la richiesta di risarcimento del danno morale quale, appunto, conseguenza di un
fatto illecito astrattamente inquadrabile in una ipotesi di reato: è vero, infatti, che il fenomeno
dell'inquinamento provocato da onde elettromagnetiche è riconducibile alla previsione dell'art. 674
c.p., ma solo laddove i valori del campo elettromagnetico superino i limiti indicati dalla normativa
vigente in materia e, nel caso di specie, è stata accertata la sola potenzialità lesiva delle emissioni
elettromagnetiche promananti dalle antenne oggetto di giudizio.
Va infine rigettata la domanda di risarcimento avente ad oggetto le spese sostenute per la redazione
della consulenza di parte spiegata dal condominio.
Dette spese, essendo inerenti ad una semplice allegazione difensiva di carattere tecnico, vanno
considerate spese relative all'attività stragiudiziale posta in essere dal difensore e dal consulente
della parte, ossia spese strettamente dipendenti dal mandato relativo alla difesa: pertanto, anche
queste spese hanno natura di prestazioni giudiziali (Cassazione civile sez. II, 1 marzo 1994, n°
2034) posto che la consulenza tecnica di parte altro non é che un particolare modo dell'esercizio dei
poteri di difesa della parte (e non una posta di danno riconducibile all'illecito).
Il Ministero convenuto andrà infine condannato alla rifusione delle spese di giudizio sostenute dagli
attori, nella fase cautelare e di merito, attesa la sua sostanziale soccombenza sul punto fondamentale
della controversia.
p.q.m.
Il Tribunale di Palermo in composizione monocratica definitivamente pronunciando sulla domanda
proposta con citazione del 3-2-2004 da S. L., V. V. e dal Condominio di via Vittorio Emanuele nr.
492, in persona del legale rappresentante pro tempore,
- dichiara la potenzialità lesiva delle antenne ad alta direttività ed omnidirezionali che si trovano sul
tetto del complesso ove sono ubicati gli Uffici della Questura di Palermo;
- per l'effetto, ordina la dismissione delle antenne omnidirezionali esistenti sul tetto del Palazzo
della Questura e confinanti con le proprietà S. L. e V. V. ed inibisce il convenuto al puntare l'asse
delle antenne direzionali verso la medesima terrazza;
8
- rigetta tutte la altre domande;
- condanna il Ministero dell'Interno, in persona del Ministro pro tempore , a rifondere agli attori le
spese di giudizio - ivi comprese quelle della fase cautelare - che liquida in complessivi euro
8.150,00 di cui euro 6.250,00 per diritti ed onorari, ivi comprese le spese di ctu, oltre IVA e CPA
come per legge.
Palermo, 7 maggio 2008
Depositata 12 novembre 2008
invenzione
Cassazione civile , sez. I, 11 agosto 2000, n. 10687
Il premio dovuto al ritrovatore di cosa mobile deve essere riconosciuto, ai sensi dell'art. 930,
commi primo e secondo, cod. civ., ogni volta il bene rinvenuto abbia in sè un valore economico e,
quindi, un'ovvia utilità per chi il bene stesso abbia smarrito ed, ai sensi del terzo comma della
stessa disposizione normativa, qualora il ritrovamento abbia comunque una qualche utilità, anche
di natura non economica, per il proprietario o detentore; utilità da determinarsi non in base a
valutazioni soggettive di chi il bene abbia smarrito, ma in base a valutazioni di ordine oggettivo e
generale (nella specie, l'economo di un Comune aveva smarrito un assegno bancario tratto per
un'ingente somma di danaro; il ritrovatore aveva restituito al Comune il titolo di credito, chiedendo
il premio normativamente previsto; il titolo stesso veniva incassato, ma l'Ente si rifiutava di
concedere il premio sul presupposto che, una volta fatta la denuncia alla banca, l'assegno non
poteva più essere incassato e che, quindi, nessuna utilità poteva derivare dal suo ritrovamento. La
S.C., nel confermare la sentenza impugnata che aveva riconosciuto il premio al ritrovatore, ha
ritenuto che tale utilità poteva essere riscontrata nel fatto che, prima della procedura di
ammortamento, il titolo poteva continuare a girare, esponendo il possessore alla responsabilità per
danni subiti da terzi in buona fede).
Fatto
Il sig. Renato Mazzoni, economo del Comune di Orvieto, nel percorrere il tratto di strada che corre
fra il suo ufficio e la sede centrale della Cassa di Risparmio di Orvieto, smarriva un assegno
bancario
dell'importo
di
L.
100.875.700.
Accortosi dello smarrimento provvedeva immediatamente a chiedere alla banca il blocco del titolo;
contestualmente la sig.na Simona Palazzetti rinveniva nell'atrio dell'Ufficio tributi del Comune di
Orvieto
il
titolo
smarrito,
che
provvedeva
a
restituire
all'avente
diritto.
Il
titolo
veniva
incassato
dall'economo
del
Comune.
La Palazzetti chiedeva quindi il pagamento del premio previsto dall'art. 930 c.c. e, ottenuta risposta
negativa, conveniva avanti al Pretore di Orvieto il Comune omonimo per sentirlo condannare al
pagamento della somma di L 5.043.785, ai sensi dell'art. 930 II comma c.c., ovvero della somma
ritenuta equa dal giudice, ai sensi del III comma dello stesso articolo.
Con sentenza in data 13.5.1997 il Pretore di Orvieto respingeva la domanda.
Proponeva appello Simona Palazzetti ed il Tribunale di Orvieto, con sentenza in data 22.7.1998,
accoglieva la domanda attrice e condannava il Comune di Orvieto a pagare all'appellante la somma
di
L
2.000.000,
oltre
agli
interessi
dalla
domanda.
Ricorre per la cassazione della sentenza del Tribunale di Orvieto il Comune omonimo, con ricorso
9
fondato
su
Resiste con controricorso Simona Palazzetti.
due
motivi.
Diritto
1. Con il primo motivo il Comune ricorrente deduce, in relazione all'art. 360 nn 3 e 5 c.p.c.,
violazione e falsa applicazione degli artt. 927 e 930 c.c., nonché difetto di motivazione su un punto
rilevante
della
vertenza.
Assume l'Amministrazione ricorrente che il Tribunale di Orvieto ha omesso totalmente di motivare
in ordine all'utilità che il ritrovamento dell'assegno poteva avere per il soggetto che l'aveva smarrito,
posto che a seguito della denunzia di smarrimento fatta alla banca, l'assegno non poteva più essere
incassato.
Accertato che il titolo non poteva essere incassato e che nessuna utilità poteva derivare dal suo
ritrovamento al soggetto che l'aveva smarrito, il giudice di merito avrebbe dovuto respingere 1'
appello,
confermando
la
decisione
di
primo
grado.
Il
motivo
è
(interpretazione della norma)
infondato
e
va
pertanto
respinto.
Al riguardo si osserva che l'art. 927 c.c. stabilisce in via generale che colui che ritrovi una cosa
mobile altrui deve restituirla al proprietario e l'art. 930 c.c. che il proprietario a sua volta è tenuto a
corrispondere
al
ritrovatore
un
premio.
Dal combinato disposto delle norme su riportate si può quindi desumere, in via di prima
approssimazione, che il premio è dovuto qualora sia rinvenuto un bene che uscito dalla sfera di
immediata vigilanza del proprietario o possessore e non sia da questi rinvenibile, se non a seguito di
ricerche
dall'esito
incerto.
Il primo problema che in dottrina e in giurisprudenza, sopratutto di merito, si è posto è se il premio
sia sempre dovuto, a prescindere dal valore commerciale del bene rinvenuto e dall'utilità che dal
bene stesso possa ricavare il proprietario, o se di tali elementi si debba tenere conto.
Al riguardo si osserva che la ratio dell'art. 930 c.c. è certamente quella di indurre i consociati a
cooperare al fine di limitare i danni che i proprietari o detentori possano subire in conseguenza dello
smarrimento del bene, ( Cass. civ. 13.11.1982 n. 6060 ) come si desume dall'espressione " chi trova
una cosa mobile deve restituirla al proprietario" contenuta nell'art. 927 c.c. e dall'espressione "il
proprietario deve pagare a titolo di premio al ritrovatore" contenuta nell'art. 930 c.c. talché si
potrebbe ritenere in base al solo esame del contenuto letterale degli articoli citati, che ciò che rileva
è la cooperazione, il servizio prestato, a prescindere da ogni interesse del proprietario, posto che
l'interesse potrebbe individuarsi nel retto vivere sociale perseguito dal legislatore.
Siffatta interpretazione della normativa in esame non sembra però rispondere ad un corretto
bilanciamento dell'interesse di chi il bene abbia ritrovato e di chi il bene stesso abbia smarrito,
considerato che la remunerazione del servizio non può prescindere dall'utilità del servizio stesso per
chi lo riceva, posto che una diversa interpretazione potrebbe rivolgersi in danno del proprietario o
detentore che si vedrebbe esposto all'obbligo di corrispondere un premio, anche per il ritrovamento
di un bene smarrito, di nessun valore commerciale e di nessuna utilità.
Si deve pertanto ritenere, più riduttivamente, che il premio debba essere riconosciuto al ritrovatore,
ai sensi dell'art. 930 I e Il comma c.c., ogni qual volta il bene rinvenuto abbia in sè un valore
economico e quindi un'ovvia utilità per chi il bene stesso abbia smarrito, ed ai sensi dell'art. 930 III
comma c.c. qualora il ritrovamento abbia comunque una qualche utilità, anche non di natura
economica per il proprietario o detentore, utilità da determinarsi non in base a valutazioni
soggettive di chi il bene abbia smarrito, ma in base a valutazioni di ordine generale.
10
(applicazione al caso concreto)
In particolare, venendo al caso di specie, nell'ipotesi di smarrimento dei titoli di credito
regolarmente girati, il valore commerciale del titolo e l'utilità del ritrovamento devono certamente
ritenersi inesistenti qualora il ritrovamento avvenga dopo la conclusione della procedura di
ammortamento del titolo, mentre non può escludersi quanto meno l'interesse del possessore del
titolo alla sua riconsegna, fino a che detta procedura non sia stata completata.
Infatti la semplice denunzia alla banca dello smarrimento non esclude la possibilità che il titolo
continui a circolare, munito di una serie di girate, sia pure illegittimamente apposte, e che al
possessore, che non abbia eseguito la procedura di ammortamento, che sola estingue ogni efficacia
dell'assegno, possa essere attribuita una responsabilità extracontrattuale per danni subiti da terzi di
buona
fede,
proprio
a
causa
della
circolazione
del
titolo.
Inoltre, in base all'art. 70 R.D. 21.12.1933 n. 1736, malgrado la denunzia, il pagamento
dell'assegno, prima della notifica del decreto di ammortamento, libera il trattario.
Pertanto il ritrovamento e la consegna del titolo, prima dell'espletamento dell'intera procedura di
ammortamento, riveste comunque l'utilità oggettiva di escludere la necessità della procedura di
ammortamento, altrimenti necessaria, come detto, sia per togliere ogni efficacia all'assegno, sia per
consentire al legittimo titolare del titolo di incassare presso il trattario la relativa somma, ai sensi
dell'art.69
e
segg.
R.D.
n.
1736-1933.
Il Tribunale, avendo accertato in fatto, che il titolo aveva perso il suo valore commerciale, a seguito
della denunzia di smarrimento, presentata alla banca dall'economo del Comune di Orvieto, punto
non censurato, ha ritenuto comunque dovuto il premio, evidentemente per presupposta l'utilità del
ritrovamento,
ipotizzabile
per
i
motivi
esposti.
Pertanto avendo il Tribunale implicitamente accertato l'utilità del ritrovamento, che non coincide
con il valore commerciale del titolo, va confermata sul punto l'impugnata sentenza, integrata con le
argomentazioni in precedenza svolte la motivazione della sentenza stessa, il cui dispositivo è
conforme
a
diritto.
Il
primo
motivo
va
quindi
respinto.
2. Con il secondo motivo l'Amministrazione ricorrente censura l'impugnata sentenza per violazione
e falsa applicazione dell'art. 930 Il e III comma c.c., nonché per contraddittorietà della motivazione,
in
relazione
all'art.
360
nn.
3
e
5
c.p.c.
Rileva al riguardo il Comune di Orvieto che il Tribunale, dopo avere affermato che l'assegno non
aveva più alcun valore commerciale e che quindi il premio doveva essere liquidato in base al III
comma dell'art. 930 c.c., ha poi motivato il quantum del premio in riferimento al valore
dell'assegno, con ciò venendo ad utilizzare in parte anche il II comma dello stesso articolo.
Il motivo è infondato e va pertanto respinto.
Invero il Tribunale di Orvieto ha testualmente precisato che il premio "dovrà essere corrisposto
secondo i parametri di cui allo art. 930 III comma e non 930 II comma" con ciò chiarendo al di là di
ogni
ragionevole
dubbio
quale
fosse
la
norma
applicata.
Il successivo riferimento all'ammontare dell'assegno è stato infatti effettuato all'unico fine di
indicare un parametro dello adottato giudizio di equità, ma certamente non per liquidare
l'ammontare del premio in base al valore dell'assegno, come stabilito dallo art. 930 II comma c.c., la
cui applicazione avrebbe comportato del resto una liquidazione sensibilmente superiore.
Il
ricorso
va
pertanto
interamente
respinto.
Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.
P.Q.M
11
respinge il ricorso e condanna il Comune di Orvieto al pagamento delle spese del giudizio di
cassazione di cui L. 150.000 per esborsi e L 1.200.000 per onorari.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della prima sezione civile, in data 8 maggio.2000
Specificazione
Cassazione civile, sez. II, 12 dicembre 1991, n. 13399
La specificazione, che è un modo di acquisto della proprietà, consistente nella trasformazione di
una materia in un oggetto avente una propria distinta individualità economico - sociale, non può
concretarsi solo nella originale disposizione della cosa ideata e realizzata per raggiungere un
particolare effetto. (Nella specie, in base all'enunciato principio la C.S. ha confermato la decisione
dei giudici del merito che aveva escluso l'acquisto per specificazione con riguardo all'opera
"Olivestone", realizzata da Joseph Beuys per la collocazione di cinque vasche di pietra, utilizzate
dai contadini abruzzesi per fare decantare l'olio, nelle ricche sale di un castello, in modo da fare
risaltare il contrasto).
Fatto
Dopo aver chiesto e ottenuto dal presidente del Tribunale di Pescara autorizzazione del sequestro
giudiziario di un'opera costituita da cinque vasche di pietra, realizzata da Joseph Beuys e da lei
concessa in comodato al Castello di Rivoli, Lucrezia De Domizio Durini, eseguita la misura
cautelare, conveniva dinanzi a quel Tribunale, con atto notificato il 6 ottobre 1986, il "Castello di
Rivoli - Comitato per l'art. in Piemonte", in persona del suo legale rappresentante, chiedendo la
condanna del convenuto alla restituzione dell'opera ("Olivestone") e al risarcimento del danno,
nonché
la
convalida
del
sequestro.
Costituitosi in giudizio, il Comitato contestava il fondamento della domanda, precisando di non
aver proceduto alla restituzione dell'opera, in quanto gli eredi dell'autore gli avevano comunicato di
esserne
i
proprietari.
Interveniva volontariamente in giudizio la vedova Eva Beuys rivendicando la proprietà dell'opera.
Veniva,
a
sua
richiesta,
autorizzato
altro
sequestro
giudiziario.
Il Tribunale, con sentenza 3 ottobre 1987, condannava il Castello di Rivoli a restituire l'opera alla
De Domizio, nonché a risarcirle i danni, e convalidava il primo sequestro. Peraltro, pronunciando
non definitivamente con la stessa sentenza, convalidava anche il secondo sequestro, disponendo in
ordine al prosieguo del processo nei rapporti tra la Beuys e la De Domizio.
Con sentenza definitiva 11 maggio 1988 il Tribunale rigettava la domanda svolta in intervento dalla
Beuys, dichiarava l'inefficacia del secondo sequestro, rigettava anche la domanda riconvenzionale
di risarcimento dei danni e condannava la Beuys a rimborsare alla controparte le spese del giudizio.
Contro tale sentenza interponeva appello la Beuys nei confronti della De Domizio.
Costei
resisteva
al
gravame,
chiedendone
il
rigetto.
Con sentenza 9 maggio - 30 giugno 1989 la Corte di appello dell'Aquila rigettava l'appello,
confermando
la
sentenza
impugnata.
Condannava
l'appellante
a
rimborsare
all'appellata
le
spese
del
grado.
La Beuys ha proposto ricorso per cassazione sulla base di sei motivi, successivamente illustrati con
12
memoria.
Ha resistito con controricorso la De Domizio Durini.
Diritto
1. Con il primo motivo, denunciando "violazione e falsa applicazione di norme di legge; omessa
motivazione su un punto decisivo della controversia in ordine alla rivendica dell'opera d'arte", la
ricorrente deduce che la Corte di appello non ha tenuto minimamente conto del fondamentale
elemento, costituito dal fatto che l'opera denominata "Olivestone" era stata ideata e realizzata dal
prof. Beuys e che, pertanto, egli ne divenne proprietario con la sua creazione.
La Corte si è, infatti, limitata ad affermare che il corpus mechanicum (cioè le vasche, prima di
essere "trattate" dal Beuys) era nel possesso della De Domizio, senza conferire rilievo alcuno al
corpus mysticum, frutto dell'originale inventiva del Maestro, mercè la quale le vasche di pietra
erano state trasformate dopo opportuni adattamenti in un capolavoro dell'arte contemporanea.
Nei riguardi di questo motivo va anzitutto osservato che non sussiste l'inammissibilità, per omessa
indicazione delle norme di diritto su cui esso di fonda, sostenuta nel controricorso, essendo evidente
che la ricorrente ha inteso sostanzialmente denunciare, più che la violazione o falsa applicazione di
norme
di
diritto,
un
difetto
di
motivazione
della
sentenza
d'appello.
Trattasi,
però,
di
censura
infondata.
La Corte di merito non ha limitato il suo esame al c.d. corpus mechanicum (le vasche) dell'opera in
questione,
trascurando
il
c.d.
corpus
mysticum.
Infatti nella sentenza impugnata si parla di "Olivestone" come frutto di elaborazione artistica e
l'esame si incentra sul possesso e sulla proprietà della composizione senza che sia posto in dubbio
l'intervento del
Beuys per consentirne l'esposizione al Castello di Rivoli.
2. Con il secondo motivo, denunciando "falsa applicazione di norme di diritto ed insufficiente e
contraddittoria motivazione nel punto in cui la corte di merito non ha ritenuto applicare l'istituto
della specificazione con riferimento alla fattispecie controversa (art. 940 c.c.)", la ricorrente deduce
che non è concepibile che nel caso di specie non sia stato ritenuto operante il disposto dell'art. 940
c.c.
Pur ritenendo, infatti, di proprietà della De Domizio la materia prima (cioè le vasche), tali vasche,
attraverso l'opera creativa del Beuys, erano state trasformate in un aliquid novum, avente una
propria individualità economico-sociale completamente diversa rispetto alla materia trasformata.
La ricorrente lamenta, inoltre, che al corte abbia asserito assiomaticamente che la materia prima con
cui l'opera è stata realizzata è stata certamente fornita dalla De Domizio e che, comunque, costei,
anche ammettendosi l'acquisto della proprietà dell'opera in capo al Beuys per effetto della
specificazione,
l'avrebbe,
poi,
acquistata
dal
Beuys
dopo
la
specificazione.
A tal riguardo deduce che l'ipotetico acquisto da parte della De Domizio di "Olivestone" non solo
non è avvenuto, ma se così fosse stato, sarebbe stato nullo per violazione della normativa valutaria.
La ricorrente deduce, infine, che in assenza di un valido negozio causale, idoneo a realizzare il
trasferimento della proprietà, la dichiarazione notarile rilasciata dal Beuys il 13 dicembre 1984 non
ha e non può produrre effetti di sorta.
Neppure questo motivo può essere accolto.
Con giudizio di fatto, non sindacabile in sede di legittimità perché congruamente motivato, la Corte
di appello ha ritenuto non fondato il contrario assunto della Beuys circa il possesso e la proprietà
delle vasche utilizzate per comporre l'opera anzidetta, condividendo il convincimento del Tribunale,
13
che le aveva riconosciute di proprietà della De Domizio già prima che l'artista iniziasse il suo
lavoro.
Posto, dunque, che le vasche utilizzate per comporre "Olivestone" furono procurate dalla De
Domizio, si tratta di stabilire se sia applicabile o non al caso di specie la norma sulla specificazione,
come modo di acquisto a titolo originario della species nova regolato dall'art. 940 c.c.
La specificazione, secondo il concetto comunemente accolto, è un modo d'acquisto della proprietà
consistente nella trasformazione di una materia in un oggetto avente una propria individualità
economico-sociale.
Essa sarebbe riscontrabile - secondo la ricorrente - nel caso in esame, poiché il Beuys avrebbe
operato materialmente sulle vasche, di per sè prive di valore artistico-commerciale, trasformandole
in
un'opera
di
notevole
valore
artistico.
La Corte di appello ha, invece, escluso la sussistenza dei presupposti dell'acquisto per
specificazione, giacché nell'opera non poteva ravvisarsi la species o nova res, tenuto conto sia dello
scarso pregio delle antiche vasche (approntate da contadini) sia del fatto che, in definitiva, si era
trattato di una semplice combinazione di cose procurate dalla De Domizio.
L'individualità della cosa nuova viene, in concreto, esclusa dalle stesse deduzioni della ricorrente, la
quale evidenzia il solo mutamento funzionale delle vasche che, disposte in un certo modo nello
spazio, all'interno di una delle sale del Castello di Rivoli, appositamente scelta dallo stesso Beuys, e
colmate d'olio secondo l'intenzione dell'autore, in modo da far apparire il contrasto tra le ricche
decorazioni del castello, riflettentisi nello specchio d'olio, e le stesse umili vasche, utilizzate dai
contadini abruzzesi per la decantazione dell'olio d'oliva, darebbe a queste appunto la diversa
individualità.
Osservava il Collegio che la particolare collocazione delle vasche nel museo per evidenziarne la
destinazione naturale (e giustificare evidentemente il titolo dell'opera) non può far pensare alla
creazione di una nuova specie, secondo la previsione dell'art. 940 c.c., che richiede, invero, la
formazione, mediante elaborazione, di una res nova e, quindi, la trasformazione della materia.
Nel caso di "Olivestone" la materia non è stata trasformata, ma solo disposta in un modo
particolare, per raggiungere un certo effetto, il che è ben diverso dall'acquisizione nel mondo fisico
di
una
nuova
cosa,
nel
senso
inteso
dalla
predetta
norma.
Le altre deduzioni svolte con il secondo motivo concernono argomenti che formano oggetto anche
dei
successivi
motivi.
Vanno,
perciò,
esaminate
unitamente
ad
essi.
3. Con il terzo motivo, denunciando "violazione e falsa applicazione di norme di diritto (art. 2 legge 786-1956) laddove
la
sentenza
ritiene
che
la
De
Domizio
avrebbe
acquistato
validamente
dal
prof.
Beuys l'opera "Olivestone", la ricorrente deduce che, anche ammesso che la De Domizio abbia effettivamente
acquistato l'opera, tale acquisto sarebbe radicalmente nullo in quanto posto in essere in violazione della disciplina di cui
al decreto legge 6 giugno 1956 n. 476, convertito in legge 25 luglio 1956 n. 786 (c.d. legge valutaria), che all'art. 2
stabilisce che ai residenti è fatto divieto di compiere qualsiasi atto idoneo a produrre obbligazioni fra essi e non residenti
(qual
era
il
prof.
Beuys)
se
non
in
base
ad
autorizzazione
ministeriale.
Anche questo motivo va disatteso perché la sentenza impugnata è già validamente motivata sul punto per quanto sopra
riportato, avendo la Corte di appello condiviso la statuizione della sentenza di primo grado in ordine alla insussistenza
delle condizioni richieste per la specificazione di materiali forniti dalla De Domizio, ragion per cui, non sussistendo
trapasso di proprietà fra il prof. Beuys e la De Domizio, non è a parlare di nullità alcuna.
Le ulteriori considerazioni - che il Beuys sia divenuto proprietario della "Olivestone" e che la De Domizio l'abbia, a sua
volta, acquistata dopo la specificazione - sono svolte dalla Corte, per l'appunto, in via meramente ipotetica, per
completezza, e nulla tolgono agli argomenti che costituiscono la vera "ratio" della pronuncia di appello.
Ne consegue che il motivo in esame si risolve in una prospettazione che non può considerarsi rilevanti ai fini della
decisione.
14
4. Con il quarto motivo, denunciando omessa motivazione e violazione di legge in ordine al riconoscimento del
possesso dell'opera in capo alla De Domizio, la ricorrente deduce che gli elementi di giudizio in base ai quali la Corte di
merito ha riconosciuto questo possesso si rivelano inidonei, posto che, se è vero che la De Domizio era presente al
momento della creazione dell'opera, è altrettanto vero ed incontrastato che il creatore dell'opera era egli stesso presente
in quanto, per l'appunto, la stava creando; non era provato che la De Domizio avesse procurato le vasche; il contratto di
comodato con cui l'opera era stata consegnata al Castello di Rivoli disponeva espressamente che la durata del prestito
doveva essere concordata non con la De Domizio, ma esclusivamente con il prof. Beuys, dal che si evince che la De
Domizio non aveva la piena disponibilità dell'opera, corrispondente all'esercizio di un diritto reale, ma la deteneva
precariamente
per
conto
del
Beuys,
effettivo
proprietario.
Si sostiene, inoltre, che la motivazione adottata dalla Corte di appello per attribuire il possesso alla De Domizio è
insufficiente anche perché non tiene alcun conto della corrispondente situazione di fatto che caratterizza la pretesa
possessoria
della
Beuys.
Osserva il Collegio che neanche nei riguardi di questo motivo può ritenersi fondata, per la stessa considerazione fatta
esaminando il primo, l'eccezione di inammissibilità sollevata nel controricorso sul rilievo della omessa indicazione delle
norme
di
legge.
Peraltro esso va ugualmente disatteso, in quanto si risolve in censure rivolte avverso valutazioni di merito del giduice di
appello che - come si è appena finito di precisare a proposito del motivo precedente - ha compiutamente indicato le
ragioni del suo convincimento in ordine alla proprietà, al possesso e alla disponibilità, da parte della De Domizio,
dell'opera, essenzialmente costituita dalle vasche, che ella appunto aveva procurato per la sua composizione.
D'altra parte la ricorrente neanche con questo motivo offre elementi che possano validamente contrastare tale
apprezzamento, facendolo apparire non suffragato dalle risultanze processuali.
5. Con il quinto motivo, denunciando "errore di diritto ed omessa motivazione", la ricorrente ritorna
ancora sulla questione della proprietà delle vasche e deduce che ciascuno degli elementi noti da cui
è stata desunta la prova per presunzioni del diritto dominicale della De Domizio sulla "Olivestone"
(dichiarazione del defunto artista, l'essere la De Domizio nel possesso dell'opera, l'essere stata
sempre presente nel corso dello svolgimento dell'intera vicenda, dopo aver procurato vasche ed altra
materia) è frutto di un'erronea applicazione da parte del giudice d'appello dei principi generali del
diritto,
sia
sostanziale
che
processuale.
Neppure questo motivo può essere accolto e sempre per le ragioni già dette.
La Corte di appello - si ripete - ha correttamente motivato la decisione adottata circa la proprietà di
"Olivestone" evidenziando vari elementi presuntivi che consentivano di attribuirla alla De Domizio
già prima della elaborazione artistica, compreso quello emergente dalla scheda 13 dicembre 1984 a
firma Beuys autenticata dal notaio, in cui si dichiara che l'"opera" è di proprietà della De Domizio
(ed è proprio su tale elemento che la corte costruisce l'altra motivazione, quella svolta in via
ipotetica: se non fosse vero che la De Domizio era proprietaria delle vasche già prima che l'artista vi
lavorasse, lo sarebbe diventata dopo, quella scheda essendo stata redatta in data successiva).
6. Con il sesto motivo, denunciando "insufficiente e contraddittoria motivazione circa il rigetto delle istanze istruttorie",
la ricorrente deduce che non è dato comprendere quali siano i motivi del rigetto di dette istanze, volte alla dimostrazione
sia
del
suo
possesso
sia
del
suo
diritto
di
proprietà
sull'opera
di
cui
trattasi.
Anche
questo
motivo
va
disatteso.
Non può essere, infatti, sindacata la valutazione del giudice di merito circa la rilevanza e concludenza di mezzi istruttori
richiesti quando - come accade nella specie - egli, dando compiuta giustificazione della soluzione accolta, dimostra la
sufficienza
degli
elementi
probatori
già
acquisiti.
Il
ricorso
va,
pertanto,
rigettato.
Le spese seguono la soccombenza e vanno liquidate come in dispositivo.
P.Q.M
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente a rimborsare alla resistente le spese di questo
giudizio, che si liquidano in 102.600 lire, oltre agli onorari in 3.000.000 di lire.
Così deciso in Roma l'otto maggio 1991 nella camera di consiglio della Seconda Sezione Civile
della Corte Suprema di Cassazione.
15
Accessione invertita art. 938 c.c.
Cass., sez. II, 04-03-2005, n. 4774.
In tema di accessione invertita, la buona fede richiesta dall’art. 938 c.c., che consiste nel
ragionevole convincimento del costruttore di edificare sul proprio suolo e di non commettere
alcuna usurpazione, deve sussistere fino al completamento della costruzione, non operando la
norma citata alcuna distinzione fra l’inizio e il termine delle opere; inoltre, la buona fede non può
essere presunta, ma deve essere dimostrata - al pari dei requisiti oggettivi della complessa
fattispecie - dallo stesso costruttore, che, in deroga al principio generale dell’accessione
(superficies solo cedit), voglia conseguire il trasferimento della proprietà, essendo al riguardo
irrilevante la mancata opposizione entro tre mesi da parte del confinante (nella specie, è stata
esclusa la buona fede dei ricorrenti, che nell’occupare la porzione del terreno confinante, avevano
costruito nonostante che il confine tra i fondi, essendo delimitato da una scarpata, fosse facilmente
riscontrabile).
Fatto
Con atto di citazione del 9 giugno 1989 Milva Lupinelli conveniva in giudizio dinanzi al tribunale
di Perugia la società semplice "Azienda Agraria Binaglia di Marcello Binaglia & C." ss., in persona
del legale rappresentante, nonchè i soci Marcello e Gino Binaglia in proprio, e premesso:
che questi avevano costruito un fabbricato, che si incuneava nella proprietà di lei, che è confinante;
che con tale costruzione perciò essi, oltre ad avere occupato parte del suo fondo, recavano molestia,
per avere eliminato la relativa colonna d'aria, e determinavano lo stillicidio sul medesimo;
tutto ciò premesso, l'attrice chiedeva quindi che i convenuti venissero condannati in solido ad
arretrare detta costruzione alla distanza regolamentare prevista in m. 5, e al risarcimento del danno
scaturito da tale violazione, con vittoria di spese e compensi.
La società Azienda Agricola Binaglia & C. e i soci Binaglia si costituivano con comparsa di
risposta, contestando l'assunto "ex adverso" dedotto. In particolare in via pregiudiziale eccepivano
la carenza di legittimazione passiva di Marcello e Gino Binaglia, atteso che il terreno e il fabbricato
costruitovi sono di esclusiva proprietà della società, la quale, ancorchè avente la natura di società
semplice, tuttavia ha una sua autonomia di carattere economico e gestiona-le, cioè una sua
soggettività, distinta dai soci. Chiedevano quindi che il giudice dichiarasse la mancanza di
legittimazione passiva dei due soggetti.
Nel merito, eccepivano di avere operato in buona fede, e quindi proponevano domanda
riconvenzionale, con la quale chiedevano l'attribuzione della proprietà della porzione di suolo
occupata e del fabbricato, per accessione invertita, previo pagamento della relativa indennità.
Nel corso del processo veniva disposta consulenza tecnica di ufficio.
Indi, con sentenza non definitiva, il tribunale rigettava la domanda dell'attrice; attribuiva la
proprietà della porzione di suolo occupata ai convenuti, e rimetteva le parti dinanzi a sè per la
prosecuzione della causa, al fine di stabilire la misura dell'indennità da corrispondere all'attrice.
Il giudice osservava che in realtà i convenuti avevano agito in buona fede, posto che avevano
occupato solamente mq. 1,80 di suolo di questa, quindi una superficie molto modesta; tra i due
fondi infatti si trova una scarpata; il confine ha un andamento fortemente irregolare, ed inoltre
Lupinelli aveva omesso un'immediata contestazione in proposito. Pertanto il principio
dell'accessione invertita ben poteva trovare applicazione nella fattispecie.
Avverso tale provvedimento Lupinelli interponeva appello principale, dinanzi alla competente corte
di Perugia, lamentando il mancato accoglimento della domanda. I convenuti a loro volta
16
proponevano appello incidentale, con cui si dolevano che il tribunale non avesse dichiarato la
mancanza di legittimazione passiva da parte dei due soci.
Con sentenza dell'I febbraio 2001 la corte perlina, in riforma di quella impugnata, in via
pregiudiziale ha rigettato l'appello incidentale, osservando che, trattandosi di società semplice, i soci
sono responsabili in solido con la società stessa dei rapporti che fanno capo ad essa, tranne che non
risulti diversamente dall'atto costitutivo, e ciò non sia stato portato a conoscenza dei terzi. In
accoglimento dell'appello principale ha condannato i convenuti in solido alla demolizione dello
spigolo nord-ovest dell'edificio di loro proprietà, fino a ricondurlo sul confine comune, così come
individuato dal CTU, osservando che la buona fede doveva essere provata dai medesimi, e che i
presupposti per presumerla non vi erano nel caso in esame. Inoltre la corte ha posto le spese del
doppio grado a carico degli appellati soccombenti.
Avverso tale sentenza la società "Azienda Agraria Binaglia di Marcello Binaglia & C." e il socio
Marcello Binaglia hanno proposto ricorso per Cassazione, sulla base di tre motivi.
Lupinelli resiste con controricorso.
Diritto
1.
Con il primo motivo i ricorrenti deducono violazione e/o falsa applicazione dell'art. 112 cod.proc.civ., nonchè omessa
motivazione su un punto decisivo della controversia, con riferimento all'art. 360, nn. 3 e 5 dello stesso codice, in quanto la corte di
appello non ha considerato che la sentenza di primo grado già era passata in giudicato nei e fronti della società, posto che l'atto di
appello stato notificato all'Azienda Binaglia, bensì solamente ai due Binaglia, e per di più in proprio, e non invece quali soci di essa,
nonostante che essi avessero sempre dedotto la loro carenza di legittimazione passiva. Inoltre l'impugnazione era stata notificata fuori
termine, giacchè la notifica della sentenza era stata effettuata il giorno 15 maggio 1997, mentre quella dell'appello era stata eseguita il
16 giugno dello stesso anno. Sebbene la relativa doglianza fosse stata prospettata con l'appello incidentale, la corte di appello non l'ha
delibata.
Questo motivo è infondato.
Infatti dall'esame dell'atto di appello risulta che esso veniva notificato alla società stessa, oltre che ai due soci. Pertanto nessun
giudicato poteva essersi formato nei confronti dell'Azienda Binaglia. Si tratta perciò di un rigetto implicito dell'eccezione proposta da
parte della corte territoriale.
Per quanto poi attiene alla posizione di Marcello Binaglia e dell'altro socio, la corte di appello ha messo esattamente in evidenza che
nella società semplice i soci che amministrano la società stessa sono solidalmente responsabili con essa ai sensi dell'art. 2267 cc.
Inoltre parimenti rispondono delle obbligazioni della stessa anche gli altri soci, tra che non vi sia patto contrario. Nel caso in esame e
avevano provveduto a depositare il contratto costitutivo della società. Pertanto deve presumersi che a ciascuno dei soci spetti
l'amministrazione, come pure la rappresentanza in giudizio, a mente dell'art. 2266 cc, con la conseguente responsabilità di ciascuno
per le obbligazioni sociali.
Su tale punto perciò la sentenza impugnata risulta motivata in modo adeguato, oltre che giuridicamente corretto.
Quanto alla dedotta mancanza di tempestività dell'appello, la doglianza benchè non fosse stata proposta dinanzi al giudice del
riesame, è ammissibile, perchè la relativa questione può essere sollevata in ogni stato e grado del giudizio.
Essa, però, è priva di
pregio, questa Corte rileva che la sentenza di primo grado era stata pubblicata il giorno 19 novembre 1996, ma non era stata
notificata. Quindi essa era impugnabile nel termine lungo di un anno. Poichè l'appello era stato notificato il 16 giugno 1997,
l'impugnazione deve essere ritenuta tempestiva.
2. Con il secondo motivo i ricorrenti denunciano violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2251 e segg. cc, e contraddittoria
motivazione circa un punto decisivo della controversia, in relazione all'art. 360, nn. 3 e 5 c.p.c., giacchè la corte distrettuale non ha
considerato che Marcello e Gino Binaglia non erano stati evocati in giudizio nella qualità di soci, bensì in proprio, e quindi non
potevano rispondere delle eventuali obbligazioni della società, questa, ancorchè sfornita di personalità giuridica, tuttavia ha pur
sempre una soggettività autonoma, per la quale i rapporti che fanno capo ad essa non possono estendersi ai soci. Inoltre la sentenza
impugnata già era passata in giudicato nei confronti dell'Azienda Binaglia, e quindi le obbligazioni facenti carico su di essa non
possono coevamente gravare sui soci, altrimenti si creerebbe una situazione di conflittualità tra il soggetto autonomo e i soci
medesimi.
Questa censura rimane assorbita da quanto enunciato con riferimento al motivo più sopra esaminato.
3. Col terzo motivo i ricorrenti denunziano violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2727 e 2729
cod.civ., oltre che omessa, insufficiente e/o contraddittoria motivazione circa un punto decisivo
della controversia, relativamente all'art. 360, nn. 3 e 5 c.p.c., dal momento che la corte di appello
non ha considerato che i ricorrenti avevano agito in buona fede, atteso che tra i due fondi delle parti
non vi è alcun confine naturale o apposto dall'uomo, ma si trova una scarpata; inoltre questo è
irregolare; lo sconfinamento era stato molto modesto; la costruzione era stata realizzata per una
superficie inferiore a quella di cui alla concessione edilizia, che era per mq. 1000, mentre il
fabbricato ne ha una ridotta per mq. 873; esso anziché avere un orientamento ovest-est, ha quello
17
nord-sud; nessuna contestazione era stata mai mossa dalla resistente. Quindi l'uomo medio non
poteva che essere in buona fede, atteso che lo stesso CTU aveva accertato il modestissimo
sconfinamento solo dopo avere fatto uso di sofisticatissime strumentazioni, e avere sfruttato
conoscenze tecniche, che ovviamente non appartengono al bagaglio culturale dell'"uomo medio".
Anche tale doglianza è priva di pregio.
Infatti la corte di appello ha osservato esattamente che in tema di accessione invertita non può
trovare ingresso la prova per presunzione. D'altra parte nel caso in specie, a parte la modesta entità
della superficie occupata, come evidenziato anche dal CTU il confine ricade sulla scarpata che
divide i due fondi, sicchè esso era facilmente riscontrabile.
Inoltre la buona fede non può presumersi, ma va provata dal costruttore che la invochi. Questo
principio è perfettamente in linea con il costante indirizzo della giurisprudenza di questa Corte,
secondo cui "la buona fede rilevante ai fini dell'accessione invertita ex art. 938 cod. civ. consiste nel
ragionevole convincimento del costruttore di edificare sul proprio suolo e di non commettere alcuna
usurpazione. Il predetto stato soggettivo deve sussistere fino al completamento della costruzione
non operando l'art. 938 nel richiedere tale requisito, alcuna distinzione tra l'inizio ed il termine della
costruzione. Inoltre la buona fede del costruttore non può essere presunta, ma deve essere
dimostrata, al pari dei requisiti oggettivi della complessa fattispecie, dallo stesso costruttore che
voglia conseguire, contro il principio generale dell'accessione ("superficies solo cedit") il
trasferimento della proprietà del suolo occupato con la costruzione" (V. SENT. 03058 DEL
30/03/1999; CONF 9410784 489240 CONF 9709786 508648; SEZ. 2^ SENT. 02589 DEL
25/03/1997).
La corte di appello inoltre ha messo in evidenza esattamente che la mancata opposizione della
vicina interessata alla non occupazione non poteva dispiegare alcun rilievo, atteso che per la buona
fede richiesta ai fini della accessione invertita occorre avere riguardo al comportamento dell'agente
e non alla mancata tempestiva opposizione della parte danneggiata.
In proposito questa Corte ha statuito che "nella fattispecie costitutiva dell'accessione invertita
prevista dall'art. 938 cod. civ. sono distinti i requisiti della buona fede del soggetto che, sconfinando
dal proprio terreno, costruisce su una porzione del fondo attiguo, e quello della mancata
opposizione entro tre mesi del confinante. Quindi la mancata opposizione di quest'ultimo non vale a
dimostrare lo stato soggettivo di buona fede (ragionevole convincimento di avere diritto sulla
porzione occupata e quindi di non commettere usurpazione) del soggetto che ha eseguito la
costruzione, stato soggettivo che richiede una positiva dimostrazione da parte dell'interessato (Cfr.
SENT. 10784 DEL 15/12/1994; CONF 9109373 473740; VEDI 9311836 484545; VEDI 8709619
456650).
Su questi punti perciò la sentenza impugnata risulta motivata in modo adeguato, oltre che
giuridicamente e logicamente corretto.
Nè in sede di legittimità le parti possono proporre una differente valutazione del quadro probatorio
acquisito dal giudice di merito, mediante la proposizione di un vaglio alternativo di esso.
Ne deriva che il ricorso va rigettato, con le conseguenti statuizioni di legge relativamente alle spese
del giudizio, che si liquidano come in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso, e condanna i ricorrenti in solido al rimborso delle spese in favore della
controricorrente, e che liquida in complessivi euro cento/00 per esborsi, ed euro duemila/00 per
onorari, oltre agli accessori di legge.
18
19