alberto Manguel

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alberto Manguel
Postfazione
di
Alberto Manguel
Traduzione dallo spagnolo di Francesca Pe’
Cees Nooteboom è uno di quegli scrittori (Montaigne, Hazlitt, Borges) che ci fanno sentire più intelligenti. Non che i suoi libri siano didascalici o
eruditi, al contrario: l’approssimazione e il dubbio
fanno parte del suo stile. Il tono è quello della confidenza meravigliata, non dell’insegnamento impartito dall’alto; della perplessità indagatrice, mai
della pedante certezza. È come se l’universo fosse
per Nooteboom un testo di mirabili metafore che
non ammettono traduzione verso lingua alcuna,
solo umile riconoscimento, e il nostro compito è
percorrerlo a occhi implacabilmente aperti. In questo senso, tanto nei saggi quanto nei romanzi e nelle
poesie, Nooteboom è sempre stato uno scrittore di
libri di viaggio.
Lettere a Poseidon è una sorta di taccuino di
tale percorso. A giustificare il titolo, il proposito
di indirizzare a un grande dio dell’antichità una
serie di missive e osservazioni dal presente, intavolando così un dialogo non già con il passato ma
con un intero mondo che sembrava perduto per
sempre. Il dio che per Kafka (annota l’autore) non
vedeva nemmeno più quel mare che amministrava
da dietro una burocratica scrivania, serve a Noote257
boom da destinatario di interrogativi retorici, scampoli di esperienza, istantanee che i viaggi e le giornate gli offrono come objets trouvés riportati alla
luce. «L’oblio è il fratello assente della memoria»,
scrive. Nooteboom alimenta l’una con i fantasmi
dell’altro.
La corrispondenza con quanti non sono più di
questo mondo è un genere letterario antico. Secondo
Diodoro Siculo, gli egizi erano soliti scrivere ai
familiari morti «per farli tornare in vita»; quasi
duemila anni dopo Walter Savage Landor compose
le sue Conversazioni immaginarie scegliendo
come interlocutori Dante, Esopo, Calvino e altri
defunti celebri. La teologia conserva splendidi
esempi di corrispondenza con il Dio morto sulla
Croce, ma solo Nooteboom si è spinto fino a scrivere a un dio che precedette quel Dio, a un dio «di
un’epoca anteriore alla scrittura».
Ventitré lettere e una serie di note (cartoline,
potremmo chiamarle) sono indirizzate, non senza
sorprendente hybris, alla rancorosa divinità che
impose a Ulisse la sua odissea e che deve il proprio
nome (secondo Socrate, ci racconta Nooteboom)
a qualcuno che percepì il mare come una morsa,
desmos, che gli tratteneva i piedi, podoon. Il dio
Poseidon, confessa Nooteboom, lo attrae come
qualcosa «di una realtà antecedente alla storia».
A quel dio dimenticato Nooteboom pone domande
che non hanno risposta, o la cui risposta è contenuta
nella domanda stessa, senza che la si possa risolvere
secondo una sintassi logica. Sono domande che,
come si conviene fare a un dio, bastano a se stesse.
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«Che cos’è un uomo per voi?», «C’è una gerarchia nell’oltretomba?», «Uno che è morto qualche
migliaio di anni fa è morto allo stesso modo di uno
che è morto l’anno scorso?», «Gli dei leggono?»,
«Per quanto tempo si può restare a contemplare
una pietra?», «Le alghe possono essere anche un
memento mori?», «Che cos’è più misterioso, uno
che può morire o uno che non può morire mai?»,
«Quale dio apparirà all’arrivo dei barbari?».
Forse la chiave del libro si trova in uno dei testi
più brevi, “Autocarro”. Dopo avere descritto l’innocua foto giornalistica di un camion parcheggiato, Nooteboom chiarisce che ritrae la scena di
una tragedia, in cui una bambina fu assassinata e
il padre trovato impiccato a un albero. Nessuno sa
dire cosa successe esattamente, né perché. Nooteboom annota: «I morti tacciono e si lasciano dietro
un mistero che ha le sembianze di un grande autocarro accanto a degli alberi.» E poi, con tono
noncurante: «La cosa più probabile è che l’accaduto abbia a che fare con una forma impossibile
d’amore». La presunta spiegazione rivela tutto e
non spiega niente. «Nessuna soluzione, nessuna
grazia, la vita come punizione a se stessa», scrive
più avanti.
Dante, citato varie volte nel libro, pensava che
tutte le nostre nefandezze fossero frutto dell’amore,
dell’amore eccessivo (avarizia, lussuria) o della sua
mancanza (ira, invidia). Nel testo intitolato “Challenger” Nooteboom va oltre: suggerisce che quello
stesso amore ci offra uno strumento con cui vedere
il mondo in tutta la sua frammentata unità; con cui
riconoscere, per esempio, in un disastro spaziale,
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nell’esplosione del Challenger, una visione caleidoscopica dell’universo, «una nube composta di
carne e metallo polverizzati, esistenze sminuzzate,
materia viva e morta che ha assunto la forma di
una confusa nuvola bianca, una tomba di materia
sempre più sottile che si va disperdendo, l’infinita
scomposizione dei corpi di uomini e donne che un
tempo avevano un nome».
Chi è stato l’ultimo a invocarvi? chiede Nooteboom a Poseidon in una delle lettere. Di questa
domanda conosciamo la risposta: un olandese
errante, pieno di lucida speranza, un indagatore
implacabile, uno dei più grandi scrittori di questo
secolo privo di illusioni.
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