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Bibliografia
Urs Widmer, Il libro di mio padre, traduzione di Roberta Gado, Keller editore, p. 222, Є 15,50.
Storia di un padre
Grazie all’editore Keller anche gli italofoni hanno finalmente modo di leggere
quello che è considerato il capolavoro dello scrittore elvetico Urs Widmer
/ 27.02.2017
di Luigi Forte
Urs Widmer trovò in famiglia non pochi spunti per la propria vocazione letteraria fino a diventare il
più significativo scrittore svizzero erede di Frisch e Dürrenmatt. Complice involontario il genitore,
Walter, insegnante, critico letterario e traduttore; l’homme des lettres sul quale egli scrisse nel 2004
un romanzo ironico e fantasioso, Il libro di mio padre, che l’editore Keller propone ora nell’ottima
traduzione di Roberta Gado.
Del resto Urs amava aggirarsi in anni lontani come in un’eterna favola, per quanto talvolta offuscata
da tragici spunti autobiografici, come nel libro precedente, L’amante della madre. Per non parlare
della fiaba per adulti Il sifone blu del 1992 (Keller, 2015), dove l’autore, ormai uomo maturo, si
ritrova di colpo nel passato, nella sua vecchia casa di Basilea, mentre oltre confine infuria la guerra.
Una sconcertante proiezione che permette di rivisitare angoli dell’amata Svizzera, ridisegnare volti e
ravvivare sensazioni. Nelle sue pagine i luoghi amati, racchiusi in uno spazio ristretto, nel tepore di
una piccola comunità, si animano sotto il tocco magico della scrittura fino a dilatarsi in un
imprevedibile gioco di richiami.
Non fa eccezione nemmeno il lungo racconto del padre che qui compare con il nome di Karl. Doveva
essere, come gli disse uno zio in una curiosa iniziazione nella chiesa del paese dei genitori, un «libro
bianco» su cui annotare quotidianamente i fatti della vita. Ma dopo la sua morte quel diario finì nella
spazzatura, e tocca ora al figlio ricostruirne il percorso in un misto di eccentricità e umorismo,
trasformando così la figura paterna in una sorta d’imprevedibile picaro. Non importa se verità e
finzione si scambiano i ruoli perché nel racconto è comunque la vita che pulsa e quasi scorre via
come in sogno.
Eccolo lì il giovane Karl che nel 1915, dodicenne, per la prima volta – com’era costume in quelle
contrade – si reca da casa sua in città al paese d’origine dei genitori. Una giornata di cammino, in
testa un cappello da garzone e a tracolla una bisaccia di pelle con le provviste da viaggio. Non lo
spaventano né i boschi né un violento temporale e nemmeno, giunto al villaggio, le bare accanto alle
case, perché là gli abitanti ricevono fin da bambini il feretro in cui riposeranno nella vita eterna.
Ma Karl ha ben altro a cui pensare: è orgoglioso dei vestiti sgargianti che gli hanno messo addosso,
guarda con curiosità le giovinette intorno a sé e brinda con tutta la sala che lo sta festeggiando. È
l’inizio di un percorso in cui non mancano sorprese come la sua fuga d’amore a Parigi negli anni
Venti, l’incontro con la futura moglie Clara e gli amplessi furiosi seppelliti da libri e scartoffie da cui
i giovani sposi riemergono ridendo di gusto. Perché Karl è sopraffatto da decine di libri e di autori
che lui stesso traduce.
A cominciare da Rabelais e Voltaire, e poi su fino a Stend-hal, Rimbaud e Gide e tanti altri, che
danno un senso profondo al suo mondo di eterno sognatore. Eppure ha ormai una bella casa in
mezzo al verde, e la sua amatissima Clara e tanti amici, pittori e architetti che s’entusiasmano a tal
punto per il comunismo da fondare con lui il «Partito del lavoro». Come dargli torto quando fuori dai
confini tuona la voce bestiale di Hitler e l’Europa va a fuoco. Le previsioni sono ormai apocalittiche e
perfino lui si ritrova nei servizi ausiliari dell’esercito svizzero, da dove una volta scantona per far
l’amore con sua moglie.
La vita gli scorre accanto e lui se ne va in bici al carnevale di Basilea vestito da pagliaccio o
festeggia intere notti con gli amici pittori bevendo Corton Clos du Roi e brindando alla caduta di
Stalingrado. Certo non tutto va per il verso giusto: Clara per un certo periodo dà fuori di testa, i
soldi scarseggiano, la salute vacilla. Ma il suo amore per la letteratura sembra difenderlo da ogni
insidia: nel dopoguerra arrivano editori con proposte interessanti e nuovi amici, scrittori di rango
come Böll, Grass, Hildesheimer e il giovane Enzensberger. Sotto il noce di casa sua egli ritrova un
dialogo che l’esistenza sembrava aver per un attimo dissolto.
Ma è nei dettagli, nel carosello di immagini, situazioni e figure che Karl sfugge al suo interessante,
ma pur prevedibile destino di intellettuale, per diventare un personaggio. Accanto a lui silhouette
quasi inafferrabili come Monsieur Lefèbre, commesso in una libreria antiquaria di Parigi, che ha
«l’aria di un coniglio obbligato a portare il colletto rigido e la cravatta» o l’agricoltore Züst che la
sera, dopo aver finito di spargere letame, gestisce una casa editrice. Widmer ha il tocco leggero del
disegnatore e lo sguardo arguto e affettuoso dell’umorista negli angoli felici di una provincia senza
tempo. Ma l’immagine del padre gli svela soprattutto l’immensa libertà di una vita costruita
attraverso i libri, in cui immergersi respirando un po’ d’infinito. Forse, vien da dire con le parole di
Flaubert che Karl tanto amava: è stata la cosa più bella che ci è successa.