Doppio regime in Madagascar

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Doppio regime in Madagascar
17
Speciale Africa
Organo ufficiale
d’informazione
della Federazione
dei Verdi
Anno V - n. 35
domenica 15
febbraio 2009
I milioni di persone,
il doppio del 2007,
che rischiano
di morire di fame
nel corno d’Africa
Sped. in Abb.
Post. - D.L.
353/2003
(conv. in L.
27/02/2004 n. 46)
art. 1 comma 1
DCB - Roma
RINNOVABILI
Quello che era iniziato come un movimento pacifico è ora sotto il tiro della Guardia presidenziale
Doppio regime in Madagascar
Il sole
dell’Africa
Gabriele Salvatori
Continua a pagina 2
Un Paese diviso in due e ancora
sotto choc per il sabato di sangue
che ha causato oltre cento vittime. Mentre continuano le proteste di piazza, gli emissari del pre-
sidente Marc Ravalomanana e
quelli dell’ex sindaco della capitale Antananarivo, Andry Rajoelina, estromesso qualche giorno
fa direttamente dal governo, stan-
no tentando un accordo per uscire da una crisi che rischia di portare lo Stato alla guerra civile. Al
capezzale del Madagascar sono
accorsi mediatori internazionali
come il vicesegretario dell´Onu
Haïlé Menkerios, capi religiosi e
ambasciatori dei Paesi amici.
 Cecilia Tosi a pagina 3
L’ultima missione
del Colonnello
Gheddafi è il
nuovo presidente
dell’Unione
africana. Il suo
progetto è fare
dell’organismo
continentale un
corpo decisionale
capace di
realizzare il suo
vecchio sogno: gli
Stati Uniti d’Africa
 Paola Mirenda a pagina 2
Zimbabwe
© AMP/LaPresse
Pensando una produzione alternativa di energia, la risposta
va immediatamente al sole. Ne
consegue che il posto migliore
per questo sia l’Africa. Non a caso quando si è parlato di integrazione delle attuali reti elettriche
europee con altre fonti, il pensiero è corso a una super griglia, capace di collegare future centrali
solari del Nord Africa e del Medio Oriente con le installazioni
nostrane. Il progetto si chiama
Desertec e la sua finalità, come
recita il programma, «è quella
di assicurare all’Europa e ai Paesi della fascia del sole, rapidamente e a buon mercato, energia
pulita mediante la cooperazione
dei Paesi dell’Eu-Mena (Medio
Oriente, Nord Africa)». L’evenienza che quella stessa energia
potesse essere indirizzata anche
qualche chilometro più giù del
Sahara, non è stata presa troppo in considerazione. Eppure
l’Epia, l’Associazione industrie
fotovoltaiche europee, in un recente rapporto ha sostenuto che
circa il 30 per cento del fabbisogno energetico africano può derivare dal sole. Per fortuna dove langue l’attenzione delle istituzioni mondiali, è vivo l’interesse della cooperazione internazionale. Nell’Africa più povera, quella che dal sud del deserto
scende fin oltre l’equatore, è stata ed è soprattutto l’attività delle associazioni no profit a cercare di conciliare tecnologie alternative e progresso socio economico. Quella del fotovoltaico da queste parti, prima ancora di essere una scelta etica, appare come una necessità. In molti Paesi del continente la produzione di energia elettrica infatti non va sostituita, ma generata.
Chiariamo che il sole può fornire energia termica, calore, oppure energia fotovoltaica, elettricità. In questo secondo caso l’immagazinamento
dell’energia,
che viene prodotta istantaneamente, è molto più difficile e meno produttivo. Ma se per un qualunque Paese dell’Unione europea, considerato il tipo di consumo, un valido investimento si
misura in miliardi di euro, altrove il discorso è di gran lunga differente. Oggi in Africa sono circa
30mila le installazioni presenti,
la maggior parte della quali utilizzata per pompare l’acqua dai
pozzi. Il sistema fotovoltaico più
grande, costato un milione di euro e finanziato dalla regione tedesca della Renania, è stato costruito in Ruanda. È un impianto
che sviluppa una potenza massima di 250 kilowatt, per una produzione annuale di circa 450mila kwh. Ma “illuminate” incursioni del genere si registrano anche
altrove. In Etiopia, nella città di
Zway, una baraccopoli di 50mila abitanti, è in funzione un impianto che sostituisce la rete nazionale in caso di black out. 
Fonte: Onu
3
Un Paese allo stremo: una
gravissima epidemia di
colera si aggiunge all’Aids
e alla guerra civile. Mentre
la moneta nazionale non
ha più valore e metà della
popolazione è alla fame
Intervista
Obiettivi di sviluppo del millennio ancora lontani
Il traguardo mancato
Rossella Anitori
I
4
Nell’incontro con il ministro
di Stato agli Esteri del
Sudan, Elsamani El
Wasila Elsamani molti i
temi trattati. Tra questi
la situazione del Darfur,
l’America di Obama e Gaza
l tempo stringe e i risultati tardano ad arrivare. Con
tutta probabilità per l’Africa non sarà possibile raggiungere entro il 2015 gli “Obiettivi
di sviluppo del millennio”. Pochi dei propositi da conseguire
saranno ultimati e solo in modo parziale. L’ultimo Rapporto
Onu evidenzia infatti che molto resta da fare e che in alcune
aree, come in Africa sub sahariana, la situazione è grave. La
popolazione che vive al di sot-
to della soglia di povertà è ancora numerosa: dal 2000 c’è stato
un miglioramento, ma il ritmo
dei progressi non è sufficiente
a conseguire il risultato sperato, ovvero dimezzare la porzione delle persone che soffrono
la fame. Lo stesso discorso vale per la lotta all’Hiv: in Botswana e Zimbabwe un adulto su tre
è malato e per fermare la diffusione del virus bisogna agire sulle pratiche culturali e migliorare
l’assistenza sanitaria. Nonostante l’impegno, la sfida sembra ancora lontana dall’esser vinta. 
Paola Mirenda
D
al 4 febbraio Mouammar Gheddafi è ufficialmente il nuovo presidente dell’Unione africana, incarico
che ricoprirà per i prossimi dodici mesi, non senza il malumore di
molti. La sua elezione infatti non
è stata all’unanimità e per acclamazione, come normalmente avviene, ma a porte chiuse e assai
contrastata, con accuse di brogli
e manovre sotterranee. Ma non
c’è stato nulla da fare: per tradizione, quest’anno la presidenza
sarebbe dovuta andare a un Paese dell’Africa del Nord, dopo
quella del tanzaniano Jakaya Kikwete, rappresentante dell’Est
Africa. Ma il leader libico era
l’unico presente al summit, e
non si può eleggere un capo di
Stato che non partecipa. Dunque
solo il caso (o una pervicace volontà) ha portato il Colonnello
alla presidenza dell’Unione africana, non certo l’apprezzamento delle sue idee. Per l’ennesima
volta Gheddafi ha dimostrato di
essere in grado di dividere i Paesi africani, piuttosto che di unirli. La sua politica, un tempo giudicata, nel bene e nel male, come
rivoluzionaria, oggi appare più
Il sole
del continente
Salvatori dalla prima
In molti villaggi a sud del Marocco, regione del Maghreb, le
pompe solari garantiscono accesso e rifornimento costante
di acqua potabile. In Mali i pannelli sono stati installati in alcuni
ospedali, grazie a una campagna
internazionale contro le morti
per parto. Più a sud invece, il fotovoltaico, oltre che nel campo
sanitario, potrebbe arrivare a garantire l’esistenza di alcuni importanti progetti di microcredito, cioè in soccorso delle piccole economie locali. Il programma
di cui parliamo è stato avviato da
Amka-onlus, un’organizzazione
no profit attiva nella regione del
Katanga, sud della Repubblica
Democratica del Congo. Il Paese,
ex-Zaire, grande quanto un quarto dell’Europa, è la terza nazione
africana per estensione. Uscito
solo nel 2002 da una guerra civile, passata alla storia come Guerra mondiale africana, fatica a trovare oltre che una certa stabili-
Aids
Sierra Leone
Risultati positivi dopo la sperimentazione clinica
per il gel vaginale Pro2000, che ha dimostrato di
essere una prevenzione efficace nel 30 per cento
dei casi. Gita Ramjee, responsabile del gruppo di
ricerca in Sudafrica, avverte però di essere cauti.
La sperimentazione è andata avanti per 20 mesi,
coinvolgendo 3.000 donne in Africa e negli Usa.
Il Consiglio di sicurezza dell’Onu ha esaminato la situazione in Sierra leone, a quasi 10 anni di distanza
dagli accordi di pace. Per Michael von der Schulenburg, capo della missione Onu nel Paese (Binucsil), «ci sono tre cose che rischiano di mettere a
repentaglio le fragili conquiste: corruzione, traffico
di stupefacenti e disoccupazione giovanile».
Il sogno degli
Stati Uniti d’Africa
semplicemente incoerente e opportunistica, e con un certo fastidio i suoi vicini accettano le sue
boutade. Lui lo sa bene, ma poco
gliene importa, anzi ne fa un vanto. «Vi provocherò, ma lo farò
per il vostro bene», ha dichiarato appena eletto. E la prima delle provocazioni l’ha fatta proprio
al summit, pretendendo di entrare attorniato dalla sua nuova corte, quella che dall’estate scorsa lo
accompagna nei suoi spostamenti. Infatti la guida della rivoluzione della grande Jamarihiya arabo
libica socialista e popolare ha ora
deciso di aggiungere al suo lungo nome anche il titolo di “re dei
re” tradizionali d’Africa, ricevuto
a luglio 2008. Il permesso di eseguire lo show al summit fortunatamente non è stato accordato, e
il leader libico si è dovuto accontentare di avere al suo fianco una
sola persona. Strano paradosso
quello del colonnello Gheddafi, salito al potere giusto 40 anni fa rovesciando un re in nome
del diritto alla democrazia, e oggi re lui stesso. Ma non è certo
l’unico voltafaccia di questo personaggio che lo storico Michel
Péraldi definisce «da Commedia dell’arte». Su una cosa però non ha cambiato mai idea negli anni, ed è la sua convinzione
che l’unica strada possibile per il
continente sia la creazione degli
Stati Uniti d’Africa, come deciso
dall’Unione nel 2007. Convinto panarabista sin dall’inizio, ha
tentato per anni di costruire alleanze che consentissero all’Africa
di «parlare con una voce sola»,
come ama ancora dire. Lo ha fatto nel 1974 firmando con il pre-
sidente tunisino Habib Bourguiba “l’alleanza arabo-islamica”,
durata pochi mesi perché mai ratificata dal Parlamento di Tunisi. Ci ha riprovato nel 1986 con
Hassan II, con il quale ha dato
vita all’Unione arabo africana
(Uaa), l’unica ancora attiva. Infine l’Unione del Maghreb arabo
(1989), e il sogno dell’Unione
degli Stati del Sahel, che avrebbe messo insieme la lunga fascia
di terra dall’Egitto al sud del Marocco. Nessuna di queste alleanze è riuscita ad andare oltre l’apparenza, ma oggi Gheddafi ha la
possibilità di realizzare il suo sogno imponendo all’Unione africana un’accelerazione che soprattutto i Paesi dell’area anglofona, capeggiati dal Sudafrica, non vedono di buon occhio.
Quello che dieci o venti anni fa
poteva essere un’opportunità oggi è un progetto vecchio, che risulta sorpassato sia politicamente che economicamente. Le discrepanze finanziarie tra i Paesi
del Nord e quelli del Centro sono sin troppo evidenti, e in un
progetto federativo non sarebbero le nazioni del Maghreb a fare
da volano per lo sviluppo del Paesi dell’Africa centrale, ma al contrario il rischio sarebbe di frenare l’economia di entrambi. Lo sa
bene lo stesso Gheddafi, che non
ha mai investito per lo sviluppo
del continente, ma ha solo dato
soldi in base a simpatie e convenienze. Ma la voglia di far pagare al presidente francese Nicolas
Sarkozy l’affronto di aver costruito l’Unione del Mediterraneo
senza il suo consenso è troppo
forte per Tripoli. L’Unione africana sarà lo strumento della vendetta? 
©Tachus
tà politica, le possibilità di concreti sviluppi sostenibili. Amka
opera nei pressi della città di Lumumbashi, nel distretto sanitario
di Mabaya, dove sorgono trentaquattro villaggi totalmente privi
di energia elettrica. I programmi
avviati e realizzati sono molteplici, dalle campagne di vaccinazione alla costruzione di una scuola
che ospita 700 bambini, fino alla creazione di progetti di microcredito dai quali dipende la sussistenza di gran parte delle famiglie
locali. È proprio per questa ultima iniziativa che la tecnologia fotovoltaica rappresenta una possibilità concreta di evoluzione.
«L’andamento incerto delle attività agricole può essere determinato dalla presenza o meno di un
annaffiatoio - spiega Fabrizio Frinolli presidente della organizzazione -. Inoltre la parte della produzione non destinata alla sussistenza familiare, quindi indirizzata al mercato, solitamente arriva a destinazione in condizioni
disastrose. Manca un buon sistema di trasporto certo, ma anche
una struttura minima che garantisca al raccolto il mantenimento.
Un generatore di freddo». L’esigenza è proprio quella di colmare i vuoti strutturali e il proget-
to intrapreso necessità di metodi di inserimento accurati e studi mirati. Per questo motivo, ottenuto il sostegno di un’azienda
leader nel settore, disponibile alla fornitura di pannelli e alla formazione tecnica, sono state previste tre fasi di lavoro. La prima
è un’applicazione immediata della tecnologia nel Centro di salute, nel quale la notte si opera a lume di candela. È prevista la sostituzione del gruppo elettrogeno
alimentato a petrolio con pannelli solari che garantiranno la refrigerazione dei vaccini e la trasformazione della struttura sanitaria
in un ambulatorio effettivamente attivo 24 ore. Questa prima fase di sperimentazione permette
contemporaneamente l’introduzione della tecnologia, la valutazione dell’impatto e la formazione di specialisti, addetti alla manutenzione delle strutture. In seguito il progetto prevede uno studio di fattibilità per l’estensione
dei pannelli alle attività produttive, agricole e artigianali. L’ultimo passo è quindi l’applicazione della tecnologia a sostengo
dell’economia locale. La creazione di strutture per l’irrigazione,
permetterebbe alle donne dei villaggi di evitare spostamenti quo-
tidiani di quaranta minuti. Visto
che i campi sono stati realizzati in
prossimità dei corsi d’acqua, per
supplire alla carenza di impianti
idrici. Un semplice refrigeratore
garantirebbe una più idonea conservazione degli alimenti destinati ai mercati cittadini, mentre
gli artigiani del quartiere cittadino di Ruashi potenzierebbero le
loro capacità produttive.
È in questi termini che l’introduzione della tecnologia rappresenta una possibilità concreta di
crescita. Si tratta di uno sviluppo equo, controllabile e sostenibile nel tempo. Il Congo è il paradigma del continente africano.
Ultraricco di risorse naturali, è a
oggi uno dei Paesi più poveri del
mondo. Qui, come in tutta l’Africa, l’energia fotovoltaica può rappresentare un’ultima grande opportunità di ripresa. Un pannello solare dura in media venticinque anni, la manutenzione necessaria, per quanto specifica, è poca. Inoltre la quantità di energia
prodotta, l’efficienza media di un
singolo pannello è del 12 per cento, se può sembrare poca in Europa altrove fa la differenza. Il sole è da queste parti l’unica risorsa
non ancora sfruttata, inesauribile
e capitalizzabile. 
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Registrazione Tribunale di Roma n. 34 del 7/2/2005
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D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1 comma 1 DCB - Roma
«Vi provocherò,
ma lo farò per
il vostro bene»:
è stata la prima
dichiarazione
del leader libico
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Diritti
Precarietà
al femminile
Comincia lunedì 16 febbraio ad Addis Abeba il
workshop di 2 settimane
organizzato dall’Unione
africana su “Genere e presa in carico delle decisioni
economiche riguardanti
le donne”, per contrastare
la povertà nel continente.
Si declinano infatti al
femminile disoccupazione,
precarietà, indebitamento
con le istituzioni finanziarie, e peggio ancora
con gli usurai. Le donne
africane denunciano di
non essere sufficientemente tutelate dalla
legislazione, che le pone in
condizione di subalternità.
Un riscatto lo trovano
proprio nei programmi
di aiuto comunitari, che
godono di una normativa
più avanzata sul concetto
di genere.
Migranti
© AP/LaPresse
L’elezione di Gheddafi
a presidente
dell’Unione africana
potrebbe aprire una
nuova fase, tra sogni
di panarabismo e
nuove alleanze

Africa
domenica 15 febbraio 2009
© AP/LaPresse
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Il prezzo
della Libia
Venti milioni di euro. È
questa la cifra che la
commissaria europea alle
Relazioni estere, Benita
Ferrero-Waldner, ha
offerto alla Libia per contrastare l’immigrazione
irregolare. «Le ondate di
migranti tra Libia e Ue costituiscono un fenomeno
che preoccupa entrambi»,
ha dichiarato.
Eppure la misura sarà
perfettamente inutile:
meno del 10 per cento
degli irregolari presenti
in Europa arriva clandestinamente via mare. In
realtà clandestini non
si entra, lo si diventa: in
particolare questa diventa
l’unica soluzione per le migliaia di migranti chiamati
a lavorare e poi licenziati
al primo accenno di crisi,
o di ribellione.
Redazione: via del Portofluviale, 9/a - 00154 Roma
tel. 06.45.47.07.00 - fax 06.42.01.31.31 - [email protected]
Stampato su carta ecologica
La testata fruisce dei contributi di cui alla legge 7 agosto 1990 n. 250
Africa
Il duello
tra il premier
e il sindaco
di Antananarivo ha
già fatto oltre 100
vittime. L’Onu tenta
la strada del dialogo
domenica 15 febbraio 2009
Diritti
Congo
Un decreto presidenziale firmato lo scorso 7
febbraio dal presidente Bouteflika riconosce, dopo
anni di discussioni, il diritto delle donne algerine
di trasmettere la propria nazionalità ai figli. La
norma tutele così i figli delle algerine sposate con
stranieri, e si inserisce nel rispetto del testo Onu
sulle discriminazioni contro le donne.
Negli ultimi 20 anni le guerre che hanno martoriato il Congo hanno fatto oltre cinque milioni di
morti, e gli ultimi mesi di violenza nel Kivu hanno
peggiorato il bilancio. Il responsabile Affari umanitari dell’Onu, John Holmes, ha messo in guardia dai
rischi per i civili: i due milioni di sfollati congolesi
sono infatti senza aiuto né protezione.
3
In Madagascar il regime
resiste al sabato di sangue
Cecilia Tosi
R
avalomanana come Vasco Rossi. Per il presidente del Madagascar
40mila persone hanno sfidato
le piogge del ciclone Gael e riempito lo stadio della capitale,
scandendo il nome del loro beniamino a ritmo di musica. Il 12
febbraio il dj ingaggiato dal capo dello Stato urlava dalla console: «Per chi siete voi?», ricevendo una risposta moltiplicata per quanti erano i presenti:
«Ravalomanana». Un happening così somiglia più a una festa che a una manifestazione politica, eppure non c’è niente di
divertente nelle vicende malgasce di questo mese. Sprofondato
nel caos da tre settimane, il Paese ha vissuto il 7 febbraio una
delle sue giornate più nere, già
ribatezzata “sabato di sangue”:
i poliziotti hanno preso a fucilate qualche migliaio di persone scese in piazza contro il presidente, facendo 25 morti e un
centinaio di feriti. Vittime della contrapposizione frontale tra
il capo dello Stato Marc Ravalomanana e il sindaco della capitale Andry Rajoelina. Lo sfidante
del presidente, un magnate delle
telecomunicazioni che viene soprannominato Tgv, «per la ve-
Antananarivo, una fase degli scontri
locità con cui prende le sue decisioni», a dicembre ha dovuto piegarsi al diktat governativo
e chiudere la sua emittente televisiva, Viva tv, colpevole di aver
trasmesso un’intervista sgradita.
Da allora ha cominciato a lanciare appelli alla rivolta dalle onde
di Viva radio, cavalcando il malcontento per le condizioni di
miseria in cui versa l’intero Ma-
Il tour del presidente Jintao è partito dal Mali
La Cina è sempre vicina
Paola Mirenda
P
echino è sempre più intenzionata a rafforzare i suoi
legami con l’Africa, come
dimostra la recente visita del presidente cinese Hu Jintao nel continente. Il tour di Jintao è cominciato giovedì in Mali, Paese che
dalla sua indipendenza nel 1960,
ha sempre privilegiato l’economia del Sol levante. Bamako ha
del resto molto da mettere a disposizione, essendo il terzo pro-
duttore d’oro africano, dopo Sudafrica e Ghana, e uno dei maggiori produttori di cotone. La Cina in Mali finanzia numerosi progetti: l’ultimo, la costruzione del
terzo ponte della capitale, per il
quale Pechino ha sborsato 30 milioni di euro. «Il presidente viene per offrire un nuovo aiuto a
tutti», ha dichiarato il governo
cinese, ricordando che già nel
2006 era stato promesso di raddoppiare le somme investite in
Africa. 
©Tachus
Dopo il voto del 2007 furono oltre mille le vittime
L’Aja giudicherà il Kenya
N
≠on sarà un tribunale locale a indagare sulle violenze che seguirono alle
elezioni del Kenya. Il Parlamento ha infatti respinto il cosiddetto
Bill 2009, un emendamento alla
Costituzione caldeggiato dal presidente Kibaki e dal primo ministro Raila Odinga, che prevedeva l’istituzione a Nairobi di un
tribunale ad hoc. Ma la maggior
parte dei deputati (e tra loro anche qualche ministro) chiede che
la questione delle violenze sia
sottoposta al giudizio del Tribunale dell’Aja.
Per approvare la legge proposta
dal ministro della Giustizia Martha Karua sarebbero serviti almeno 148 voti a favore: ma i deputati disposti a votarla sono stati solo 101. Se entro il primo marzo
non si troverà un compromesso, sarà una Corte internazionale a giudicare i fatti che portarono alle violente reazioni che nel
dicembre 2007 causarono oltre
mille vittime.
p.m.
La protesta
è contro la
corruzione,
non a
favore di un
contendente
dagascar. Dal canto suo, Ravalomanana ha pochi argomenti per
difendersi dalla accuse di despotismo e corruzione: suo il monopolio sui beni alimentari, suo
il controllo della maggior parte
delle aziende malgasce, da quella dei trasporti ai mezzi di informazione. Tgv, dunque, non ci ha
messo molto a stabilire un’alleanza con i partiti dell’opposizione e a portare i suoi concittadini in piazza, anche se il numero
dei manifestanti è diventato realmente significativo solo dopo
il 3 febbraio, quando il presiden-
te lo ha destituito e lui si è autoproclamato leader di una fantomatica Alta autorità di transizione. L’atmosfera da colpo di Stato
si è caricata di elettricità, per poi
deflagrare nel “sabato di sangue”
che ha scatenato l’indignazione
di tutto il Paese. Anche se, a giudicare dalle interviste pubblicate dai giornali europei, la protesta dei manifestanti non è rivolta
tanto a destituire Ravalomanana
a favore di Rajoelina, quanto a
porre fine a un regime di ferocia e corruzione. «Adesso ci occupiamo di questo qua, poi penseremo a quell’altro», urlano in
corteo, riferendosi al presidente
prima e al sindaco poi. E mentre i malgasci chiedono il cambiamento, le Nazioni unite cercano di mettere d’accordo i due
sfidanti. Ban Ki Moon ha spedito ad Antananarivo il suo inviato etiope, per protestare contro
le violenze sui civili. Giunto in
Madagascar, il rappresentante
dell’Onu ha parlato con entrambi i contendenti, ottenendo rassicurazioni sulle loro intenzioni
pacifiche: Ravalomanana chiede
solo di mantenere lo status quo e
Rajoelina di proclamare elezioni
anticipate. La pace sì, ma in cambio del potere. 
©Tachus
Una nazione senza futuro
zimbabwe
La moneta non ha
più valore, metà
della popolazione
è alla fame
e l’Aids si espande
a macchia d’olio
Bruno Picozzi
S
ono oltre 63mila i casi accertati di colera nello Zimbabwe, un’epidemia senza precedenti in questo Paese
dell’Africa meridionale una volta conosciuto come Rhodesia, 12
milioni di persone sparse su un
territorio più vasto della Germania. Secondo l’ultimo rapporto
dell’Onu l’epidemia, scoppiata in
agosto, ha già fatto oltre 3.000 vittime, diventando così il peggiore
episodio di colera in Africa negli
ultimi 15 anni. Ma il vero problema è che la cronica mancanza di
acqua potabile e la carenza di medicine non danno possibilità di
fermare la diffusione della malattia, rendendo verosimile la previsione di conseguenze ben più disastrose. Un miglioramento del-
la situazione nel breve periodo è
improbabile vista la crisi economica e politica in cui versa il Paese, con un Parlamento bloccato
da mesi da lotte di potere, scontri
etnici, un tasso d’inflazione che fa
raddoppiare i prezzi ogni 24 ore
e una svalutazione recente della
moneta di un bilione percentuale.
La maggioranza della popolazione versa in condizioni di estrema
povertà, soffocata da salari ridicoli, pagati con una moneta di valore pari allo zero e che non viene
più accettata nei negozi. La grave epidemia di colera è semplicemente una conseguenza del collasso economico, essendo la diffusione della malattia strettamente legata alla scarsità di acqua potabile e di servizi igienici. La povertà, a sua volta, è frutto maligno
di responsabilità precise, in particolare dell’incapacità dell’eroe
dell’indipendenza nazionale, Robert Mugabe, al potere ininterrottamente da quasi trent’anni, di gestire il difficile passaggio dal ricco
e ingiusto colonialismo britannico a una millantata democrazia
che puzza molto di dittatura. Mugabe ha gestito e gestisce il Paese
su base etnica, escludendo la minoranza bianca e le etnie rivali dal
potere. I provvedimenti di espro-
prio violento nei confronti dei latifondisti bianchi, attuati a partire dal decennio scorso, gli hanno fatto guadagnare grande popolarità in alcune fasce della popolazione che hanno beneficiato delle distribuzioni della terra,
ma hanno anche distrutto la fragile struttura economica che dava
da vivere a molti milioni di persone. Contemporaneamente, il dialogo politico in questi anni è stato colpito in ogni modo. Populismo e violenza sono stati i metodi di governo di Mugabe. Di fronte al crescere naturale del maggiore partito di opposizione guidato da Morgan Tsvangirai, persino lo stupro sistematico delle
attiviste politiche è diventato arma di lotta per le milizie filogovernative. Allo stato attuale Mugabe è presidente, Tsvangirai è
primo ministro, ma un governo
di unità nazionale ancora non vede la luce. Così, la moneta nazionale non ha più valore, metà della popolazione è alla fame, l’Aids
è una macchia d’olio in continua
espansione e l’aspettativa di vita
è scesa dai 62 anni calcolati nel
1990 ai 36 anni. Mentre tre milioni di persone sono già scappate oltre confine in cerca di una
speranza. 
4
Africa
domenica 15 febbraio 2009
La futura politica
del Sudan, per il suo
ministro di Stato
agli Esteri, si baserà
su un forte richiamo
di unità nazionale
«Per nessun motivo
nessuna nuova guerra»
Manuela Puntello*
A
bbiamo incontrato il Ministro di Stato agli Esteri del Sudan, Elsamani El
Wasila Elsamani, a margine della riunione ministeriale sul processo di riforma del Consiglio di
sicurezza internazionale che si è
svolta alla Farnesina lo scorso 5
febbraio. L’incontro, presieduto
dal ministro degli Esteri Franco
Frattini e al quale hanno partecipato rappresentanti di settanta
Paesi, è divenuto occasione per
fare il punto sulla situazione del
Paese africano.
po del Tribunale, Luis Moreno
Ocampo, si è attivato soltanto attraverso i media senza attendere il
responso della corte a cui era stato sottoposto il caso di Al Bashir.
Abbiamo rifiutato categoricamente le asserzioni del procuratore generale. Lo Stato del Sudan inoltre non fa parte del Tribunale internazionale: dunque le sue competenze esulano dai nostri problemi interni. È solo una questione
di pressioni politiche che porterà
soltanto a complicare la questione
del Darfur.
Qual è la situazione in Darfur?
Il governo sudanese ritiene che
la questione del Darfur debba risolversi secondo l’accordo stipulato tra il Sudan, Unione africana
e Onu. Tale accordo è contenuto
nella risoluzione numero 1769,
che riconosce che questo problema può risolversi solo attraverso
trattati di pace e negoziati. Dopo
la firma di un trattato di pace tra
i gruppi armati e il governo sudanese gli sforzi devono mirare alla
sicurezza, alla ricostruzione e alla realizzazione di progetti per lo
sviluppo per i quali sono gia stati stanziati 2 miliardi di dollari.
Questi progetti verranno realizzati per una parte dal governo sudanese e per l’altra, la più consistente, dalle Nazioni unite, tramite gli Stati membri.
Come ha seguito il suo Pease la
guerra di Gaza?
La guerra dello Stato di Israele
contro Gaza ha avuto come vittima l’intero popolo palestinese.
L’unico obiettivo di Israele è stato
quello di indebolire gli Stati arabi, di metterli l’uno contro l’altro,
ma ciò che ha fatto più tristezza è
che ci siano stati Paesi che hanno
osservato questo attacco e l’hanno appoggiato, direttamente o indirettamente. Abbiamo assistito
a un massacro contro l’umanità.
Noi, come governo del Sudan, abbiamo preso la posizione di molti Stati del mondo, manifestando
e chiedendo di punire la leadership israeliana. Il popolo palestinese, il popolo arabo in generale, non è contro la religione ebraica, ma contro questa pratica politica sionista così dura che ha in sé
una forte dose di razzismo contro
i proprietari veri della terra. C’è
un’iniziativa araba che Israele non
vuole ascoltare (l’ha evitata anzi
un tutti i modi), e cioè la concreta fondazione di due Stati per due
popoli. Dobbiamo rispettare l’intero popolo palestinese, che ha dimostrato a tutti quanto la sua causa sia giusta. Ci auguriamo che la
posizione araba sia una sola e che
tutte le organizzazioni palestinesi
si unifichino per questa causa.
Come risolvere la questione?
Il governo ha lanciato quella che
è stata chiamata “l’iniziativa sudanese”. Questa proposta è stata
sostenuta da tutti i partiti di governo e di opposizione che hanno partecipato al forum sul Darfur, al quale erano presenti un
gran numero di osservatori provenienti dai Paesi vicini e da tutto il mondo. Il forum è durato
tre giorni, in cui sono stati formate sette commissioni che hanno emanato proposte e risoluzioni per la soluzione del problema.
In questo meeting è stata rappresentata tutta la gente del Darfur,
a eccezione delle organizzazioni
armate, che hanno respinto l’invito.
Quella del Darfur, però, non è
una situazione che si può risolvere da soli. Giusto?
Ci sono stati sforzi comuni tutt’ora
in corso, parte di un processo “arabo-africano”, guidato dallo Stato
del Qatar, con un mediatore congiunto, Jabril Basuli. Durante gli
ultimi sei mesi tutte le parti politiche hanno avuto dei colloqui
con quasi tutti i gruppi del Darfur. Questa iniziativa, presentata
a Doha, in Qatar, ha ottenuto l’accordo e il sostegno degli Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Unione europea nonché dell’organizzazione della Conferenza islamica.
Io faccio qui appello ai miei fratelli
del Darfur, perché è arrivata l’ora
di un grande richiamo nazionale.
Il problema del Darfur ha riflessi,
in generale, sullo sviluppo del Sudan. Ci avviamo verso uno sviluppo democratico e verso una grande svolta. Le prossime elezioni significheranno un rafforzamento
della nostra autodeterminazione,
un riequilibrio politico di grosse
dimensioni. Sia in caso di vittoria
che di sconfitta, l’unica protagonista sarà la nostra patria.
Come cambia il ruolo degli Stati Uniti con Obama?
La precedente amministrazione americana ha fatto dei grossi sforzi per giungere all’accordo
sul Darfur, stipulato ad Abuja nel
2006. Il ruolo dell’amministrazione Bush fu però molto negativo,
perché ha continuato a parlare di
genocidio e di pulizia etnica. Né
l’Onu, né l’Unione africana, né
la lega araba né l’Unione europea
hanno mai appoggiato un discorso simile. Persino l’ex inviato americano, l’ambasciatore Richard
Williamson, fu obiettivo di grandi pressioni perché parlasse di genocidio, ma egli rifiutò. Egli ha dichiarato, invece, in varie occasioni, che nel Darfur c’è una crisi, ci
sono combattimenti e vittime di
tali combattimenti, vengono commesse atrocità. Ma non dal governo, bensì da singoli individui. Oggi il governo Usa è cambiato. Noi
ci auguriamo che la nuova amministrazione sia diversa e che il
nuovo presidente Barack Obama
sia stato sincero lanciando il suo
grande appello in cui prometteva di tendere la mano per risolvere tutti i problemi del mondo tramite la collaborazione, il rispetto
e la reciproca comprensione. Noi
tendiamo la mano verso gli Usa,
un grande Paese che possiede una
grande responsabilità morale.
Ci auguriamo
che Obama
mantenga le
promesse. Noi
tendiamo una
mano agli Usa
Qual è, invece, la situazione del
Sud del Sudan?
Nel Sud del Sudan è in corso l’esecuzione di un grande accordo che
ha bisogno di grandi cifre economiche per essere realizzato. L’intesa ha costi molto elevati, che riguardano la costituzione di 11
commissariati, che a loro volta
necessitano di macchine, stipendi per i dipendenti, uffici e spese correnti. Il governo sudanese
non possiede tutte le risorse eco-
Nel Darfur
ci sono sforzi
in comune,
parte di un
accordo araboafricano
nomiche per attuare questo piano, ma continua a lavorare in questa direzione. Qualcuno dimentica che noi abbiamo realizzato il 95
per cento di tutte le opere in agenda nel Sud del Sudan, e l’abbiamo
fatto con il nostro lavoro e con i
nostri sforzi locali e autonomi, nel
momento in cui la comunità internazionale era inerte e non rispettava i suoi impegni. Quando
abbiamo firmato gli accordi di pace con il Sud del Sudan la comunità internazionale ci ha promesso
la cancellazione dei nostri debiti onerosi per l’economia sudanese che risalgono agli anni Settanta e
impediscono al Sudan tutt’ora di
ricevere crediti dal sistema bancario come qualsiasi altro Stato. Nella conferenza per i Paesi donatori,
svoltasi a Oslo, si sono raggiunti degli accordi che gli Stati partecipanti hanno onorato solo per il
18 per cento. Ci avevano promesso anche di cancellare il nome del
Sudan dalla lista dei Paesi che sostengono il terrorismo, ma malgrado la nostra grande cooperazione
(testimoniata anche dagli Usa) in
questo senso tutto ciò non è avvenuto. Questo costituisce un grande freno per tantissimi Paesi investitori e debitori.
Quali sono le vostre intenzioni?
Vogliamo ridisegnare i nostri confini, perché ciascuno possa dirsi
tranquillo all’interno di aree geografiche definite da un accordo
perfetto tra le parti in causa. Ai
confini si lega anche la suddivisione delle risorse del Paese: decideremo e preciseremo dove tali risorse si trovano, a Nord o nel Sud.
A ciò si lega, di seguito, il problema del censimento della popolazione, delle elezioni e del referendum. Tutti questi sono temi che
necessitano di risoluzioni permanenti. Se il cittadino avesse ciò
che gli serve - acqua, scuole, infrastrutture e lavoro - non avrebbe
bisogno in alcun modo né di esercitare violenza contro i suoi vicini contro la sua gente o contro il
governo. Siamo sicuri e tranquilli
che lavorare con le leadership del
Nord e del Sud ci porterà a risolvere tutti i problemi. Con una cer-
tezza: nessun ritorno alla guerra,
per nessun motivo.
Come sono i rapporti tra il Sudan e il Ciad?
Tra Sudan e Ciad ci sono legami
antichi che durano da moltissimi anni. Abbiamo 18 tribù comuni, che legano i due Paesi. Il confine però si allunga per 700 km ed
è senza controllo. Alcuni gruppi ribelli del Ciad hanno varcato il confine con il Sudan. Abbiamo proposto allora al governo ciadiano la costituzione di una forza
congiunta per il controllo dei confini, che avrebbero anche rafforzato gli scambi economici tra i due
Stati. Dopo gli accordi di Tripoli e di Dakar e la costituzione della commissione congiunta abbiamo però constatato che gli accordi presi con il Ciad erano irrealizzabili. A quanto pare nel governo
ciadiano ci sono gruppi di potere
che si oppongono alla buona riuscita degli accordi. Continueremo
a lavorare per portare la stabilità
tra le due regioni, anche se non accettiamo l’interferenza nei nostri
affari interi del Ciad. Sappiamo
infatti per certo che le truppe ciadiane hanno preso parte all’attacco nella città del Darfur Al-Muajiria. Malgrado ciò desideriamo che
i nostri rapporti siano rapporti di
buon vicinato.
L’Italia
si è sempre
espressa
a voce alta
a favore del
nostro Paese
Che opinione ha della Corte penale internazionale ?
È chiaro che viene usata per scopi politici. Tutte le procedure che
il procuratore generale del Tribunale ha intrapreso dimostrano che
egli non si è comportato con la
sufficiente trasparenza per la questione del presidente Al Bashir.
Un procuratore generale dovrebbe prima raccogliere le prove, poi
dimostrare le accuse. In tutto questo tempo però il procuratore ca-
Come sono i rapporti tra il Sudan e l’Italia?
I rapporti con l’Italia sono lunghissimi e molto forti. Abbiamo una
buonissima esperienza con l’industria italiana, e molta fiducia nelle
vostre aziende. I vari governi italiani sono stati sempre bilanciati nei
rapporti con il Sudan. È vero che
l’Italia fa parte dell’Unione europea e segue le direttive comunitarie, ma si è sempre espressa a voce
alta a favore del Sudan. I nostri rapporti sono ulteriormente migliorati dopo la visita del vostro presidente della Repubblica Giorgio
Napolitano e quella di Sua santità il papa Benedetto XVI nel 2007.
Dopo quelle visite ci sono stati
grossi sforzi reciproci per allargare
la cooperazione politica, culturale
ed economica. Ci auguriamo che
l’Italia possa essere il nostro partner strategico in Europa, perché è
la più vicina a noi, conosce molto
bene il Sudan ed è stata presente
per lunghi periodi in Africa. L’Italia ha enormi possibilità tecnologiche, gode di buoni rapporti economici bilaterali con i quali costituire
solide partership con il Sudan, per
realizzare progetti utili ad entrambi i Paesi. Noi non realizzeremo il
nostro benessere senza la cooperazione con Paesi amici come l’Italia, e ci auguriamo che questo rapporto continui. 
*Agenzia Nibras