La speranza di una pace in un mondo in guerra

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La speranza di una pace in un mondo in guerra
 La speranza di una pace in un mondo in guerra Una panoramica dei conflitti in corso attraverso operazioni di peacekeeping, guerre dimenticate e olocausti sconosciuti Numerose ONG, ONLUS, associazioni umanitarie e comunità religiose si battono quotidianamente in tutto il mondo per la difesa dei diritti umani e per la promozione di iniziative sulle questioni connesse alla pace. L’attività dei loro operatori è encomiabile, ma sicuramente insufficiente rispetto alle gravi questioni umanitarie globali. Meeting, conferenze, dibattiti, seminari si organizzano per sensibilizzare l’opinione pubblica sulla pace, ma a quanto in realtà serve tutto ciò? Sono tutte attività lodevoli, in particolar modo per chi le promuove, poiché l’informazione in questo ambito è molto importane, ma, a volte, si spende più per un incontro che in aiuti umanitari concreti. In Italia la più importante manifestazione in materia è la Marcia per la pace Perugia‐Assisi voluta per la prima volta nel 1961 dal politico e filosofo Aldo Capitini (1899‐1968), e che nell’ultimo periodo della sua storia si svolge solitamente ogni due anni. Questi eventi hanno un alto valore simbolico e divulgativo, ma rischiano di divenire fini a sé stessi. La pace non può essere soltanto una speranza, ma deve essere un processo di costruzione. Si deve partire proprio da questi incontri per poter informare i governi e gli organismi internazionali allo scopo di far prendere loro decisioni cruciali in merito a situazioni mondiali critiche. Nel mondo ci sono ancora oltre trenta conflitti armati, specialmente in Africa, di cui sa poco o niente. I dibattiti, gli eventi e le marce possono fare molto poco se la comunità internazionale non interviene con azioni mirate nelle zone di crisi. La pace nel mondo non è un’utopia, ma la si può costruire attraverso una seria diplomazia e un’immediata soluzione dei conflitti in corso. L’ONU, l’UE e le istituzioni internazionali dovrebbero fare ancora più pressione su tutti quei Paesi la cui popolazione è vittima delle guerre, della fame e della continua violazione dei diritti umani da parte delle autorità. Purtroppo, come ben sappiamo, i Paesi cosiddetti “civilizzati” sono direttamente, o indirettamente, complici in una buona parte di queste aree di crisi. Un secondo passo concreto sarebbe quello di dirottare grosse missioni militari di peacekeeping nelle varie zone di guerra. Spesso si è portati a collocare la figura del peacekeeper in contesti come l’Afghanistan o l’Iraq e allora il consenso dell’opinione pubblica viene meno. Paul Collier, noto economista della Oxford University, nel suo libro “L’ultimo miliardo” (2007) sostiene che le missioni militari dell’ONU sono state decisive in buona parte del globo poiché hanno stabilizzato notevolmente le aree di crisi creando zone cuscinetto tra le varie parti in conflitto, proteggendo la popolazione civile e gli sfollati, ricostruendo infrastrutture, bonificando terreni dalle mine e distribuendo aiuti umanitari. Oggi l’economia di quei Paesi devastati dalla guerra sta riprendendo gradualmente. Il problema, come sostiene Collier, è che queste missioni sono insufficienti, o addirittura assenti, nelle zone di guerra dei Paesi in via di sviluppo, dove abita appunto “l’ultimo miliardo” della popolazione del pianeta, la quale è costretta alla fame e alla povertà principalmente per cause dovute alla guerra. Quest’ultima fetta di mondo si concentra per lo più in Africa e in alcuni Stati dell’America Latina e dell’Asia. L’operato delle numerose ONG e associazioni umanitarie che lavorano in quelle aree rischia purtroppo di diventare una goccia nel mare se non è supportato e protetto dalle grandi missioni internazionali. I mass media concentrano la loro attenzione prevalentemente su quelle che sono chiamate “guerre mediatiche”, ovvero l’Afghanistan, l’Iraq e i Territori Palestinesi. L’Africa è il continente più martoriato dalle guerre e solo alcune di esse fanno raramente notizia sui mezzi di informazione. Il continente nero non solo deve fare i conti con la piaga della povertà, dell’aids, della siccità, della denutrizione, ma anche con le dittature, lo sfruttamento illegale delle sue risorse da parte dell’Europa e della Cina, e i conflitti armati. Secondo Amnesty International solo il 40% delle armi prodotte in tutto il mondo è destinato agli eserciti e alle forze di polizia regolari, il resto passa nelle mani dei civili. Questo è un dato allarmante e fa riflettere sull’enorme quantità di armi che circola tra i vari gruppi ribelli africani. USA, Brasile, Germania, Russia, Cina e purtroppo anche l’Italia sono stati i principali esportatori di armi in Africa negli ultimi anni. I conflitti africani differiscono dalle altre guerre nel mondo per la brutalità con cui si svolgono, per il numero considerevole di armi bianche coinvolte e per gli effetti disastrosi che provocano. Quando si parla di guerre in Africa si rimanda tutto allo scontro tribale, ma in realtà ci sono cause assai complesse in cui è coinvolto nella maggior parte dei casi anche l’Occidente. L’esempio più eclatante di tutto ciò è il dramma del Ruanda. Il piccolo Stato dell’Africa centrale è stato teatro dal 1990 al 1996 di una cruentissima guerra civile in cui sono morte 4.000.000 di persone. Da una parte vi erano le truppe governative ruandesi, di etnia hutu, dall’altra i ribelli del RPF(Rwandan Patriotic Front), di etnia tutsi. Tutta la crudeltà del conflitto si è incentrata nei tre mesi del famigerato genocidio, ovvero dall’Aprile al Luglio del 1994, dove sono state uccise 1.071.000 persone (1.300.000 secondo una ONG francese) in prevalenza tutsi e hutu moderati, considerati nemici dagli estremisti nazionali. Per sfatare il luogo comune dello scontro tribale basti pensare che le liste dei tutsi da uccidere erano pronte già un anno prima del genocidio. Di fronte al più grande massacro della storia recente la comunità internazionale è stata a guardare riducendo il contingente dell’ONU, che era stato schierato nel 1993 per supervisionare i primi accordi di pace, da 2500 a poco più di 400 uomini in tutto il Paese. Attualmente in Africa sono tre le aree di maggiore crisi: la Repubblica Democratica del Congo, il Darfur e la Somalia. La più grande crisi umanitaria mondiale si consuma nella Repubblica Democratica del Congo dove dal 1998 ad oggi sono morte per cause dovute alla guerra almeno 5.400.000 persone. Un rapporto internazionale del 2006 stimava che i morti fino ad allora potevano essere addirittura 7.000.000. Nella RDC si sono susseguite dal 1996 al 2003 due sanguinosissime guerre. La Seconda Guerra Civile Congolese (1998‐
2003), ribattezzata anche “Prima Guerra Mondiale Africana” per via del numero dei Paesi coinvolti, da un lato le truppe governative appoggiate dagli eserciti di Ciad, Sudan, Angola, Namibia e Zimbabwe, dall’altro i ribelli affiancati dalle forze regolari di Ruanda, Uganda e Burundi, è stata la guerra più disastrosa per i suoi effetti dopo la Seconda Guerra Mondiale (1939‐1945). Le vittime del conflitto sono state 2.500.000, di cui “solo” 350.000 nei combattimenti, il resto è perito a causa della fame, delle epidemie, delle carestie e delle malattie che la guerra ha portato. Nella RDC la guerra però non si è mai fermata. Nel 2004 infatti è iniziato un nuovo conflitto per il controllo delle risorse nell’est del Paese. Si stima che dal 1998 muoiano nella RDC 38.000 persone al mese per il collasso delle infrastrutture sanitarie. Il più grande olocausto della storia recente si consuma nel silenzio degli organismi internazionali. Il contingente militare dell’ONU di circa 20.000 uomini è del tutto insufficiente, e tra i principali Stati che vi partecipano vi sono il Bangladesh e il Nepal, mentre non è presente un solo soldato USA, e la Francia, il Regno Unito e l’ex colonizzatore Belgio si limitano con diversi ufficiali osservatori. In Darfur, nel Sudan, si sta consumando un altro terribile genocidio. Nel 2003 è scoppiata la guerra civile tra i ribelli e le truppe sudanesi. Qust’ultime sono responsabili di addestrare e armare le popolazioni arabe nomadi del Darfur, le quali con l’intento di conquistare le terre agricole fanno una mirata pulizia etnica. Le vittime stimate sono 400.000. Dal 2007 in Darfur è schierata una forza congiunta di UA (Unione Africana)‐ONU di 33.000 uomini, ma è insufficiente per lo Stato regionale più grande dell’Africa. Da notare che i Paesi partecipanti alla missione ONU sono tutti africani. La Somalia, d’altro canto, è una nazione allo sbando, senza più un governo centrale dal 1991 e con una guerra civile al suo interno che in diciotto anni ha provocato 500.000 morti. Il Governo di Transizione Somalo controlla solo il sud del Paese, mentre un modesto contingente dell’UA è stanziato nella capitale Mogadiscio, il resto è nelle mani dei vari gruppi ribelli. In Africa purtroppo, oltre a questi tre drammi umanitari, vi sono altre zone di guerra e di instabilità politica che sono dimenticate dai media: Senegal (regione del Casamance), Costa d’Avorio, Nigeria (delta del Niger e distretti centrali), Repubblica Centrafricana, Sud Sudan, Est Sudan, Etiopia (Stati di Oromia e di Ogaden), confine Etiopia‐Eritrea, Eritrea, Nord Uganda e Burundi. Altri Stati invece si stanno riprendendo dopo anni di conflitto come la Sierra Leone, la Liberia e il Ciad, altri si sono già ripresi come l’Angola e il Mozambico, altri ancora erano sull’orlo di nuovi massacri etnici come il Kenya e lo Zimbabwe. Seppure in Africa si concentra il maggior numero di guerre e zone di crisi il resto del mondo non è da meno. L’America Latina è sconvolta dalla catastrofe umanitaria di Haiti, dove dal 2004 sono riprese le tensioni, e dalla guerra civile che dal 1984 imperversa in Colombia. In Asia pare sia terminata la sanguinosa guerra civile nel nord dello Sri Lanka (70.000 vittime dal 1983), mentre in India, il Paese di Bollywood e della nuova era informatica, vi sono ancora quattro zone di guerriglia (Kashmir, Stati del Nord‐Est, Stati centrali e Gujarat). Altri drammatici conflitti devastano il continente asiatico: Nepal, Nord Myanmar, Sud Thailandia, Nord Laos, Filippine e Indonesia (province di Papua Occidentale, di Sulawesi e di Aceh, e Isole Molucche). La splendida cornice dell’Oceania è stata invece macchiata nel 2003 dalla guerra civile interetnica nelle Isole Salomone. Troppe volte infine abbiamo visto in televisione gli esiti dei vari conflitti nei Balcani e nel Caucaso per quel che riguarda il nostro continente. Fare informazione su quanto accade nel mondo è dunque il primo passo utile per smuovere le coscienze e per vedere realizzato un primo spiraglio di pace. Il passo successivo spetta ai governi e agli organismi internazionali, all’ONU in particolare, che hanno tutti i mezzi a disposizione per intervenire nelle zone di conflitto affinchè i disastri che una guerra porta, come le carestie, le malattie, i profughi, il dramma dei bambini e delle bambine‐soldato, non accadano più.