N.1-2008 Gennaio - Febbraio

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N.1-2008 Gennaio - Febbraio
Allenatri 2008
n.1 gen/feb
A cura di:
Mario Miglio, Responsabile Didattico SIT Fitri
Costantino Bertucelli, Responsabile Centro Studi e Ricerche Fitri
Roberto Tamburri, Direttore Tecnico Fitri
Claudia Umbro, Responsabile Organizzativo SIT Fitri
In questo numero:
GENNAIO - FEBBRAIO 2008
Miglio Mario
Responsabile Didattico SIT FITri
Responsabile Scuola Alta Specializzazione Fitri
Sebastiano Spina
Istruttore Fitri
Allenatore FIDAL
“La corsa campestre: alcune proposte per i
giovani triatleti”
Andrea Pirondi
Osteopata
“Osteopatia e recupero muscolare”
Giacomo Vinci
Tecnico Scuola Alta Specializzazione Fitri
“La gestione dell’affaticamento nelle gare di
triathlon di lunga durata”
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LA CORSA CAMPESTRE:
ALCUNE PROPOSTE PER I GIOVANI TRIATLETI
di Mario Miglio e Sebastiano Spina
Introduzione
La corsa campestre o cross-country o
semplicemente cross, costituisce la prima forma
di mezzofondo: le corse prolungate su pista ne
sono soltanto la derivazione sofisticata e
cronometrica. Il cross, pur avendo anticipato di
gran lunga la nascita stessa della pista in terra
battuta ed il cerimoniale delle Olimpiadi, non
figura nel programma dei Giochi. Dopo qualche
presenza sporadica (nelle edizioni del 1912-19201924 si sono disputate delle vere e proprie gare di
cross), il cross-country è stato rimpiazzato dallo
steeple-chase, oggi noto come 3.000 siepi.
Il cross-country viene praticato in inverno e per
tutta la primavera, assumendo una funzione di
rodaggio in vista della stagione agonistica. I
percorsi si snodano tra i campi e sono segnalati
per mezzo di bandierine, rosse sulla sinistra e
bianche sulla destra, oppure vengono disposti dei
nastri colorati lungo l'intero tracciato in modo che
questo sia ben visibile. I concorrenti attraversano
vecchi mulini, ponticelli, prati, corrono in discesa e
in salita e su ogni tipo di terreno.
E’ una specialità impegnativa e allo stesso tempo
ricca di fascino e, pur essendo una specialità
dell’atletica tipicamente invernale, può ricoprire un
ruolo rilevante nella costruzione di un atleta
qualunque sia la disciplina da questo praticata,
questo perché contribuisce in modo essenziale
alla formazione atletica incrementando le capacità
utili a colui che prepara la stagione che arriverà
subito dopo.
Qualcuno dirà che è semplicemente un modo per
far fiato e gambe, ma la componente variabile
condizionata dal tipo di terreno, fangoso, morbido,
compatto oppure misto, dal percorso con curve di
ogni raggio, salite e discese di ogni tipo a volte
anche con ostacoli artificiali e dalle condizioni
atmosferiche, fa si che anche il miglior ippodromo,
con curve ampie e i presupposti per un tracciato
dalle caratteristiche veloci, con pioggia o in casi
estremi, ma non rari, con neve, può trasformarsi
in percorso lento ed impossibile. In questi casi
l’uso di scarpe (chiodate) idonee al tipo di terreno
è fondamentale. Le calzature chiodate danno
stabilità e una spinta migliore. La misura dei
chiodi da applicare alla scarpa va studiata in base
alla condizione e alla compattezza del terreno in
cui si correrà. I chiodi, trovandosi
sull’avampiede, invitano ad avere un‘azione “in
spinta”.
La mentalità e l'atteggiamento atletico-psicologico,
nascono e si sviluppano con il cross. E' quindi
importante anche la motivazione con la quale lo si
affronta
in
quanto
non
tutti
sono
psicologicamente in grado di affrontare e
superare la fatica.
Gareggiare su percorsi dal fondo sconnesso o
comunque irregolare, oltre all’adattamento su
quelle superfici, porterà una numerosa serie di
benefici.
Il cross rinforza le caviglie, obbligando il piede ad
una spinta spesso irregolare e di diversa potenza,
scioglie la muscolatura dando fluidità all'azione
della corsa e sottopone l'atleta all'esecuzione di
atteggiamenti impensati ed improvvisi; stimola le
qualità propriocettive, nonché la coordinazione, la
forza, l’elasticità; inoltre sensibilizza il sistema
cardio-circolatorio e abitua alla fatica muscolare.
Questa attività richiede infatti frequenti cambi di
ritmo e variazioni dell'azione di corsa. La
coesistenza con alti gradi di affaticamento rende
quindi il cross-country una palestra formativa di
buon livello.
Prepara per tutte le distanze del mezzofondo e
fondo ma non solo. Sono sempre di più gli atleti
che usano il cross come preparazione per i vari
appuntamenti della stagione primaverile/estiva
mentre tanti altri lo finalizzano. E’ sempre più
frequente vedere sui campi di gara atleti che poco
hanno a che fare con l’atletica leggera in senso
stretto. Sciatori, ciclisti e anche tanti triatleti si
cimentano tra dicembre e marzo in competizioni
più o meno lunghe.
Tecnicamente, quindi, il cross possiede il pregio di
inserirsi in maniera progressiva e graduale in una
preparazione non specifica, lasciando intatto il
patrimonio nervoso di chi lo pratica: questo è il
motivo della sua grande diffusione e popolarità in
nazioni evolute nella pratica sportiva.
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Cross-country e triathlon
Sono molti i triatleti che praticano il cross-country
nella stagione invernale. Per alcuni costituisce
semplicemente un diversivo alla monotonia degli
allenamenti invernali. Altri lo considerano un vero
e proprio stimolo agonistico da inserire nella
programmazione del triathlon che, soprattutto per
motivi climatici, è praticabile in Italia solo nella
bella stagione.
Alcuni dei migliori duatleti
e triatleti hanno
ottenuto eccellenti risultati anche nel crosscountry. Il caso più emblematico è quello del
francese Yann Million capace, alcuni anni fa, di
salire sul podio dei campionati mondiali di
duathlon e di entrare nei primi 10 ai campionati
europei di cross. L’australiana Emma Moffat conta
un titolo nazionale di cross e anche la nostra
Beatrice Lanza ha partecipato, da juniores, con la
squadra nazionale, ai campionati del mondo ed
europei di corsa campestre. L’elenco dei triatleti
che si dedicano al cross-country è molto lungo.
Tra i giovani c’è chi lo pratica abitualmente, con
risultati anche soddisfacenti. Agli atleti della
Scuola di Alta Specializzazione si raccomanda di
partecipare ad almeno 4 o 5 gare di cross durante
l’inverno.
Ma perché il cross-country è così importante per
la preparazione del triatleta?
Osservando il modello prestativo del cross e
paragonandolo a quello della frazione di corsa nel
triathlon i punti di convergenza sono molti.
Meritano di essere analizzati soprattutto quelli di
carattere metabolico, muscolare e psicologico.
Aspetti di carattere metabolico
Le distanze delle corse campestri sono simili a
quelle delle frazioni di corsa nel triathlon olimpico.
Anche nelle categorie giovanili, dai ragazzi agli
juniores, si percorrono all’incirca le stesse
distanze e le piccole differenze che si possono
riscontrare non sbilanciano in modo significativo
l’impegno metabolico richiesto. Esistono anche
gare su strada e su pista che ricalcano in durata
e/o chilometraggio le distanze delle frazioni
podistiche del triathlon e che, per questo motivo,
possono risultare altamente correlate alla capacità
del triatleta di correre molto forte. Tuttavia il crosscountry presenta delle particolarità tecniche non
facilmente riscontrabili nelle gare su strada e su
pista e che possono essere assimilabili ad alcuni
frangenti della frazione di corsa del triathlon:
-
la partenza e le prime centinaia di metri
dei cross vengono percorsi a velocità
-
molto sostenute al fine di non rimanere
intrappolati nel folto del gruppo dei
concorrenti, nell’impossibilità di effettuare
sorpassi nei tratti più sinuosi del percorso;
la disomogeneità del fondo e l’altimetria
del percorso non permettono di avere
riferimenti cronometrici e costringono
l’atleta a basarsi sulle proprie sensazioni;
l’aggressività degli avversari e la velocità
imposta alla competizione prevede una
lotta “corpo a corpo” che spesso obbliga a
momenti di intensità molto superiore alla
velocità media di gara, con la
conseguente necessità di recuperare e la
difficoltà di attingere a doti di
sopportazione della fatica per concludere
la gara.
Questi aspetti tecnici implicano una preparazione
metabolica che, oltre a considerare i parametri
classici degli sport di resistenza, deve tenere in
debita considerazione alcune capacità che sono
riscontrabili anche nella terza frazione del
triathlon:
•
•
•
la capacità di sostenere elevate velocità
per alcune decine o centinaia di metri, per
più volte nella stessa gara, anche
ricorrendo all’intervento dei meccanismi
anaerobici e con il conseguente accumulo
di debiti lattacidi;
la capacità di ossidare il lattato
accumulato a velocità comunque elevate;
la
capacità
di
condurre
l’intera
competizione con una situazione di debito
già contratto nella prima parte di gara,
con frequenza cardiaca, atti respiratori e
disagi organici rilevanti dopo appena
pochi minuti dalla partenza.
Se il cross-country è sempre stato considerato
“palestra di fatica” per gli specialisti della pista,
che dopo un inverno di freddo e fango, potevano
goderne i vantaggi nelle loro prestazioni estive, a
maggior ragione questi vantaggi li può avere il
triatleta che, anche nelle sue competizioni estive,
fatica ne dovrà fare tanta.
Aspetti di carattere muscolare
Le caratteristiche del terreno su cui gli atleti
corrono rappresentano la più grande differenza tra
il cross e la corsa del triathlon. Il triathlon non
prevede percorsi su terreni sdrucciolevoli se si
esclude il tratto sabbioso che, a volte, collega
l’uscita dall’acqua all’entrata in zona di
transizione. La frazione podistica si svolge
normalmente su strade asfaltate o di consistenza
compatta.
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La necessità di esprimere un’azione di corsa
efficace ed economica è uno degli obiettivi
fondamentali del triatleta e ciò presuppone
innazitutto grandi doti di forza della muscolatura
motoria dei piedi. Anche la componente
propriocettiva contribuisce in modo significativo
all’espressione di un gesto dal basso costo
energetico.
Le caratteristiche dei terreni da cross richiedono
qualità muscolari significative e, in alcuni casi,
capacità di forza davvero notevoli. L’eterogeneità
dei percorsi, la diversa durata degli appoggi, la
differente risposta elastica, l’attrito e la
disomogeneità delle superfici esaltano le qualità
propriocettive e di equilibrio degli atleti più bravi.
Per il triatleta questa rappresenta un’esercitazione
formidabile. I suoi piedi si allenano in una
situazione altamente specifica e i benefici che ne
ricava si apprezzeranno nel corso della stagione
estiva di triathlon.
È sconsigliabile tuttavia avvicinare a questa
disciplina soggetti “a rischio”. Triatleti che hanno
avuto infortuni o accusato instabilità alle caviglie
devono essere avvicinati alle gare di cross con
molta cautela e, in alcuni casi, sensibilizzati alla
partecipazione a gare di corsa su strada.
Il cross-country è inoltre l’unica specialità della
corsa di resistenza che presenta curve molto
strette e improvvisi cambi di direzione che la
accomunano alla frazione finale del triathlon dove,
molto spesso, i percorsi hanno le stesse
caratteristiche. In entrambi i casi l’atleta dovrà
essere anche allenato a percorrere le curve più
velocemente possibile e a saper immediatamente
rilanciare l’andatura sfruttando le sue doti di forza,
senza gravare eccessivamente sulle riserve
energetiche.
Gli aspetti più rilevanti della capacità di forza
allenabili tramite la pratica del cross possono
essere sinteticamente elencati:
•
•
•
•
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Aspetti di carattere psicologico
L’approccio psicologico alla competizione dei
migliori specialisti del cross è un altro dei fattori
che consigliano la pratica del cross-country ai
giovani triatleti.
Al normale impegno fisiologico delle gare di
resistenza, in questo caso, si aggiungono variabili
non sempre prevedibili legate al clima, al percorso
e alla qualità del terreno. Le condizioni di disagio
che caratterizzano una gara di cross sono a volte
davvero impegnative e mettono a dura prova le
resistenze psicologiche prima che quelle fisiche
degli atleti. La sensazione di non riuscire ad
esprimere forza sui terreni viscidi e fangosi,
malgrado una profusione immensa di energia, è
una delle sensazioni peggiori che possa provare
un
corridore,
aggravata
ulteriormente
dall’osservazione di qualche avversario che, in
quel medesimo contesto, sembra non avere le
stesse difficoltà. La volontà di insistere comunque,
la perseveranza di non demordere, l’umiltà di fare
fatica anche concludendo in una posizione di
rincalzo, sono qualità psicologiche fondamentali
nel cross come nel triathlon.
La quasi totale mancanza di strategie e tattiche di
gara, soprattutto nelle prove giovanili, rappresenta
un’altra componente altamente formativa del
cross-country. Allo sparo l’unico obiettivo è
correre forte e mettersi alle spalle più avversari
possibile. Lo si fa partendo forte e lottando ogni
metro per guadagnare qualche posizione e per
non cedere la propria. La tenacia che
contraddistingue i crossisti e le crossiste più
determinati è una componente fondamentale nello
sviluppo della personalità di uno sportivo di
resistenza e, spesso, contribuisce in modo
determinante anche all’evoluzione della sua
capacità prestativa.
la capacità di forza della muscolatura
motoria dei piedi;
le capacità muscolari elastiche degli arti
inferiori in relazione al tipo di fondo;
le capacità di contrazione eccentrica
diversamente sollecitate dai tratti in
discesa e dalla differente consistenza del
terreno;
le capacità di forza resistente con una
richiesta
di
impegno
muscolare
percentualmente maggiore rispetto alle
competizioni di corsa su strada o su pista.
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Alcune proposte
Il cross-country, per le connotazioni di tipo
metabolico, muscolare e psicologico che lo
caratterizzano, può essere proposto ai triatleti,
soprattutto ai più giovani, come un valido mezzo
d’allenamento nel periodo invernale, quando il
calendario del triathlon non prevede appuntamenti
agonistici.
La partecipazione a gare di cross-country non è
semplicemente un diversivo per ovviare alla
monotonia degli allenamenti invernali, ma un utile
strumento
di
crescita
e
di
controllo
dell’allenamento: gli obiettivi che ci prefiggiamo di
ottenere attraverso le varie esercitazioni di forza,
abbinate allo sviluppo delle componenti
aerobiche,
sono
praticamente
misurabili
attraverso la partecipazione a gare di cross che,
allo stesso tempo, risultano determinanti per
innalzare ulteriormente queste stesse capacità.
La scelta delle gare, il numero delle stesse
nell’ambito della stagione invernale e il livello
tecnico delle stesse, devono però essere
attentamente valutati.
Per i più giovani, dai ragazzi ai cadetti, la
partecipazione a cross di carattere regionale è la
soluzione migliore. Nel corso di un inverno si
potrebbero proporre da 6 a 8 gare, comprese
quelle scolastiche. Le distanze ridotte, da 1000m
a 2500m, non comportano particolari problemi di
preparazione specifica e implicano tempi di
recupero piuttosto brevi.
Per i triatleti allievi la scelta dei cross invernali va
compiuta con maggiore attenzione. È necessario
individuare gare che permettano loro di
competere nella giusta misura: è una perdita di
tempo partecipare a competizioni di scarso livello;
è inutile e demotivante il confronto con realtà
inarrivabili. La lunghezza delle gare, 3-4km per le
allieve e 4-5 per gli allievi, presuppone una buona
preparazione e il necessario tempo per
recuperare, soprattutto a livello muscolare. Le
gare di cross-country inoltre si svolgono quasi
esclusivamente di domenica che è anche l’unico
giorno in cui i ragazzi di questa età non vanno a
scuola e avrebbero la possibilità di allenarsi in
bicicletta sfruttando le ore più calde della giornata
e senza problemi di oscurità. Dunque la scelta di
un calendario di cross-country va fatta con
oculatezza e presuppone chiarezza sugli obiettivi
che si vogliono raggiungere. In ogni caso la
partecipazione a meno di 4- 5 gare non offre
possibilità di confronto e di verifica, anche se non
può che arricchire il bagaglio di esperienza dei
nostri atleti.
Gli stessi problemi assumono contorni ancora più
complessi nella categoria juniores e under 23
dove rimangono valide le indicazioni circa la
scelta accurata del livello tecnico delle gare a cui
partecipare e la necessità di partecipare ad un
numero significativo di prove nell’arco dell’inverno.
Conclusioni
Il cross-country è un’ottima occasione per
impegnare agonisticamente i triatleti nella
stagione invernale. La partecipazione ad una
serie di corse campestri può migliorare
significativamente le capacità prestative nella
corsa dal punto di vista tecnico, metabolico e
muscolare. La corsa campestre è inoltre “palestra
di fatica” e questo le fa assumere un ruolo
importante nella formazione della personalità dei
giovani praticanti gli sport di resistenza.
L’esperienza condotta negli ultimi anni da diversi
tecnici e società di triathlon hanno avvalorato la
teoria dell’utilità della pratica del cross-country per
i giovani triatleti.
Bibliografia:
AAVV Le basi scientifiche dell’allenamento in
atletica leggera; Atleticastudi 2005, supplemento
ai nn 1-4
Arcelli E. Allenamento delle diverse componenti
aerobiche nel corridore. Differenze fra il cross e le
altre specialità del mezzofondo e del fondo;
Atleticastudi, 2007/3-4
Frohner G. Principi dell’allenamento giovanile;
2003, Calzetti & Mariucci Editori
Malina R.M. Crescita e maturazione di bambini ed
adolescenti
praticanti
atletica
leggera;
Atleticastudi 2006, supplemento ai nn 1-2
Merni F., Del Curto L., Di Michele R., Gigliotti
L. Correlazione tra parametri biomeccanici e
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circuit
training
intensivo;
Atleticastudi, 2007/1
Miglio M. Manuale per l’allenatore di triathlon.
Guida tecnica per l’allenamento del triathlon dai
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Nummela A.T., Paavolainen L., Sharrwood K.A.
e al. Neuromuscolar factors determining 5km
running performance and running economy in
well-trained athletes;2006 Eur J Appl Physiol 97-1
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OSTEOPATIA E RECUPERO MUSCOLARE
di Andrea Pirondi
anche in assenza di ossigeno, le altre all’interno
Introduzione
dei mitocondri.
Scopo di questo articolo è di esporre, in modo
sintetico, come un corretto intervento osteopatico
possa migliorare lo smaltimento del lattato
conseguente un allenamento impegnativo o una
gara
Il tema viene preceduto da una breve introduzione
2. Produzione d’energia a partire dai
trigliceridi
sui meccanismi di produzione d’energia
I grassi vengono accumulati principalmente nel
1. Produzione d’energia aerobica,l’ATP
Prima di parlare di acido lattico e quindi di
produzione di energia in condizioni di stress fisico,
è opportuno accennare ai processi di formazione
di energia necessaria al muscolo per svolgere la
sua funzione fisiologica. L’energia utilizzata nel
metabolismo muscolare, ma anche in quello di
qualsiasi cellula dell’organismo, viene fornita
dall’adenosintrifosfato (ATP), composto chimico
instabile dato da una combinazione di adenina,
ribosio e tre radicali fosfati. Gli ultimi due radicali
hanno legami ad alta energia e scindendosi si
trasformano da ATP ad adenosindifosfato (ADP).
La peculiarità dell’ATP è che i legami energetici
sono molto labili, cosicché si possono rompere
abbastanza facilmente e fornire quindi energia
rapidamente. Il glucosio è la fonte primaria per la
sintesi di ATP, dalla degradazione di questo si
tessuto adiposo come grasso di deposito e nel
fegato dove vengono sintetizzati. Infatti questo
organo degrada i trigliceridi a composti più
semplici per essere poi utilizzati come fonti
energetiche. E’ importante notare che nel fegato
compaiono grandi quantità di trigliceridi in tutte
quelle situazioni nelle quali i grassi debbono
essere utilizzati per fornire rapidamente energia,
come nel digiuno o nel diabete mellito.
Quindi anche i grassi sono importanti per la
formazione dell’ATP ed anche in questo caso il
procedimento avviene per tappe.
La prima parte è l’idrolisi dei trigliceridi ad acidi
grassi, i quali tramite un carrier enzimatico, la
carnitina, entrano nei mitocondri e qui vengono
ossidati e trasformati in acetilcoenzima-A. Questo
poi subisce la stessa degradazione di quella
ottengono una grande quantità di ATP che
descritta per il metabolismo del glucosio, con la
avviene attraverso tre processi, la glicolisi, il ciclo
differenza che vengono prodotte 146 molecole di
di Krebs, il trasporto degli elettroni e l’ossidazione
degli ioni H. La prima avviene nel citoplasma,
ATP, un numero maggiore rispetto alle 38
molecole
prodotte
dalla
degradazione
del
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glucosio. La degradazione e l’ossigenazione degli
questo motivo che il meccanismo anaerobico non
acidi grassi avviene esclusivamente in aerobiosi.
può procedere per molto tempo.
Durante la glicolisi si formano due molecole di
3. Liberazione d’energia in assenza
d’ossigeno (meccanismo anaerobico)
e produzione di lattato
acido piruvico e quattro ioni idrogeno che, in
Nel periodo di riposo, il muscolo non utilizza il
nel citoplasma. Tale accumulo tenderebbe a
glucosio o meglio ne utilizza una piccola parte
fermare la reazione della glicolisi secondo la
(10%), la maggioranza deriva dall’ossidazione
legge fisica di azione delle masse, quindi non si
degli acidi grassi (85-90%) e solo una piccola
avrebbe più neanche la liberazione di queste due
quantità dagli amminoacidi (1-2%). Quando inizia
ATP. Fortunatamente però quando i prodotti
un
predominante
terminali della glicolisi cominciano ad essere in
l’utilizzazione muscolare dei carboidrati, quindi si
eccesso reagiscono l’uno con l’altro formando
forma glucosio a partire dalle riserve di glicogeno
acido lattico.
esercizio
fisico,
diventa
assenza di ossigeno, non entrano nei mitocondri
per essere trasformati in energia, ma si fermano
muscolare. Con la glicolisi si forma anche il lattato
che aumenta nel muscolo e viene poi immesso
nel torrente circolatorio. Infine viene estratto dal
fegato
che
lo
utilizza
per
il
processo
di
gliconeogenesi. Quindi se l’esercizio aumenta di
intensità, cresce l’utilizzo del glucosio e cala
quello degli acidi grassi.
Quindi in condizioni anaerobiche l’acido piruvico
viene convertito ad acido lattico che diffonde
all’esterno della cellula. Il lattato è perciò una
valvola di scarico, un tampone dell’acido piruvico,
che consente alla glicolisi di procedere più a
lungo, anche per alcuni minuti, perché appunto
diminuisce l’acido piruvico. Questo infatti in
E’ bene precisare che non si forma acido lattico
assenza di ossigeno, non entra nei mitocondri per
ma lattato, perché in un ambiente liquido, come
la via ossidativa, ma forma acido lattico che, al
può essere l’interno della fibra muscolare, l’acido
contrario
lattico è dissociato in ioni: uno ione lattato
membrana cellulare e può così diminuire l’acidosi
negativo (LA¯) ed uno ione idrogeno positivo (H⁺).
del
piruvato,
passa
facilmente
la
cellulare che si instaurerebbe se si accumulasse
l’acido piruvico.
Se l’ossigeno è insufficiente per portare a termine
l’ossidazione del glucosio, come ad esempio in
uno strenuo esercizio fisico, e la fibra muscolare
consuma più ATP di quella che riesce a produrre
con il meccanismo aerobico, l’organismo libera
ancora una certa quantità di energia mediante la
Inoltre, se vi è carenza di ossigeno, si formano
ioni lattato ed idrogenioni anche quest’ultimi
responsabili dell’acidità della soluzione. Più ci
sono protoni, più acido è l’ambiente. Questa
acidità però può essere tamponata da sostanze
come il bicarbonato che interagiscono con gli ioni
glicolisi, perché questa è una reazione che
avviene in assenza di ossigeno. Però, come detto
idrogeno. Infatti gli ioni bicarbonato (HCO₃¯) si
sopra, l’energia liberata durante questo processo
uniscono agli ioni (H⁺) formando prima acido
è di sole due ATP, quindi poca, ma sufficiente a
carbonico
garantire un apporto vitale alla cellula, ed è per
formando acqua ed anidride carbonica, che viene
e
poi,
reagendo
ulteriormente,
eliminata dai polmoni.
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Si evince che è molto importante, dopo uno
strenuo esercizio fisico, fare un esercizio a bassa
intensità, perché favorisce la resintesi del piruvato
4. Riconversione dell’acido lattico e
piruvico a glucosio in presenza
d’ossigeno
dal lattato direttamente nei muscoli coinvolti, e
quindi si accelera il recupero.
5. Il trattamento osteopatico
Nel momento in cui l’organismo torna ad avere a
disposizione l’ossigeno, questo viene utilizzato
per ossidare le grandi quantità di piruvato ed
idrogeno presenti nei liquidi dell’organismo. In
questo modo le loro concentrazioni vengono
ridotte e si inverte la reazione chimica che forma
acido lattico. Il piruvato così ottenuto viene
utilizzato nel ciclo di Krebs per formare energia
che serve a convertire il restante acido piruvico a
glucosio. La maggior parte di questa conversione
avviene nel fegato, ma una parte anche in altri
tessuti, come quello cardiaco e muscolare. Se il
lavoro anaerobico è seguito da un lavoro
aerobico,
il
lattato
viene
repentinamente
convertito a piruvato nei muscoli attivi ed è quindi
pronto per venire ossidato nei mitocondri al posto
del glicogeno. Se invece il lavoro anaerobico è
seguito da riposo, il lattato che si accumula nella
cellula diffonde attraverso la membrana cellulare,
raggiunge il torrente sanguigno, arriva al fegato
dove viene convertito prima in piruvato e poi in
glicogeno epatico tramite una glicolisi inversa.
Questo glicogeno può poi essere scisso a
glucosio che viene reimmesso nel
torrente
circolatorio per arrivare ai muscoli ed essere
utilizzato
nella
glicolisi
cellulare
oppure
trasformato in glicogeno di riserva. Questo
processo appena descritto è chiamato ciclo di
Cori ed è importante perché appunto nelle attività
di lunga durata e nei recuperi dopo un lavoro
fisico aiuta a rimuovere l’acido lattico dai muscoli
e rifornisce il sangue di glucosio che dà un
continuo supporto energetico ai muscoli.
Quanto descritto è ciò che accade normalmente
dopo uno sforzo prolungato. Immaginiamo per un
attimo
che le
meccanismi
strutture coinvolte in
non
funzionino
questi
correttamente,
quando parliamo di strutture intendiamo: S.N.A
(sistema nervoso autonomo). , rachide, sacro,
coste, polmoni, bronchi, cuore, fegato, milza e
quindi tutto il sistema linfatico. Tutte queste
strutture, come il resto del nostro corpo,
sono
soggette quotidianamente a traumi di varie origini
(emotivi, pregresse malattie, traumatismi, ecc..).
Per
esse
facilmente
compreso
porterò
un
esempio: pensiamo ad un atleta che in passato
abbia subito un trauma da colpo di frusta,
sicuramente passati molti anni dall’evento non
penserà assolutamente che le proprie prestazioni
possano essere condizionate da quest’ultimo.
Come può condizionare il metabolismo un evento
di questo tipo? Pensiamo a come si struttura un
colpo di frusta causato, ad esempio, da un
tamponamento automobilistico. Tutte le forze
vettoriali si scaricano sul sacro che diventa il punti
di fissità estremo di tutto il rachide. Normalmente
ci si preoccupa del tratto cervicale, ma ciò che
veramente struttura le problematiche nel postacuto è il blocco del sacro tra le iliache. Sarà
questo che nel tempo modificherà tutti gli equilibri
dinamici della colonna, del diaframma e gli
equilibri
pressori
delle
cavità
toraciche
e
addominali. Il sacro, perdendo elasticità, porterà
ad un aumento delle tensioni sul pavimento
pelvico e dello psoas; quest’ultimo, a sua volta,
porterà in tensione i pilastri del diaframma
inducendone
un
aumento
della
tensione
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muscolare . L’occipite posto all’altro estremo della
colonna vertebrale adatterà le tensioni che
arrivano dal sacro inducendo lentamente una
.
perdita di elasticità nella colonna (le meningi
trovano inserzione sulla seconda vertebra sacrale,
occipite e prima-seconda vertebra cervicale), che,
di
per
se,
non
creerebbe
grossissime
problematiche, tranne per il fatto che, tutto il
S.N.A. sofferente porterà un’alterazione della
fisiologia dei polmoni, fegato, cuore e sistema
linfatico. Ricordiamo che,
dal punto di vista
meccanico avremo un pavimento pelvico poco
elastico con conseguente cattivo apporto e
drenaggio
vascolare
dell’arto
inferiore,
il
diaframma allo stesso modo avrà un’influenza
negativa su tutti gli organi sotto diaframmatici
(fegato, milza) e il diaframma toracico superiore a
sua volta su quelli della cavità toracica. Non
dobbiamo dimenticare che il rachide
è sede
dell’innervazione orto simpatica e para simpatica
di tutti i visceri appena descritti, pertanto anche i
blocchi articolari presenti in questa struttura
influenzeranno i sistemi appena descritti.
6. Conclusioni
Alla luce di quanto descritto è evidente che
l’accumulo e il relativo smaltimento di acido lattico
nel sangue possa variare in funzione del buon
equilibrio di
queste strutture.
Il
trattamento
osteopatico è quindi rivolto ad ottimizzare la
biomeccanica, l’innervazione, l’elasticità e la
buona vascolarizzazione dei tessuti cercando di
mantenere e ristabilire, ove necessario, una
buona omeostasi.
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Allenatri 2008
n.1 gen/feb
La gestione dell’affaticamento nelle gare di triathlon di lunga durata
di Giacomo Vinci
Introduzione
Il fascino di partecipare e concludere un Ironman
è da sempre uno stimolo tanto forte che ogni anno
sono migliaia i triathleti che si cimentano, in ogni
parte del mondo, con la gara che da più parti è
indicata come “ultimate challege” del fitness. Non
a caso, una copertina di una famosa rivista
americana era dedicata a Mark Allen nominandolo
come “Fittest Man on Earth”.
La ricerca scientifica sportiva, pur nelle difficoltà di
acquisire dati sul campo data l’impossibilità
pratica di ricreare condizioni simili in laboratorio,
segue ormai con attenzione ed interesse quanto
accade al corpo quando viene sottoposto a simili
sforzi, anche per indagare gli eventuali limiti fisici
accettabili. Da questo punto di vista, rispetto a
quella che è stata la generazione pioneristica
degli Ironmen dei primi anni ’80, si può dire che
tantissimo è stato scoperto, ad esempio, circa il
dispendio energetico e le possibilità di alimentarsi
durante lo sforzo.
1.Stessa distanza, diverse
problematiche
Sotto certi aspetti l’analisi di una prestazione di
ultra endurance è più semplice di quanto possa
essere quella di uno specialista della distanza
olimpica, nella quale spesso il risultato finale è
figlio di avvenimenti in gara che la fanno
assimilare ad uno sport di situazione.
La distanza Ironman invece, scevra da variabili se
non in casi sporadici, è più vicina a quelli che
sono i dettami di uno studio scientifico nel senso
galileiano del termine.
Una grande attenzione degli studiosi, tra i vari
aspetti analizzati, è nella ricerca di un metodo per
poter ottimizzare la prestazione nella maratona
finale per renderla più prossima a quella che lo
stesso atleta avrebbe in un’ipotetica maratona
“secca”.
Tra le due prove, infatti, ci sono diverse decine di
minuti di differenza anche per atleti d’elite,
nonostante solo pochissimi di questi si dedichino,
ed anche molto sporadicamente, alla distanza
regina dell’atletica.
Più di un atleta vincitore di prove IM dice di non
gareggiare mai in maratona perchè la reputa
“roba da podisti” e che i 42 Km della terza
frazione sono altra cosa. Perchè? Cosa è diverso
e soprattutto: quanto è allenabile questa
“diversità” e fino a che punto ci si può spingere nel
cercare di avvicinare la prestazione IM a quella di
una maratona corsa in condizioni di freschezza?
Innanzitutto occorre analizzare la diversa
condizione nella quale si trovano gli Ironmen
all’uscita da T2 rispetto ad un podista in attesa
dello start.
Fondamentalmente l’eredità dei 180 Km di
ciclismo è riassumibile in tre diverse condizioni:
•
•
•
stato di idratazione;
scorte energetiche;
affaticamento (nelle diverse forme).
2. Lo stato d’idratazione
L’idratazione nelle prove di ultraresistenza è stata
oggetto di numerosi studi date le note difficoltà
corporee di mantenere entro limiti accettabili la
temperatura interna se si perde una percentuale
anche relativamente bassa di fluidi corporei.
Pesando gli atleti prima e dopo la gara ed
utilizzando una pillola, ingerita e collegata in
telemetria con la base, alcuni ricercatori hanno
misurato in 2.3 Kg il calo poderale medio, ma
soltanto in 1°C l’aumento della temperatura
corporea.
Il calo di peso corporeo nell’ordine del 3,5% non
ha indotto le conseguenze attese in termini di
disidratazione e capacità termoregolatoria, come
se il corpo fosse in grado di autoregolare il proprio
funzionamento quando le condizioni ambientali e
di idratazione non sono eccessivamente severe.
Paradossalmente, sarebbe la superidratazione la
causa più comune di iponatremia.
Da quando essa fu descritta, per la prima volta,
dal prof. Tim Noakes, essa è stata riconosciuta
come una delle complicazioni più serie per
l’esercizio di ultraendurance, in particolare per le
donne (in proporzione di 8/1). Nei suoi successivi
studi Noakes ha registrato questa condizione nel
18% nell’IM New Zealand e nel 29% nell’IM
Hawaii, in vari gradi di intensità da asintomatica a
potenzialmente letale.
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Allenatri 2008
Proprio perchè così diffusa e pericolosa, essa
merita dei cenni, rimandando alla lettura di studi
scientifici specifici. Il prof. Noakes ha concluso i
suoi studi sull’argomento asserendo che la
diluizione del plasma connessa all’iperidratazione
sarebbe la causa prima, consigliando l’assunzione
di circa 500 ml/h di soluzione salina contro le linee
guida dell’American College of Sports Medicine
(ACSM) che si indirizzavano a 750-1000 ml/h o
più. Un aspetto interessante è che le donne
hanno maggiore probabilità di incorrere
nell’emergenza, segno che l’ottimale tasso di
assunzione di fluidi per esse è inferiore rispetto a
quello degli uomini e che necessita di uno studio
specifico. Il sovraccarico di fluidi può generarsi a
causa della difficoltà di assorbimento dell’intestino
o per ritenzione idrica nel plasma. Le teorie più
recenti si indirizzano a quest’ultima ipotesi, come
se i reni fossero incapaci di funzionare al meglio
durante un esercizio prolungato e per assunzione
di fluidi maggiore di 750 ml/h. Un altro studio in
cui ai triathleti era data l’indicazione del
quantitativo orario ottimale e riducendo la
disponibilità di acqua pura alle “aid stations” ha
fatto calare i casi di iponatremia registrati nella
tenda medica dal 24% al 4%.
Le critiche all’ACSM sono sorte anche perchè le
linee guida per le gare di ultraendurance erano
state tracciate partendo da studi effettuati sulla
distanza olimpica: non c’è, dunque, alcuna prova
che uno stato di lieve disidratazione sia di
detrimento alla prestazione in gare lunghe. Allo
studio è ora il ruolo della supplementazione di
sale: gli autori degli studi citati consigliano il
consumo di bevande ricche di sodio piuttosto che
acqua pura o con poco sodio.
3. Le scorte energetiche
Un elemento fondamentale per la prestazione
nelle prove di endurance è la disponibilità
energetica, sotto forma di scorte di glicogeno
muscolare ed epatico. Uno studio di Costill ha
trovato che, prima ancora che intervengano fattori
fisiologici, il calo delle scorte muscolari di
glicogeno induce nell’atleta sensazioni di forte
fatica e disagio. Naturalmente, in una prova di
endurance come l’Ironman, il tasso energetico
richiesto è relativamente basso ma tende ad
esaurire, se non continuamente immesso e
metabolizzato, il glicogeno accumulato nei
muscoli e nel fegato. Tuttavia, sarebbe la stessa
natura della contrazione muscolare associata alla
corsa a rallentare od arrestare la resintesi del
glicogeno a causa dell’infiammazione delle fibre
muscolari associate alla componente eccentrica.
Ciò aumenta l’importanza che l’alimentazione
riveste durante la seconda frazione, in cui si deve
assumere energia pensando che durante la
maratona sarà più complicata non tanto la
disponibilità di carboidrati sul percorso, quanto
l’abilità fisica di convertirli in energia per il
n.1 gen/feb
movimento. Il ritmo di gara non lattacido e la
contrazione concentrica dei muscoli della gamba
favoriscono il recupero di parte delle scorte
energetiche che contemporaneamente si stanno
utilizzando e dunque, nonostante non si riesca
mai ad andare in pareggio dato il tasso di
consumo più elevato di quello di reintegro,
occorre pensare alla frazione di ciclismo come
all’occasione di poter limitare al minimo la
deplezione del glicogeno all’inizio della maratona.
La stessa alimentazione durante il ciclismo non va
ad aiutare le scorte di glicogeno muscolare ma
aiuta il fegato a risparmiare le proprie riserve, che
verranno poi certamente richiamate all’uso
durante la terza frazione.
4. La fatica neuromuscolare
C’è un altro tipo di fatica, più difficile da valutare.
La maggior parte della letteratura che leggiamo si
basa sulla misurazione dei carichi di lavoro.
Quest’altro genere di fatica è diversa da quella
aerobica, ma evidente a tutti. Basta indossare un
cardiofrequenzimetro e “sedersi” con la schiena
contro una parete, senza una sedia a sostegno.
Dopo 30”-45”, si noterà che le gambe già saranno
parecchio sofferenti. Nonostante ciò, la frequenza
cardiaca non si sarà alzata molto. Questa è la
fatica neuromuscolare. Purtroppo, in maniera
subdola ed insidiosa, questi due elementi non si
correlano, ma talvolta, tanto per il triathleta quanto
per il ciclista, sono opposti. Una più elevata
frequenza cardiaca di solito segue una maggiore
frequenza di pedalata ma, probabilmente,
quest’ultima condizione è spesso necessaria per
ottenere una maggiore resistenza alla fatica
muscolare. In altre parole, si potrebbe scegliere,
con cognizione di causa, di pagare un prezzo
aerobico più elevato durante la frazione ciclistica
per beneficiare di una minore fatica muscolare
con la quale iniziare la corsa. La frequenza di
pedalata è stata studiata ampiamente dalla
comunità scientifica, e molti aspetti sono chiari.
Quando alcuni soggetti sono testati su diverse
frequenze, e sono liberi di scegliere la propria,
questa è sempre maggiore di quella che
rappresenta la frequenza “aerobica” ideale.
Vercruyssen trovò che per i soggetti testati (9
triathleti) la frequenza fu intorno alle 90RPM,
tuttavia la “frequenza teorica, energeticamente
ottimale” era di 78RPM.
Gli atleti testati scelsero, dunque, quando ne fu
data loro la libertà, di pedalare intorno alle 90RPM
– l’optimum neuromuscolare - nonostante
tendessero a calare verso le 82RPM verso la fine
del test (un’ora).
Vercruyssen suppose, a questo proposito, che la
frequenza dei suoi soggetti si abbassasse verso la
conclusione del test tendendo ad un valore di
RPM più energeticamente conveniente. Potrebbe
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Allenatri 2008
essere vero, come pure però che la cadenza
rallenta
perchè
c’è
una
degradazione
neuromuscolare che rende il valore più elevato
non più possibile. Questo è il momento in cui un
potenziometro può essere utile. Forse quando la
frequenza cala, lo fa anche la potenza.
Se un atleta è capace di preservare il wattaggio
dal declino, e sceglie liberamente di farlo ad una
cadenza più bassa, si può concludere che sta
scegliendo di pagare un costo neuromuscolare più
elevato verso la conclusione dell’esercizio.
Dunque qual’è la differenza tra affaticamento
aerobico e neuromuscolare? Il primo è più
sistemico, e si poggia maggiormente sulla parte
dell’equazione energetica legata all’utilizzo
dell’ossigeno. Il secondo è locale, cioè si instaura
in distretti muscolari specifici, non in tutto il corpo.
Non è correlato al debito d’ossigeno: il problema è
l’iperutilizzo di elettroliti e/o di glicogeno.
Ciò è stato dimostrato in uno studio di Ahlquist. Si
è evidenziato che un gruppo di ciclisti allenati
riesce ad esprimere lo stesso wattaggio allo
stesso costo aerobico (VO2), sia che pedali a
50RPM che a 100RPM. I livelli di lattato ematico
sono gli stessi. Dunque si può pensare che non ci
sia alcuna differenza economica tra le due
cadenze: tuttavia, il consumo di glicogeno nel
quadricipite fu significativamente maggiore alla
cadenza più bassa, ed inoltre tale deplezione
avvenne unicamente nelle fibre veloci.
In altre parole, nonostante gli atleti di endurance
siano predisposti ad avere una percentuale più
elevata di fibre lente, ancora reclutano ed
utilizzano le fibre veloci quando aumenta la
richiesta di potenza.
Ciò è quanto capita quando le RPM calano. Il
picco di potenza in ogni ciclo di pedalata cresce,
provocando un aumentato utilizzo delle fibre
veloci, meno predisposte a bruciare grassi e che
hanno un tasso di utilizzo del glicogeno più
elevato.
In questo modo, mentre la frequenza cardiaca non
aumenta usando rapporti più lunghi, a lungo
andare ci si affatica di più: si soffrirà
maggiormente durante una corsa lunga dopo aver
consumato più glicogeno durante una frazione di
ciclismo di una certa durata.
Come si può misurare o determinare tale effetto?
n.1 gen/feb
di un olimpico no draft: aggiunta la frequenza
cardiaca di soglia, si tende sempre più facilmente
a sforare verso la fine della frazione.
Più comunemente, in uno sforzo prolungato, come
ad esempio il ciclismo di un half-IM o per distanze
superiori, capita l’inverso.
La frequenza cardiaca media dell’ultimo 20% del
tempo in bici è facile che sia più bassa della
media del restante 80%.
E’ fatica cardiaca? Forse, ma più probabilmente
l’output cardiaco è governato dall’affaticamento
neuromuscolare che colpisce i muscoli scheletrici
maggiori. In altre parole, le gambe sono così
affaticate che il cuore non riesce ad essere
utilizzato al massimo del proprio potenziale.
Conseguentemente la frequenza, che avrebbe
dovuto essere, diciamo, 155BPM per tutta la
frazione in bici, durante le ultime fasi tende a 150153. Forse tende ad abbassarsi ulteriormente, e il
tasso di calo di frequenza cardiaca è
proporzionale
all’aumento
di
fatica
neuromuscolare.
Se questo fosse il caso, un modo per misurare
quest’ultima è considerare il grafico della
frequenza cardiaca su una distanza abbastanza
lunga. Al procedere dei minuti, si può vedere se si
riesce ad esprimere sempre la stessa potenza e,
se non fosse così, con che rapidità questa tende a
calare.
Nonostante ciò, una RPM più alta non è sempre
ottimale qualunque sia l’impegno da affrontare.
C’è il costo aerobico da considerare.
Può essere perfetta per le brevi gare nei
velodromi, in cui si sta ben oltre le 100 RPM.
In una RAAM (race across america) si sta
generalmente intorno alle 60 RPM.
Il costo aerobico di pedalare a frequenze troppo
elevate può essere eccessivo per quegli atleti, che
cercano anche di non generare un wattaggio
troppo elevato per evitare che la fatica
neuromuscolare possa essere un fattore limitante.
5. Conclusioni
L’output di potenza è un importante parametro, se
si considera una distanza abbastanza lunga.
Certamente, se non si è capaci di essere potenti
verso la fine della frazione quanto lo si è nelle fasi
centrali, la fatica s’instaurerebbe più rapidamente
di quanto farebbe se si riuscisse a pedalare in
maniera più costante. Se si analizza il
comportamento del cuore, si puo’ vedere che se
la frequenza aumenta al calare della potenza, vuol
dire che si sta scegliendo la strada di un più alto
prezzo aerobico. Ciò è comune durante il ciclismo
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BIBLIOGRAFIA
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• Br J Sports Med 2006 ;40: 567-572
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• Ahlquist et al, The effect of pedaling
frequency on glycogen depletion rates in
type I and type II quadriceps muscle
fibers during submaximal cycling exercise
(European Journal of Applied Physiology,
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