N.1-2008 Gennaio - Febbraio
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N.1-2008 Gennaio - Febbraio
Allenatri 2008 n.1 gen/feb A cura di: Mario Miglio, Responsabile Didattico SIT Fitri Costantino Bertucelli, Responsabile Centro Studi e Ricerche Fitri Roberto Tamburri, Direttore Tecnico Fitri Claudia Umbro, Responsabile Organizzativo SIT Fitri In questo numero: GENNAIO - FEBBRAIO 2008 Miglio Mario Responsabile Didattico SIT FITri Responsabile Scuola Alta Specializzazione Fitri Sebastiano Spina Istruttore Fitri Allenatore FIDAL “La corsa campestre: alcune proposte per i giovani triatleti” Andrea Pirondi Osteopata “Osteopatia e recupero muscolare” Giacomo Vinci Tecnico Scuola Alta Specializzazione Fitri “La gestione dell’affaticamento nelle gare di triathlon di lunga durata” 1 Allenatri 2008 n.1 gen/feb LA CORSA CAMPESTRE: ALCUNE PROPOSTE PER I GIOVANI TRIATLETI di Mario Miglio e Sebastiano Spina Introduzione La corsa campestre o cross-country o semplicemente cross, costituisce la prima forma di mezzofondo: le corse prolungate su pista ne sono soltanto la derivazione sofisticata e cronometrica. Il cross, pur avendo anticipato di gran lunga la nascita stessa della pista in terra battuta ed il cerimoniale delle Olimpiadi, non figura nel programma dei Giochi. Dopo qualche presenza sporadica (nelle edizioni del 1912-19201924 si sono disputate delle vere e proprie gare di cross), il cross-country è stato rimpiazzato dallo steeple-chase, oggi noto come 3.000 siepi. Il cross-country viene praticato in inverno e per tutta la primavera, assumendo una funzione di rodaggio in vista della stagione agonistica. I percorsi si snodano tra i campi e sono segnalati per mezzo di bandierine, rosse sulla sinistra e bianche sulla destra, oppure vengono disposti dei nastri colorati lungo l'intero tracciato in modo che questo sia ben visibile. I concorrenti attraversano vecchi mulini, ponticelli, prati, corrono in discesa e in salita e su ogni tipo di terreno. E’ una specialità impegnativa e allo stesso tempo ricca di fascino e, pur essendo una specialità dell’atletica tipicamente invernale, può ricoprire un ruolo rilevante nella costruzione di un atleta qualunque sia la disciplina da questo praticata, questo perché contribuisce in modo essenziale alla formazione atletica incrementando le capacità utili a colui che prepara la stagione che arriverà subito dopo. Qualcuno dirà che è semplicemente un modo per far fiato e gambe, ma la componente variabile condizionata dal tipo di terreno, fangoso, morbido, compatto oppure misto, dal percorso con curve di ogni raggio, salite e discese di ogni tipo a volte anche con ostacoli artificiali e dalle condizioni atmosferiche, fa si che anche il miglior ippodromo, con curve ampie e i presupposti per un tracciato dalle caratteristiche veloci, con pioggia o in casi estremi, ma non rari, con neve, può trasformarsi in percorso lento ed impossibile. In questi casi l’uso di scarpe (chiodate) idonee al tipo di terreno è fondamentale. Le calzature chiodate danno stabilità e una spinta migliore. La misura dei chiodi da applicare alla scarpa va studiata in base alla condizione e alla compattezza del terreno in cui si correrà. I chiodi, trovandosi sull’avampiede, invitano ad avere un‘azione “in spinta”. La mentalità e l'atteggiamento atletico-psicologico, nascono e si sviluppano con il cross. E' quindi importante anche la motivazione con la quale lo si affronta in quanto non tutti sono psicologicamente in grado di affrontare e superare la fatica. Gareggiare su percorsi dal fondo sconnesso o comunque irregolare, oltre all’adattamento su quelle superfici, porterà una numerosa serie di benefici. Il cross rinforza le caviglie, obbligando il piede ad una spinta spesso irregolare e di diversa potenza, scioglie la muscolatura dando fluidità all'azione della corsa e sottopone l'atleta all'esecuzione di atteggiamenti impensati ed improvvisi; stimola le qualità propriocettive, nonché la coordinazione, la forza, l’elasticità; inoltre sensibilizza il sistema cardio-circolatorio e abitua alla fatica muscolare. Questa attività richiede infatti frequenti cambi di ritmo e variazioni dell'azione di corsa. La coesistenza con alti gradi di affaticamento rende quindi il cross-country una palestra formativa di buon livello. Prepara per tutte le distanze del mezzofondo e fondo ma non solo. Sono sempre di più gli atleti che usano il cross come preparazione per i vari appuntamenti della stagione primaverile/estiva mentre tanti altri lo finalizzano. E’ sempre più frequente vedere sui campi di gara atleti che poco hanno a che fare con l’atletica leggera in senso stretto. Sciatori, ciclisti e anche tanti triatleti si cimentano tra dicembre e marzo in competizioni più o meno lunghe. Tecnicamente, quindi, il cross possiede il pregio di inserirsi in maniera progressiva e graduale in una preparazione non specifica, lasciando intatto il patrimonio nervoso di chi lo pratica: questo è il motivo della sua grande diffusione e popolarità in nazioni evolute nella pratica sportiva. 2 Allenatri 2008 n.1 gen/feb Cross-country e triathlon Sono molti i triatleti che praticano il cross-country nella stagione invernale. Per alcuni costituisce semplicemente un diversivo alla monotonia degli allenamenti invernali. Altri lo considerano un vero e proprio stimolo agonistico da inserire nella programmazione del triathlon che, soprattutto per motivi climatici, è praticabile in Italia solo nella bella stagione. Alcuni dei migliori duatleti e triatleti hanno ottenuto eccellenti risultati anche nel crosscountry. Il caso più emblematico è quello del francese Yann Million capace, alcuni anni fa, di salire sul podio dei campionati mondiali di duathlon e di entrare nei primi 10 ai campionati europei di cross. L’australiana Emma Moffat conta un titolo nazionale di cross e anche la nostra Beatrice Lanza ha partecipato, da juniores, con la squadra nazionale, ai campionati del mondo ed europei di corsa campestre. L’elenco dei triatleti che si dedicano al cross-country è molto lungo. Tra i giovani c’è chi lo pratica abitualmente, con risultati anche soddisfacenti. Agli atleti della Scuola di Alta Specializzazione si raccomanda di partecipare ad almeno 4 o 5 gare di cross durante l’inverno. Ma perché il cross-country è così importante per la preparazione del triatleta? Osservando il modello prestativo del cross e paragonandolo a quello della frazione di corsa nel triathlon i punti di convergenza sono molti. Meritano di essere analizzati soprattutto quelli di carattere metabolico, muscolare e psicologico. Aspetti di carattere metabolico Le distanze delle corse campestri sono simili a quelle delle frazioni di corsa nel triathlon olimpico. Anche nelle categorie giovanili, dai ragazzi agli juniores, si percorrono all’incirca le stesse distanze e le piccole differenze che si possono riscontrare non sbilanciano in modo significativo l’impegno metabolico richiesto. Esistono anche gare su strada e su pista che ricalcano in durata e/o chilometraggio le distanze delle frazioni podistiche del triathlon e che, per questo motivo, possono risultare altamente correlate alla capacità del triatleta di correre molto forte. Tuttavia il crosscountry presenta delle particolarità tecniche non facilmente riscontrabili nelle gare su strada e su pista e che possono essere assimilabili ad alcuni frangenti della frazione di corsa del triathlon: - la partenza e le prime centinaia di metri dei cross vengono percorsi a velocità - molto sostenute al fine di non rimanere intrappolati nel folto del gruppo dei concorrenti, nell’impossibilità di effettuare sorpassi nei tratti più sinuosi del percorso; la disomogeneità del fondo e l’altimetria del percorso non permettono di avere riferimenti cronometrici e costringono l’atleta a basarsi sulle proprie sensazioni; l’aggressività degli avversari e la velocità imposta alla competizione prevede una lotta “corpo a corpo” che spesso obbliga a momenti di intensità molto superiore alla velocità media di gara, con la conseguente necessità di recuperare e la difficoltà di attingere a doti di sopportazione della fatica per concludere la gara. Questi aspetti tecnici implicano una preparazione metabolica che, oltre a considerare i parametri classici degli sport di resistenza, deve tenere in debita considerazione alcune capacità che sono riscontrabili anche nella terza frazione del triathlon: • • • la capacità di sostenere elevate velocità per alcune decine o centinaia di metri, per più volte nella stessa gara, anche ricorrendo all’intervento dei meccanismi anaerobici e con il conseguente accumulo di debiti lattacidi; la capacità di ossidare il lattato accumulato a velocità comunque elevate; la capacità di condurre l’intera competizione con una situazione di debito già contratto nella prima parte di gara, con frequenza cardiaca, atti respiratori e disagi organici rilevanti dopo appena pochi minuti dalla partenza. Se il cross-country è sempre stato considerato “palestra di fatica” per gli specialisti della pista, che dopo un inverno di freddo e fango, potevano goderne i vantaggi nelle loro prestazioni estive, a maggior ragione questi vantaggi li può avere il triatleta che, anche nelle sue competizioni estive, fatica ne dovrà fare tanta. Aspetti di carattere muscolare Le caratteristiche del terreno su cui gli atleti corrono rappresentano la più grande differenza tra il cross e la corsa del triathlon. Il triathlon non prevede percorsi su terreni sdrucciolevoli se si esclude il tratto sabbioso che, a volte, collega l’uscita dall’acqua all’entrata in zona di transizione. La frazione podistica si svolge normalmente su strade asfaltate o di consistenza compatta. 3 Allenatri 2008 La necessità di esprimere un’azione di corsa efficace ed economica è uno degli obiettivi fondamentali del triatleta e ciò presuppone innazitutto grandi doti di forza della muscolatura motoria dei piedi. Anche la componente propriocettiva contribuisce in modo significativo all’espressione di un gesto dal basso costo energetico. Le caratteristiche dei terreni da cross richiedono qualità muscolari significative e, in alcuni casi, capacità di forza davvero notevoli. L’eterogeneità dei percorsi, la diversa durata degli appoggi, la differente risposta elastica, l’attrito e la disomogeneità delle superfici esaltano le qualità propriocettive e di equilibrio degli atleti più bravi. Per il triatleta questa rappresenta un’esercitazione formidabile. I suoi piedi si allenano in una situazione altamente specifica e i benefici che ne ricava si apprezzeranno nel corso della stagione estiva di triathlon. È sconsigliabile tuttavia avvicinare a questa disciplina soggetti “a rischio”. Triatleti che hanno avuto infortuni o accusato instabilità alle caviglie devono essere avvicinati alle gare di cross con molta cautela e, in alcuni casi, sensibilizzati alla partecipazione a gare di corsa su strada. Il cross-country è inoltre l’unica specialità della corsa di resistenza che presenta curve molto strette e improvvisi cambi di direzione che la accomunano alla frazione finale del triathlon dove, molto spesso, i percorsi hanno le stesse caratteristiche. In entrambi i casi l’atleta dovrà essere anche allenato a percorrere le curve più velocemente possibile e a saper immediatamente rilanciare l’andatura sfruttando le sue doti di forza, senza gravare eccessivamente sulle riserve energetiche. Gli aspetti più rilevanti della capacità di forza allenabili tramite la pratica del cross possono essere sinteticamente elencati: • • • • n.1 gen/feb Aspetti di carattere psicologico L’approccio psicologico alla competizione dei migliori specialisti del cross è un altro dei fattori che consigliano la pratica del cross-country ai giovani triatleti. Al normale impegno fisiologico delle gare di resistenza, in questo caso, si aggiungono variabili non sempre prevedibili legate al clima, al percorso e alla qualità del terreno. Le condizioni di disagio che caratterizzano una gara di cross sono a volte davvero impegnative e mettono a dura prova le resistenze psicologiche prima che quelle fisiche degli atleti. La sensazione di non riuscire ad esprimere forza sui terreni viscidi e fangosi, malgrado una profusione immensa di energia, è una delle sensazioni peggiori che possa provare un corridore, aggravata ulteriormente dall’osservazione di qualche avversario che, in quel medesimo contesto, sembra non avere le stesse difficoltà. La volontà di insistere comunque, la perseveranza di non demordere, l’umiltà di fare fatica anche concludendo in una posizione di rincalzo, sono qualità psicologiche fondamentali nel cross come nel triathlon. La quasi totale mancanza di strategie e tattiche di gara, soprattutto nelle prove giovanili, rappresenta un’altra componente altamente formativa del cross-country. Allo sparo l’unico obiettivo è correre forte e mettersi alle spalle più avversari possibile. Lo si fa partendo forte e lottando ogni metro per guadagnare qualche posizione e per non cedere la propria. La tenacia che contraddistingue i crossisti e le crossiste più determinati è una componente fondamentale nello sviluppo della personalità di uno sportivo di resistenza e, spesso, contribuisce in modo determinante anche all’evoluzione della sua capacità prestativa. la capacità di forza della muscolatura motoria dei piedi; le capacità muscolari elastiche degli arti inferiori in relazione al tipo di fondo; le capacità di contrazione eccentrica diversamente sollecitate dai tratti in discesa e dalla differente consistenza del terreno; le capacità di forza resistente con una richiesta di impegno muscolare percentualmente maggiore rispetto alle competizioni di corsa su strada o su pista. 4 Allenatri 2008 n.1 gen/feb Alcune proposte Il cross-country, per le connotazioni di tipo metabolico, muscolare e psicologico che lo caratterizzano, può essere proposto ai triatleti, soprattutto ai più giovani, come un valido mezzo d’allenamento nel periodo invernale, quando il calendario del triathlon non prevede appuntamenti agonistici. La partecipazione a gare di cross-country non è semplicemente un diversivo per ovviare alla monotonia degli allenamenti invernali, ma un utile strumento di crescita e di controllo dell’allenamento: gli obiettivi che ci prefiggiamo di ottenere attraverso le varie esercitazioni di forza, abbinate allo sviluppo delle componenti aerobiche, sono praticamente misurabili attraverso la partecipazione a gare di cross che, allo stesso tempo, risultano determinanti per innalzare ulteriormente queste stesse capacità. La scelta delle gare, il numero delle stesse nell’ambito della stagione invernale e il livello tecnico delle stesse, devono però essere attentamente valutati. Per i più giovani, dai ragazzi ai cadetti, la partecipazione a cross di carattere regionale è la soluzione migliore. Nel corso di un inverno si potrebbero proporre da 6 a 8 gare, comprese quelle scolastiche. Le distanze ridotte, da 1000m a 2500m, non comportano particolari problemi di preparazione specifica e implicano tempi di recupero piuttosto brevi. Per i triatleti allievi la scelta dei cross invernali va compiuta con maggiore attenzione. È necessario individuare gare che permettano loro di competere nella giusta misura: è una perdita di tempo partecipare a competizioni di scarso livello; è inutile e demotivante il confronto con realtà inarrivabili. La lunghezza delle gare, 3-4km per le allieve e 4-5 per gli allievi, presuppone una buona preparazione e il necessario tempo per recuperare, soprattutto a livello muscolare. Le gare di cross-country inoltre si svolgono quasi esclusivamente di domenica che è anche l’unico giorno in cui i ragazzi di questa età non vanno a scuola e avrebbero la possibilità di allenarsi in bicicletta sfruttando le ore più calde della giornata e senza problemi di oscurità. Dunque la scelta di un calendario di cross-country va fatta con oculatezza e presuppone chiarezza sugli obiettivi che si vogliono raggiungere. In ogni caso la partecipazione a meno di 4- 5 gare non offre possibilità di confronto e di verifica, anche se non può che arricchire il bagaglio di esperienza dei nostri atleti. Gli stessi problemi assumono contorni ancora più complessi nella categoria juniores e under 23 dove rimangono valide le indicazioni circa la scelta accurata del livello tecnico delle gare a cui partecipare e la necessità di partecipare ad un numero significativo di prove nell’arco dell’inverno. Conclusioni Il cross-country è un’ottima occasione per impegnare agonisticamente i triatleti nella stagione invernale. La partecipazione ad una serie di corse campestri può migliorare significativamente le capacità prestative nella corsa dal punto di vista tecnico, metabolico e muscolare. La corsa campestre è inoltre “palestra di fatica” e questo le fa assumere un ruolo importante nella formazione della personalità dei giovani praticanti gli sport di resistenza. L’esperienza condotta negli ultimi anni da diversi tecnici e società di triathlon hanno avvalorato la teoria dell’utilità della pratica del cross-country per i giovani triatleti. Bibliografia: AAVV Le basi scientifiche dell’allenamento in atletica leggera; Atleticastudi 2005, supplemento ai nn 1-4 Arcelli E. Allenamento delle diverse componenti aerobiche nel corridore. Differenze fra il cross e le altre specialità del mezzofondo e del fondo; Atleticastudi, 2007/3-4 Frohner G. Principi dell’allenamento giovanile; 2003, Calzetti & Mariucci Editori Malina R.M. Crescita e maturazione di bambini ed adolescenti praticanti atletica leggera; Atleticastudi 2006, supplemento ai nn 1-2 Merni F., Del Curto L., Di Michele R., Gigliotti L. Correlazione tra parametri biomeccanici e metabolici nel circuit training intensivo; Atleticastudi, 2007/1 Miglio M. Manuale per l’allenatore di triathlon. Guida tecnica per l’allenamento del triathlon dai 16 ai 23 anni; 2005 FITri Nummela A.T., Paavolainen L., Sharrwood K.A. e al. Neuromuscolar factors determining 5km running performance and running economy in well-trained athletes;2006 Eur J Appl Physiol 97-1 5 Allenatri 2008 n.1 gen/feb OSTEOPATIA E RECUPERO MUSCOLARE di Andrea Pirondi anche in assenza di ossigeno, le altre all’interno Introduzione dei mitocondri. Scopo di questo articolo è di esporre, in modo sintetico, come un corretto intervento osteopatico possa migliorare lo smaltimento del lattato conseguente un allenamento impegnativo o una gara Il tema viene preceduto da una breve introduzione 2. Produzione d’energia a partire dai trigliceridi sui meccanismi di produzione d’energia I grassi vengono accumulati principalmente nel 1. Produzione d’energia aerobica,l’ATP Prima di parlare di acido lattico e quindi di produzione di energia in condizioni di stress fisico, è opportuno accennare ai processi di formazione di energia necessaria al muscolo per svolgere la sua funzione fisiologica. L’energia utilizzata nel metabolismo muscolare, ma anche in quello di qualsiasi cellula dell’organismo, viene fornita dall’adenosintrifosfato (ATP), composto chimico instabile dato da una combinazione di adenina, ribosio e tre radicali fosfati. Gli ultimi due radicali hanno legami ad alta energia e scindendosi si trasformano da ATP ad adenosindifosfato (ADP). La peculiarità dell’ATP è che i legami energetici sono molto labili, cosicché si possono rompere abbastanza facilmente e fornire quindi energia rapidamente. Il glucosio è la fonte primaria per la sintesi di ATP, dalla degradazione di questo si tessuto adiposo come grasso di deposito e nel fegato dove vengono sintetizzati. Infatti questo organo degrada i trigliceridi a composti più semplici per essere poi utilizzati come fonti energetiche. E’ importante notare che nel fegato compaiono grandi quantità di trigliceridi in tutte quelle situazioni nelle quali i grassi debbono essere utilizzati per fornire rapidamente energia, come nel digiuno o nel diabete mellito. Quindi anche i grassi sono importanti per la formazione dell’ATP ed anche in questo caso il procedimento avviene per tappe. La prima parte è l’idrolisi dei trigliceridi ad acidi grassi, i quali tramite un carrier enzimatico, la carnitina, entrano nei mitocondri e qui vengono ossidati e trasformati in acetilcoenzima-A. Questo poi subisce la stessa degradazione di quella ottengono una grande quantità di ATP che descritta per il metabolismo del glucosio, con la avviene attraverso tre processi, la glicolisi, il ciclo differenza che vengono prodotte 146 molecole di di Krebs, il trasporto degli elettroni e l’ossidazione degli ioni H. La prima avviene nel citoplasma, ATP, un numero maggiore rispetto alle 38 molecole prodotte dalla degradazione del 6 Allenatri 2008 n.1 gen/feb glucosio. La degradazione e l’ossigenazione degli questo motivo che il meccanismo anaerobico non acidi grassi avviene esclusivamente in aerobiosi. può procedere per molto tempo. Durante la glicolisi si formano due molecole di 3. Liberazione d’energia in assenza d’ossigeno (meccanismo anaerobico) e produzione di lattato acido piruvico e quattro ioni idrogeno che, in Nel periodo di riposo, il muscolo non utilizza il nel citoplasma. Tale accumulo tenderebbe a glucosio o meglio ne utilizza una piccola parte fermare la reazione della glicolisi secondo la (10%), la maggioranza deriva dall’ossidazione legge fisica di azione delle masse, quindi non si degli acidi grassi (85-90%) e solo una piccola avrebbe più neanche la liberazione di queste due quantità dagli amminoacidi (1-2%). Quando inizia ATP. Fortunatamente però quando i prodotti un predominante terminali della glicolisi cominciano ad essere in l’utilizzazione muscolare dei carboidrati, quindi si eccesso reagiscono l’uno con l’altro formando forma glucosio a partire dalle riserve di glicogeno acido lattico. esercizio fisico, diventa assenza di ossigeno, non entrano nei mitocondri per essere trasformati in energia, ma si fermano muscolare. Con la glicolisi si forma anche il lattato che aumenta nel muscolo e viene poi immesso nel torrente circolatorio. Infine viene estratto dal fegato che lo utilizza per il processo di gliconeogenesi. Quindi se l’esercizio aumenta di intensità, cresce l’utilizzo del glucosio e cala quello degli acidi grassi. Quindi in condizioni anaerobiche l’acido piruvico viene convertito ad acido lattico che diffonde all’esterno della cellula. Il lattato è perciò una valvola di scarico, un tampone dell’acido piruvico, che consente alla glicolisi di procedere più a lungo, anche per alcuni minuti, perché appunto diminuisce l’acido piruvico. Questo infatti in E’ bene precisare che non si forma acido lattico assenza di ossigeno, non entra nei mitocondri per ma lattato, perché in un ambiente liquido, come la via ossidativa, ma forma acido lattico che, al può essere l’interno della fibra muscolare, l’acido contrario lattico è dissociato in ioni: uno ione lattato membrana cellulare e può così diminuire l’acidosi negativo (LA¯) ed uno ione idrogeno positivo (H⁺). del piruvato, passa facilmente la cellulare che si instaurerebbe se si accumulasse l’acido piruvico. Se l’ossigeno è insufficiente per portare a termine l’ossidazione del glucosio, come ad esempio in uno strenuo esercizio fisico, e la fibra muscolare consuma più ATP di quella che riesce a produrre con il meccanismo aerobico, l’organismo libera ancora una certa quantità di energia mediante la Inoltre, se vi è carenza di ossigeno, si formano ioni lattato ed idrogenioni anche quest’ultimi responsabili dell’acidità della soluzione. Più ci sono protoni, più acido è l’ambiente. Questa acidità però può essere tamponata da sostanze come il bicarbonato che interagiscono con gli ioni glicolisi, perché questa è una reazione che avviene in assenza di ossigeno. Però, come detto idrogeno. Infatti gli ioni bicarbonato (HCO₃¯) si sopra, l’energia liberata durante questo processo uniscono agli ioni (H⁺) formando prima acido è di sole due ATP, quindi poca, ma sufficiente a carbonico garantire un apporto vitale alla cellula, ed è per formando acqua ed anidride carbonica, che viene e poi, reagendo ulteriormente, eliminata dai polmoni. 7 Allenatri 2008 n.1 gen/feb Si evince che è molto importante, dopo uno strenuo esercizio fisico, fare un esercizio a bassa intensità, perché favorisce la resintesi del piruvato 4. Riconversione dell’acido lattico e piruvico a glucosio in presenza d’ossigeno dal lattato direttamente nei muscoli coinvolti, e quindi si accelera il recupero. 5. Il trattamento osteopatico Nel momento in cui l’organismo torna ad avere a disposizione l’ossigeno, questo viene utilizzato per ossidare le grandi quantità di piruvato ed idrogeno presenti nei liquidi dell’organismo. In questo modo le loro concentrazioni vengono ridotte e si inverte la reazione chimica che forma acido lattico. Il piruvato così ottenuto viene utilizzato nel ciclo di Krebs per formare energia che serve a convertire il restante acido piruvico a glucosio. La maggior parte di questa conversione avviene nel fegato, ma una parte anche in altri tessuti, come quello cardiaco e muscolare. Se il lavoro anaerobico è seguito da un lavoro aerobico, il lattato viene repentinamente convertito a piruvato nei muscoli attivi ed è quindi pronto per venire ossidato nei mitocondri al posto del glicogeno. Se invece il lavoro anaerobico è seguito da riposo, il lattato che si accumula nella cellula diffonde attraverso la membrana cellulare, raggiunge il torrente sanguigno, arriva al fegato dove viene convertito prima in piruvato e poi in glicogeno epatico tramite una glicolisi inversa. Questo glicogeno può poi essere scisso a glucosio che viene reimmesso nel torrente circolatorio per arrivare ai muscoli ed essere utilizzato nella glicolisi cellulare oppure trasformato in glicogeno di riserva. Questo processo appena descritto è chiamato ciclo di Cori ed è importante perché appunto nelle attività di lunga durata e nei recuperi dopo un lavoro fisico aiuta a rimuovere l’acido lattico dai muscoli e rifornisce il sangue di glucosio che dà un continuo supporto energetico ai muscoli. Quanto descritto è ciò che accade normalmente dopo uno sforzo prolungato. Immaginiamo per un attimo che le meccanismi strutture coinvolte in non funzionino questi correttamente, quando parliamo di strutture intendiamo: S.N.A (sistema nervoso autonomo). , rachide, sacro, coste, polmoni, bronchi, cuore, fegato, milza e quindi tutto il sistema linfatico. Tutte queste strutture, come il resto del nostro corpo, sono soggette quotidianamente a traumi di varie origini (emotivi, pregresse malattie, traumatismi, ecc..). Per esse facilmente compreso porterò un esempio: pensiamo ad un atleta che in passato abbia subito un trauma da colpo di frusta, sicuramente passati molti anni dall’evento non penserà assolutamente che le proprie prestazioni possano essere condizionate da quest’ultimo. Come può condizionare il metabolismo un evento di questo tipo? Pensiamo a come si struttura un colpo di frusta causato, ad esempio, da un tamponamento automobilistico. Tutte le forze vettoriali si scaricano sul sacro che diventa il punti di fissità estremo di tutto il rachide. Normalmente ci si preoccupa del tratto cervicale, ma ciò che veramente struttura le problematiche nel postacuto è il blocco del sacro tra le iliache. Sarà questo che nel tempo modificherà tutti gli equilibri dinamici della colonna, del diaframma e gli equilibri pressori delle cavità toraciche e addominali. Il sacro, perdendo elasticità, porterà ad un aumento delle tensioni sul pavimento pelvico e dello psoas; quest’ultimo, a sua volta, porterà in tensione i pilastri del diaframma inducendone un aumento della tensione 8 Allenatri 2008 n.1 gen/feb muscolare . L’occipite posto all’altro estremo della colonna vertebrale adatterà le tensioni che arrivano dal sacro inducendo lentamente una . perdita di elasticità nella colonna (le meningi trovano inserzione sulla seconda vertebra sacrale, occipite e prima-seconda vertebra cervicale), che, di per se, non creerebbe grossissime problematiche, tranne per il fatto che, tutto il S.N.A. sofferente porterà un’alterazione della fisiologia dei polmoni, fegato, cuore e sistema linfatico. Ricordiamo che, dal punto di vista meccanico avremo un pavimento pelvico poco elastico con conseguente cattivo apporto e drenaggio vascolare dell’arto inferiore, il diaframma allo stesso modo avrà un’influenza negativa su tutti gli organi sotto diaframmatici (fegato, milza) e il diaframma toracico superiore a sua volta su quelli della cavità toracica. Non dobbiamo dimenticare che il rachide è sede dell’innervazione orto simpatica e para simpatica di tutti i visceri appena descritti, pertanto anche i blocchi articolari presenti in questa struttura influenzeranno i sistemi appena descritti. 6. Conclusioni Alla luce di quanto descritto è evidente che l’accumulo e il relativo smaltimento di acido lattico nel sangue possa variare in funzione del buon equilibrio di queste strutture. Il trattamento osteopatico è quindi rivolto ad ottimizzare la biomeccanica, l’innervazione, l’elasticità e la buona vascolarizzazione dei tessuti cercando di mantenere e ristabilire, ove necessario, una buona omeostasi. 9 Allenatri 2008 n.1 gen/feb La gestione dell’affaticamento nelle gare di triathlon di lunga durata di Giacomo Vinci Introduzione Il fascino di partecipare e concludere un Ironman è da sempre uno stimolo tanto forte che ogni anno sono migliaia i triathleti che si cimentano, in ogni parte del mondo, con la gara che da più parti è indicata come “ultimate challege” del fitness. Non a caso, una copertina di una famosa rivista americana era dedicata a Mark Allen nominandolo come “Fittest Man on Earth”. La ricerca scientifica sportiva, pur nelle difficoltà di acquisire dati sul campo data l’impossibilità pratica di ricreare condizioni simili in laboratorio, segue ormai con attenzione ed interesse quanto accade al corpo quando viene sottoposto a simili sforzi, anche per indagare gli eventuali limiti fisici accettabili. Da questo punto di vista, rispetto a quella che è stata la generazione pioneristica degli Ironmen dei primi anni ’80, si può dire che tantissimo è stato scoperto, ad esempio, circa il dispendio energetico e le possibilità di alimentarsi durante lo sforzo. 1.Stessa distanza, diverse problematiche Sotto certi aspetti l’analisi di una prestazione di ultra endurance è più semplice di quanto possa essere quella di uno specialista della distanza olimpica, nella quale spesso il risultato finale è figlio di avvenimenti in gara che la fanno assimilare ad uno sport di situazione. La distanza Ironman invece, scevra da variabili se non in casi sporadici, è più vicina a quelli che sono i dettami di uno studio scientifico nel senso galileiano del termine. Una grande attenzione degli studiosi, tra i vari aspetti analizzati, è nella ricerca di un metodo per poter ottimizzare la prestazione nella maratona finale per renderla più prossima a quella che lo stesso atleta avrebbe in un’ipotetica maratona “secca”. Tra le due prove, infatti, ci sono diverse decine di minuti di differenza anche per atleti d’elite, nonostante solo pochissimi di questi si dedichino, ed anche molto sporadicamente, alla distanza regina dell’atletica. Più di un atleta vincitore di prove IM dice di non gareggiare mai in maratona perchè la reputa “roba da podisti” e che i 42 Km della terza frazione sono altra cosa. Perchè? Cosa è diverso e soprattutto: quanto è allenabile questa “diversità” e fino a che punto ci si può spingere nel cercare di avvicinare la prestazione IM a quella di una maratona corsa in condizioni di freschezza? Innanzitutto occorre analizzare la diversa condizione nella quale si trovano gli Ironmen all’uscita da T2 rispetto ad un podista in attesa dello start. Fondamentalmente l’eredità dei 180 Km di ciclismo è riassumibile in tre diverse condizioni: • • • stato di idratazione; scorte energetiche; affaticamento (nelle diverse forme). 2. Lo stato d’idratazione L’idratazione nelle prove di ultraresistenza è stata oggetto di numerosi studi date le note difficoltà corporee di mantenere entro limiti accettabili la temperatura interna se si perde una percentuale anche relativamente bassa di fluidi corporei. Pesando gli atleti prima e dopo la gara ed utilizzando una pillola, ingerita e collegata in telemetria con la base, alcuni ricercatori hanno misurato in 2.3 Kg il calo poderale medio, ma soltanto in 1°C l’aumento della temperatura corporea. Il calo di peso corporeo nell’ordine del 3,5% non ha indotto le conseguenze attese in termini di disidratazione e capacità termoregolatoria, come se il corpo fosse in grado di autoregolare il proprio funzionamento quando le condizioni ambientali e di idratazione non sono eccessivamente severe. Paradossalmente, sarebbe la superidratazione la causa più comune di iponatremia. Da quando essa fu descritta, per la prima volta, dal prof. Tim Noakes, essa è stata riconosciuta come una delle complicazioni più serie per l’esercizio di ultraendurance, in particolare per le donne (in proporzione di 8/1). Nei suoi successivi studi Noakes ha registrato questa condizione nel 18% nell’IM New Zealand e nel 29% nell’IM Hawaii, in vari gradi di intensità da asintomatica a potenzialmente letale. 10 Allenatri 2008 Proprio perchè così diffusa e pericolosa, essa merita dei cenni, rimandando alla lettura di studi scientifici specifici. Il prof. Noakes ha concluso i suoi studi sull’argomento asserendo che la diluizione del plasma connessa all’iperidratazione sarebbe la causa prima, consigliando l’assunzione di circa 500 ml/h di soluzione salina contro le linee guida dell’American College of Sports Medicine (ACSM) che si indirizzavano a 750-1000 ml/h o più. Un aspetto interessante è che le donne hanno maggiore probabilità di incorrere nell’emergenza, segno che l’ottimale tasso di assunzione di fluidi per esse è inferiore rispetto a quello degli uomini e che necessita di uno studio specifico. Il sovraccarico di fluidi può generarsi a causa della difficoltà di assorbimento dell’intestino o per ritenzione idrica nel plasma. Le teorie più recenti si indirizzano a quest’ultima ipotesi, come se i reni fossero incapaci di funzionare al meglio durante un esercizio prolungato e per assunzione di fluidi maggiore di 750 ml/h. Un altro studio in cui ai triathleti era data l’indicazione del quantitativo orario ottimale e riducendo la disponibilità di acqua pura alle “aid stations” ha fatto calare i casi di iponatremia registrati nella tenda medica dal 24% al 4%. Le critiche all’ACSM sono sorte anche perchè le linee guida per le gare di ultraendurance erano state tracciate partendo da studi effettuati sulla distanza olimpica: non c’è, dunque, alcuna prova che uno stato di lieve disidratazione sia di detrimento alla prestazione in gare lunghe. Allo studio è ora il ruolo della supplementazione di sale: gli autori degli studi citati consigliano il consumo di bevande ricche di sodio piuttosto che acqua pura o con poco sodio. 3. Le scorte energetiche Un elemento fondamentale per la prestazione nelle prove di endurance è la disponibilità energetica, sotto forma di scorte di glicogeno muscolare ed epatico. Uno studio di Costill ha trovato che, prima ancora che intervengano fattori fisiologici, il calo delle scorte muscolari di glicogeno induce nell’atleta sensazioni di forte fatica e disagio. Naturalmente, in una prova di endurance come l’Ironman, il tasso energetico richiesto è relativamente basso ma tende ad esaurire, se non continuamente immesso e metabolizzato, il glicogeno accumulato nei muscoli e nel fegato. Tuttavia, sarebbe la stessa natura della contrazione muscolare associata alla corsa a rallentare od arrestare la resintesi del glicogeno a causa dell’infiammazione delle fibre muscolari associate alla componente eccentrica. Ciò aumenta l’importanza che l’alimentazione riveste durante la seconda frazione, in cui si deve assumere energia pensando che durante la maratona sarà più complicata non tanto la disponibilità di carboidrati sul percorso, quanto l’abilità fisica di convertirli in energia per il n.1 gen/feb movimento. Il ritmo di gara non lattacido e la contrazione concentrica dei muscoli della gamba favoriscono il recupero di parte delle scorte energetiche che contemporaneamente si stanno utilizzando e dunque, nonostante non si riesca mai ad andare in pareggio dato il tasso di consumo più elevato di quello di reintegro, occorre pensare alla frazione di ciclismo come all’occasione di poter limitare al minimo la deplezione del glicogeno all’inizio della maratona. La stessa alimentazione durante il ciclismo non va ad aiutare le scorte di glicogeno muscolare ma aiuta il fegato a risparmiare le proprie riserve, che verranno poi certamente richiamate all’uso durante la terza frazione. 4. La fatica neuromuscolare C’è un altro tipo di fatica, più difficile da valutare. La maggior parte della letteratura che leggiamo si basa sulla misurazione dei carichi di lavoro. Quest’altro genere di fatica è diversa da quella aerobica, ma evidente a tutti. Basta indossare un cardiofrequenzimetro e “sedersi” con la schiena contro una parete, senza una sedia a sostegno. Dopo 30”-45”, si noterà che le gambe già saranno parecchio sofferenti. Nonostante ciò, la frequenza cardiaca non si sarà alzata molto. Questa è la fatica neuromuscolare. Purtroppo, in maniera subdola ed insidiosa, questi due elementi non si correlano, ma talvolta, tanto per il triathleta quanto per il ciclista, sono opposti. Una più elevata frequenza cardiaca di solito segue una maggiore frequenza di pedalata ma, probabilmente, quest’ultima condizione è spesso necessaria per ottenere una maggiore resistenza alla fatica muscolare. In altre parole, si potrebbe scegliere, con cognizione di causa, di pagare un prezzo aerobico più elevato durante la frazione ciclistica per beneficiare di una minore fatica muscolare con la quale iniziare la corsa. La frequenza di pedalata è stata studiata ampiamente dalla comunità scientifica, e molti aspetti sono chiari. Quando alcuni soggetti sono testati su diverse frequenze, e sono liberi di scegliere la propria, questa è sempre maggiore di quella che rappresenta la frequenza “aerobica” ideale. Vercruyssen trovò che per i soggetti testati (9 triathleti) la frequenza fu intorno alle 90RPM, tuttavia la “frequenza teorica, energeticamente ottimale” era di 78RPM. Gli atleti testati scelsero, dunque, quando ne fu data loro la libertà, di pedalare intorno alle 90RPM – l’optimum neuromuscolare - nonostante tendessero a calare verso le 82RPM verso la fine del test (un’ora). Vercruyssen suppose, a questo proposito, che la frequenza dei suoi soggetti si abbassasse verso la conclusione del test tendendo ad un valore di RPM più energeticamente conveniente. Potrebbe 11 Allenatri 2008 essere vero, come pure però che la cadenza rallenta perchè c’è una degradazione neuromuscolare che rende il valore più elevato non più possibile. Questo è il momento in cui un potenziometro può essere utile. Forse quando la frequenza cala, lo fa anche la potenza. Se un atleta è capace di preservare il wattaggio dal declino, e sceglie liberamente di farlo ad una cadenza più bassa, si può concludere che sta scegliendo di pagare un costo neuromuscolare più elevato verso la conclusione dell’esercizio. Dunque qual’è la differenza tra affaticamento aerobico e neuromuscolare? Il primo è più sistemico, e si poggia maggiormente sulla parte dell’equazione energetica legata all’utilizzo dell’ossigeno. Il secondo è locale, cioè si instaura in distretti muscolari specifici, non in tutto il corpo. Non è correlato al debito d’ossigeno: il problema è l’iperutilizzo di elettroliti e/o di glicogeno. Ciò è stato dimostrato in uno studio di Ahlquist. Si è evidenziato che un gruppo di ciclisti allenati riesce ad esprimere lo stesso wattaggio allo stesso costo aerobico (VO2), sia che pedali a 50RPM che a 100RPM. I livelli di lattato ematico sono gli stessi. Dunque si può pensare che non ci sia alcuna differenza economica tra le due cadenze: tuttavia, il consumo di glicogeno nel quadricipite fu significativamente maggiore alla cadenza più bassa, ed inoltre tale deplezione avvenne unicamente nelle fibre veloci. In altre parole, nonostante gli atleti di endurance siano predisposti ad avere una percentuale più elevata di fibre lente, ancora reclutano ed utilizzano le fibre veloci quando aumenta la richiesta di potenza. Ciò è quanto capita quando le RPM calano. Il picco di potenza in ogni ciclo di pedalata cresce, provocando un aumentato utilizzo delle fibre veloci, meno predisposte a bruciare grassi e che hanno un tasso di utilizzo del glicogeno più elevato. In questo modo, mentre la frequenza cardiaca non aumenta usando rapporti più lunghi, a lungo andare ci si affatica di più: si soffrirà maggiormente durante una corsa lunga dopo aver consumato più glicogeno durante una frazione di ciclismo di una certa durata. Come si può misurare o determinare tale effetto? n.1 gen/feb di un olimpico no draft: aggiunta la frequenza cardiaca di soglia, si tende sempre più facilmente a sforare verso la fine della frazione. Più comunemente, in uno sforzo prolungato, come ad esempio il ciclismo di un half-IM o per distanze superiori, capita l’inverso. La frequenza cardiaca media dell’ultimo 20% del tempo in bici è facile che sia più bassa della media del restante 80%. E’ fatica cardiaca? Forse, ma più probabilmente l’output cardiaco è governato dall’affaticamento neuromuscolare che colpisce i muscoli scheletrici maggiori. In altre parole, le gambe sono così affaticate che il cuore non riesce ad essere utilizzato al massimo del proprio potenziale. Conseguentemente la frequenza, che avrebbe dovuto essere, diciamo, 155BPM per tutta la frazione in bici, durante le ultime fasi tende a 150153. Forse tende ad abbassarsi ulteriormente, e il tasso di calo di frequenza cardiaca è proporzionale all’aumento di fatica neuromuscolare. Se questo fosse il caso, un modo per misurare quest’ultima è considerare il grafico della frequenza cardiaca su una distanza abbastanza lunga. Al procedere dei minuti, si può vedere se si riesce ad esprimere sempre la stessa potenza e, se non fosse così, con che rapidità questa tende a calare. Nonostante ciò, una RPM più alta non è sempre ottimale qualunque sia l’impegno da affrontare. C’è il costo aerobico da considerare. Può essere perfetta per le brevi gare nei velodromi, in cui si sta ben oltre le 100 RPM. In una RAAM (race across america) si sta generalmente intorno alle 60 RPM. Il costo aerobico di pedalare a frequenze troppo elevate può essere eccessivo per quegli atleti, che cercano anche di non generare un wattaggio troppo elevato per evitare che la fatica neuromuscolare possa essere un fattore limitante. 5. Conclusioni L’output di potenza è un importante parametro, se si considera una distanza abbastanza lunga. Certamente, se non si è capaci di essere potenti verso la fine della frazione quanto lo si è nelle fasi centrali, la fatica s’instaurerebbe più rapidamente di quanto farebbe se si riuscisse a pedalare in maniera più costante. Se si analizza il comportamento del cuore, si puo’ vedere che se la frequenza aumenta al calare della potenza, vuol dire che si sta scegliendo la strada di un più alto prezzo aerobico. Ciò è comune durante il ciclismo 12 Allenatri 2008 n.1 gen/feb BIBLIOGRAFIA Idratazione ed iponatremia: • Emerg Med 2001 Mar 13, pp 17-27 • Br J Sports Med 2006; 40: 320-325 • Br J Sports Med 2006 ;40: 567-572 Glicogeno e performance: • Costill, Inside running: Basics of sport physiology, Benchmark Press 1986 Fatica neuromuscolare: • Vercruyssen et al., Effect of exercise duration on optimal pedaling rate choice in triathletes, Canadian Journal of Applied Physiology, February 2001 • Ahlquist et al, The effect of pedaling frequency on glycogen depletion rates in type I and type II quadriceps muscle fibers during submaximal cycling exercise (European Journal of Applied Physiology, 1992: 65). 13