Spunti critici in tema di giurisprudenza sui divieti legali di prova te

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Spunti critici in tema di giurisprudenza sui divieti legali di prova te
MASSIMO MONTANARI
Professore straordinario di Diritto fallimentare
nell’Università di Parma
Spunti critici in tema di giurisprudenza sui divieti legali di prova testimoniale
Sommario: 1. Note introduttive sull’oggetto della relazione. - 2. La natura relativa delle nullità derivanti
dall’inosservanza dei limiti di ammissibilità della prova testimoniale. - 3. Limiti soggettivi di ammissibilità
della testimonianza ed esasperazioni della concezione “privatistica” accolta al riguardo dalla giurisprudenza.
- 4. Incapacità del teste, natura relativa delle afferenti nullità e indebite refluenze sul piano del giudizio di attendibilità delle dichiarazioni testimoniali. - 5. Limiti oggettivi di ammissibilità della prova testimoniale e inappropriate classificazioni di alcuni orientamenti specifici. - 6. Aperture giurisprudenziali in tema di prova:
I) contro le scritture unilaterali; II) e del contratto dedotto a guisa di mero fatto storico. - 7. L’incidenza dei
divieti di testimonianza anche nel campo della prova contro le scritture unilaterali. - 8. La libertà di prova del
contratto invocato in giudizio quale semplice fatto storico: a) i confini del fenomeno. - 9. Segue: b) indebite
applicazioni del principio. - 10. Recenti sviluppi giurisprudenziali in senso “anti-liberale”.
1. Note introduttive sull’oggetto della relazione
Ringraziando dell’opportunità che mi è stata offerta di riprendere e rinnovare un dialogo nato, mi
sembra, sotto buoni auspici, va detto come la trattazione odierna, formalmente e genericamente dedicata alla prova testimoniale nel processo civile, si svolgerà giocoforza entro assai più angusti confini.
Questi vanno tacciati nel segno, anzitutto, dell’esigenza di evitare sovrapposizioni con i temi
d’indagine riservati ad uno dei prossimi incontri di questo ciclo di aggiornamento professionale,
dove la prova testimoniale sarà nuovamente oggetto di analisi, nell’ottica, se non ho male inteso,
dell’architettura generale delle preclusioni istruttorie e delle sue più specifiche dinamiche procedimentali. Correlativamente, la nostra attenzione dovrà oggi soffermarsi sugli aspetti statici
dell’istituto testimoniale, vale a dire, fondamentalmente, su quelli che ne rappresentano i peculiari
limiti di ammissibilità.
Si distingue, come noto, in argomento tra limiti oggettivi e limiti soggettivi, gli uni attinenti al
novero dei fatti giuridici la cui prova non possa essere somministrata per testes, gli altri, viceversa,
al novero dei soggetti di cui non sia consentita, nel processo, l’audizione in tal veste.
Da un lato, dunque, la variegata disciplina dei divieti di prova testimoniale di cui agli artt. 27212726 c.c. (1), relativi: a) ai contratti per i quali la legge richiede la forma scritta, così ad validitatem
che ad probationem tantum; b) ai contratti, come dice la Cassazione, di notevole valore economico,
in tal modo scontando la da lungi conclamata inapplicabilità del limite pecuniario, formalmente statuito degli euro, 2,58; c) ai patti aggiunti o contrari al contenuto di un documento – figure il cui paradigma è senz’altro concretato dall’accordo simulatorio, oggetto, peraltro, di una disciplina limitativa ad hoc della prova testimoniale, consacrata nell’art. 1417 c.c. -, con differenti accentuazioni,
invero, dei divieti di testimonianza posti al riguardo a seconda del rapporto cronologico intercorrente tra patto aggiunto e documento-base; d) a pagamenti ed atti di remissione di debito, in quanto attingenti le soglie di valore rilevanti in funzione inibitoria della prova per testes dei contratti.
Dal lato opposto, la regola istitutiva della incapacità a testimoniare dei soggetti aventi in causa un
interesse che potrebbe legittimare la loro partecipazione al giudizio come interventori (art. 246
c.p.c.) (2), cui si affianca il principio, immanente al sistema, di incompatibilità con l’ufficio testimoniale di coloro che abbiano assunto nel processo un diverso ruolo, da quello di parte o giudice a
quello di rappresentante, difensore, consulente e via discorrendo (3).
Il tema or tratteggiato a grandi linee è chiaramente desueto rispetto alle correnti proposte del “circuito congressuale” processualistico, troppo e giocoforza attratto dalle frenesie creative del moderno legislatore per poter posare lo sguardo su una disciplina che, per tantissimi aspetti, ha mantenuto
praticamente intatto il proprio impianto sin dalle legislazioni napoleoniche, per non risalire oltre.
Spunti di persistente interesse non mancano tuttavia, almeno così credo. E ciò vorrei oggi, per
l’appunto, evidenziare, non, chiaramente, attraverso un’esposizione di taglio scolastico
dell’argomento, che fatalmente comporterebbe una forte diluizione di quegli spunti medesimi, bensì
provando ad avviare una riflessione, di segno tendenzialmente critico, su alcuni dei postulati che
scandiscono l’elaborazione giurisprudenziale in materia: dove l’impiego del termine «postulati» non
è affatto casuale, volendosi con ciò alludere sia al modo, sovente assiomatico, con cui la giurisprudenza è venuta ad enunciare i suoi insegnamenti in subjecta materia sia all’atteggiamento, sovente
(anche se non sempre) passivo ed acritico, mostrato dalla dottrina nel recepire tali insegnamenti o
nel farne oggetto di esposizione o divulgazione come se si trattasse di verità inconfutabili.
(1) Normativa generale integrata da divieti di portata specifica, come quello istituito, per l’opposizione di
terzo all’esecuzione, dall’art. 621 c.p.c., a sua volta ripreso, per il corrispondente istituto delle rivendiche fallimentari, dall’art. 103, 1° co., l. fall.
(2) Norma sfuggita ai fulmini del giudizio di incostituzionalità che hanno invece investito la contigua disposizione dell’art. 247 c.p.c., decretante l’incapacità a testimoniare di coloro che fossero legati a taluna delle
parti da un qualificato vincolo di natura familiare.
(3) Per una più compiuta esemplificazione sia consentito rinviare a MONTANARI, sub Art. 246, in CONSOLO –
LUISO (a cura di), Codice di procedura civile commentato, ed. diretta da CONSOLO, I, Milano, 2007, 1992.
2. La natura relativa delle nullità derivanti dall’inosservanza dei limiti di ammissibilità della prova testimoniale
E’ noto – o, almeno, risponde a un diffuso modo di pensare – che la lettura complessivamente offerta dalla giurisprudenza del sistema dei limiti di ammissibilità della prova testimoniale di cui
poc’anzi s’è detto non sia improntata a particolare rigore o severità e finisca per elargire a questo
mezzo di prova spazi che un approccio ermeneutico meno indulgente finirebbe inesorabilmente per
chiudergli.
Uno dei capisaldi di questa impostazione, se così vogliamo dire, lassista è senz’altro rappresentato
dalla tesi – a più riprese, in effetti, attaccata dalla dottrina, ma senza mai sortire alcunché di concreto – a mente della quale le regole di esclusione della prova testimoniale che si sono testé passate in
rassegna sarebbero dettate nell’interesse esclusivo delle parti in causa (4) e non, come forse si potrebbe sostenere, per ragioni di ordine pubblico, attinenti alle esigenze di una più corretta amministrazione della giustizia: con l’evidente e obbligata conseguenza della natura meramente relativa
delle nullità processuali discendenti da una loro eventuale inosservanza. Natura relativa, si è detto,
alla stregua della quale avremmo dunque a che fare con vizi del procedimento di cui: per un verso, è
esclusa la possibilità del rilievo ex officio da parte del giudice; per il verso opposto, è ammessa la
possibilità di sanatoria per acquiescenza, in quanto non fatti oggetto di tempestiva eccezione ad opera della parte interessata (5).
Ora, non è certo mio intento mettere qui in discussione la logica di fondo che sorregge un siffatto
costrutto. Eppertanto, diamo pure per buona, anche se non ci persuade fino in fondo e magari, intimamente, ne dissentiamo, l’idea che i limiti di prova testimoniale sarebbero funzionali esclusivamente all’interesse delle parti, così che sia rimesso all’esclusiva disponibilità di queste ultime il farli
valere o meno con gli appositi strumenti messi loro a disposizione dal sistema processuale.
Questo non significa, però, doverne indiscriminatamente accettare tutti gli svolgimenti applicativi:
in particolare, alcuni di questi svolgimenti, manifestatisi essenzialmente sul terreno dei limiti soggettivi, ergo in tema di eccezione dell’incapacità a testimoniare, che di quella logica costituiscono
(4) Così, da ultima, Cass., 14 febbraio 2006, n. 3186, in Mass. Giur. it., 2006.
(5) Così, in generale, Cass., 18 ottobre 2004, n. 20397, in Mass. Giur. it., 2004; Cass., 17 ottobre 2003, n.
15554, ivi, 2003; Cass., 28 maggio 2003, n. 8531, ivi, 2003; Cass. 9 gennaio 2002, n. 194, ivi, 2002; nonché,
con riguardo specifico ai limiti oggettivi, Cass., 28 aprile 2006, n. 9925, in Mass. Giur. it., 2006; Cass., 3
aprile 1999, n. 3287, ivi, 1999; Cass., 19 febbraio 1997, n. 1538, ivi, 1997; Cass., 16 marzo 1996, n. 2213,
ivi, 1996; Cass., 9 marzo 1995, n. 2747, in Giur. it., 1996, I, 1, 236, annotata da RONCO; Trib. Reggio Emilia, 19 febbraio 2008, in Obbl. e contr., 2008, 751, con nota di SCHIAVONE; ed a quelli soggettivi, Cass., 8
marzo 1997, n. 2101, in Mass. Giur. it., 1997.
piuttosto una vera e propria esasperazione anziché, come la giurisprudenza ci vorrebbe far credere,
una piana reductio ad consequentias. Vediamo di offrire un qualche riscontro in proposito.
3. Limiti soggettivi di ammissibilità della testimonianza ed esasperazioni della concezione “privatistica” accolta al riguardo dalla giurisprudenza
Rispetto alla comunemente professata configurabilità in termini di nullità relativa della patologia
processuale legata all’audizione di un teste incapace a norma dell’art. 246 c.p.c., indubbia è la coerenza di quella ricorrente massima giurisprudenziale ai sensi della quale l’afferente eccezione andrebbe sollevata già e direttamente in sede di espletamento della prova, vale a dire non appena terminata l’escussione del teste oppure, in caso di assenza, in quell’occasione, del difensore della parte, nella prima udienza successiva (6).
Ma che così debba essere sempre e invariabilmente e, cioè, anche quando la parte avesse denunciato l’incapacità del teste in via, per così dire, preventiva, ovverosia prima della sua ammissione ed
in funzione ostativa della medesima oppure, una volta che l’ammissione fosse stata disposta, come
motivo atto a provocarne la revoca, questo non mi convince appieno. E non mi convince perché implicita, nella deduzione di quella incapacità, avrebbe dovuto ritenersi anche la deduzione della nullità della deposizione testimoniale che si fosse egualmente raccolta.
Né tantomeno mi convince l’assunto, peraltro minoritario e confinato a livello di giurisprudenza
di merito, secondo cui in tanto la parte potrebbe dolersi “a valle” della nullità della testimonianza
resa dal soggetto incapace in quanto, e solamente in quanto, detta incapacità essa avesse fatto valere
“a monte”, ossia prima dell’escussione di quel teste medesimo (7). In tal senso si è argomentato sulla base del rilievo che, con il silenzio osservato prima dell’assunzione del teste, la parte avrebbe
concorso a dar luogo alla nullità, onde il difetto di legittimazione a sollevare la relativa eccezione a
mente di quanto disposto dall’art. 157, 3° co., c.p.c., che nega il diritto di opporre una nullità processuale a chi vi abbia «dato causa». Ma per quanto codesta locuzione normativa possa essere intesa
estensivamente, non è dubbio che di nullità cui la parte abbia dato causa si possa parlare solamente
qualora sia stata la parte medesima, con un proprio atto o contegno, a violare le regole del procedi-
(6) V., ad es., Cass., 3 aprile 2007, n. 8358, in Mass. Giur. it., 2007; Cass., 24 giugno 2003, n. 10006, ivi,
2003; Cass., 1° luglio 2002, n. 9553, ivi, 2002; Cass., 15 novembre 1999, n. 12634, ivi, 1999; Cass., 21 aprile 1999, n. 3962, ivi, 1999.
(7) Cfr. Trib. Alessandria, 19 aprile 1996 (ord.), in Giur. di merito, 1996, I, 645.
mento o a porre le indefettibili premesse di una violazione formalmente ad altri imputabile (8): il
che non è a dirsi assolutamente nel caso di specie.
L’aspetto più discutibile di questa glossa giurisprudenziale mi sembra, tuttavia, un altro e, precisamente, quello per cui, dove la parte abbia tempestivamente sollevato l’eccezione relativa
all’incapacità del teste escusso, detta eccezione andrebbe comunque e necessariamente riproposta
all’atto della precisazione delle conclusioni ex art. 189 c.p.c. (9).
Laddove la Suprema Corte si è preoccupata di motivare esplicitamente questa sua posizione,
l’argomento addotto è stato che, avendo il giudice istruttore respinto l’eccezione di nullità originariamente proposta – non importa se con l’ordinanza che avesse ammesso la deposizione del teste
previamente censurato come incapace oppure con il diniego opposto all’istanza di revoca di tale
ammissione -, l’omessa reiterazione dell’exceptio nullitatis all’atto della precisazione delle conclusioni suonerebbe ad acquiescenza, ovviamente tacita, nei confronti del provvedimento giudiziale
che dell’eccezione in discorso avesse previamente decretato il rigetto.
Ora, come si possa parlare di acquiescenza, o, meglio, di acquiescenza con effetti stabilizzatòri
del provvedimento giudiziale che ne sarebbe l’oggetto, con riguardo ad ordinanze istruttorie, sempre e invariabilmente suscettibili di riesame da parte del giudice in sede di decisione della causa,
questo, francamente, non riesco a capirlo. Fermo restando che, per parlare di acquiescenza tacita
ovvero, se intendiamo offrire di questa giurisprudenza una diversa chiave di lettura, di rinuncia tacita all’eccezione di nullità della prova ai sensi dell’art. 157, 3° co., ult. inciso (10), occorrono
comportamenti inequivocabili, rectius, comportamenti inequivocabilmente incompatibili con la volontà di perseguire in quell’eccezione. E il mero silenzio tenuto sul punto al momento della precisazione delle conclusioni non mi pare, di per se stesso, significante. Esso dovrebbe trovare quantomeno riscontro a livello di comparsa conclusionale, qualora, ad es., detto silenzio avesse a persistere
anche in tal sede oppure, e ancor meglio, la parte si limitasse a contrastare “nel merito”, se così vogliamo dire, le risultanze della testimonianza asseritamente viziata, meramente cercando di dimostrarne l’inattendibilità o inconcludenza.
Ma il voler definitivamente seppellita la questione della capacità del teste sulla base, puramente e
semplicemente, di quanto la parte abbia dichiarato – anzi, non dichiarato – all’atto della precisazione delle conclusioni, questo, ribadisco, non mi sembra potersi condividere, quale espressione
(8) Come, ad es., laddove la parte si sia associata alla richiesta, avanzata dall’avversario, di assunzione di un
teste incapace: v. Cass., 16 gennaio 1996, n. 303, in Mass. Giur. it., 1996.
(9) V. Cass., 24 novembre 2004, n. 22146, in Foro it., 2005, I, 370, con oss. di BARONE; Cass., 30 luglio
2004, n. 14587, in Mass. Giur. it., 2004; Cass., 7 febbraio 2003, n. 1840, ivi, 2003; Cass., 15 giugno 1999, n.
5925, ivi, 1999; e per un recentissimo riscontro nella giurisprudenza di merito, Trib. Cassino, 19 marzo 2009,
reperibile presso la banca dati Platinum Utet.
(10) La chiave di lettura è, in realtà, soltanto apparentemente diversa: v. le indicazioni in proposito di POLI,
sub Art. 157, in CONSOLO - LUISO (a cura di), Codice di procedura civile commentato, I, cit., 1451.
dell’idea che a governare l’ordinamento processuale figuri, tra gli altri, anche un fantomatico “principio dell’insistenza”.
4. Incapacità del teste, natura relativa delle afferenti nullità e indebite refluenze sul
piano del giudizio di attendibilità delle dichiarazioni testimoniali
A chiusura di queste rapide note in tema di limiti soggettivi di ammissibilità della prova per testes, mi sembra doveroso osservare come la concezione integralmente dispositiva accolta al riguardo dalla giurisprudenza abbia a racchiudere una notevole dose di ipocrisia e finisca per portare ad
un autentico stravolgimento del sistema o, comunque, ad una ricostruzione dello stesso secondo linee sicuramente devianti rispetto a quelle tracciate dal legislatore.
Non altrimenti, invero, mi viene da dire di fronte ad affermazioni del tenore di quella contenuta
nella pronuncia del S.C. n. 1429 del 20 febbraio 1999, ove si legge che «il testimone assunto nonostante la presenza di una delle cause di incapacità a testimoniare previste dall’art. 246 c.p.c., che
non sia stata tempestivamente eccepita [corsivo dell’a.], non può per tale solo motivo essere ritenuto inattendibile, e un giudizio in tal senso può essere formulato solo in base ad una rigorosa valutazione della sua deposizione».
Orbene, una Cassazione che fosse rigorosamente coerente con se stessa e con i suoi postulati in
materia, il problema del valore probatorio da attribuirsi alle dichiarazioni del terzo la cui incapacità
a testimoniare non fosse stata tempestivamente dedotta dalla parte interessata mai, tale problema, se
lo sarebbe dovuto porre, perché, a monte, era la stessa questione relativa all’incapacità a testimoniare di quel soggetto che, essendone mancata la tempestiva deduzione di parte, avrebbe dovuto considerarsi definitivamente preclusa e superata. Il fatto che il problema, viceversa, egualmente se lo sia
posto sta allora, evidentemente, a significare che, ad opinione della S. C., gli spazi per l’esercizio,
da parte del giudice, di un sindacato ex officio sul rispetto dei limiti soggettivi di ammissibilità della
prova testimoniale, in realtà, non mancherebbero affatto. Solo che essi risulterebbero spostati, dalla
fase di ammissione della prova a quella di valutazione dei suoi esiti. E ciò spiega e conferma, ad un
tempo, i due concetti enunciati in apertura di paragrafo, vale a dire: a) l’ipocrisia della giurisprudenza qui esaminata, da un lato; b) lo stravolgimento del sistema che ne deriva, dall’altro.
Quanto al primo, una qualsiasi nota di chiarificazione ulteriore è probabilmente superflua. Non
riesco, infatti, a vedere come non definire ipocrita – o, se proprio non si vuole usare questo termine,
intimamente contraddittorio – l’atteggiamento di chi concede spazio ad una valutazione officiosa
della capacità dei testi, dopo aver proclamato ai quattro venti che le norme regolatrici di quella ca-
pacità rispondono all’esclusivo interesse delle parti e spetta esclusivamente a queste ultime il pretenderne l’osservanza.
Quanto al secondo, merita osservare che i motivi di sospetta parzialità del teste, come, per
l’appunto, quelli legati alla sua posizione di terzo potenziale interventore nel processo ex art. 246
c.p.c., possono astrattamente rilevare o come cause di radicale esclusione del teste medesimo oppure come ragioni di possibile declassamento delle sue dichiarazioni, secondo quanto concretamente
determinato dal giudice nell’esercizio del suo prudente apprezzamento. Ebbene, il legislatore ha optato in termini inequivocabili per la prima soluzione, sulla base, chiaramente, di una logica di diffidenza nei confronti dei giudici e delle loro virtù di prudente apprezzamento del materiale istruttorio.
La Corte di cassazione, che, dei giudici del merito si fida evidentemente di più di quanto non si fidi
il legislatore, ha accolto, invece, la seconda, ammettendo, seppur subordinatamente alla mancata istanza di parte volta all’esclusione del teste, che dell’incapacità di quest’ultimo il giudice possa comunque tenere conto, all’atto di sindacarne l’attendibilità delle deposizioni in sede di giudizio finale
sulla controversia.
5. Limiti oggettivi di ammissibilità della prova testimoniale e inappropriate classificazioni di alcuni orientamenti specifici
Spostandoci ora dal terreno dei limiti soggettivi di ammissibilità della prova per testes a quello dei
limiti oggettivi, un primo rilievo può attenere a ciò, che, se la nota di fondo che caratterizza gli orientamenti giurisprudenziali in materia è quella – già lo si è ricordato – della flessibilità e della liberalità, a questo spirito di liberalità sovente accade che siano ricondotte, nelle rassegne ed esposizioni che la dottrina propone di questa giurisprudenza, posizioni o tendenze specifiche che, da quello spirito, non sono in realtà affatto animate e che ben potrebbero coniugarsi ad una scelta interpretativa di fondo che risultasse, all’opposto, ispirata da una logica di estremo rigore.
Così è da dirsi per quella nota proposizione secondo cui i limiti della prova testimoniale dei patti
aggiunti o contrari di cui agli artt. 2722 e 2723 c.c. non sarebbero opponibili a coloro che possano
apprezzarsi come soggetti terzi rispetto al contratto consacrato nel documento avverso le cui risultanze s’intenda provare (11). Se, infatti, andiamo ad esaminare da una distanza ravvicinata il materiale giurisprudenziale da cui quella consolidata massima figura estrapolata, ci accorgiamo immediatamente che la casistica mobilitata riguarda sempre e immancabilmente fattispecie di simulazio (11) Per un inquadramento di questa proposizione nella chiave anti-rigoristica di cui s’è appena detto nel testo, v., ad es., LIEBMAN, Manuale di diritto processuale civile, 6a ed., a cura di COLESANTI, MERLIN, RICCI,
Milano, 2002, 375.
ne negoziale e, dunque, che il terzo cui i divieti degli artt. 2722 e 2723 c.c. non sarebbero opponibili
coincide, di volta in volta, con le classiche figure: a) dell’erede che ha promosso l’azione di riduzione per lesione di legittima e intende dimostrare le donazioni dissimulate tra de cuius ed altri eredi
(12); b) del mandante che intende provare la simulazione del contratto intercorso tra mandatario e
terzo contraente (13); e così via. Tutti casi, questi appena prospettati, dove la libertà di prova testimoniale poggia direttamente su un formale precetto legislativo – quello del già menzionato art.
1417 c.c. (là dove questo sancisce che «la prova per testimoni della simulazione è ammissibile senza limiti, se la domanda è proposta da creditori o da terzi») – senza bisogno, pertanto, di evocare o
magnificare l’intima vocazione liberale di cui la giurisprudenza saprebbe dare dimostrazione nella
materia in discorso.
Non dissimilmente è a dirsi a proposito di quell’ulteriore filone giurisprudenziale, esso pure catalogato in quella stessa chiave “liberaleggiante” di cui stiamo ora parlando, ai sensi del quale il ricorso alla testimonianza non sarebbe affatto inibito ove si tratti di provare in aggiunta o contro le risultanze di documenti quali fatture commerciali, buoni di consegna, bolle di accompagnamento e figure affini (14). A venire qui in gioco, difatti, non sono scritture destinate ad irretrattabilmente fissare
i termini di un determinato impegno negoziale, bensì, all’opposto, scritture a contenuto, come si dice, partecipativo, ossia aventi funzione meramente informativa circa le modalità di esecuzione di un
rapporto già costituito: con la conseguenza che la libertà di prova in discordanza dalle loro risultanze formali e in ordine agli effettivi contenuti del rapporto in esecuzione possa ritenersi in certo modo appartenente alla logica naturale delle cose, o, per dirla altrimenti, sussistente in re ipsa, e non vi
si debba ravvisare il frutto di una particolare flessibilità nella lettura delle norme di legge in questione.
6. Aperture giurisprudenziali in tema di prova: I) contro le scritture unilaterali; II)
e del contratto dedotto a guisa di mero fatto storico
Con tutto quanto finora si è detto, non si deve, tuttavia, pensare che della tanto sbandierata flessibilità non vi siano tracce di sorta: solo che queste vanno cercate altrove e sotto profili diversi da
quelli in precedenza considerati.
(12) V. i ragguagli offerti in proposito da BACCAGLINI, sub Art. 2722, in CIAN – TRABUCCHI, Commentario
breve al codice civile, 9a ed., a cura di CIAN, Padova, 2009, 3445.
(13) BACCAGLINI, op. loc. citt.
(14) Cfr. Cass., 20 settembre 1999, n. 10160, in Mass. Giur. it., 1999; Cass., 21 maggio 1992, n. 6142, ivi,
1992.
Un riferimento appropriato può, ad es., ritenersi quello che si voglia operare in tal senso alla tesi
secondo cui, per quanto gli artt. 2722 e 2723 c.c. parlino genericamente di patti aggiunti o contrari
al contenuto di «un documento» tout court, in realtà si dovrebbe necessariamente trattare di un documento di natura contrattuale, vale a dire consacrante o, almeno, rinviante ad una convenzione bilaterale e, dunque, sottoscritto da entrambe le parti o, anche, da una sola di esse purché, in tal caso,
destinato comunque ad integrarsi nella vicenda perfezionativa di un contratto. Ciò che, letto a contrariis, si risolve nell’affermazione dell’inoperatività dei limiti probatòri in questione allorché si
tratti di provare in aggiunta o contro le formali risultanze (non di un documento contrattuale, sia pure nel senso ampio appena illustrato, bensì) di un documento unilaterale, ossia, e meglio, di un documento consacrante un atto negoziale unilaterale, come ad es., e qui la giurisprudenza è piuttosto
ricca di riscontri, la promessa di pagamento, la ricognizione di debito, il pagherò cambiario,
l’assegno bancario, la proposta contrattuale che sia stata revocata o non accettata, e così via15.
E un identico afflato liberale tangibilmente sorregge un altro dei tòpoi della riflessione giurisprudenziale in materia, quello per cui tanto il divieto di prova testimoniale per i contratti che superino
un dato e cospicuo valore come quello relativo ai contratti di cui la legge richieda la prova scritta,
ad substantiam o ad probationem tantum, presupporrebbero, entrambi questi divieti, che il contratto
sia stato invocato in giudizio come fonte di diritti ed obblighi delle parti, dovendosene viceversa escludere l’applicazione allorché il contratto sia stato dedotto in causa a titolo di mero fatto storico
influente sulla decisione16.
Nel richiamare l’attenzione su queste importanti opzioni applicative, non si è inteso soltanto, però,
dar conto della loro comune matrice logica. Il riferimento prelude, infatti, anche ad una loro valutazione nel merito, all’esito della quale, pur non potendosene sottacere l’attitudine a cogliere rilevanti
aspetti di verità, esse dovrebbero risultare nuovamente accomunate, questa volta, però, dal giudizio
d’identica intonazione critica che sarà mosso nei loro confronti.
7. L’incidenza dei divieti di testimonianza anche nel campo della prova contro le
scritture unilaterali
In merito al tema cui è intitolato il presente paragrafo, già altri ha notato – e si tratta, in effetti, di
uno spunto estremamente interessante e sensato, come tale meritevole d’essere direttamente ripreso
– che, dove un soggetto sia disposto a fissare nero su bianco i termini di un proprio impegno nego (15) Per un’aggiornata ricognizione in argomento, cfr. BACCAGLINI, op. cit., 3444.
(16) Per svariate testimonianze di questo orientamento, si rinvia ai successivi §§ 8 e 9.
ziale, ben difficilmente esso non avrà cura di fissare nella stessa maniera eventuali clausole o pattuizioni accessorie che tale impegno e, più in generale, la sua posizione abbiano in qualche modo ad
alleviare e rendere meno gravoso/a; mentre non è affatto inverosimile che esso, al contempo, si astenga dal consacrare in quel modo clausole o intese collaterali che il medesimo impegno valgano,
per converso, ad aggravare e rendere più intenso e severo.
Il significato di questa notazione è di immediata intelligibilità e si compendia nel rilievo che
l’asserita libertà di prova relativa ai patti aggiunti o contrari al contenuto di un documento unilaterale può forse sussistere nel caso, da ultimo considerato, di patti aggiunti implicanti un aggravamento
della posizione della parte (leggi: sottoscrittore del documento) ma è, viceversa, da escludere, tale
libertà, nel caso, precedentemente illustrato, di patti volti ad alleggerire i termini dell’impegno assunto da quel soggetto medesimo.
Così, per fare qualche esempio, possiamo senz’altro concordare con la Cassazione quando essa afferma che il destinatario di una promessa di pagamento o di una ricognizione di debito è legittimato
a provare mediante l’ausilio di testimoni che l’obbligazione sottostante a quelle dichiarazioni è
d’importo più elevato rispetto a quanto risulti dalle dichiarazioni in questione. Ma non mi posso dire
altrettanto d’accordo con la S. C. allorché essa predica analoga libertà di prova quanto all’eventuale
convenzione “di favore” che acceda all’emissione di un pagherò cambiario (17): e ciò, appunto, in
quanto si tratterebbe di convenzione tendente ad alleggerire la posizione del sottoscrittore della
cambiale, consentendogli di sottrarsi al pagamento nei confronti del prenditore del titolo.
Lo stesso, direi, vale per quell’ulteriore tipologia di patti aggiunti che sanciscano
l’assoggettamento dell’obbligazione formalizzata nel documento unilaterale ad una qualche condizione, in particolare di natura sospensiva.
Mi sembra opportuno, a questo proposito, richiamare la fattispecie affrontata dalla Cassazione
con la sua pronuncia n. 17040 del 2003 (18). La controversia traeva spunto dalla vendita di un terreno. Per la precisione, l’acquirente aveva sottoscritto un documento unilaterale con cui
s’impegnava a rifondere l’alienante delle somme che questi avrebbe dovuto, a sua volta, versare
all’ente pubblico di competenza (leggi: Comune di Roma) per la rimozione di una massa di rifiuti
accumulati sul terreno venduto. L’alienante corrispose effettivamente al predetto ente le somme da
quest’ultimo pretese e, forte della sopra indicata dichiarazione, convenne in giudizio l’acquirente
per il rimborso.
Ebbene, alla domanda di condanna al pagamento proposta nei suoi confronti, l’acquirente del terreno oppose un accordo separato, ossia, per l’appunto, un patto aggiunto, per effetto del quale il suo
(17) Cass., 7 maggio 1999, n.4563, in Mass. Giur. it., 1999.
(18) Vedila in Gius, 2004, 1154.
obbligo di rimborso avrebbe dovuto intendersi subordinato al fatto che il venditore sua controparte
avesse resistito in giudizio – ciò che, nella circostanza, non era accaduto – alla pretese verso di lui
accampate dall’ente territoriale summenzionato. E pervenuta la controversia in sede di legittimità, la
Corte gli riconobbe il diritto di provare l’esistenza di quell’accordo a mezzo di testimoni, in linea
con il proprio consolidato indirizzo in tema di prova dei patti aggiunti al contenuto di un documento
unilaterale: soluzione che, conformemente a quanto poc’anzi osservato, non mi trova affatto consenziente, considerata l’incongruità (ed inverosimiglianza) della scelta, da parte dell’obbligato, di
non dare minimamente conto per iscritto di un accordo che avrebbe, e non poco, alleggerito la sua
posizione.
8. La libertà di prova del contratto invocato in giudizio quale semplice fatto storico:
a) i confini del fenomeno
Anche la massima per cui i limiti posti alla prova testimoniale dei contratti non sarebbero opponibili quando il contratto di cui si discuta sia stato dedotto in giudizio a titolo di mero fatto storico non
può andare, come già osservato nel precedente paragrafo, immune da critiche. Ma più che la massima in sé, sono le applicazioni che la medesima ha ricevuto nell’esperienza giurisprudenziale a sollevare perplessità. Quel che mi sembra di poter dire, infatti, è che sotto questa etichetta la giurisprudenza sia venuta a conglomerare e, fors’anche, a confondere una serie di situazioni assai variegate
ed eterogenee, rispetto alle quali non sempre la sottrazione ai vincoli probatòri in questione può reputarsi giustificata.
Necessario, ai presenti fini, è rammentare un attimo la summa divisio, elaborata in sede di riflessione teorica sul giudizio di fatto ma, ormai, saldamente acquisita anche nell’uso e nel linguaggio
corrente dei pratici, tra fatti principali e fatti secondari: i primi, produttivi degli effetti giuridici rilevanti per la decisione e dunque, in relazione alla diversa natura e incidenza di quegli effetti, riconducibili alle varie categorie dei fatti costitutivi, impeditivi, estintivi o modificativi; i secondi, invece, rilevanti non per la loro efficacia giuridica ma, esclusivamente, per la loro efficacia indiziaria o
presuntiva, quali, cioè, idonei a costituire la base per argomentare in via logico-inferenziale
l’esistenza o inesistenza di un fatto immediatamente rilevante per la decisione, ossia appartenente al
contrapposto genus dei fatti principali (19).
(19) Su questa distinctio, v., per tutti, TARUFFO, La prova dei fatti giuridici, in Tratt. Cicu – Messineo, Milano, 1992, 97 ss.
Rammentato ciò, direi, allora, che di deduzione del contratto alla stregua di mero fatto storico si
possa, a rigore, parlare solamente quando esso contratto abbia a venire in gioco nelle veste di semplice fatto secondario, utile esclusivamente ai fini della dimostrazione di un diverso fatto principale.
Gli estremi della situazione appena descritta sono, ad es., ravvisabili nella fattispecie su cui ha
pronunciato la Cassazione con la sentenza n. 5673 del 10 aprile 2003 (20), emessa a suggello di una
vicenda giudiziaria che aveva preso l’avvio a séguito dell’esercizio dell’azione di riscatto di un fondo agricolo asseritamente alienato in spregio al diritto di prelazione spettante al proprietario del
fondo confinante.
Tra gli elementi cui è condizionata la nascita, in capo a quest’ultimo, di tale diritto di prelazione –
e che, quindi, ne compongono la fattispecie costitutiva -, figura anche quello rappresentato dalla
circostanza dell’effettiva coltivazione del fondo (scil.: confinante) da almeno un biennio (arg. ex
arrt. 8 l. 26 maggio 1965, n. 590, e 7 l. 14 agosto 1971, n. 817). Ebbene, ai fini della prova di questa
circostanza fattuale, parte attrice aveva dedotto il contratto preliminare d’acquisto, da essa stipulato,
del fondo che dava titolo alle sue rimostranze, contratto che veniva, dunque, in rilievo non in se
stesso e come fonte di specifici diritti e obblighi a contrarre, bensì come fatto che, in quanto avveratosi in una certa data e prodromico al rilascio del fondo, permetteva di arguire che, a partire da quella data medesima o da una assai prossima, la coltivazione del fondo avesse avuto effettivamente inizio.
Quello che il contratto in oggetto assumeva nel processo era, dunque, un significato puramente
indiziario, sulla cui base la S. C. ha ritenuto che la relativa prova potesse essere somministrata per
testes, ancorché, vertendo il contratto su un bene immobiliare, la legge ne richiedesse addirittura la
forma scritta ad substantiam. Ed alla soluzione, per quanto precedentemente si è detto, possiamo
anche, invero, consentire, dal momento che qui, indiscutibilmente, il contratto veniva in considerazione quale puro accadimento storico, utile esclusivamente ai fini della ricostruzione dei fatti di
causa, ossia della possibilità di affermare come avverato un certo e distinto fatto principale.
Di declassamento del contratto al rango di semplice fatto storico si è parlato, però, anche in casi in
cui esso assumeva le connotazioni di autentico fatto principale, in relazione però – ed ecco la particolarità che potrebbe legittimare questa dilatazione del concetto – alla sua capacità di concorrere,
nel caso concreto, alla produzione di effetti giuridici diversi da quelli che la legge comunemente gli
ricollega quale figura negoziale tipica.
Un’efficace esemplificazione del fenomeno può trarsi dalla fattispecie su cui ha statuito la Cassazione con la sentenza n. 15591 del 6 novembre 2002 (21).
(20) Reperibile in Notariato, 2003, 345.
(21) Consultabile in Lavoro nella giur., 2003, 282.
Il caso era quello del giudizio instaurato da un lavoratore subordinato allo scopo di ottenere, previa dichiarazione di nullità o annullamento delle dimissioni dal rapporto di lavoro, la reintegrazione
nel posto di lavoro medesimo. E a detto fine parte attrice aveva addotto la circostanza che essa avrebbe rassegnato le dimissioni di cui intendeva fosse accertata l’invalidità a séguito di un accordo
transattivo intervenuto con il datore di lavoro, accordo che essa aveva stipulato in quanto indottavi
dalla minaccia avanzata da parte di quest’ultimo di far valere un diritto per conseguire vantaggi ingiusti.
Pur trattandosi di contratto per il quale la legge richiede la forma scritta, seppur soltanto ad probationem (ma il dato, ai presenti fini, non rileva minimamente), la Corte ha ammesso, nella fattispecie,
la prova per testes della transazione: e l’ha ammessa sull’onda del solito refrain per cui i limiti alla
prova testimoniale del contratto non operano laddove esso sia dedotto come semplice fatto storico.
Ma qui il refrain suona alquanto diversamente da prima. Nel caso in esame, infatti, non ci si trovava
di fronte, come in precedenza, ad un contratto che esauriva tutto il proprio significato sul piano probatorio, bensì ad un contratto che integrava la fattispecie costitutiva del diritto azionato e, come tale,
poteva dirsi far parte a pieno titolo della causa petendi della domanda proposta.
Prima di censurare quella che sarebbe stata un’erronea applicazione del principio in discorso, occorre però considerare un dato ulteriore e, cioè, che, nella controversia di cui si è riferito, la transazione non rilevava come contratto, ovverosia nella sua tipica dimensione negoziale, bensì come fatto giuridico tout court, dovendosi ad essa guardare come alla peculiare modalità attraverso cui sarebbe venuta a perfezionarsi, nella circostanza, la fattispecie di violenza posta in essere a danno del
lavoratore e rilevante come motivo di annullamento dell’atto con cui questi aveva rassegnato le
proprie dimissioni: aspetto, quello appena posto in risalto, alla cui luce può senz’altro comprendersi,
e probabilmente anche condividersi, la scelta compiuta nella specie dal giudice di legittimità, il rifiuto, cioè, di applicare il divieto di prova testimoniale con riguardo a un’intesa, sì, a carattere formalmente transattivo e, in questa veste, riconducibile alle previsioni dell’art. 1967 c.c. ma, al tempo
stesso, evidenziante connotazioni lato sensu estorsive e verosimilmente tale, perciò, da non essere
stata mai formalizzata per iscritto.
9. Segue: b) indebite applicazioni del principio
Se può convenirsi sul punto della inapplicabilità dei limiti di prova del contratto allorché questo
sia stato invocato come fatto storico nonché, se proprio vogliamo, come fatto giuridico tout court
(nei termini di cui si è visto al § precedente), tali limiti sono invece destinati a riacquistare pieno vi-
gore dove il contratto rilevi, a differenza del caso da ultimo considerato, nella sua tipica dimensione
negoziale, vale a dire in relazione ai diritti e obblighi che tipicamente ne scaturiscono. E a tal fine,
ossia al fine dell’opponibilità di quei limiti, non si può assolutamente pretendere, come fa la giurisprudenza, che tali diritti e obblighi costituiscano anche il thema decidendum della controversia e,
dunque, l’oggetto del futuro giudicato.
Emblematica di questa impostazione giurisprudenziale e degli errori che in essa si annidano è la
massima estrapolata da Cass., 13 dicembre 1999, n. 13937 (22), che qui di séguito merita di essere
riportata. «In tema di cessione dei diritti di utilizzazione economica di un programma per elaboratore, l’art. 110 della l. n. 633 del 1941 dispone che la medesima deve essere provata per iscritto; peraltro, la norma si riferisce all’ipotesi in cui il trasferimento viene invocato dal cessionario nei confronti di chi si vanti titolare del medesimo diritto a lui ceduto e non alla diversa ipotesi in cui il trasferimento sia invocato dal cessionario del diritto di utilizzazione nei confronti del terzo che abbia
violato detto diritto; in tal caso il contratto con cui è stato attuato il trasferimento non viene invocato
come fonte di diritti e doveri tra le parti ma allegato come mero fatto storico e in quanto tale può essere provato con ogni mezzo».
No, non è assolutamente vero. E’ questa la replica che mi sovviene, quasi istintiva, alla lettura di
un siffatto ragionamento. Non è vero, rifacendomi alla distinctio ivi proposta, che in un caso il contratto sia invocato come fonte di diritti e doveri tra le parti e nell’altro caso sia allegato quale mero
fatto storico.
In entrambi i casi, in realtà, esso viene in gioco come fonte di diritti e doveri tra le parti. Solo che,
nel primo caso, tali diritti e doveri costituiscono l’oggetto della controversia, il relativo thema decidendum; nel secondo caso, costituiscono invece un tema pregiudiziale, di cui il giudice deve comunque conoscere per statuire su quei diversi diritti/doveri che concretano, nell’occasione, la res in
iudicium deducta.
Ed invero, nel primo caso, abbiamo una lite tra pretendenti, cioè tra più asseriti titolari esclusivi
dello stesso diritto di utilizzazione del programma, al che è per forza di cose in questo diritto, o,
meglio, nella questione relativa alla sua appartenenza, che si sostanzia l’oggetto decisorio della lite.
Nel secondo caso, il giudizio verte sicuramente su un diritto diverso, quale, per l’esattezza, il credito risarcitorio per i danni derivati dall’abusiva utilizzazione del programma. Ma è chiaro che in tanto questo credito può dirsi venuto ad esistenza in capo ad un determinato soggetto in quanto tale
soggetto sia titolare del diritto di utilizzazione in esclusiva del programma che si assume violato.
Rispetto alla pretesa risarcitoria su cui verte la lite, tale diritto si atteggia, dunque, come situazione
(22) In Mass. Giur. it., 1999.
soggettiva pregiudiziale: eppertanto, del contratto che ne è alla radice il giudice conosce non come
di mero fatto storico, bensì come della fonte di quel diritto pregiudiziale.
La libertà di prova di cui ha parlato, al riguardo, la S. C. non ha, in definitiva, alcuna giustificazione.
Vorrei poi solo segnalare, per chiudere sull’argomento, come quello di cui s’è appena riferito non
sia stato affatto uno sbandamento isolato o occasionale, essendo invece accaduto con una certa frequenza che la Suprema Corte, posta di fronte al problema degli strumenti utilizzabili per la prova di
un contratto invocato come fonte di un rapporto giuridico pregiudiziale rispetto quello dedotto in lite, abbia parlato di allegazione di un mero fatto storico, riconoscendo di conseguenza – e inaccettabilmente – piena libertà di prova al riguardo.
In proposito, mi limito soltanto a richiamare Cass., 8 settembre 1999, n. 9549 (23), dove, proposta
da un soggetto domanda nei confronti dell’INPS ai fini dell’iscrizione nel fondo speciale per il personale di volo in relazione a un dato periodo pregresso e contestato, da parte dell’ente previdenziale, che l’aspirante all’iscrizione nel fondo pensionistico non avesse saputo offrire la prova scritta del
contratto di lavoro relativa a quel periodo – quale, viceversa, richiesta, trattandosi di rapporto di lavoro del personale di volo, dall’art. 903 cod. nav. -, la Corte ha deciso che, nel caso concreto, non
occorreva alcuna prova scritta, dal momento che il contratto in discussione era stato invocato come
semplice fatto storico e non come fattispecie genetica di diritti e doveri tra le parti.
E’ indubbio, come la stessa Corte ha avuto cura di precisare, che, nel caso di specie, le parti del
giudizio non avessero a coincidere con quelle del contratto ivi dedotto: lavoratore e INPS, da un lato; lavoratore e datore di lavoro, dall’altro. Ma questo non toglie assolutamente come fossero proprio i diritti e doveri nascenti dal contratto – leggi: rapporto di lavoro subordinato per soggetto appartenente alla categoria del personale di volo – a venire direttamente in causa, come presupposto
indispensabile e, dunque, condizione pregiudiziale per quell’iscrizione retrograda al fondo pensionistico di categoria che costituiva il petitum della domanda proposta: e che tale petitum fosse rivolto
nei confronti di un soggetto estraneo al contratto, non autorizza certo la degradazione di
quest’ultimo a mero fatto storico (24).
(23) La pronuncia può essere letta su Dir. maritt., 2001, 571, annotata da GOLDA.
(24) La constatata divergenza tra parti del procedimento e parti del contratto avrebbe potuto, semmai, rilevare nell’ottica di quel diverso principio, esso pure di matrice giurisprudenziale (v. retro, § 5), secondo cui i
divieti di prova testimoniale non sono opponibili ai terzi. Ma per potersi, nella specie, proficuamente evocare
il principio, necessario sarebbe stato che a far valere il contatto, non importa a qual fine, fosse stato il soggetto terzo rispetto al medesimo, vale a dire l’ente previdenziale; mentre nel caso concreto, a farlo valere è stato,
come sappiamo, il lavoratore, parte del contratto che non avrebbe certo potuto beneficiare delle esenzioni riservate ai terzi dai limiti di prova dettati al riguardo.
10. Recenti sviluppi giurisprudenziali in senso “anti-liberale”
Se le aperture alla libertà di prova testimoniale registratesi in via di superamento (o scardinamento) dei relativo sistema di limiti oggettivi appaiono forse eccessive, è da dirsi che laddove, in tempi
recenti, le Sezioni unite siano dovute intervenire per appianare contrasti interpretativi in materia,
sempre esse abbiano finito per privilegiare la soluzione più rigorosa o, comunque, quella favorevole
all’applicabilità dei limiti probatòri in discorso.
Segnalo, in proposito, due questioni.
La prima è quella relativa alla simulazione delle quietanze. Sul punto, per vero, le Sezioni unite
hanno scartato la soluzione più restrittiva tra quelle che si contendevano il campo e che, forse, aveva riscosso i consensi maggioritari così in dottrina che in giurisprudenza. Alludo, per l’esattezza, alla tesi per cui, configurandosi la quietanza in termini di dichiarazione confessoria, per smentire le
cui risultanze sarebbe necessario allora passare attraverso la revoca di cui all’art. 2732 c.c.; e figurando tra i motivi di questa revoca l’errore e la violenza ma non l’emissione di una dichiarazione
scientemente falsa: la simulazione di cui si discorre non sarebbe suscettiva di prova tout court. Al
che il supremo consesso ha opportunamente osservato che la necessità di passare attraverso la revoca per sovvertire le risultanze formali della confessione postula che quest’ultima sia sorretta dalla
c.d. voluntas confitendi, voluntas che, nel caso in esame di dichiarazione simulata, sarebbe per definizione mancante.
Ciò posto e ammessa, dunque, la possibilità della prova della simulazione anche per le dichiarazioni di tipo confessorio, come, appunto, le quietanze di pagamento, le Sezioni unite si sono trovate
di fronte al dilemma se, ai fini di quella prova, si debbano o meno fare i conti con i limiti e divieti di
prova testimoniale risultanti dagli artt. 1417 e 2722 c.c. E la risposta, contrariamente a quanto ci si
poteva attendere, è stata affermativa, ad onta del principio tradizionalmente osservato – e che, in
precedenza, si è ritenuto di criticare, almeno nella sua assolutezza – dell’inoperatività di quel sistema di limiti nel caso di documenti unilaterali e non contrattuali.
La seconda delle questioni cui in precedenza si accennava è quella attinente alla prova della simulazione del prezzo nella compravendita. Anche qui era dibattuto se, ai fini di codesta prova, i limiti
di cui ai predetti artt. 1417 e 2722 c.c. dovessero venire in gioco o meno. Ed anche qui, parimenti,
le Sezioni unite si sono pronunciate per l’affermativa, denunciando l’oggettiva inconsistenza degli
argomenti ex adverso addotti, in particolare quello per cui, dove la simulazione riguardi un singolo
elemento del contratto, questo manterrebbe la propria intrinseca identità e non si potrebbe, allora,
parlare di vera simulazione del medesimo quanto di una sua mera integrazione: argomento cui è stato agevole replicare che, anche ragionando in questo modo, non si potrebbe comunque sfuggire al
divieto generalissimo dell’art. 2722 ed al suo esplicito riferimento ai patti aggiunti, come sinonimo
di quelle pattuizioni integrative del documento contrattuale in cui, alla fine, verrebbe a risolversi
anche l’accordo simulatorio del prezzo (25).
Se questi siano segnali premonitori di una più ampia virata in senso rigoristico, che porti a mettere
in discussione anche le altre espressioni, dianzi passate in rassegna, della corrente liberalità giurisprudenziale in tema di limiti oggettivi della prova testimoniale, ciò non è, allo stato, facile a dirsi.
Se son rose, in ogni caso, fioriranno.
(25) Cass., Sez. un., 26 marzo 2007, n. 7246, in Corr. Giur., 2007, 1076, con nota di CARRATO.