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Andrea Staid meticciato e antropologia delle nuove schiavitù agenziax 2011, Agenzia X Copertina e progetto grafico Antonio Boni Immagine di copertina Bruna Orlandi Foto interni Chiara Beretta (pp. 50, 84, 150) Bruna Orlandi (pp. 8, 18, 23, 26, 106) Contatti Agenzia X, via Giuseppe Ripamonti 13, 20136 Milano tel. + fax 02/89401966 www.agenziax.it e-mail: [email protected] Stampa Digital Team, Fano (PU) ISBN 978-88-95029-56-6 XBook è un marchio congiunto di Agenzia X e Associazione culturale Mimesis, distribuito da Mimesis Edizioni tramite PDE Hanno lavorato a questo libro... Marco Philopat – direzione editoriale Andrea Scarabelli - editor Paoletta “Nevrosi” Mezza – redazione e impaginazione Alberto Dubito – ufficio stampa Andrea Staid le nostre braccia meticciato, antropologia delle nuove schiavitù le nostre braccia Prefazione. L’inesorabile meticcio Bruno Barba 9 Introduzione Andrea Staid 19 Un mondo meticcio 27 Mondo postmoderno Multiculturalità, interculturalità, modello meticcio 31 44 Lavoro precario e immigrazione 51 Precarietà come modello di vita Migranti precari Quando lo stato spinge alla criminalità Dove e come lavorano i migranti Dinamiche di potere fra migranti 54 59 63 67 76 Rinegoziazioni culturali 85 Rinegoziazioni migranti 89 Un caso specifico. Le badanti, precarie per eccellenza 95 Le voci dei migranti 107 Quale futuro? 151 Postfazione. Meticci anche in cucina Andrea Perin 155 Ringraziamenti 165 Bibliografia ragionata 167 A tutti i migranti che non arrivano... Le menzogne scritte con l’inchiostro non potranno mai cancellare i fatti scritti con il sangue. Lu Xun (1926) Prefazione. L’inesorabile meticcio Bruno Barba Il Brasile? Un vostro sogno. Solo che noi ci viviamo dentro. Carlos Drummond de Andrade – Jem, chiesi, cos’è un bambino misto? – Mezzo bianco e mezzo negro. Ne hai visti tanti anche tu, Scout. Sai quel ragazzino coi capelli rossi e ricci che porta i pacchi del droghiere? Lui è mezzo bianco. Sono sempre tristi. – Come mai? – Perché non sono né carne né pesce. La gente di colore non li vuole perché sono mezzi bianchi; i bianchi non li vogliono perché sono quasi negri, e così loro stanno in mezzo e non sanno con chi andare. Lee Harper, Il buio oltre la siepe Sia subito chiaro un fatto: multiculturalismo e meticciato non sono sinonimi. In molti lo credono, e i più con le migliori intenzioni, influenzati da quel miraggio nordamericano chiamato melting pot: significava e significa riunire in un pentolone capiente diverse provenienze e molti gusti, per tenerli tutti insieme. Uno accanto all’altro. Un minestrone, talvolta saporito: di qui la pasta, di qua i fagioli che raccolgo con il cucchiaio. Il meticciato – continuo con le metafore culinarie, tra le più espressive, come sempre – è una moqueca, un vatapà, una feijoada.1 1 Sono piatti della saporitissima comida baiana, la cucina afrobrasiliana di Salvador de Bahia. 9 Ovvero, un piatto ricco, saporitissimo, ben amalgamato. Magari si intuiranno, o coglieranno, sapori, essenze, provenienze, ma quel piatto vive di luce propria, ha la propria personalità, la propria individualità composita e complessa. Un impasto, una pietanza il cui sapore ci fa sentire un certo retrogusto familiare ma anche, mutando scenario, un arcobaleno di situazioni, o ancora un suono apparentemente indistinto ma che richiama alla mente qualcosa di conosciuto. Un qualcosa di eclettico e provvisto di una vitalità eccezionale, rivolta sempre al futuro. In altre parole, il multiculturalismo nasce da un ideale profondo e nobile – la valorizzazione della diversità – ma giunge infine a separare. Desta e accende la nobile intenzione di incuriosire sull’alterità, ma crea, seppure involontariamente, barriere insormontabili. I blacks, i latinos, gli ebrei, i neri... Anche quando questi blacks, latinos, ebrei... ci sembrano vicini e fratelli, anche quando li rispettiamo e li amiamo, anche quando mangiamo e preghiamo come loro. Allora qual è la differenza? Semplicemente l’amore, l’erotismo, il sesso. Sì, perché il meticciato nasce dal sangue e dallo sperma. È un’altra metafora, più diretta e materiale, ma è anche la realtà: all’inizio – perché negarlo? – il meticciato dell’America latina, dei Caraibi, del Brasile, è nato per colpa di uno stupro, prima fisico e poi culturale. Sesso e razzismo Se è vero che il razzismo nasce dalla gestione della sessualità, in Brasile è stato il desiderio sessuale interrazziale a costituire la nazione. Forse qui dovrei ripetere due frasi che mi sono care, quelle dello storico francese Fernand Braudel, “Il Brasile mi ha reso intelligente” e quella del romanziere Jorge Amado “Il razzismo? Noi lo combattiamo a letto”. Cos’è quindi che ha reso il Brasile la terra promessa del 10 meticciato, cos’è che ha fatto di questo paese la sensuale terra dell’incontro? Già, ecco un’altra frase a effetto, del poeta Vinicius de Moraes: “A vida è a arte do encontro...”. Parallela alle radici della cultura brasiliana, l’origine del meticciato brasiliano è miticamente assegnata a una coppia miscelatrice composta sempre da un bianco che approfitta della libidinosa donna negra, indigena o meticcia, subordinata a lui. La donna bianca occupa un ruolo pressoché asessuato di sposa fedele, e gli uomini negri risultano semplicemente assenti, relegati nel mondo del lavoro, lontani dai piaceri del sesso e dell’affetto.2 In altre parole, sarà allora vero che il Brasile nasce da un atto sensuale di seduzione delle negre, indigene e mulatte. Proviamo a pensare a quegli sguardi di Dona Flor, o di Gabriela, simboli “amadiani” di una sessualità esplicita e felice. Come già Gilberto Freyre aveva osservato in Casa-grande e Senzala,3 le relazioni sessuali tra gli uomini portoghesi e le loro donne subordinate avrebbe attenuato gli antagonismi tra signori e schiavi, letterati e analfabeti. È nella piantagione, in quel regime di promiscuità, che nasce il meticciato. Un meticciato connotato e sbilanciato: donna nera e uomo bianco, ricordiamo. Perché le relazioni tra l’uomo negro e la donna bianca sono rappresentate, viceversa, in termini di tragedia:4 il contatto, in questo caso, è inquinante, perché rappresenta una minaccia al sistema di dominazione patriarcale orchestrato dall’uomo bianco e poi perché erotizza la santa figura della donna bianca. A dominare, a essere protagonisti, sono invece, e devono esserlo, il libidinoso bianco e la lussuriosa donna negra. E avviene sempre così, in Brasile, come altrove: l’individuo L. Moutinho, Razão, cor, desejo, Unesp, São Paulo 2004, p. 13. G. Freyre, Casa-grande e Senzala, Olimpio, Rio de Janeiro 1961. 4 Basti ricordare Orfeu negro, film del 1959, diretto da Marcel Camus e tratto da uno spettacolo teatrale di Vinicius de Moraes, trasposizione del mito di Orfeo e Euridice in tempi moderni. 2 3 11 desidera ciò che è socialmente desiderabile. E la mistura non potrà essere sempre uguale, perché gli elementi che costituisco questo impasto non potranno mai essere equivalenti o equidistanti. Il meticcio, al di là di ogni utopia, è destinato a conservare qualcosa delle provenienze, biologiche o culturali, che lo hanno formato, sia in termini negativi sia positivi. La fusione non sarà mai totale, o perfettamente riuscita, ma che importa: è come dire che quel samba sarà meraviglioso, quel rituale afro elettrizzante, quella jogada celestial,5 quell’installazione plastica incredibilmente evocativa e quel piatto prelibato. Ma se tutte queste manifestazioni non sono... perfette, che ce ne importa? Quanti problemi, nel tempo, ha provocato gente come Joseph Arthur Gobineau, poeta, scrittore, scultore, padre del razzismo scientifico. Le sue note teorie (capacità intellettuale del negro inferiore o nulla, apatia dei “gialli”, intelligenza energica e amore per la libertà del bianco), oggi, attraverso l’evidenza della prova, risultano indifendibili. Quale degenerazione, quale purezza di sangue (tralasciando il fatto non trascurabile, anzi il paradosso, che la razza civilizzatrice non avrebbe certo potuto espandersi senza misturarsi, a meno che – esperimento che abbiamo visto storicizzarsi – non si tenti di eliminare fisicamente le razze inferiori). Transbrasil È del meticcio che stiamo parlando, uomo e universo culturale, di un’identità difficile da stabilire, di un mondo sincretico, impuro, bastardo che ha inizio con un atto di violenza originaria che dà vita ai primi meticci, all’inizio della colonizzazione. 5 “Giocata paradisiaca”, riferita a un gesto tecnico (soprattutto) e atletico di un calciatore. 12 Successivamente ci sarà il dramma dello sfruttamento, dell’esclusione, della demonizzazione dello schiavo nero. Anche se non si giungesse mai a un risultato totalmente armonioso e pacifico, anche se tra i vari strati connettivi la pace sociale tarderà a imporsi, bisognerà considerare quanti passi ha compiuto il Brasile da quando è stata abolita la schiavitù, soltanto nel 1888. In primis, il Brasile non è un paese acculturato. Melville Herskovits6 sosteneva che l’acculturazione si ha quando gruppi di individui di culture differenti entrano in contatto diretto e continuo, provocando cambiamenti dei canoni culturali di uno o di entrambi i gruppi. In questo caso o si “accetta” un’altra cultura, con conseguente perdita dell’eredità culturale originaria, oppure ci si “adatta” all’altra cultura, subendola passivamente e conservando qua e là e incoerentemente, alcuni tratti. Terza alternativa, la reazione all’altra cultura, quando questa appare insopportabile e oppressiva. Niente di tutto ciò è avvenuto in Brasile: il termine che meglio descrive il processo ancora in atto è stato coniato dal cubano Fernando Ortiz nel libro Contrapunteo cubano del tabaco y el azucar7 ed è quello di “transculturazione”, a indicare passaggio, movimento, creazione originale. Ruth Benedict, in Modelli di cultura8 evidenziava, dal suo punto di vista, come fosse necessario scegliere: senza scelta nessuna cultura può diventare comprensibile. C’è rassicurante chiarezza, ma anche manicheismo, ossessione, razionalismo estremo in questa affermazione. C’è l’esasperazione di quell’affermazione “l’emozione è negra come la ragione è ellenica” che da Léopold Senghor in poi ha plasmato la filosofia della “negritudine”. La Dona Flor di Jorge Amado, invece, rivendica la possibilità di M.J. Herskovits, Man and His Work, Knopf, New York 1948. F. Ortiz, Contrapunteo cubano del tabaco y el azucar, Jesus Montero, La Habana 1940. 8 R. Benedict, Modelli di cultura, Laterza, Bari-Roma 2010. 6 7 13 non scelta. Non si tratta di ignavia, ma di predisposizione, culto addirittura, volontà di abbraccio e di non esclusione. L’élite culturale brasiliana è sempre stata consapevole di questa vitalità e l’ha cavalcata con entusiasmo: Vinicius de Moraes, il grande poeta e compositore della bossa nova, amava dichiararsi “il bianco più nero di Bahia”, mentre lo stesso Amado ha inventato personaggi come Dona Flor, Pedro Archanjo di La bottega dei miracoli, e Gabriela, che sono diventati l’emblema di questa maniera straordinaria, pacifica, armonica e struggente di essere meticci, sincretici, completi. Dona Flor, per esempio, non sceglie, ma concilia due mondi, due amori, due etiche. Pedro Archanjo riveste una carica prestigiosa in un candomblé, ed è insieme materialista (Amado fu un attivista comunista) e legato al misticismo religioso. Sartre aveva sottolineato come: ...la Negritudine... non è più uno stato neppure un atteggiamento esistenziale, è un Divenire; il contributo nero all’evoluzione dell’Umanità non è un sapore, un gusto, un ritmo, una autenticità, un insieme di istinti primitivi: è... una costruzione paziente, un futuro.9 Frase da assumere totalmente, da adattare plasticamente all’estetica del meticciato. Più che risultati infatti, i sincretismi religiosi e i meticciati sono dinamiche, in continua, perenne trasformazione. Ogni incontro di culture è, in fondo, come un’unione sessuale tra gli individui: la nuova creatura ha sempre qualcosa di ciascuno dei genitori, ma è anche sempre diversa da ognuno di loro. Realtà contraddittorie, incoerenti, ambigue, sdrucciolevoli, siano chiamate convergenze o parallelismi, miscele o adattamenti, forzature oppure, ancora, atti strategici di resistenza culturale. 9 J.-P. Sartre, Orfeo nero. Una lettura poetica della negritudine, Marinotti, Milano 2009, p. 70. 14 Sono gli orixás del candomblé, divinità africane che amano danzare e sono riconoscibili a seconda dei movimenti, dei colori delle vesti che indossano, delle armi che impugnano o degli emblemi del potere che mostrano orgogliosi, a focalizzare, condensare e quindi mostrare al mondo il senso e il sentimento del meticciato. Loro, le divinità che si fanno mulatte: Iansã la guerriera (associata alla cattolica santa Barbara); il combattente Ogum (san Girolamo o san Giuseppe); Iemanjá, la divinità madre del mare (Nostra signora dei naviganti), che ondeggia sinuosa, ricordando il movimento dei flutti; Exu (che i cattolici erroneamente associarono al diavolo), eccessivo persino nel ballare; Oxumarê (san Bartolomeo) il serpente che striscia per terra; Oxum (un’altra faccia della Madonna), che, bella e vanitosa, si specchia fiera della sua bellezza. Il nostro futuro bastardo Mistura, meticciato come necessità ineluttabile prima di tutto. In Brasile come altrove. Le differenze di cui il meticcio è portatore si sono quasi sempre misurate in termini di bellezza fisica, prima ancora che di presunte capacità intellettuali e morali. In ogni caso – e dimenticando, ma solo per un attimo, la posizione relativistica, e ammettendo un canone estetico universale – non basterebbe osservare certi strepitosi casi (c’è chi li chiamerebbe esperimenti genetici) di mulatti brasiliani o caraibici, di cinoamericani, di afroscandinavi, di olandesi molucchesi per affermare che “meticcio è bello”? E, volendo sconfinare nella sfera economica, come dimenticare che la forza emergente del BRIC (Brasile, Russia, India, Cina) sembra confutare ancora, e da un’altra prospettiva, le tesi razziste e antimeticciato? Se quindi il Brasile è una nazione fatta nel letto, promossa 15 da una donna veicolo di sensualità, di vita, mediante un atto sessuale iperbolico e fatale (il meticciato è un atto sessuale ripete ancora la Moutinho10), come non guardare a questa terra felice (non solo per quest’argomento) come un modello? Una nazione femminilizzata; ancora, se ce ne fosse bisogno, un ruolo decisivo da assegnare alle donne. Le nostre nuove donne di una nascente e rinvigorita Italia. Vero, noi non abbiamo il Tropico modellatore e plastico, esuberante ed eccessivo; non siamo i sincretici portoghesi colonizzatori, oriundi da sempre di un territorio ponte, sospeso tra Europa e l’abisso della conoscenza, il mar Atlantico, eppure siamo pur sempre, come tutti, come ha ricordato Amselle,11 meticci fin da subito, da sempre. Non abbiamo tuttavia da ereditare la melanconia e la tristezza del post coitum;12 non avremo – è una fortuna – la piantagione, tuttavia, grande agente disciplinatore, regolatore delle relazioni sociali;13 e neppure potremmo sperimentare (o forse sì) l’ambiente, i modi sinuosi dei negri, narcotizzanti di energie che sarebbero state altamente produttive. Fatti questi ultimi, che fecero coniare allo storico Sergio Buarque de Hollanda l’illuminata e al contempo odiosa espressione di “razzismo cordiale”�,14 che ben si attanaglia alla realtà brasiliana degli anni trenta del Novecento. Tutto ciò ha determinato storicamente la nascita della nazione brasiliana, della cultura e dell’idea meticcia. Però dinamiche, atteggiamenti, propensioni, volontà; e ancora postura, curiosità, opportunità possono (devono?) essere le stesse. L. Moutinho, Razão, cor, desejo, cit., p. 85. J.-L. Amselle, Logiche meticce. Antropologia dell’identità in Africa e altrove, Bollati Boringhieri, Torino 1999. 12 P. Prado, Retrato do Brasil. Ensaio sobre a tristeza brasileira, DupratMayença, São Paulo 1928. 13 Come ebbe a dire G. Freyre, Casa-grande e Senzala, cit. 14 S. Buarque de Hollanda, Raízes do Brasil, José Olimpio, Rio de Janeiro 1936. 10 11 16 Sì, perché il meticciato è un’opportunità. La paura che molti provano è forse che si possa arrivare non soltanto alla cancellazione delle tradizioni (ma quali?), o al trionfo dell’alterità, ma soprattutto a un’opacità cupa, indeterminata, soffocante, asettica, tutt’altro che esaltante. Al contrario, il meticciato non fonde semplicemente (e opacizza), ma al contrario genera. Dà vita a un terzo elemento, a una forza nuova, irriconoscibile (pensiamo ai prodotti culturali cui dà vita e che appunto noi chiamiamo meticci), senza peraltro scordare, omettere, minimizzare le provenienze. Forse che in Brasile non è riconosciuta l’eredità africana di questi prodotti? Forse che gli italiani, i tedeschi, gli ebrei, i turchi, come genericamente vengono definiti gli arabi, non hanno il loro posto (riti, religioni, spazi) in quel mondo che è vicino, pur con tutte le sue contraddizioni, all’ideale meticcio? Il meticcio e la sua cultura sembrano oggi presentarsi al mondo intero come prospettive e opportunità per il futuro. Il meticcio è creativo e, non più confinato nel ghetto, è autore e al contempo risultato del dialogo tra le culture. Mette in discussione confini netti, identità forti, assolutismi assurdi. La paura è debolezza, nient’altro. Un’identità in costruzione – consapevole di esserlo –, accogliente, attenta, curiosa, aperta, non avrebbe nulla da temere. Bruno Barba è docente di Antropologia presso l’Università di Genova. Tra le sue pubblicazioni più recenti: Brasil meticcio (2004), Bahia, la Roma Negra di Jorge Amado (2004), B. I. Exu e Pombagira (2006), Un antropologo nel pallone (2007), Tutto è relativo (2008), San Paolo. Lévi-Strauss, “saudade” tropicale (2010). 17 Introduzione Andrea Staid Ci sono mille possibili io in me, ma non posso rassegnarmi a esserne solamente uno. André Gide Chi sono “loro” chi siamo “noi”? L’identità è un problema fondamentale nella vita dell’uomo, tutti ci chiediamo chi siamo, chi sono gli altri e perché. Nella società contemporanea assistiamo a un eccesso di identità, a una manipolazione e strumentalizzazione del fattore cultura, a un’adozione di una prospettiva culturalistica, finalizzata a legittimare la realtà sociale nascente. Sono sempre più numerosi i richiami alle origini e alla purezza, che sono in realtà proiezioni di un passato mitico usato e manipolato in funzione di bisogni presenti. Tanto che tramite la violenza si inventa l’identità. Violenza intesa non solo come atto di forza fisica, ma anche come imposizione o classificazione attraverso l’azione politica basata su un rapporto di forza asimmetrico. Le élite dominanti creano, modellano e utilizzano categorie come tradizione, etnicità, cultura, per perseguire determinati obiettivi politici. Esistono forme di identità indotte dall’alto e altre che nascono dal basso, ma molto più spesso sono prodotte dalle classi dominanti. Il recupero e l’invenzione di nuove tradizioni serve a giustificare la leadership di questa classe che deve creare un suo campo di dominio, sia esso un’etnia, un popolo, o una nazione. Le identità collettive non si creano con un atto 19 amministrativo, quindi occorre creare un retroterra culturale che renda partecipi le comunità coinvolte. Nel mondo della globalizzazione sembra che la paura di essere uguali agli altri ci porti a creare tante identità chiuse, culture serrate da recinti invalicabili. Questo tipo di società diventa un unico grande ghetto sociale nel quale le diverse comunità etniche che lo vivono, indipendentemente dalla loro ricchezza, sono ostili e quindi generano conflitti interni. Tutto questo sembrerebbe in contraddizione con un’analisi adeguata del mondo contemporaneo, dove i mondi locali si articolano in riferimento a strutture aperte sulla realtà globale, producono forme di immaginazione che si fondano sulla relazione fra ambienti diversi e non solo in riferimento al contesto legato a un’unica dimensione territoriale. È anche nei mondi “nuovi” creati dall’immaginazione che gli individui riformulano le proprie identità e le proprie culture. L’immaginazione consiste nel rappresentare realtà che sono esperite non solo personalmente, ma anche da altri. Nel quotidiano questo consiste nel pensarsi in congiunzione ad altri soggetti aventi lo stesso tipo di immaginario. È in questo scenario che nascono le comunità immaginate, gruppi che non sono più legati a un territorio o a una nazione ma sono creazioni di culture in transito che si ibridano con l’incontro e lo scontro con il “diverso”. D’altro canto la nascita in questi ultimi anni di svariati gruppi identitari, fondamentalisti, chiusi e fortemente legati al vincolo territoriale, sembrerebbe una risposta al fenomeno del mescolamento culturale. Questi gruppi, infatti, vivono uno spaesamento, assistono a una perdita dell’identificabilità e quindi acutizzano la voglia di identificare. Diventa un’ossessione: trovare l’origine pura del gruppo di appartenenza, una lotta di identità, territorio, radici contro l’ibridazione culturale, il meticciamento. 20 Convivenza nelle metropoli Nella società attuale l’uso e l’abuso di determinate parole porta a diversi problemi di comprensione reali. Multietnico, multiculturale o interculturale, sono parole con significati complessi che troppo spesso vengono usate come sinonimi, mentre veicolano significati tra loro molto differenti. Il multiculturalismo descrive fenomeni legati alla semplice convivenza di culture diverse, in cui gruppi sociali di etnia e cultura dissimili occupano uno spazio opposto e difficilmente si incontrano e dialogano. In questo caso le culture e le identità culturali vengono considerate come date, fissate, rigide e non suscettibili di mutamento. Il ritorno in auge dell’etnicità quale fonte di identificazione collettiva e spinta alle rivendicazioni, in seno alla modernità e alla globalizzazione, ha aumentato il multiculturalismo radicale. L’ideologia e le pratiche multiculturali, (pensando alla società come un mosaico formato da monoculture omogenee e dai confini ben definiti), hanno, di fatto, aumentato la frammentazione (e il rischio di forme di apartheid, come possiamo notare nei fatti degli ultimi anni di via Padova a Milano, di Rosarno o di Castel Volturno) fra le componenti della società, dimostrandosi validi strumenti per la costruzione dell’identità nazionale. Il multiculturalismo, rispondendo a precisi intendimenti politici, promuove un’ideologia fondata sull’unità territoriale, sull’autenticità storica e culturale, sulla purezza etnica o razziale. Seguendo un movimento che può apparire paradossale il multiculturalismo si rivela, dunque, come il lato oscuro della monocultura. L’omogeneizzazione nazionale è ottenuta attraverso il riconoscimento e l’annullamento integrativo o escludente della differenza, il limite principale del multiculturalismo (dal punto di vista epistemologico, morale e politico), è la mancanza di relazionalità fra le culture che vuole istituzionalizzare: è cieco (in senso affettivo, cognitivo e morale) di fronte alla cultura come fatto relazionale. 21 In contrapposizione al multiculturalismo grande importanza in questo saggio viene data al pensiero “meticcio”, una realtà fortemente ostacolata, ma che non conosce limiti e freni: si manifesta senza regole prestabilite, fra incontri e condivisioni casuali tra persone. Nella ricerca ho utilizzato un approccio antropologico che cerca di studiare le molteplici culture, consapevole di avere un carattere incompiuto e attento ai flussi e alle tensioni più impercettibili. L’antropologia non mira a proteggere o isolare i fenomeni che si propone di studiare, è: “un sapere che fa della molteplicità irriducibile delle soluzioni umane il suo interesse principale e il suo punto di forza”.1 Un’antropologia dialogica che cerca di annullare il presupposto indirettamente gerarchico secondo cui “noi” studiamo “loro” perché noi diversamente da loro, siamo emancipati dalle “stranezze” della cultura. Vedere noi stessi come ci vedono gli altri può essere rivelatore. Vedere che gli altri condividono con noi la medesima natura è il minimo della decenza. Ma è dalla conquista assai più difficile di vedere noi stessi tra gli altri, come un esempio locale delle forme che la vita umana ha assunto localmente, un caso tra i casi, un mondo tra i mondi, che deriva quella apertura mentale senza la quale l’oggettività è autoincensamento e la tolleranza mistificazione.2 Nel mondo globalizzato è sempre più chiaro che è impossibile pensarsi rinchiusi in una sola cultura. Per questo mi è sembrato importante definire il significato che diamo al concetto di cultura. 1 F. Remotti, Contro natura, una lettera al Papa, Laterza, Bari 2008. “L’antropologo non è per nulla concentrato sulla propria identità, ma è rivolto verso l’esterno, attirato dall’aria aperta, dalle larghe vedute. Egli non cerca affatto di raggiungere una conoscenza dell’io; al contrario, si dirige metodicamente verso una comprensione del non-io.” 2 C. Geertz, Interpretazione di culture, il Mulino, Bologna 1987. 22 Comunicando tra loro, gli esseri umani “inventano” una cultura, nel senso che questa si configura come il risultato dell’accordo sempre rinegoziabile di individui che scambiano determinati significati. Quindi “la” cultura viene da me letta come prodotto dell’interazione comunicativa tra esseri umani, un qualcosa che è continuamente sottoposto a processi di contaminazione da parte di altre culture. Viviamo in un continuo transito temporale nel quale convivono molteplici culture che si mescolano e che rendono sempre più incerte le identità culturali, nazionali, storiche. Ciò che viene definito perdita di riferimenti identitari deve essere salutato più che altro come riscoperta dell’inquietudine e della ricchezza del diverso; la disgregazione contemporanea 23 delle identità e delle rappresentazioni ci dovrebbe aiutare ad ammettere che esiste il non rappresentato, il non identitario, il non analizzabile. Nel “meticcio”, nel pensiero transculturale, ogni differenza non allude a privilegi né ad alcuna discriminazione. La transcultura esige che gli uomini, migranti o meno, godano delle medesime “universali” possibilità e scelgano privi di vincoli comunitari, dove, come e quando vivere. Ogni persona ha il diritto di essere valorizzata nella sua unicità e irrepetibilità, nella sua continua trasformazione, nella sua continua negazione di purezza originaria. Parlo di un mondo che sappia accogliere, ascoltare e capire le differenze e che tali differenze siano la ricchezza della società. Non si deve assolutizzare l’identità culturale, ma fare in modo che le diverse espressioni identitarie siano filtrate alla luce della libertà e dell’autonomia propria e di ogni altro essere umano. Quindi un mondo aperto, senza muri e pregiudizi, pronto al mescolamento culturale per un divenire trasnazionale, “un’ecumene globale” con al suo interno una miriade di culture differenti pronte al cambiamento, all’ascolto e all’incontro. La creazione di una relazione sociale tesa a soddisfare un’esigenza, un interesse, dove sia importante accettare di trasformarsi nell’interazione egualitaria con gli altri e prevedere la possibilità di diventare una persona anche molto differente da quella originaria. Un saggio che vuole smantellare le falsità del bombardamento mediatico antimigranti. Un lavoro costruito grazie alle conversazioni tenute con i migranti in varie città del nord Italia, indagando le possibili modalità di convivenza nelle metropoli. Una ricerca antropologica che parla di migranti, lavoratori, precari, sfruttati che vivono con noi e che troppo spesso non vogliamo ascoltare. Interviste che raccontano in prima persona donne e uomini, protagonisti diretti che documentano la complessità 24 del quotidiano, tracciando uno spaccato del reale vissuto sulla propria pelle. Un’indagine per conoscere meglio come vivono, lavorano e quali forme di socialità sperimentano i migranti che cercano di sopravvivere nelle “nostre” città e per far emergere l’attualità e l’importanza di un antirazzismo che sia meticcio. 25 Il mondo meticcio Il tuo cristo è ebreo. La tua macchina è giapponese. La tua pizza è italiana. La tua democrazia greca. Il tuo caffè brasiliano. La tua vacanza turca. I tuoi numeri arabi. Il tuo alfabeto latino. Solo il tuo vicino è uno straniero. Da un manifesto tedesco degli anni novanta1 Questo slogan con cui ho deciso di iniziare fotografa appieno l’allora e l’attuale scenario mondiale. Il cosiddetto fenomeno della globalizzazione ha portato con sé diversi mutamenti, non solo sul piano economico, politico, ma anche e soprattutto per ciò che concerne l’aspetto sociale e culturale. Mutamenti che per la loro portata rendono difficile continuare ad appellarsi al ritorno di situazioni che si potrebbero definire pure, una purezza mai esistita. Grazie alla mobilità internazionale e quindi alle maggiori possibilità di raggiungere in poco tempo parti diverse del globo e grazie alla naturale propensione dell’uomo a viaggiare con il proprio inseparabile bagaglio culturale, oggi le nostre società sono sempre più, nolenti o volenti, comunità meticce. Questa ricerca nasce dalla volontà di analizzare il meticciato come paradigma per affrontare lo studio delle comunità umane, 1 Citato in M. Aime, Eccessi di culture, Einaudi, Torino 2004. 27 un paradigma che invece di porre l’accento sulle differenze tra le culture vuole mettere in evidenza le contiguità. Anziché pensare a una genesi di società e culture separate, cerchiamo di immaginare un meticciato originale, formato da “catene di società”, in contatto tra di loro e protagoniste di scambi culturali continui. Abbiamo sempre studiato le diverse civiltà del passato come entità a sé stanti, con origini diverse e sviluppi originali. In pratica, invece di porre l’accento sulle differenze tra le culture, evidenziamone le somiglianze e scopriremo che in realtà ogni cultura, del passato e del presente, ha costruito la sua specificità proprio connettendosi ad altre culture. Siamo abituati a pensare la cultura greca come la madre della civiltà occidentale, ma proviamo, rileggendo la storia in termini di connessioni, a scollegarla dalla sua filiazione occidentale. Riconnettendo la cultura greca e il suo “miracolo” con l’Egitto e quindi con l’Africa nera, diventa possibile effettuare una salutare opera di decostruzione, poiché rende possibile rimescolare le carte e fare un nuovo giro. Deconnettere le civiltà dalle loro origini supposte è, forse, il modo migliore di sfuggire al razzismo.2 Non esiste una cultura originariamente pura, che a un certo punto incontra altre culture e da origine a un fenomeno impuro. Qualsiasi cultura e società è sin dalla nascita ibridata, e quindi la creolizzazione a sua volta è il prodotto di entità già mescolate, che rendono impossibile l’idea di purezza. Sto parlando di un sincretismo originario che sta alla base di ogni cultura e società. L’impatto di una cultura nuova su una autoctona non consiste in una azione di rigetto, ma in un confronto che fa sì che la Intervista di Marco Aime a Jean-Loup Amselle, “La Stampa”, 14 luglio 2001. 2 28 civilizzazione “invasa” selezioni elementi della nuova cultura, rielaborandoli e facendoli propri. È importante ricordare che le differenze fra culture e comunità sono aumentate in modo vertiginoso con l’esperienza del colonialismo, che ha creato per primo differenziazioni e separazioni tra società che non avevano mai interiorizzato nella loro cultura tali differenze rispetto ad altri gruppi. Sappiamo bene che l’incontro con l’altro è l’incontro con la differenza, con la diversità; ciascuno vede il mondo in modo diverso, da una sua particolare angolatura, cioè dal soggettivo punto di vista che ogni persona sviluppa a partire dalla propria esperienza. Il problema della comprensione dell’altro è un problema che riguarda l’interpretazione dell’alterità:3 l’identità ha bisogno, si nutre e si fonda rispetto all’alterità nella sua auto ed etero definizione.4 La sufficienza identitaria e rappresentazionale è refrattaria all’alterità. Contrariamente a ciò che può sorgere dal meticcio, che è sempre imprevedibile, nella logica identitaria e rappresentazionale sappiamo sempre ciò che sta per accadere: si farà di tutto per riassorbire e annullare l’alterità, neutralizzare l’insolito, negare lo stupore che suppongono l’incontro e la trasformazione nata da questo incontro.5 Gli uomini si attraggono e si legano gli uni agli altri, ma con legami complessi “perché l’assimilazione mette in contatto uomini con esperienze diverse: nessun uomo che ha la stessa esperienza di un altro: sarebbe lo stesso uomo”.6 3 L. Piasere, L’etnografo imperfetto. Esperienza e cognizione in antropologia, Laterza, Bari 2006. 4 F. Remotti, Contro l’identità, Laterza, Bari 1996. 5 F. Laplantine, Identità e mètissage. Umani al di là delle appartenenze, elèuthera, Milano 2004, p. 116. 6 L. Piasere, L’etnografo imperfetto, cit. 29 L’identità può essere considerata da due punti di vista: se da un lato dà una visione particolare del mondo, aiutandoci a interpretarlo più facilmente e semplicemente, con l’illusione di controllare e comprendere la sua complessità e le sue contraddizioni, d’altro canto impedisce di comprendere le ragioni degli altri, fino a diventare una pesante maschera rispetto al vero incontro con l’alterità, che conduce spesso all’intolleranza e al razzismo. Mirando a considerare l’identità culturale fissata e data per sempre, si cade nell’errore di non realizzare che in realtà proprio l’identità è il risultato di un continuo processo di costruzione sociale, politica e culturale, un’entità in perenne evoluzione e trasformazione. Le identità etniche sono in perpetua costruzione, prodotti storici, mentre l’antropologia classica le ha considerate e spesso le considera tuttora oggetti finiti, chiusi, monolitici. L’identità allora, non inerisce all’essenza di un oggetto; dipende invece dalle nostre decisioni. L’identità è un fatto di decisioni, occorrerà abbandonare la visione essenzialista e fissista dell’identità, per adottarne una di tipo convenzionalistico [...] detto in altri termini, l’identità viene sempre in qualche modo, “costruita” o “inventata”.7 Una constatazione, che potrebbe essere utile per ridimensionare le spinte identitarie attraverso cui alcune culture rivendicano differenze assolute e insanabili con il resto del mondo. È necessario aumentare la consapevolezza che queste identità non sono perfettamente chiuse e autonome ma costruzioni e finzioni sempre in movimento e suscettibili di cambiamento. Le identità sono inscritte in un processo storico continuo e sono in continuo mutamento. Spesso però alla base di tali mutazioni 7 30 F. Remotti, Contro l’identità, cit. ci sono rapporti di forza, ma gli attori sono sempre pronti a riappropriarsi dell’identità che vogliono darsi.8 L’identità per l’essere umano è ineliminabile, è la condizione per la comunicazione, per l’evoluzione, per il cambiamento. L’identità però va gestita, va diffusa, moltiplicata. Bisogna assumere un’identità, in qualsiasi modo cerchiamo di comunicare siamo già coinvolti nella costruzione di identità, individuali e collettive, l’importante è non farle cristallizzare, tenerle con confini aperti pronti con l’incontro di culture “altre”. Il fatto che le culture siano in movimento rappresenta da sempre una costante del modo umano di abitare il mondo: nessuna civiltà è pensabile senza mettere in conto un processo articolato di contatto e compenetrazione tra popoli diversi, avvenuto nel corso di millenni di migrazioni. Una cultura non è un blocco omogeneo e inalterabile nel tempo, bensì un organismo vivente che storicamente interagisce con il suo ambiente, venendo a contatto con altre culture.9 In questo senso, non si può fare cultura senza tentare di costruire un nesso tra la propria esperienza e quella degli altri. Ciò non significa che questo collegamento sia indolore o che sia sempre possibile: talvolta, può accadere che due culture si mescolino solo entrando in conflitto, oppure può accadere che non si mescolino affatto, forse perché il conflitto è tale da separarle irrimediabilmente. Il mondo postmoderno La fine della pretesa di dare un senso unitario alla realtà comporta quindi il manifestarsi, nel periodo postmoderno, della J.-L. Amselle, Logiche meticce, cit. G. Polizzi, M. Serres. Per una filosofia dei corpi miscelati, Liguori, Napoli 1990. 8 9 31 diversità dei sensi, una diversità che è irriducibile, non può venir in alcun modo negata da un qualsiasi principio unificatore. Ogni ambito della realtà è dotato di un certo senso, ogni tentativo di edificare un senso unitario è solo apparenza. La realtà è differenza, molteplicità irriducibile, mutamento non ingabbiabile entro un unico schema. P.C. Le trasformazioni culturali e sociali del mondo postmoderno si intrecciano con i due fattori principali del fenomeno meticcio: i movimenti migratori e le innovazioni tecnologiche, che come conseguenza immediata portano una crescita della mobilità fisica e sociale. Grazie a un aumento del flusso migratorio si sta creando sempre più un contatto intensificato tra culture che sta indebolendo il fondamento fantasioso un tempo rassicurante delle immagini “noi-loro”, trasformando la concezione dell’identità e determinando nuovi tipi di rapporto con se stessi e con gli altri. Oggi la realtà è fatta di lavoratori turchi emigrati in Germania, che guardano film turchi nei loro appartamenti tedeschi, di filippini appassionati di canzoni americane d’epoca che ripropongono in versioni più autentiche degli originali, nonostante la loro vita non sia affatto sincronizzata con quella degli Stati Uniti. Questi esempi ci aiutano a capire che la globalizzazione ha prodotto una frattura tra il luogo di produzione di una cultura e quello o quelli della sua fruizione.10 L’immaginazione, grazie alla sempre maggiore rapidità e onnipresenza dei mass media, è divenuta un fatto collettivo e si è trasformata in un campo organizzato di pratiche sociali. Ne consegue una frammentazione di universi culturali che mette in crisi ogni paradigma tradizionale delle scienze sociali. I panorami sociali, etnici, 10 A. Appadurai, Modernità in polvere, Meltemi, Roma 2001 e A. Appadurai Sicuri da morire, Meltemi, Roma 2005. 32 culturali, politici ed economici si fanno sempre più confusi e sovrapposti, le linee di confine spezzettate e irregolari. Ma soprattutto questi panorami, attraversati da continui flussi culturali globali, si riflettono l’uno nell’altro dando vita a un caleidoscopio mutevole e sempre nuovo.11 Nelle nostre vite la propaganda del messaggio mediatico è devastante, il termine propaganda, gerundivo del verbo propagare, diffondere, far conoscere, letteralmente si traduce “le cose che devono essere diffuse, che devono essere fatte conoscere”. Televisione e stampa detengono l’enorme potere di orientare gli spettatori o i lettori nella complessità del mondo. I media, soprattutto quelli elettronici, sono in grado, almeno in parte, di determinare l’immagine che un certo gruppo umano si crea della propria cultura e della cultura dell’altro. Eppure non sempre questa potenzialità permette che culture diverse si incontrino in modo pacifico: l’invasione di informazioni rende incerti i confini tra “noi” e “loro”, e troppo spesso a questa incertezza si tenta di rimediare con la violenza. I mezzi d’informazione di massa, televisioni, radio, web e giornali sono: capaci non solo di comunicare istantaneamente la paura a un numero enorme di persone, ma anche di alimentarla e in alcuni casi di crearla [...] dicerie, leggende metropolitane, pregiudizi e paure circolanti nelle società locali possono diventare, per effetto dell’informazione di massa, prima risorse simboliche e poi verità sociali oggettive.12 I media parlano di migranti come un nemico pubblico ideale per ogni tipo di rivendicazione di “identità”, nazionale, locale o settoriale. Per il patriottismo urbano o di quartiere sono M. Aime, Eccessi di culture, cit. A. Dal Lago, Non persone. L’esclusione dei migranti in una società globale, Feltrinelli, Milano 1999, p. 65. 11 12 33 criminali che minacciano la sicurezza della vita quotidiana. Per il patriottismo regionale o cantonale, alieni che intorbidano la purezza etnica. Per quello nazionale, stranieri che minano la compattezza della società. Per il patriottismo di classe, “parassiti” o “abusivi” che sottraggono alla classe operaia le sue conquiste, un lumpenproletariat che compete con i nazionali nel mercato del lavoro o sottrae loro gli ultimi benefici elargiti dallo stato sociale. È quasi superfluo aggiungere che si tratta di nemici simbolici e strutturali, necessari per la formazione di identità, di quel “noi” che oggi si esige da destra e da sinistra.13 Questa “megamacchina” del messaggio, dell’informazione crea nuove forme di sovranità, dominio, controllo e molteplicità. La produzione di nuove soggettività, la tendenza alla diversificazione che si crea durante il fenomeno meticcio sono una risorsa contro queste forme di dominio mediatico. L’altro lato della medaglia è che questo processo di spaesamento prodotto dalla mutazione tecnologica, economica e mediatica, porta al panico e di conseguenza al bisogno di identificazione in piccole comunità chiuse e regressive. Se per Geertz e Thompson “l’uomo è sospeso in una rete di significati” e “i mezzi di comunicazione sono i filatoi del mondo moderno”, le migrazioni e le tecnologie sempre più transnazionali hanno reso l’alterità più vicina, creando forme nuove di rappresentazione e di interazione sociale che non presuppongono più la condivisione dello stesso contesto spazio-temporale. I migranti del nuovo millennio si possono definire attraverso l’immagine del “tessitore”, cioè colui che per l’appunto vive di legami con coloro che incontra sul suo cammino, praticando ponti e vie tra spazi radicalmente diversi,14 rinegoziano la loro cultura di origine, in altre parole diventano dei meticci. La 13 14 34 Ivi, p. 11. G. Polizzi, M. Serres. Per una filosofia dei corpi miscelati, cit. parola meticcio prende forma nell’ambito della biologia per disegnare gli incroci genetici e la produzione di fenotipi, ossia di fenomeni fisici e cromatici che serviranno come supporto all’esclusione. La prima questione posta dal meticciato è quella dello spostamento e dell’estensione di questa nozione al di fuori della disciplina nella quale si è costituita. Il meticciamento non è mai soltanto biologico, è il rifiuto dei valori egemonici dominanti di identità e stabilità. È importante chiarire da un punto di vista terminologico il significato che vogliamo dare alla parola meticciato. Il meticciato, se malinteso, implicherebbe l’esistenza di due individui originariamente “puri” o, più in generale, di uno stato iniziale (razziale, sociale, culturale, linguistico), di un insieme omogeneo, che a un certo punto avrebbe incontrato un altro insieme, dando così luogo a un fenomeno “impuro” o “eterogeneo”. Il meticciato invece si contrappone alla polarità omogeneo/eterogeneo. Si presenta come una terza via tra la fusione totalizzante dell’omogeneo e la frammentazione differenzialista dell’eterogeneo. Il meticciato è una composizione le cui componenti mantengono la propria integrità. Basti questo a esprimere tutta la sua pertinenza politica nei dibattiti sociali odierni (razzismo, integrazione, nazionalità ecc.).15 Il meticciato non è una fusione, coesione o un osmosi è un confronto fra tanti è il dialogo. Da sempre la storia umana è fatta di mescolanze, di culture che migrano, cambiano e rimangono sempre in viaggio. La storia del Mediterraneo, questo crogiolo culturale che sarebbe stato la culla dell’Europa, è la storia di parecchi millenni 15 F. Laplantine, A. Nouss, Il pensiero meticcio, elèuthera, Milano 2006. 35 di migrazioni, sotto forma di invasioni, conquiste, scontri, persecuzioni, massacri, saccheggi e deportazioni, ma anche di scambi, confronti, trasformazioni reciproche di popoli, persino durante i conflitti.16 La differenza, rispetto al passato, è che oggi il fenomeno delle migrazioni ha assunto proporzioni planetarie. L’accelerazione e l’espansione dei flussi migratori ha come effetto la globalizzazione degli incontri-scontri tra le culture. Questo primo fatto richiede uno sforzo di analisi, dal momento che rappresenta la congiuntura epocale che determina la specificità dei processi di meticciato con cui oggi abbiamo a che fare. I movimenti migratori, creando continue interconnessioni e sincretismi fra culture, rendono sempre più difficile delimitare i confini di una comunità, fino al punto di chiedersi cosa si debba intendere oggi per comunità. I mondi locali si articolano in riferimento a strutture aperte sulla realtà globale, producono forme di immaginazione che si fondano sulla relazione fra contesti diversi e non solo in riferimento al contesto legato a un’unica dimensione territoriale. È anche nei mondi “nuovi” creati dall’immaginazione che gli individui riformulano le proprie identità e le proprie culture. L’immaginazione consiste nel rappresentare realtà che sono esperite non solo personalmente, ma anche da altri, nel quotidiano questo consiste nel pensarsi in congiunzione ad altri soggetti aventi lo stesso tipo di immaginario. Da questo contesto nascono entità nuove, delle comunità immaginate. Il fatto che dobbiamo prendere in considerazione la dimensione dell’immaginario significa che non possiamo più limitarci ad analisi che hanno come riferimento dei territori ben definiti. La creazione di identità culturale non è più costruita solamente da persone che abitano lo stesso territorio; gli uomini circolano 16 36 Ibidem. sempre più nel mondo globalizzato con i propri significati, i significati con il tempo trovano modo di circolare anche senza chi li aveva fatti migrare e i territori cessano di essere i contenitori privilegiati delle culture. Si crea un’immagine di cultura che non da per scontato il vincolo con territori e popolazioni particolari, bensì prevede come punto di partenza un mondo più aperto, interconnesso. La deterritorializzazione costituisce una delle forze più potenti del mondo contemporaneo, in quanto coincide con lo spostamento e la dispersione di masse di individui che elaborano concezioni particolari della loro esistenza e sentimenti di appartenenza e di esclusione nei confronti sia della nuova dimora sia della patria originaria, per questo l’immaginario di individui e gruppi non fa più riferimento a un luogo, a un territorio come punto di ancoraggio della propria esperienza e identità. Globalizzazione, migrazioni e media hanno alimentato la cosiddetta deterritorializzazione culturale e fomentato il mondo meticcio nel quale viviamo. Le logiche identitarie si sviluppano per stadi in continua costruzione e in relazione con l’esterno, le categorie etniche sono già originariamente ibride, hanno il carattere labile e flessibile che permette di selezionare, decostruire e ricostruire il rapporto con l’alterità. Il meticcio “tesse” nella propria carne e nel proprio sangue l’incontro di due culture. Questo vuol dire anche un modo nuovo di intendere l’interculturalità: non più come uno spazio vuoto e asettico, costruito artificialmente per tentare una mediazione tra due universi culturali supposti incomunicabili, ma come l’evento di un incontro trasformante di due identità aperte, in costante ricerca l’una dell’altra. Gli uomini e le donne che si spostano sono i protagonisti del meticciato: sono coloro che ne pagano il prezzo. Il migrante è sempre un soggetto “spaesato”, perché deve affrontare una realtà diversa e non sempre ospitale. Al contempo, chi migra turba l’idea di cultura chiusa e omogenea che è il sintomo di 37 quel bisogno di essere identici che spesso ci spinge a voler “addomesticare” a tutti i costi l’altro. Tutte le società producono stranieri: ma ognuna ne produce un tipo particolare, secondo modalità uniche e irripetibili, si definisce straniero chi non si adatta alle mappe cognitive, morali o estetiche del mondo e con la sua semplice presenza rende opaco ciò che dovrebbe essere trasparente.17 Queste parole mettono in evidenza il processo di produzione dello straniero come individuo che oltrepassa quei confini che abbiamo creato e che talvolta mal sopportiamo. Nella società in cui viviamo ci sono molti gruppi umani che hanno una pulsione contraria a quella del meticcio, si riconoscono come identici, identificabili, si sentono appartenenti a una comunità che può essere religiosa, etnica o linguistica che si fonda su una fatidica origine pura. D’altro canto la nascita in questi ultimi anni di svariati gruppi identitari, fondamentalisti, chiusi e fortemente legati al vincolo territoriale, sembrerebbe una risposta al fenomeno del meticciato, in quanto questi gruppi vivono uno spaesamento, assistono a una perdita dell’identificabilità e quindi acutizzano la voglia di identificare. Diventa una vera e propria ossessione: trovare l’origine pura del gruppo di appartenenza, una lotta di identità, territorio, origine contro l’ibridazione culturale. Quanto più viene affermata la consistenza dell’identità, tanto più il pensiero è inconsistente. È una nozione di grande povertà epistemologica, ma in compenso di grande efficacia ideologica [...] il pensiero identitario è un pensiero dogmatico, un pensiero dell’affermazione che non permette la critica né dei suoi propri enunciati, né degli enunciati altrui. Utilizzato dagli uni come mezzo di rivendicazione e dagli altri come strumento di 17 Z. Bauman, La società dell’incertezza, p. 55, in M. Aime, Eccessi di culture, cit., p. 73. 38 indagine, esso consiste nella riproduzione di ciò che distingue e particolarizza.18 Che il pensiero meticcio sia un tema fondamentale nella contemporaneità è confermato dall’enfasi con cui viene contrastato da politici e religiosi. La chiesa cattolica ricerca l’assoluto e un modello di vita universale, il meticcio si accontenta del relativo e naviga nelle differenze. Su questo tema è significativo il testo che segue tratto da un’intervista al vescovo Rino Fisichella: Il senatore Pera, ha parlato come un cristiano, la nostra identità è più debole, il presidente del Senato Pera fa bene a difenderla. Come altre volte il presidente Pera ha individuato alcuni nodi che appartengono al nostro frangente storico e lo ha fatto con una lucidità e una responsabilità che obbligano a riflettere. Le sue proposte sono di carattere culturale e toccano l’identità dell’Italia e dell’Europa, le radici della nostra civiltà. È per questo motivo che mi sento di intervenire e intervengo a difesa, perché le obiezioni che gli si fanno mi paiono sfocate o strumentali.19 È il commento di partenza del vescovo Rino Fisichella, rettore dell’Università lateranense e cappellano di Montecitorio, alla disputa sul discorso tenuto nel 2005 a Rimini durante il meeting di Comunione e liberazione dall’ex presidente del Senato. Tanti accusano Pera di muoversi in direzione opposta rispetto al dialogo con l’islam riaffermato dal Papa a Colonia. Non è affatto vero che egli rifiuti il dialogo, come non lo rifiuto io! Non l’ho mai sentito affermare una cosa simile, in tante occasioni in cui l’ho ascoltato. Parla di difesa della propria F. Laplantine, Identità e mètissage, cit., p. 17. L. Accattoli, Meticciato, ha parlato come un cristiano, “Corriere della Sera”, 25 agosto 2005. 18 19 39 identità nel rispetto dell’identità altrui e questo è precisamente il dialogo! Ha parlato contro il meticciato dei popoli e delle civiltà: lei, da cristiano, che ne pensa? Il meticciato non appartiene al cristianesimo perché vuol dire ibridismo, mentre il cristianesimo fornisce a chi l’accoglie un’identità ben precisa. Ma non è stato il cardinale Scola a parlare di meticciato di civiltà? Ne ha parlato, ma poi ha corretto i suoi interpreti. Se il cristianesimo fosse stato favorevole alle ibridazioni culturali allora i primi discepoli non si sarebbero chiamati “cristiani”, come invece fecero fin dall’inizio, secondo il racconto degli Atti degli apostoli. Si sono chiamati cristiani perché si sono fatti conoscere per ciò che erano. Chi parla di meticciato pensa a ciò che avvenne con le invasioni barbariche, quando i cristiani non rifiutarono la contaminazione e scelsero di passare ai barbari... Ma la nostra situazione è incomparabile. Allora non c’erano, l’una di fronte all’altra, due religioni universali come sono il cristianesimo e l’islam. Allora il cristianesimo aveva di fronte a sé delle stirpi pagane alle quali poté adattarsi riuscendo a trasformarne la cultura, ma con l’islam ciò non è possibile. Il meticciato è stato creativo in tante altre occasioni e come si può escludere che possa esserlo oggi? Viviamo un momento debole per la nostra identità culturale e dunque dovremmo dare priorità al suo rafforzamento, piuttosto che lasciarci prendere dall’ansia di sperimentazioni aperte a sbocchi ulteriori. Nel presidente Pera apprezzo l’impegno a condurre una lucida difesa della nostra identità, avvertendone la necessità dopo la rottura costituita dall’attacco dell’11 settembre.20 20 40 Ibidem. È interessante leggere le parole del vescovo Fisichella in accordo con un politico per dimostrare quanto sia attuale e importante capire e vivere il fenomeno meticcio che si oppone alle forti chiusure identitarie che ci circondano. È evidente che il vescovo Fisichella commette un errore ad affermare che il cristianesimo è un prodotto culturale puro e soprattutto che fornisce ai suoi fedeli un’identità precisa. Viviamo in una realtà in continua trasformazione, a tal punto che identità e rappresentazione appaiono come nozioni epistemologicamente povere, falsamente realiste, e per di più, politicamente reazionarie. Il crogiolo mediterraneo, in cui si sono formate le tre grandi religioni monoteiste, è stato il luogo dell’incontro continuo fra oriente e occidente, dell’incontro stretto fra culture più disparate. Il meticciato implica la mobilità, l’antimeticciato deriva dalla sedentarietà e dalla stabilizzazione, è principalmente urbano e le grandi città mediterranee hanno esercitato a modo loro un ruolo di mediazione fra orizzonti culturali estremamente diversificati. La nozione di purezza nazionale, anzi di eurocentrismo, che si affanna in tutti i modi a proteggersi dalle minacce “allogene”, non ha alcun senso. Questa fantomatica purezza risulta essere in contraddizione con la storia meticcia d’Europa. La nostra epoca di incertezza identitaria, di perdita dell’identità potrebbe essere il momento migliore per spazzare via questi due dinosauri concettuali, retaggio della metafisica platonica e medievale e così riscoprire la ricchezza della diversità, dell’incontro con l’altro. Il meticcio è un modo per contrastare i pericoli degli estremismi che derivano dal rifiuto o dall’inclusione forzata: le ideologie totalitarie, i settarismi identitari e le crociate securitarie, che mai come oggi riprendono vigore in tutta Europa e soprattutto in Italia. Si dovrebbe parlare di una epistemologia dell’incontro e non come dichiara il vescovo Fisichella “rafforzare le distinte identità, creare muri sempre più alti”: 41 Viviamo un momento debole per la nostra identità culturale e dunque dovremmo dare priorità al suo rafforzamento, piuttosto che lasciarci prendere dall’ansia di sperimentazioni aperte a sbocchi ulteriori. È importante considerarsi umani al di là delle appartenenze, non dobbiamo pensare all’identità, ma all’alterità, l’importante è l’essere altro, è il divenire altro. Il pensiero meticcio è certamente un pensiero della mediazione che si gioca negli spazi intermedi, negli intervalli e a partire dagli incroci e dagli scambi, è un pensiero della tensione, cioè un pensiero decisamente temporale, che si evolve attraverso le lingue, i generi, le culture, i continenti, le epoche, le storie e le storie di vita. Non è un pensiero della sorgente, ma un pensiero della molteplicità nato dall’incontro,21 diretto verso un orizzonte imprevedibile che permette di restituire tutta la sua dignità al divenire. Come scrive Gilles Deleuze, “il meticcio non è il punto ma la frase”, esso è il divenire più che l’avvenire e richiede di essere pensato in se stesso, nella propria incompiutezza. Il meticcio è imperfetto, incompiuto, insoddisfatto, rimanda sempre all’avventura di una migrazione, alle trasformazioni di un’attività di tessitura e di intreccio che non può arrestarsi. Non può mai essere usato come risposta, poiché essa stessa è la domanda che turba l’individuo, la lingua, la società, nella loro tendenza alla stabilizzazione.22 La chiesa cattolica e più in generale i grandi monoteismi hanno una forte caratterizzazione di chiusura identitaria, il monoteismo, è chiuso, compatto, duro, incorruttibile, programmaticamente avverso all’alterità e quindi all’alterazione di sé. Un’identità “armata”, irrigidita, assolutizzata qui esemplificata 21 22 42 F. Laplantine, A. Nouss, Il pensiero meticcio, cit. Ibidem. dal monoteismo, evoca discriminazioni, lacerazioni e violenze particolarmente acute [...] un’identità impavida e avanzante, armata di spade e fucili, ma anche di simboli di identità (come la croce) e di testi scritti, in cui la verità risulta fissata per sempre e per tutti.23 Il monoteismo è uno strumento efficiente per costruire, mantenere, affermare l’identità, distingue e separa nettamente “noi” da gli “altri” e anziché collocare “noi” in mezzo agli “altri”posiziona il noi a parte, come un’unità assoluta. I monoteismi hanno una forsennata sete di identità, un implacabile desiderio di unità, un incrollabile convincimento di universalismo hanno segnato questa storia e tuttora segnano un presente in cui i monoteismi più importanti si combattono e offrono buoni motivi per conflitti futuri.24 Non è difficile capire perché la chiesa abbia così paura di un pensiero meticcio, del divenire, dell’instabile, del perché la chiesa abbia una gran voglia di stabilità: ...il desiderio di stabilità, di una grande e definitiva stabilità. Essa è la paura dell’instabilità, degli scricchioli dei propri troni, dei piedistalli delle proprie idee, delle proprie convinzioni e del proprio potere. È il ricorso forsennato, direi quasi disperato, ai grandi fattori di stabilizzazione.25 Non è una novità questo odio per il meticciato da parte della chiesa cattolica, perché come ben ricordiamo solamente con la disgregazione del meticciato andaluso, con la politica voluta dalla Riconquista cattolica si cominciarono a opporre le due sponde del mediterraneo, l’occidente e gli altri. F. Remotti, Contro l’identità, cit. Ibidem. 25 F. Remotti, Contro natura, una lettera al Papa, cit. 23 24 43 Multiculturalità, interculturalità, modello meticcio Siamo tutti meticci. Siamo tutti diversi. Ologrammi di popoli migranti che da millenni entrano in contatto si mescolano e generano cambiamenti. Noi, l’Altro siamo frammenti unici e irripetibili di un’unica realtà. Frutto di connessioni invisibili, di contaminazioni provocate dall’incontro e dal confronto tra popoli, tra persone. Alla base di tutto c’è proprio il meticciato, l’indefinitezza dell’origine. E dentro questa mutua interrelazione di tutte le cose e di tutti gli eventi, noi siamo storie in cammino, legati da un comune destino. Cettina Capizzi La società attuale è spesso definita multietnica, multiculturale o interculturale. Possiamo individuare diversi tipi di società multietnica, in base agli atteggiamenti e alle azioni degli attori individuali e collettivi che operano all’interno di un determinato contesto. Non possiamo sostenere l’esistenza di una sola modalità di multiculturalismo, inteso come strategia politica di gestione delle relazioni interetniche, in quanto si declina secondo molteplici espressioni. Spesso si sente parlare indifferentemente di interculturalismo e multiculturalismo, ma a questi termini corrispondono due filosofie di pensiero differenti. L’interculturalismo auspica che in una società multietnica prevalgano atteggiamenti e comportamenti di conoscenza e scambio reciproco, al suo interno le diverse culture hanno pari dignità e sono uguali tra di loro. Le culture vengono riconosciute e valorizzate nel reciproco confronto continuo. Non dovrebbero esistere culture superiori o inferiori ma culture differenti tra loro, l’interculturalismo esprime un culto della differenza, concepisce le culture come un valore da proteggere, 44 vengono valorizzati i contenuti identitari non aggressivi, come la lingua, le tradizioni e il folklore. Cerca di creare una differenza che si produca nell’uguaglianza senza la necessità di negazione dell’altro, a qualsiasi cultura garantisce diritto di esistere, ma persiste l’idea della comunità come culla di benessere e di salvaguardia identitaria. Per migrare però occorre essere disponibili a rompere i propri legami con la comunità di origine e pronti a una rinegoziazione con le comunità di arrivo. Il termine multiculturalismo descrive fenomeni legati alla semplice convivenza di culture diverse in cui gruppi sociali di etnia e cultura differenti occupano uno spazio diverso e difficilmente si incontrano e dialogano. In questo caso le culture e le identità culturali vengono considerate come date fissate, rigide e non suscettibili di mutamento, e il ritorno in auge dell’etnicità quale fonte di identificazione collettiva e spinta alle rivendicazioni, in seno alla modernità e alla globalizzazione, ha aumentato il multiculturalismo radicale. Le ingenue posizioni dei sostenitori della società multietnica, cioè una pratica debole che vuole controllare varie comunità all’interno della società senza che queste in definitiva vengano a fondersi, legittimano il razzismo differenzialista, che camuffa la propria pericolosità dietro al rispetto delle differenze, e vuole la codificazione di culture che invece hanno da sempre avuto degli scambi, delle contaminazioni, dei mescolamenti.26 Alcune forme di multiculturalismo si richiamano a concezioni naturalistiche e essenzialistiche della cultura e dell’identità; così un individuo sarebbe sempre immerso in una sola cultura e possederebbe una sola identità culturale che si situa all’interno 26 M. Tibaldi, Metix Babel Felix. Meticciamento, passing, divenire e conflitto, Kappa Vu, Udine 2007. 45 di un universo sociale diviso in culture coerenti e distinte di cui sono portatori specifici gruppi sociali con una forte omogeneità interna (come minoranze e gruppi etnici) che convivono con “l’alterità”, con difficoltà tanto maggiore quanto è più sensibile la differenza, la distanza culturale che li divide. Nella società multiculturale: Non solo non viene mai riconosciuto che la cultura del migrante tende a diventare un ibrido ma, soprattutto si nasconde che non può esserci parità fra la presunta cultura del migrante e quella del paese di immigrazione, in quanto si tratta ovviamente, di un rapporto totalmente asimmetrico.27 Questo tipo di società diventa un unico grande ghetto sociale nel quale le diverse comunità etniche che lo vivono, indipendentemente dalla loro ricchezza sono ostili e quindi si generano conflitti interni. “La parola d’ordine della multiculturalità è: separare per dominare.”28 Possiamo mostrare come l’ideologia e le pratiche multiculturali, pensando alla società come un mosaico formato da monoculture omogenee e dai confini ben definiti, abbiano, di fatto, aumentato la frammentazione (e il rischio di apartheid) della distanza fra le componenti della società, dimostrandosi validi strumenti per la costruzione dell’identità nazionale. Selezionando ciò che divide le culture invece del loro intrinseco rapporto, espellono, nel contempo, la dimensione del cambiamento e della stratificazione interna, ritenuta, al più, l’effetto di enti patogeni esterni, come le migrazioni, ma non la globalizzazione, considerata invece come un fenomeno evolutivo e organico interno, felice e riappacificato e, soprattutto, inesorabile e già accaduto. 27 S. Palidda, Mobilità umane. Introduzione alla sociologia delle migrazioni, Raffaello Cortina, Milano 2008, p. 28. 28 Ibidem. 46 Il multiculturalismo, rispondendo a precisi intendimenti politici, promuove un’ideologia fondata sull’unità territoriale, sull’autenticità storica e culturale, sulla purezza etnica o razziale. Seguendo un movimento che può apparire paradossale il multiculturalismo si rivela, dunque, come il lato oscuro della monocultura: l’omogeneizzazione nazionale è ottenuta attraverso il riconoscimento e l’annullamento integrativo o escludente della differenza. Ora analizziamo il “modello” meticcio, un modello fortemente ostacolato dalle frontiere degli stati, da muri reali o immaginari, da eserciti e polizie internazionali, ma che non conosce limiti e freni e si manifesta senza regole prestabilite, fra incontri e condivisioni casuali tra persone. Il modello meticcio, è consapevole che ogni cultura è tesa alla trasformazione continua, “il meticciato è un processo di bricolage senza fine.”29 Nella contemporaneità è impossibile pensarsi bloccati in una sola cultura. La cultura è una costruzione storica necessaria a tutti gli esseri umani, completando culturalmente se stesso, l’essere umano non diventa un “qualsiasi” uomo, bensì un “particolare” tipo di uomo culturalmente definito,30 l’uomo è un animale incompleto, che esce dalla sua incompletezza biologica con il processo di creazione di cultura. L’uomo è un animale biologicamente carente. Affidato alle sue sole capacità biologiche, ben difficilmente saprebbe sopravvivere. La sua stessa sopravvivenza fisica a quanto pare richiede, fin da subito l’intervento della cultura.31 Viviamo in un continuo transito temporale nel quale convivono molteplici culture che si mescolano e che rendono sempre più F. Laplantine, A. Nouss, Il pensiero meticcio, cit., p. 61. C. Geertz, Interpretazione di culture, cit. 31 F. Remotti, Contro l’identità, cit., p. 12. 29 30 47 incerte le identità culturali, nazionali, storiche. Ciò che viene definito perdita di riferimenti identitari o anche problema identitario deve essere salutato in quanto riscoperta dell’inquietudine e della ricchezza del diverso, la disgregazione contemporanea delle identità e delle rappresentazioni ci dovrebbe aiutare ad ammettere che esiste il non rappresentato, il non identitario, il non analizzabile.32 Nel “modello” meticcio o transculturale: Ogni differenza non allude a privilegi né ad alcuna discriminazione. La transcultura esige che gli uomini, migranti o meno, godano delle medesime universali possibilità e scelgano privi di vincoli comunitari, dove, come e quando vivere.33 Ciascuna persona ha il diritto di essere valorizzata nella sua unicità e irrepetibilità, nella sua continua trasformazione, nella sua continua negazione di purezza originaria. Alla nozione di purezza originale noi opporremmo la nozione freudiana di “perverso, polimorfo”, applicata alla cultura. Questo significa che l’identità culturale , nel modo in cui spesso è stata appresa non esiste affatto.34 Il meticciato non è un principio, non ha nulla di primordiale, ne smentisce la nozione stessa, la destabilizza, con il meticcio nulla è mai definitivo, stabilizzato o fissato, non possiamo immaginare che prenda il potere, che diventi dominante. Il meticciato, che non è sostanza, né essenza, né contenuto, né tanto meno contenitore, non è dunque – per essere esatti – qualche cosa. Esiste solamente nell’esteriorità e nell’alterità, F. Laplantine, Identità e mètissage, cit. M. Tibaldi, Metix Babel Felix, cit., p. 91. 34 F. Laplantine, Identità e mètissage, cit., p. 62. 32 33 48 cioè non esiste mai allo stato puro, intatto ed equivalente a ciò che era un tempo, è il pensiero della trasformazione.35 È il pensiero di un mondo dove si riconosce eguale dignità alle diverse culture ma soprattutto che auspica a un mescolamento, teso al cambiamento, a un’ibridazione continua che sappia adattarsi ai tempi in cui vive dove le culture vanno messe nelle condizioni di cambiare più rapidamente e felicemente possibile... Pensare di rielaborare il modello dei rapporti sociali significa risistemare le coordinate del mondo vissuto. Le forme della società sono la sostanza della cultura. 35 F. Laplantine, A. Nouss, Il pensiero meticcio, cit. 49 Lavoro precario e immigrazione Pensare l’immigrazione significa pensare lo stato, [...] essa costituisce l’occasione privilegiata per rendere palese ciò che è latente nella costituzione e nel funzionamento di un ordine sociale, per smascherare ciò che è mascherato, per rivelare ciò che si ha interesse a ignorare e lasciare in uno stato di “innocenza” o ignoranza sociale, per portare alla luce o ingrandire ciò che abitualmente è nascosto nell’inconscio sociale ed è perciò votato a rimanere nell’ombra, allo stato di segreto o non pensato sociale. Abdelmalek Sayad1 È necessario capire perché un gran numero di migranti mettono a rischio la loro stessa esistenza pur di non rinunciare a una prospettiva di vita dignitosa. Persone che attraversano deserti e mari, costretti a vivere in tendopoli e baraccopoli precarie, che si affidano, non potendo fare altro, a trafficanti di umani “senza nome”, che mettono in gioco la loro stessa vita per aprirsi un varco, una probabilità di futuro, un lavoro nel nord del mondo.2 Le motivazioni sono molte, legate a diverse sfere della vita di ogni persona che “decide” di migrare; sicuramente uno dei fattori più importanti è la presenza di guerre o di regimi 1 A. Sayad, La doppia pena del migrante. Riflessioni sul pensiero di stato, in “aut aut”, n. 275, 1996, p. 10 2 Diecimila all’incirca, gli uomini e le donne annegate nel Mediterraneo o nell’oceano Atlantico dal 1988, tremila dei quali risultano dispersi. Trecento schiacciati dalle merci, congelati o soffocati su qualche camion nelle nostre autostrade. 51 totalitari\polizieschi nei loro paesi di origine, inoltre non è sottovalutabile il motivo legato alla globalizzazione economica che vede sempre di più fette enormi di popolazioni che si ritrovano senza risorse e senza lavoro. Le migrazioni di oggi, infatti, si situano in una cornice globale segnata innanzitutto dalle violenze e dalla guerra aperta come pratiche correnti del potere nei confronti di individui che non le subiscono passivamente.3 Migrare non significa che masse di indigenti svuotino una regione per saturarne un’altra, ma piuttosto che una pluralità di individui, provvisti di progettualità e di aspettative diverse, sono disponibili a cercarsi delle chances di vita dove queste sono possibili o promesse.4 L’immigrato non è solo una persona costretta a lasciare il proprio paese per ragione di povertà, di guerra o per la ricerca di un lavoro. È soprattutto una persona che porta se stessa, le proprie energie intellettive, fisiche affettive e il proprio bagaglio culturale al confronto con la società nella quale arriva.5 Le migrazioni possono essere così comprese come trasferimenti non necessariamente definitivi, progetti di vita parziali che approfittano di aperture improvvise e si scontrano con barriere impreviste, circolazioni di vite tra regioni e rive diverse, ritorni sperati e permanenze subite, esperienze in cui gli individui portano con sé o ricreano identità complesse e plurali. Una volta che viene presa la decisione di emigrare iniziano i problemi, ostacoli di ogni tipo, politici e militari, come frontiere armate, eserciti, muri, barriere artificiali e naturali, fino alle politiche estremamente repressive antimigrante vigenti praticamente in tutto il nord del mondo. Queste politiche repressive S. Palidda, Mobilità umane, cit., p. 158. A. Dal Lago, Non persone, cit., p. 198. 5 R. Curcio, I dannati del lavoro, Sensibili alle foglie, Milano 2007. 3 4 52 contro il migrante non sono fini a se stesse, ma finalizzate alla creazione di una persona anzi di una non persona6 estremamente ricattabile e quindi questi ostacoli politici e militari costringono il migrante ad accettare le condizioni salariali e di vita che l’industria globale impone nei mercati del lavoro. I migranti sono vivi, conducono un esistenza più o meno analoga a quella degli italiani che li circondano, ma sono passibili di uscire, contro la loro volontà, dalla condizione di persone. Continueranno a vivere anche dopo, ma non esisteranno più, non solo per la società in cui vivevano come irregolari, clandestini, ma anche per loro stessi, poiché la loro esistenza di fatto finirà e ne inizierà un’altra che comunque non dipenderà dalla loro scelta. Il migrante pur potendo vivere come noi dal punto di vista materiale e sociale, non ha un futuro stabile nella nostra società. Quindi questa condizione di marginalità e clandestinità fa di loro dei lavoratori totalmente privi di diritti, soggetti ai ricatti salariati e alle condizioni di lavoro che i vari imprenditori vogliono loro imporre. Il precario regolare trova spesso impieghi in nero o temporanei e non riesce ad avere o a mantenere un alloggio regolare come prescritto dalla legge. Ne consegue che l’approdo alla condizione di clandestinità condanna l’immigrato a vivere alla mercè di imprenditori del sommerso, in condizioni d’indigenza e sempre a rischio di espulsione. È evidente che la norma per cui l’immigrato deve avere un lavoro e un alloggio regolari in una società in cui parte degli stessi nazionali ha difficoltà a soddisfare tali requisiti produce clandestini.7 In breve, gli ostacoli ufficiali all’immigrazione fanno sì che i migranti non possano uscire da una condizione di subordinazione 6 7 A. Dal Lago, Non persone, cit., p. 207. S. Palidda, Mobilità umane, cit., p. 158. 53 che dura quanto la loro vita. Un immigrato è così privo di voce e di diritti nella società che lo accoglie, così come lo era in patria quando era disponibile a emigrare. La constatazione tragica è che “un essere umano, è persona, solo se la legge glielo consente, indipendentemente dal suo essere persona di fatto.”8 Tra il 2005 e il 2009 in tutta la fortezza Europa le normative elaborate nel campo dell’immigrazione sono peggiorate, hanno come obiettivo comune il mantenimento di una domanda clandestina del lavoro meno qualificato. Queste restrizioni sugli ingressi fanno sì che l’offerta di lavoro si rivolga di fatto ai migranti privi di qualsiasi mezzo, agli irregolari, disponibili per qualsiasi mansione pur di restare nei territori “sognati” dei paesi ricchi. In questo capitolo cercherò di ricostruire il rapporto dei migranti con il lavoro precario nelle sue diverse sfaccettature. Stranieri nascosti nella privatezza della vita domestica, per esempio badanti e colf, oppure visibili nell’incertezza dei mercati di strada, tra manovali e braccianti. Precarietà come modello di vita Precariato e società, società e precariato. Il futuro lavorativo solo raccontato, decantato immaginato. Profondo sud venendo dallo scuro venendo dal nero. Lavoro interinale, a progetto, intermittente. Recessione imminente. Ci si inventa le tante possibili realtà. Precariato e società è fantasia la stabilità. Oggi il mondo va così inquadrato. A tempo determinato. M. Secondo 8 54 Ibidem. Il processo di cui voglio parlare è passato attraverso una generale precarizzazione dei lavoratori che non interessa soltanto coloro che hanno contratti di lavoro precari, ma trasforma tutto il mondo del lavoro, anche quello dei cosiddetti lavoratori “stabili”, sempre più preoccupati dal rischio di licenziamenti, esternalizzazioni e delocalizzazioni. Tale processo ne indebolisce la capacità di resistenza, ne forza l’adattabilità ai bisogni delle imprese, desiderose di una forza lavoro sempre più fluida nel numero e nelle mansioni. I soggetti con contratti a tempo determinato si trovano ormai a vivere sempre più sulla precarietà come primo passo per un contratto stabile, ma in realtà si troveranno costretti a una vita lavorativa totalmente instabile. Le discriminazioni istituzionali scaturiscono dalla relazione sempre più pericolosa che viene istituita tra diritto e mercato del lavoro, tra sospensione del diritto per alcuni e flessibilità, tra stratificazione del diritto e formazione di una sottoclasse di non persone destinate alle forme più estreme di precarietà esistenziale, mercificazione selvaggia e alienazione. Un’esistenza condannata all’ergastolo della precarietà.9 La precarietà del reddito quindi non è l’unico effetto subito. Nelle ricerche sui lavoratori precari emerge una sempre maggiore difficoltà a progettare il proprio futuro, a lasciare la famiglia di nascita, a contrarre mutui, comprare o affittare un’abitazione, o seguire corsi di formazione. Viene fortemente percepita l’incertezza lavorativa, il disagio di una vita modellata dalle esigenze delle imprese e l’insufficienza delle tutele sociali a cui si ha diritto. Il paradigma massimo di questa precarizzazione si ha con i lavoratori migranti costretti da normative come la legge del 9 R. Curcio, I dannati del lavoro, cit., p. 21. 55 15 luglio 2009, n. 94, la Bossi-Fini e la precedente TurcoNapolitano, a vivere una condizione di totale e costante ricattabilità, o perché clandestini, o perché il proprio permesso di soggiorno è legato al contratto di lavoro o perché da irregolari si deve sottostare a condizioni neoschiaviste per poi essere reclusi nelle “galere etniche”, chiamate centri di accoglienza, ed espulsi, in assenza di qualsiasi diritto umano. Una precarietà diffusa e totale per il migrante, non solo per il lavoro ma anche legata al permesso di soggiorno, quindi uno stato di precarietà esistenziale.10 I Cie, cioè i vecchi Cpt:11 S. Palidda, Mobilità umana, cit, p. 110. I Centri di permanenza temporanea (Cpt), ora denominati Centri di identificazione ed espulsione (Cie), sono strutture istituite in ottemperanza a quanto disposto all’articolo 12 della legge Turco-Napolitano (L. 40/1998), per ospitare gli stranieri “sottoposti a provvedimenti di espulsione e o di respingimento con accompagnamento coattivo alla frontiera” nel caso in cui il provvedimento non sia immediatamente eseguibile. I Cpt sono da intendersi come i terminali delle politiche migratorie italiane ed europee. Poiché essi hanno la funzione di consentire accertamenti sull’identità di persone trattenute in vista di una possibile espulsione, ovvero privare libertà alle persone in attesa di un’espulsione certa, il loro senso politico si traccia in relazione all’apparato legislativo sull’immigrazione nella sua interezza. Nell’ordinamento italiano i Cpt costituiscono una grande novità: prima non era mai stata prevista la detenzione di individui a seguito della violazione di un semplice illecito amministrativo (quale il mancato possesso di un documento). L’assistenza medica nei centri è del tutto inadeguata: inesistenza di assistenza psicologica e psichiatrica, assenza di reparti per categorie vulnerabili, carenza nella gestione di cartelle cliniche e nelle misure per prevenire il diffondersi di epidemie. In particolare, molto frequente è l’eccessiva prescrizione di sedativi e tranquillanti. E sono molti, tra i detenuti, i casi di autolesionismo. Ma nonostante la deprivazione psicologica non è fornito alcun tipo di assistenza. Sono state riscontrate gravi violazioni quanto al diritto di asilo. Medici senza frontiere aveva verificato per esempio che – quando ancora non era stato emanato il regolamento che istituisce il trattenimento nei Cpt dei richiedenti asilo – i detenuti che avevano fatto richiesta di asilo, invece di essere rilasciati in attesa dell’audizione da parte della commissione come era previsto dalla legge, continuavano a essere 10 11 56 sono luoghi istituiti dallo stato al fine di produrre, senza dichiararlo, una fascia di lavoratori perennemente senza diritti e, proprio per ciò, di massima convenienza per il mercato del lavoro e, in particolare, le sue fasce precarie flessibili.12 Un esempio tipico potrebbe essere: un migrante entra in Italia, catturato, condotto in un Cie, schedato e rilasciato con un foglio di via che gli intima di lasciare il territorio nazionale entro quindici giorni, il migrante viene presto a trovarsi nell’infelice imprigionati nei centri. Sono stati testimoniati casi in cui stranieri con un regolare permesso di soggiorno sono stati egualmente detenuti nei centri, e la loro detenzione è stata convalidata dal giudice durante l’udienza (a riprova di quanto siano garantiti i diritti legali dei detenuti). In altri casi c’è stato il trattenimento illegale di minori non accompagnati e di donne incinte. È stato verificato come siano ben pochi i centri ad aver steso un regolamento interno, come richiesto dal ministero, e come richiesto dalla “carta dei diritti e dei doveri” consegnata ai detenuti all’ingresso dei centri – non essendo spesso tradotta nelle lingue dei detenuti, e mancando un adeguato servizio di informazione legale – sia insufficiente allo scopo previsto. Così, come emerge da tantissime testimonianze, il migrante si trova chiuso in una prigione senza sapere nulla né del perché si trova lì dentro, né di cosa gli accadrà in seguito. E spesso, come si è detto, non ha alcuna informazione sulle sue possibilità di presentare richiesta d’asilo. Gli enti gestori, poi, talvolta sono accusati di dissuadere i detenuti dal nominare certi avvocati molto attivi per sostenere i diritti dei migranti in favore di altri “fidati” i quali poi non mostrano alcun impegno. La stessa Croce rossa italiana è duramente contestata per la collaborazione nella gestione dei Cie e per alcuni accadimenti in cui il suo operato ha lasciato molte ombre. Decisamente rilevante, a questo rispetto, è la difficoltà di essere ammessi dentro le strutture per parlamentari, rappresentanti di Ong (non è mai stata ammessa la stessa Amnesty International), avvocati (con relative difficoltà per ricevere la nomina degli assistiti potenziali, e di incontrare gli assistiti effettivi), giornalisti (di fatto mai ammessi). Citando il rapporto di Amnesty International: “C’è stato un certo numero di denunce di abusi di matrice razzista, aggressioni fisiche e uso della violenza da parte degli agenti di pubblica sicurezza e da parte del personale di sorveglianza, in particolare durante proteste e in seguito a tentativi di evasione”. 12 R. Curcio, I dannati del lavoro, cit., p. 50. 57 condizione di non essere soltanto senza documenti e senza diritti ma di non poterli più avere neppure in un tempo a venire. Il suo futuro è così in larga misura disegnato: egli dovrà andare a ingrossare le fila dei lavoratori in “cantina”, senza diritti e quindi sfruttabili, ricattabili senza alcun limite. Ciò che i governi non dicono è il succo della storia: poter disporre di una grande quantità di carne lavoro “irregolare”, così irregolare da dover essere nascosta e utilizzata solo a un livello ancora più basso del lavoro regolarmente flessibile, poter disporre di una sottoclasse dannata da far lavorare in cantina, al di fuori degli sguardi indiscreti. Una preoccupazione estetica oltre che etica, economica o politica. Non nuova però: gli sfruttatori del lavoro umano non hanno mai amato ostentare le procedure mediante cui si sono appropriati del plusvalore, vale a dire di quella quantità di valore prodotta dal lavoro non completamente retribuito.13 È una condizione che colpisce ancor più pesantemente le donne, verso le quali persiste una divisione sessista del lavoro che le colloca in posizione subordinata. Alle donne, molto più che agli uomini, viene prospettata come unica possibilità l’occupazione precaria. Migranti precari Sono immigrati, stranieri in situazione irregolare o semplicemente migranti, queste persone hanno in comune il fatto di essere in Italia e di dover, per sopravvivere, ricorrere a espedienti precari. Alcuni hanno liberamente scelto il suolo italiano, altri sono venuti sotto la minaccia di persecuzioni, o perché la vita nei 13 58 Ibidem. loro paesi di origine era senza futuro, oppure per raggiungere coloro che avevano fatto prima di loro questa scelta. Da vent’anni a questa parte le autorità e la legislazione hanno moltiplicato le difficoltà per la loro entrata e per il loro soggiorno. Senza grandi successi, visto che sappiamo benissimo che la forza che li attrae è superiore ai mezzi impiegati per allontanarli. Così, le leggi xenofobe risultano più efficaci nell’indebolire tutti gli stranieri che nel frenare l’immigrazione. E soprattutto nell’arricchire gli imprenditori del lavoro nero: per questi ultimi, leggi del genere costituiscono un vero colpo di fortuna. I lavoratori migranti senza permesso di soggiorno e nell’impossibilità di richiederlo, sono i prediletti dalle aziende e dalle cooperative che puntano a un maggior profitto seguendo l’indirizzo dei minimi costi del lavoro. Fornendo lavoro senza la copertura dei diritti, lavoro docile, precario e flessibile per eccellenza. Tutti gli irregolari hanno due caratteristiche comuni: la prima è che non possono o non desiderano andarsene; la seconda è che sono messi in una situazione di fragilità economica determinata dal fatto che la legge rifiuta loro ogni inserimento contrattuale nel mondo del lavoro. Le condizioni sono quindi a senso unico perché gli irregolari devono accettare qualsiasi cosa pur di ottenere qualche risorsa. Il lavoro nero non è la prerogativa dei migranti senza permesso di soggiorno, ma nonostante questo dato di fatto, rimane una tenace equazione, accuratamente veicolata dal potere e dai media, stranieri clandestini = lavoro clandestino. Una cosa è certa: per lavorare, i migranti senza permesso di soggiorno non hanno altra soluzione che il lavoro non dichiarato.14 Per esempio, i rifugiati politici non hanno più automaticamente il Medici senza frontiere denuncia: condizioni di vita inaccettabili per un paese civile, mancanza di qualsiasi forma di assistenza o di tutela, esposizione a maltrattamenti e soprusi, condizioni di salute a dir poco precarie, www. medicisenzafrontiere.it. 14 59 permesso di lavoro durante il periodo di esame del loro dossier. Questo limite ipocrita è rivelatore visto che chi chiede l’asilo politico non ha nessuna intenzione di lasciare il paese prima di aver ricevuto il risultato della sua domanda, e quindi è quasi dichiarato ufficialmente l’invito a cercarsi un lavoro illegale. Nella pratica non solo i senza documenti, bensì tutti gli immigrati, costituiscono una preda favorevole per gli imprenditori di certi settori di attività che sono molto coscienti del fatto che gli stipendi e le condizioni di lavoro proposte sembreranno sempre migliori di quelle offerte nel loro paese di origine. Questi settori sono conosciuti da tutti: per primo quello dell’edilizia, poi l’industria alberghiera e della ristorazione, la confezione, l’agricoltura, le imprese di pulizia, le colf, le imprese specializzate nel volantinaggio. Dall’inizio dell’entrata in vigore delle leggi repressive,15 un numero crescente di immigrati si ritrova in situazione di precarietà. Risultato: sono consapevolmente orientati sul mercato del lavoro clandestino e su quello delle attività criminali. È così che il rapporto di forza fra offerta e domanda di lavoro si modifica, con la benedizione delle leggi, in funzione del profitto degli imprenditori del lavoro illegale. L’ideologia di questi ultimi è paradossale: da un lato, non sono di solito xenofobi (il che non significa che alcuni non siano razzisti) e lasciano ai politici il compito di vociferare contro l’invasione straniera: La paura non è più affare di consulenti aziendali o di attivisti di partito delusi, ma una risorsa primaria del teatro politico mediale, un frame in cui le emergenze, gli imprevisti o le 15 Importante ricordare che la convenzione Onu 45\158 sulla protezione dei diritti di tutti i lavoratori migranti e dei membri delle loro famiglie, recita: “I lavoratori migranti devono poter godere dei diritti umani al di là del loro status legale, e di parità di diritti sindacali, remunerazione e accesso ai servizi sociali con i lavoratori dello stato ospitante”. 60 difficoltà della vita collettiva potranno essere ritradotti e gestiti nella soddisfazione generale.16 Dall’altro lato, le misure contro gli stranieri sono favorevoli perché, se non lo fossero, il lavoratore immigrato diventerebbe forse più esigente, almeno è quello che pensano questi imprenditori. I datori di lavoro in quanto capitalisti, prendono la manodopera dove sarà possibile ottenere, avendo la certezza del profitto, il migliore rapporto produttività-costo. Le leggi repressive contro il lavoro clandestino hanno effetti dissuasivi però permettono anche all’imprenditore che impiega i clandestini di fare pressione su di loro. Infatti, il padrone usa il fatto che sta assumendo dei rischi per imporre qualsiasi condizione di lavoro ai lavoratori in nero, non potendo questi ricorrere a un’assistenza legale, e soprattutto non avendo alcuna sicurezza del lavoro. I migranti non sono liberi di trattare con il datore di lavoro, possono solo adattarsi singolarmente all’offerta che viene loro proposta, senza potersi difendere in alcun modo neppure dalla violazione unilaterale del patto; devono infatti adattarsi al “prezzo” stabilito di volta in volta, da chi li ingaggia.17 Oltretutto non è cosa rara che il reclutatore non li paghi per il lavoro svolto, come spesso avviene. Aziz18 mi racconta che ai mercati generali di Milano più volte è successo che al momento della paga arrivasse la polizia a fare dei controlli e chiaramente tutti i lavoratori migranti senza permesso erano costretti a scappare per non finire in un Cie e si scordavano la loro meritata paga. Questi lavoratori non hanno alcuna possibilità di denunciare il datore di lavoro perché sul terreno della legge essi, in quanto cittadini portatori di diritto A. Dal Lago, Non persone, cit., p. 81. R. Curcio, I dannati del lavoro, cit., p. 47. 18 Parte di un intervista che ho fatto a Milano ad Aziz, un uomo nordafricano. 16 17 61 non esistono. Possiamo inoltre verificare che, nei settori in cui si usa molto la manodopera clandestina, l’assunzione non si fa più a livello di grande impresa bensì al livello di quella più piccola. Per esempio, nel settore dell’edilizia, le grosse società mantengono il minimo di dipendenti e appaltano i lavori a una moltitudine di piccole imprese, le quali ricorrono al lavoro nero nelle sue forme più diverse (dipendente non dichiarato, prestito di manodopera fra le diverse società, falsi contratti di lavoro interinale, falsi lavoratori autonomi ecc.). Ritroviamo lo stesso meccanismo nel settore della confezione, in cui i fabbricanti (cioè le società che mettono la loro firma e commercializzano i vestiti) affidano la produzione a contoterzisti. In questi due casi, questa esteriorizzazione si traduce in un’evoluzione dell’economia verso la precarietà, di cui l’ultimo livello è l’impiego di lavoratori senza diritti. La terziarizzazione e appalto dei servizi, essendo finalizzati ad abbassare i costi facendo strage di diritti e impiegando lavoro a bassi costi, diventano perciò i due dispositivi legali e portanti dello sfruttamento del lavoro dei migranti. E le grandi imprese vi ricorrono ampiamente e per così dire “senza alcuna vergogna”. Menaye lavoratrice precaria della Nigeria ci dice: Accetto tutto pur di mantenere il lavoro. Con le leggi sul lavoro degli stranieri che ci sono in Italia, avrei forse qualche altra possibilità? Che succede se perdo il lavoro? E state sicuri che se non faccio tutto quello che mi viene chiesto di fare, e anche un po’ di più, il lavoro lo perdo certamente.19 I migranti senza permesso di soggiorno sono quindi la prima linea di un movimento generale verso la flessibilizzazione e la precarizzazione del lavoro. Non sono, come d’altronde gli immigrati in generale, responsabili della disoccupazione come 19 62 Intervista dell’autore. afferma la classe politica: sono gli attori forzati di una sapiente utilizzazione della disoccupazione per far crescere un’infinità di situazioni precarie. Il padronato ne trae un grandissimo profitto, grazie particolarmente alla loro precarietà giuridica: privi di diritti, sono frequentemente legati a reti comunitarie, in cui lo sfruttamento si nasconde sotto il profilo della solidarietà. Di fronte al nemico comune che è rappresentato dallo stato, l’imprenditore può fare credere al suo dipendente che lo sta proteggendo e che gli sta facendo un favore. Questo discorso paternalista è doppiamente alimentato dall’esclusione giuridica dei lavoratori e dalla crisi economica. Quando lo stato spinge alla criminalità La condizione di straniero implica un inquietante quesito: essere veramente “dentro” un certo paese o viverci – spesso sopravviverci – in posizione perennemente liminare, di esclusione latente, di non accettazione e spesso di illegalità. Il clandestino è una figura particolarmente critica: è il perenne escluso, è colui che in ogni momento si scontra con il proprio “non dover esserci”, con la sua necessaria “invisibilità”. Egli ha due destini possibili: cercare di venire alla luce, con circospezione e timore, per mettersi in regola, oppure sottrarsi vertiginosamente alle regole spostandosi continuamente, correndo invisibile nella speranza di non essere fermato e portato in un Cie. Storie di famiglie e comunità che si sono frammentate, diluite negli spazi globalizzanti della migrazione, sempre al di qua o al di là di un confine, riarticolando continuamente la propria identità e la propria memoria e, soprattutto, lottando ogni momento con la povertà. Spesso, alla costante preoccupazione per il quotidiano sostentamento per se stesso e per la famiglia lasciata nel paese di provenienza si unisce l’azione persecutoria che vede in ogni 63 straniero un probabile (o sicuro) delinquente. Sovente, infatti, si mette in relazione diretta la criminalità e l’immigrazione, sebbene da tempo sia dimostrato che non esiste nessun collegamento vero tra la “produzione criminale” e la presenza sempre più consistente di immigrati stranieri. Al migrante si addossano spesso e con grande facilità le responsabilità e le colpe delle situazioni critiche di casa propria: un comodo capro espiatorio che distoglie – anche per tempi lunghi – dalle proprie responsabilità e dalle proprie lacune. Il migrante viene così considerato colui che minaccia la sicurezza e la stabilità del proprio ambiente e della propria vita: all’“invasione del proprio territorio” da parte dei “barbari” si risponde con una altrettanto forte “difesa del territorio”. Gli stranieri diventano invasori che sottraggono ai legittimi cittadini nativi gli spazi vitali, minacciandone la stabilità sociale e personale. Tanti migranti si sono ritrovati progressivamente in una situazione d’isolamento e di indigenza finanziaria, spesso dopo la perdita del lavoro a causa del mancato rinnovo del permesso di soggiorno provvisorio. Queste traiettorie prendono la forma di una spirale discendente in cui tutte le difficoltà si sommano. Gli esempi che possiamo fare sono molti: i controlli di polizia impediscono il loro spostamento per cercare un lavoro; contemporaneamente nell’impossibilità di pagare le bollette, il telefono viene tagliato e il rischio di sfratto diventa reale; la scuola rifiuta di iscrivere i bambini al dopo scuola (per averne il diritto bisogna dimostrare di avere un contratto di lavoro), il che aumenta il rischio per il lavoratore in nero di perdere il posto perché non può più rispettare gli orari; senza copertura sociale e quindi medica, il più piccolo problema di salute diventa una catastrofe. Più i debiti si accumulano, più la chiusura nella dipendenza si consolida. Ciò comporta grossi rischi e per fare fronte alle scadenze a volte l’ultima possibilità è la delinquenza. Il mercato 64 dei documenti falsi è florido. I loro acquirenti, per assumerne il costo, sono tentati di fare “colpi” e di rendersi quindi ancora di più dipendenti dalle reti di attività illegali. Diventa facile allora per i politici denunciare questa illegalità e chiedere una più forte repressione. Ciò marginalizzerà sempre più i migranti senza permesso di soggiorno. Parlando nel concreto del contesto italiano, la percentuale dei migranti all’interno della popolazione detenuta è del 33%, a fronte di una loro percentuale all’interno della popolazione nazionale del 4,5%.20 L’impressionante sovrarappresentazione del gruppo di riferimento all’interno della popolazione carceraria viene spesso interpretata nelle retoriche pubbliche, sia a opera del circuito politico sia di quello mediatico, come una particolare tendenza a delinquere della categoria dei migranti, una credenza di senso comune che è importante smentire. Innanzitutto, le statistiche carcerarie non sono attendibili di una propensione criminale da parte della categoria di riferimento. Non si può prescindere, infatti, da importanti fattori che favoriscono una maggiore frequenza a essere incarcerati tra i migranti rispetto ai cittadini italiani: la maggior parte dei migranti sono infatti in carcere come misura preventiva; la mancanza di domicilio o di un’abitazione fissa spesso impedisce di fare ricorso agli arresti domiciliari, frequenti invece nei confronti dei cittadini italiani; una volta di fronte alla corte, è attestato in base alle percentuali che un migrante abbia una probabilità cinque volte superiore rispetto a quella di un italiano di essere condannato per lo stesso crimine; infine, non si può nemmeno ignorare l’inclinazione degli agenti di polizia a dirigere in via preferenziale la propria attenzione verso i migranti durante i controlli di routine.21 Dati popolazione carceraria in A. Sbraccia, More or less eligibility? Prospettive teoriche sui processi di criminalizzazione dei migranti irregolari in Italia, in Studi sulla questione criminale, II, n. 1, 2007. 21 A. Sbraccia, More or less eligibility?, cit. 20 65 Analizzando il lavoro del sociologo Sbraccia possiamo notare come si possa individuare un’ulteriore prospettiva d’osservazione: egli suppone che i reati commessi da migranti, ben lungi dal corrispondere a una loro inclinazione a delinquere, siano una conseguenza delle condizioni economiche e sociali che essi sono costretti a sopportare. Tali condizioni sono l’inevitabile effetto della precarietà e incertezza dello status giuridico del migrante, status incerto in quanto fondato sul legame tra permesso di soggiorno e contratto di lavoro (quasi esclusivamente temporaneo). Chiarendo che l’irregolarità non è un tratto ontologico del migrante, ma è determinata da un dato sistema giuridico, è importante rilevare che una volta che lo status d’irregolarità sia stato raggiunto, esso pregiudica la possibilità di cercare un impiego regolare, e anzi favorisce l’entrata degli stranieri irregolari all’interno del mercato “informale” del lavoro, così florido in Italia. Essendo la definizione di irregolarità predisposta dalle istituzioni giuridiche stesse, essa è coerente con le pratiche di sfruttamento della forza lavoro migrante all’interno delle economie informali. Inoltre, poiché le sanzioni penali pregiudicano una futura regolarizzazione, riproducono le condizioni della permanenza del migrante irregolare nel mercato nero.22 Il fatto che l’esercito della forza lavoro di riserva sia così folto è un vantaggio per vari settori dell’economia, anzi, per alcuni settori, quali quello agricolo in Italia, è necessario per vincere la competizione, perché permette di scaricare i costi di produzione sui lavoratori. Sono tre gli elementi da tenere in considerazione per quanto riguarda la funzione di deterrenza del carcere: la politica criminale, gli equilibri mutevoli del mercato del lavoro e i sistemi di valutazione dei soggetti. Dato il legame inscindibile tra permesso di soggiorno e contratto di lavoro, il migrante irregolare si trova di fronte a due alternative: tolta l’eventualità di vivere d’elemosina può rivolgersi 22 66 A. Dal Lago, Non persone, cit. o alle vie informali del mercato nero oppure sopravvivere attraverso attività illegali. È falso quello che affermano i media, la famosa favola che non ci sia lavoro per i migranti, in realtà interi settori dell’economia italiana – l’assistenza da parte delle badanti o l’agricoltura soprattutto in meridione – sopravvivono grazie alla forza lavoro migrante, che rientra però nei circuiti informali del mercato. Le condizioni di lavoro e di sopravvivenza di chi si trova nei circuiti dell’economia informale sono spesso tali da non permettere un’esistenza dignitosa, da non garantire la possibilità di inviare valuta estera alla famiglia in patria, da non ammettere l’accumulazione di un seppur minimo capitale. Che prospettive potrebbe avere, si chiede Sbraccia nella sua ricerca, un raccoglitore di pomodori in Sicilia che lavora sotto il sole tutto il giorno per 30 euro senza speranza di un miglioramento nella propria condizione all’interno della gerarchia sociale? Eppure, il meccanismo non può essere in grado di operare correttamente se c’è troppa distanza tra le aspettative di chi decide di emigrare e le reali condizioni che incontra nel paese di immigrazione. Questo significa che, se applicassimo la teoria dell’homo economicus al migrante posto davanti all’orizzonte ristretto della scelta tra le possibilità che gli vengono offerte, dato un calcolo basato su costi e benefici, il migrante irregolare dovrebbe essere razionalmente portato a delinquere; ciò che lo frena sono riferimenti morali, normativi, religiosi. La conclusione sconcertante porta a riflettere sul fatto che, posto di fronte alle due alternative, la scelta di delinquere ricadrebbe nella sfera razionale, la scelta di non farlo, invece, ricade in quella irrazionale. Dove e come lavorano i migranti Il ricorso a forza lavoro immigrata da parte delle aziende avviene soprattutto nelle regioni del centro-nord, questa forza lavoro 67 serve per soddisfare una domanda aggiuntiva soprattutto nel settore dei servizi (assistenza agli anziani, assistenza infermieristica in genere ecc.); il calo delle nascite e quindi la carenza di forza lavoro in un futuro più o meno prossimo, sono gli elementi che mettono in evidenza come l’immigrazione sia oggi un fenomeno difficilmente arginabile, nonostante le chiusure che recentemente l’Italia oppone agli ingressi di immigrati. Numerose indagini rivelano che il servizio pubblico è di scarso aiuto per il collocamento dei migranti e dei rifugiati e nella quasi totalità dei casi i mezzi per trovare lavoro sono le risorse proprie, le proprie reti di riferimento. Sempre più si fanno strada le agenzie di lavoro interinale che rispondono a una caratteristica del mercato del lavoro italiano, caratterizzato da una flessibilità già piuttosto spinta dimostrata dal fatto che circa il 48% dei rapporti di lavoro dipendente ha una durata inferiore a un mese.23 I settori in cui la presenza di lavoratori stranieri in Italia è maggiore sono noti, anche se il modello varia da regione a regione e appare ormai chiaro che il nord è il polo d’attrazione maggiore per la manodopera immigrata. I lavoratori immigrati sono assunti prevalentemente nei servizi (circa metà di tutte le assunzioni), nell’industria (quasi un terzo del totale) e nell’agricoltura (poco più di un decimo). I lavoratori migranti trovano un maggiore sbocco nelle piccole e medie imprese e in diversi ambiti, ormai considerati non più appetibili, si registra una fuoriuscita di lavoratori italiani mentre i nuovi posti riguardano solo i migranti: è il caso dell’industria tessile, chimica, conciaria, elettrica, del legno, della gomma, dei trasporti, dell’elettricità/gas/acqua. Trova così conferma la tesi secondo cui l’impiego di lavoratori extracomunitari sembra non avere conseguenze negative né sul livello occupazionale degli italiani né sulle loro retribuzioni. 23 68 La situazione del paese nel 2009, dati Istat, www.istat.it. Un’interessante ricerca di Lunaria24 su lavoro e immigrazione a Roma rileva l’esistenza di aree occupazionali in cui l’offerta di lavoro immigrato trova una collocazione privilegiata, in particolare il lavoro domestico e di assistenza per le donne e l’edilizia per gli uomini. Quest’ultimo settore è anche il meno tutelato, caratterizzato da un alto livello di irregolarità, dalla frequente assenza di sicurezza sul lavoro e da un numero alquanto ridotto di domande di regolarizzazioni dovuto al rapporto di lavoro instabile. Lavoravo con una piccola azienda edile da tre anni. Una volta qua e un’altra là. Ma un giorno sono andato a lavorare e mi hanno detto che non c’era più lavoro per me. Tutto era finito. Mi avessero pagato l’ultima settimana, almeno. Invece no, nemmeno quello. Chi avrebbe dovuto pagarmi era sparito. Pochi giorni dopo mi hanno fermato e mi hanno portato alla stazione di polizia di Torino e poi al centro di corso Brunelleschi. Il permesso di soggiorno non lo avevo e così mi hanno dato un foglio di via. Quando mi hanno messo fuori ho cambiato aria.25 Frequente è inoltre la trattenuta irregolare di denaro operata attraverso assunzioni regolari. Conferma dell’immobilità del mercato del lavoro migrante si ha in una ricerca condotta dal Cnel sull’inserimento sociale e lavorativo degli immigrati nel nord-est italiano, che riscontra una spartizione dei settori produttivi in relazione all’area di provenienza degli immigrati: edilizia, settore agricolo e dei servizi alla persona per l’immigrazione dell’est Europa; agro-alimentare e servizi alla persona per le persone in provenienza dall’area del Maghreb (Tunisia, Marocco, Algeria); meccanico, chimico e della lavorazione 24 25 In www.lunaria.org. In R. Curcio, I dannati del lavoro, cit., p. 49. 69 del legno per gli africani; lavorazione delle pelli, ristorazionealberghiero e del mobile per gli asiatici.26 Si registra grande mobilità all’interno dei singoli settori, determinata dalla bassa qualità del lavoro (perché irregolare, particolarmente duro o svolto in precarie condizioni di sicurezza), da un ambiente particolarmente difficile o da un datore che costringe i lavoratori migranti a mansioni non previste. Per quanto riguarda il nord-est, il ricorso al lavoro immigrato appare a tutti come l’unica soluzione per recuperare un bacino di manodopera per attività alle quali la popolazione locale, sia per oggettivi limiti quantitativi che per motivi sociali e culturali, non intende rispondere in maniera adeguata. Però diversi sono gli atteggiamenti degli imprenditori intervistati dal Cnel, dei quali il 12% manifesta orientamenti esplicitamente negativi e ben il 50% considera la presenza straniera in azienda come una “dura necessità”, accettata con rassegnazione. Soltanto il 33% degli imprenditori riconosce il lavoro immigrato come una risorsa su cui investire in termini professionali e relazionali.27 Oltre che una risorsa per lo sviluppo come dicono purtroppo le fredde ricerche del Cnel, i lavoratori migranti sono una risorsa per gli imprenditori di manodopera a basso costo, persone da sfruttare per il loro massimo profitto. Lavoravo dalle sei del mattino alle sette di sera, mentre i lavoratori italiani che montavano alle sei di mattina smontavano alle tre di pomeriggio e poi se ne andavano a casa. Mi dovevo svegliare, per arrivare puntuale sul posto di lavoro alle cinque e mezza. Abitavo lontano. Lavoravo sempre, dal lunedì alla domenica. Compreso il sabato dall’una di pomeriggio alla mezzanotte. A volte mi capitava, tornato a casa, di sedermi 26 27 70 In www.portalecnel.it/portale/HomePageSezioniWeb.nsf/vwhp/HP. In www.cnel.it. sul wc per fare i bisogni trattenuti durante le ore di lavoro e di addormentarmi. L’amico con cui vivevo, che oggi sta a Londra, doveva scuotermi, svegliarmi per farmi andare a letto. C’era anche una stanchezza psicologica: il rapporto con gli altri lavoratori era sempre più difficile.28 Altre interviste confermano questa difficoltà con i lavoratori italiani. Al mattino si faceva sia il lavaggio che la pompa di benzina. Io ero l’unico “cittadino straniero”. Dico cittadino perché mi ritengo anzitutto un essere umano, una persona, un cittadino di questo mondo, anche se non ho la cittadinanza italiana, sono privo di permesso di soggiorno e sono un immigrato africano. Al distributore svolgevo le stesse mansioni degli altri benzinai, controllo dell’olio, lavaggio dei vetri ecc. Ma loro guadagnavano circa 250\300 euro alla settimana mentre io ne prendevo soltanto 120. I miei colleghi di lavoro erano tutti a conoscenza di questo divario, non li turbava affatto perché, sin dal mio primo giorno di lavoro, essi avevano dimostrato nei miei confronti una sorta di sottovalutazione. Secondo loro poiché arrivavo da un paese arretrato dovevo essere arretrato anche io. In quanto nero, africano, non potevo avere una capacità intellettuale di ragionare e riflettere simile a loro. Ero inferiore, punto e basta. In quell’ambiente il mio destino lavorativo era dunque pesantemente segnato. Secondo i miei colleghi italiani non avrei mai potuto raggiungere il loro livello. A me avrebbe dovuto essere riservato soltanto il lavaggio dei vetri delle auto, a loro invece, l’erogazione della benzina e il contatto con i clienti. Dopo i primi tempi però contrariamente ai loro pregiudizi, io ho dimostrato di saper svolgere bene tutte le mansioni e di essere, sul piano lavorativo completamente alla 28 In R. Curcio, I dannati del lavoro, cit., p. 83. 71 pari con loro. Dal quel momento per me si è messa male: ero diventato un concorrente, un pericolo, un’oscura minaccia. Per il mio datore di lavoro, una nota catena internazionale di distribuzione della benzina, io andavo benissimo, soprattutto perché non avevo un permesso di soggiorno. A parità di mansione, infatti, mi pagava la metà. E non c’era da parte sua alcuna volontà di regolarizzare la mia situazione lavorativa. Per lui questa discriminazione era perfettamente normale, ovvia, giusta. Altri problemi non se li poneva: ci guadagnava bene e tanto gli bastava. Ma il malanimo che serpeggiava tra i miei colleghi italiani non gli era sfuggito e così, una mattina, approfittando del fatto che, avendo forato una gomma del mio motorino, ero arrivato in ritardo di mezz’ora, ha preso la palla al balzo e mi ha buttato fuori. Non ho fatto neppure a tempo a scendere dal motorino che già mi avevano gridato tutti insieme: “tornate a casa tua”. Proprio così, senza neppure una parola in più, datore di lavoro e lavoratori mi avevano licenziato. Insieme.29 Fra lavoratori italiani si registra una certa diffidenza verso i colleghi stranieri: difficilmente l’ambiente di lavoro diventa contesto di socializzazione tra italiani e stranieri o luogo in cui sia possibile creare reti di solidarietà. Non mancano poi i conflitti, che assai difficilmente vengono risolti. È difficile che un datore di lavoro prenda provvedimenti nei confronti del collega italiano che si sia comportato in maniera scorretta nei confronti del lavoratore migrante, il quale, se denuncia il fatto, diventa ulteriormente oggetto di discriminazioni, anche fino alla perdita del lavoro stesso. Forte è anche l’aspetto indicato come job and sex segregation,30 In R. Curcio, I dannati del lavoro, cit., p. 84. La componente femminile migrante presenta anche la specificità legata ai processi di segregazione occupazionale sulla base del genere (job and sex segregation): le donne sono infatti inserite soprattutto nell’ambito del lavoro domestico e di assistenza. Per quanto riguarda la nazionalità d’origine fortissima 29 30 72 definito dal rapporto della Rete d’urgenza 2000 di Torino come la combinazione della variabile di tipo etnico-religiosa con quella di genere, che determina percorsi e stereotipi tali per cui se il migrante è uomo allora è anche di fede islamica, è un lavoratore dipendente, proviene dal nord Africa e ha un lavoro precario. Al contrario, se è donna, allora è cattolica, fa la domestica, ha un lavoro stabile ma in nero. Chiaramente non è sempre così, le storie dei migranti sono tante e con diverse tipologie di esperienze. Riporto di seguito il racconto di una giovane brasiliana arrivata in Italia nel 2000. Sono venuta in Italia dal Brasile, nell’aprile del 2000. Tramite conoscenti avevo ottenuto un posto di lavoro come baby sitter. Lo stesso giorno in cui sono arrivata in Italia ho preso servizio presso la famiglia che mi aveva richiesta. Le mie mansioni tuttavia sono andate crescendo con il passare del tempo. Non avevo conoscenza della lingua e neppure delle leggi italiane in materia di lavoro domestico. Ero anche senza permesso di soggiorno. E così hanno cominciato a chiedermi di pulire i pavimenti, lavare i panni e i piatti, stirare la biancheria e fare la spesa. Il mio orario di lavoro avrebbe dovuto essere dalle sette e mezza del mattino alle nove e mezza di sera. Ma vivendo in quella casa l’orario fin dal primo momento diventò quello che più faceva comodo a quella famiglia. Se i bambini si svegliavano di notte ero io che dovevo accudirli e questo senza che comportasse per me una variazione qualsiasi del mio trattamento economico. la presenza femminile delle comunità provenienti dai paesi dell’Europa centro orientale. Le donne russe sono l’84% del totale, quelle polacche l’80,9%, le ucraine il 79,4%; seguono le donne filippine con il 71,1%, le nigeriane che sono il 61,5%. Le donne straniere sono impiegate in questo settore fin dai primi arrivi nel nostro paese, negli anni settanta. Un altro fattore determinato dalla presenza femminile in Campania è il conseguente aumento del numero dei minori che frequenta la scuola e che sono al 31 dicembre 2006 circa 15.000 così suddivisi: il 43,7% a Napoli, il 24,7% a Caserta, il 19,5% a Salerno, l’8,7 ad Avellino e infine il 3,4% a Benevento (Ansa). 73 Lo straordinario non era previsto, nel senso che dovevo farlo senza chiedere niente in cambio. Dovevo farlo per il semplice fatto di essere lì. All’inizio non avendo amici, non conoscendo la lingua né la città, accettai tutto senza lamentarmi troppo. Anche il sabato. Anche la domenica. Col passare del tempo le cose sono anche peggiorate. Sono giovane, brasiliana, e ho capito presto che le mie conterranee venivano considerate “donne un po’ facili”, tipe da strada. Questa era la lente deformante attraverso cui mi guardava anche la padrona di casa, nei miei riguardi sempre più gelosa benché io facessi soltanto i fatti miei senza dare alcun appiglio a questo pregiudizio. Insomma sono stata più di tre anni presso questa famiglia e poi mi sono licenziata. Durante il secondo anno avevo deciso di andare a dormire fuori casa anche per guadagnarmi qualche momento di tranquillità, qualche ora tutta per me, e avevamo formalizzato questa scelta stipulando un contratto privato. Alle sette di sera me ne andavo, tranne il mercoledì che dovevo restare fino a mezzanotte. Be’ questa mezzanotte era piuttosto elastica e molto spesso diventava l’una o le due. Anche se il giovedì dovevo riprendere alla solita ora. La goccia che ha fatto traboccare il vaso è stata una vacanza di quindici giorni all’isola d’Elba. Mi avevano chiesto se ero disposta ad accompagnarli o se preferivo prendere per quei giorni le ferie. Per contratto mi spettavano 90 euro per ogni fine settimana che lavoravo e così dopo essermi fatta due conti e avendo bisogno di guadagnare, ho accettato di andare. Al ritorno però, quando ho ritirato la paga, mi sono accorta che i conti non tornavano. Per i due fine settimana mi avevano dato soltanto 90 euro, più 11 di mancia. Due sabati, due domeniche, pasqua e pasquetta erano stati accorpati alla paga di un unico fine settimana. Quando gli chiesi spiegazioni ottenni questa bella risposta: “Eh no, mia cara! Novanta euro valgono per una volta al mese. Il resto sono vacanza”. Secondo loro non ero stata a lavorare, ma mi avevano portata con loro a fare le 74 vacanze! A giugno me ne andai, ma per riscuotere la paga di quel mese dovetti penare e camminare. Corrergli dietro fino al lago Maggiore, dove avevano una seconda casa, telefonare e ritelefonare. E comunque non mi hanno dato un centesimo di liquidazione e non mi hanno pagato l’ultimo stipendio.31 Questa storia ci fa capire molto bene il problema della rivendicazione dei propri diritti per un migrante anche se assunto in regola. Per un migrante senza permesso di soggiorno è ancora più dura, non esisti e dunque per il datore di lavoro, come per la legge, diventi trasparente. Faccio dei lavori dove posso. E più di una volta mi hanno licenziata, così, su due piedi, senza neppure un comprensibile motivo. Non mi volevano più e, come mi avevano presa mi cacciavano. Ho capito presto che nella mia condizione dovevo rassegnarmi al fatto che le leggi erano fatte solo e soltanto da chi mi dava il lavoro.32 La situazione è ancora più critica per quanto riguarda gli infortuni sul lavoro. Sono caduta mentre lavoravo e mi sono lussata un pollice. Al pronto soccorso, poiché si era spostato l’osso mi hanno fasciato la mano e per un mese non ho potuta usarla. Ma in quel mese ho continuato a lavorare come se niente mi fosse successo. Per il mio datore di lavoro, che avessi la mano fasciata o non l’avessi era del tutto indifferente. A lui interessava solo che io lavorassi, di buona lena. Il medico aveva scritto su un foglio che certe attività, ai fini della guarigione, non avrei potuto svolgerle. Ma questo per il mio datore di lavoro non ha significato nulla. Mi 31 32 In R. Curcio, I dannati del lavoro, cit., p. 70. Intervista dell’autore. 75 ha detto: “Guarda che qui da noi la malattia non esiste. Se vuoi restare, lavori. Se non puoi lavorare, vattene via”.33 Storie di donne e uomini che migrano dal loro paese nella speranza di migliorare la loro vita e di trovare nel paese di arrivo un lavoro dignitoso. Invece nella maggior parte dei casi si scontrano con la dura realtà dello sfruttamento e della discriminazione. Dinamiche di potere fra migranti Vorrei ora indagare nelle dinamiche di potere, più propriamente di dominio che si sviluppano tra migranti. La differenziazione tra potere e dominio è fondamentale, in quanto in questo caso il potere viene da me letto come sfruttamento dell’uomo sull’uomo, non di reti di potere “positivo” tra migranti. Il potere come ci ricorda Michel Foucault non occupa un luogo unico privilegiato, né dipende da un unico soggetto identificabile una volta per tutte. Il potere coincide con la molteplicità dei rapporti di forza, che variamente si intrecciano e si contrappongono. È una relazione fra individui e la società è attraversata da rapporti di potere: ogni rapporto sociale è un rapporto di potere. In questo paragrafo voglio analizzare i rapporti di potere coercitivo che si sviluppano tra migranti. Uno sfruttamento attuato da migranti che sono riusciti a migliorare la loro posizione socio economica nel paese di arrivo e applicano coercizione, sfruttamento e dominio su altri migranti per scopi economici lavorativi. La tecnica di speculare sul lavoro di chi non gode di alcuna protezione ha molte varianti, anche interne. Una di queste è la vendita dei posti di lavoro o dei documenti contraffatti necessari per poter in qualche modo lavorare. 33 76 In R. Curcio, I dannati del lavoro, cit., p. 71. Una lavoratrice come me straniera, quando ero in difficoltà mi ha detto: “Guarda Rhian, io sto lasciando il mio posto di lavoro, se mi dai due o trecento euro ti posso proporre come persona affidabile per prendere il mio posto”.34 Il reclutamento e il controllo dei lavoratori stranieri, attraverso un dispositivo fiduciario, passa molto spesso attraverso un filtro etnizzante. Questo filtro sfrutta il collegamento di reti etniche stabilito dai lavoratori stranieri. Scopo di questo filtro è quello di favorire il reclutamento di lavoratori stranieri disponibili a una flessibilità estrema, al lavoro in nero e al di là delle leggi. Esso introduce un doppio livello di sfruttamento dei lavoratori stranieri: il primo esercitato dal fiduciario che li chiama al lavoro; il secondo operato dall’azienda che si servirà del loro lavoro. Moltissime badanti che vengono dai paesi dell’est sono reclutate direttamente da “uffici di collocamento” istituiti informalmente da loro connazionali. In cambio del lavoro ottenuto esse dovranno poi ripagare il favore. In tal modo resteranno a lungo debitrici e perciò “dipendenti” dal gruppo che ha procurato loro lavoro, subendo così un vero e proprio ricatto.35 Inva viene dall’Albania e oggi fa la badante per una famiglia mediamente agiata benché non propriamente ricca. La nonna in questa famiglia non è autosufficiente, è affetta dal morbo di alzheimer e deve essere seguita ventiquattro ore su ventiquattro. Il lavoro è continuo, stressante. “Per avere questo lavoro ho dovuto pagare 500 euro in contanti alla lavoratrice, come me straniera, che me lo ha ceduto”. Ma non è questo il peggio. Inva infatti degli 800 euro che guadagna ogni mese, 200 li deve dare a un suo connazionale che le ha trovato il lavoro. Un giorno che non ce l’ha fatta, è stata maltrattata, picchiata e minacciata. “Guarda che se non paghi ti faccio tornare al tuo paesello” le 34 35 In R. Curcio, I dannati del lavoro, cit., p. 75. Ibidem. 77 ha detto il profittatore, ricordandole che non aveva il permesso di soggiorno. È appunto il controllo etnico religioso a consentire la sottomissione a pessime condizioni di vita e di lavoro: il caporale diventa etnico. A lui viene subappaltato il “lavoro sporco”, che svolgerà con la connivenza di qualche imam, marabut, missionario cattolico o di confessione diversa venuti dai paesi di origine.36 Praticamente i primi gruppi di lavoratori migranti che si sono insediati nelle aziende, se lavorando sodo, sono riusciti a guadagnarsi la fiducia dei loro datori di lavoro, funzionano da agenzie di collocamento per quelli successivi. Nel 2000 il ristorante nel quale lavoravo è stato preso da un licenziatario e molti lavoratori, quando ciò è successo hanno deciso di stare con la casa madre. I rimasti, tra cui c’ero anche io, non erano in numero sufficiente per fare andare avanti le cose. Il licenziatario aveva anche un altro ristorante in cui lavorava un ragazzo egiziano, Mahmoud. È a questo ragazzo, che svolgeva senza mai lamentarsi un gran carico di lavoro, che il licenziatario si è quindi rivolto per reclutare la mano d’opera mancante. “Hai dei parenti, gente come te da far venire a lavorare nel mio nuovo ristorante?” Mahmoud li aveva e ne portò ben cinque, tutti inquadrati rigorosamente in nero. E anch’essi si diedero da fare come lui a tutto campo. Lavare i bagni, fare le pulizie, lavorare in cucina, servire a tavola, qualsiasi tipo di mansione. Il licenziatario pagava soltanto Mahmoud. Questi a sua volta distribuiva le paghe agli altri che aveva fatto arrivare. Ma per il semplice fatto di averli fatti venire a lavorare, si teneva una certa percentuale. Insomma partecipava con profitto al loro 36 78 S. Palidda, Mobilità umane, cit., p. 28. sfruttamento. Quando c’è stata la sanatoria i cinque sono andati dal licenziatario per chiedergli di essere regolarizzati. Era un’occasione per poter emergere, per fare un passo avanti. La risposta è stata secca, concisa e brutale: “No”. Ma i cinque non si sono persi d’animo e sono tornarti alla carica: “Se non ci vuoi mettere in regola stabilmente, fallo almeno per un mese. Poi ce ne andremo ma intanto avremo in mano almeno un pezzo di carta”. Questa volta il licenziatario accettò la proposta e li assunse in regola, al massimo delle ore e a livello salariale più basso in assoluto, ma a una condizione: avrebbero pagato loro tutte le spese per essere messi in regola, le spese della sanatoria, compreso l’eventuale surplus per il loro salario. E, in più, finite le otto ore di lavoro in uno dei ristoranti, sarebbero andati per altre otto ore nell’altro, ovviamente in nero.37 Possiamo notare come tra certe aziende e i “capi” di certe comunità di stranieri si instaurano talvolta rapporti particolari; rapporti di complicità che funzionano più o meno così: l’azienda chiede al capo della comunità un certo numero di lavoratori di un certo tipo, a certe condizioni salariali e di diritti. Naturalmente lavoratori obbedienti, disciplinati, che lavorano con la testa bassa e non piantano grane. Lavoratori che rispondono a lui di modo che lui e lui solo risponda all’azienda. Sarà lui a essere pagato per tutti e lui ancora a dare a ciascuno, la sua paga. In questo patto, evidentemente al di fuori del diritto e dei diritti, le persone spariscono e resta soltanto il rapporto scabroso tra interessi di gruppi di potere diversi.38 Succede cioè che chi procura lavoratori sulla base della fiducia che si è guadagnato, impone agli stessi un codice di comportamento. Se vogliono restare dovranno attenersi a precise norme di disciplina: passività rispetto alle richieste delle aziende, 37 38 S. Palidda, Mobilità umane, cit., p. 30. R. Curcio, I dannati del lavoro, cit. 79 nessuna lamentela sui carichi di lavoro, nessuna apertura ai diritti dei lavoratori. In questo sfruttamento tra migranti, tutti i lavoratori stranieri che si aggiungono dovranno sottostare al capofila che diventa così, in qualche modo, il loro capo e guardiano. Una situazione a dir poco tragica è quella delle prostitute straniere. Alla violenza intrinseca nel rapporto con i clienti si aggiunge quella subita normalmente da “fidanzati” e sfruttatori, solitamente uomini dello stesso paese di origine della donna obbligata a prostituirsi. La stampa riporta quotidianamente punizioni inflitte, per ragioni futili, a giovani donne, spesso prive di permesso di soggiorno e quindi doppiamente ricattabili. Rita venne violentata quand’era ragazzina, in Albania. Si sentiva umiliata per la violenza che aveva subito, provava rabbia e vergogna. Scappare dalla sua terra le sembrò la via migliore per “dare un taglio”, cambiare le cose. Chiese aiuto a un’amica di cui si fidava, che si rivolse al padre, il quale non era la buona persona che sembrava. Accolse Rita, ma con cattive intenzioni. Un giorno infatti, la narcotizzò, la trascinò in una macchina e, per le vie che lui conosceva, la trasportò in Italia. Dove senza perdere tempo, un gruppo di “esperti” la “educò” alla prostituzione. Rita venne stuprata da molti, uno dopo l’altro, per tanti giorni. Tentò di scappare più volte, più volte venne ripresa e riempita di botte. Una volta riuscì anche ad allontanarsi dal luogo in cui veniva tenuta segregata, ma venne ritrovata e ripresa. E per settimane subì altre violenze. Alla fine si adattò: non vedeva una via di fuga, aveva paura. Paura non solo per sé, ma anche per i suoi familiari, perché i suoi carcerieri le ripetevano come un ritornello: “Se non vai sulla strada uccidiamo le tue due sorelle che stanno ancora in Albania”. Tra le altre paure, Rita aveva anche quella di essere fermata dalla polizia. Poiché era senza permesso di soggiorno, se le 80 avessero chiesto i documenti, avrebbe corso il rischio di essere espulsa in Albania. Come era successo ad Anbeta, una ragazza che aveva conosciuto subito dopo il suo arrivo in Italia. La quale, fermata dalla polizia e successivamente espulsa, appena scesa dalla nave si era trovata di fronte gli amici di coloro che in Italia sfruttavano la sua prostituzione. Anche Anbeta era emigrata per la vergogna di essere stata violentata. Si era fidata di un’amica che le aveva presentato un tale dicendole: “Ti può aiutare a entrare in Italia e trovare un lavoro”. Quest’uomo le aveva chiesto del denaro, ma visto che lei non ne aveva a sufficienza aveva accomodato le cose dicendole: “Non ti preoccupare anticiperò io quanto manca e tu mi restituirai i soldi a poco a poco”. Così senza rendersene conto, era passata dalla violenza sessuale in Albania, allo stupro di gruppo in Italia e poi alla prostituzione per restituire il denaro. Anbeta veniva considerata ormai una prostituta “educata” e le era chiaro, dopo le esperienze vissute, che le prostitute “educate”, non vengono lasciate andare facilmente. Fruttano un capitale e si capisce perciò che intorno a loro non manchino i “protettori”. Piccole “famiglie”, solitamente, ma molto determinate.39 Questa situazione di sfruttamento della prostituzione non avviene soltanto per le donne dell’est ma anche per le donne africane e non sono solo gli uomini a macchiarsi di questo crimine contro l’umanità, contro le donne. Ifeoma per vivere si prostituisce ed è sotto il controllo di Chimamanda, un’anziana donna nigeriana, che di mestiere fa la protettrice. Questa donna controlla anche molte altre giovani prostitute, alcune poco più che sedicenni, portate in Italia da 39 In R. Curcio, I dannati del lavoro, cit., pp. 95-96. 81 loro compaesani che avevano finto di essersi innamorati di loro. Le controlla, è capace di far loro paura. Con la minaccia, per esempio, di ricorrere a riti Voudou40 contro la loro famiglia.41 Quindi anche tra migranti si sviluppano legami di sfruttamento interno, ma è importante non dimenticare la complicità, la responsabilità di molti cittadini italiani che stanno sopra a questi reclutatori di lavoratori senza diritti o semplicemente la complicità, la colpa, il delitto dei clienti nel caso della prostituzione: I cittadini di *** che utilizzano questi immigrati, che li sfruttano, sono la stessa tipologia di quelli che vanno con i travestiti, gli stessi che li contestano, quelli che affittano i dormitori ai negri, 40 Il vudù (dal termine africano vodu, che letteralmente significa spirito, divinità, o ancor più letteralmente segno del profondo), è una religione afroamericana dai caratteri sincretici e fortemente esoterici. La si ritiene generalmente come una delle religioni più antiche al mondo, sempre se si vuole considerare la forma moderna – nata tra il Seicento e il Settecento pressoché contemporaneamente in America latina e in Africa occidentale, come una continuazione diretta della forma originale. La religione vuduista attuale combina infatti elementi ancestrali estrapolati dall’animismo tradizionale africano che veniva praticato nel Benin prima del colonialismo, con concetti tratti dal cattolicesimo. Oggi il vudù è praticato da circa sessanta milioni di persone in tutto il mondo, e ha recentemente acquisito il privilegio di essere riconosciuto come religione ufficiale in Benin dove è ben organizzato in una chiesa alla quale aderisce l’80% della popolazione e ad Haiti dove è praticato da gran parte della popolazione, contemporaneamente alla religione cattolica. Il vudù ha attraversato tre secoli di persecuzioni e mistificazioni, in particolare da parte della chiesa cattolica; è stato fortemente screditato e sono state diffuse – probabilmente anche consciamente – molte illazioni e disinformazioni che ne hanno portato una visione generale decisamente distorta. Al contrario di come comunemente si ritiene, il vudù è una religione a tutti gli effetti, non un fenomeno legato alla magia nera, ed è dotato di un profondo corpus di dottrine morali e sociali, oltre che di una complessa teologia. Per approfondimenti si veda: L. Faldini Pizzorno, Il vudù, Xenia, Milano 1999; R. Nassetti, Magia Vaudou, Edizioni Mediterranee, Roma 1988; M. Deren, I cavalieri divini del vudu, il Saggiatore, Milano 1959. 41 In R. Curcio, I dannati del lavoro, cit., pp. 96-97. 82 sono gli stessi che vengono poi a fare l’esposto dove dicono che ci sono i negri accampati; sono gli stessi che prima affittano una stanza marcia a uno, poi quando ne trovano dentro dieci, vengono a denunciarli, dicendo che era un’occupazione abusiva, quando poi il marocchino ti dice che paga e paga pure tanto. E non ha motivo di dire il falso, tanto viene denunciato lo stesso, quindi chi glielo farebbe fare di dire che dà 400.000 lire di affitto per una cantina. Sono gli stessi che beccavo al volante con i travestiti, imprenditori brianzoli cinquantenni, con moglie e figli e bella macchina; erano poi la stessa categoria che diceva che bisognava cacciare via i negri, travestiti, froci e tutto quanto. Con i travestiti non ho mai incontrato un operaio cassintegrato, un anarchico, no, mai capitato. Mi è sempre capitato il signore cinquantenne, ben vestito, con bella macchina, che sicuramente votava lega, ma comunque quello era il gruppo di appartenenza.42 42 Funzionario di polizia di una città dell’Italia del nord. Quasi tutti gli operatori di polizia, le guardie o funzionari carcerari e i magistrati di cui ho trascritto interviste, per non parlare di avvocati, educatori carcerari, operatori sociali o volontari concordano con queste osservazioni, indipendentemente dalla loro posizione di fondo nei confronti degli stranieri, in A. Dal Lago, Non persone, cit., p. 91. 83 Rinegoziazioni culturali Che compito gigantesco l’inventario del reale! Frantz Fanon Il mondo è un coacervo di culture, è un mondo vissuto, tessuto da uomini e donne dalle etnie più variegate, nulla ha contorni nitidi, definiti e fissati una volta per tutte, ciò non può che influire sulle relazioni umane, divenute ormai precarie. Turisti, immigrati, profughi, esiliati politici e non, lavoratori stagionali e altri gruppi e categorie di persone in movimento che affrontano la realtà con la fantasia del doversi muovere, di interpretare una parte, un ruolo sul palcoscenico del mondo, della vita.1 Così il concetto di cultura come lo abbiamo sempre inteso viene meno perché queste chiavi interpretative di lettura ermeneutica dei territori, dei paesaggi etnici umani risultano un imbroglio, un impiccio, un intrigo in cui siamo impigliati, imbrigliati, circoscritti in un ruolo. Il vecchio concetto di cultura stabile e chiusa è stato funzionale per molti decenni a un certo tipo di discorso relativo alla 1 U. Fabietti, L’identità etnica, Carocci, Roma 1998. 85 nozione di alterità culturale, ma che attualmente, in realtà, non è più praticabile negli stessi termini, assunti e alle istanze di matrici interpretative. Oggi si parla di culture in maniera molto diversa rispetto a qualche decennio fa. La cultura tradizionalmente intesa dall’antropologia è la definizione di un “insieme completo che comprende tutto ciò che è acquisito dall’uomo in quanto membro della società”.2 Questo tipo di nozione implicava il grosso rischio di produrre l’idea di cultura come “scatolone”, come entità chiusa, definita dai suoi rituali, usi e costumi, norme e leggi. In realtà questo concetto è stato profondamente trasformato nel tempo e attualmente, per esempio, si considerano le culture come strutture di significato, archetipi ermeneutici, interpretativi che viaggiano su reti di comunicazione non localizzate in singoli territori, ma in movimento, in interazione tra diversità plurime, in complessità poliedriche, pluriversi di senso interpretativo. Quindi sussiste differenza tra una concezione della cultura identificabile territorialmente e invece quella che ne fa reti e strutture di significato in viaggio, in movimento, in trasformazione, in transizione e interazione. Attualmente risulta decaduta, desueta, obsoleta l’equazione tecnica e analitica in chiave antropologica definibile nell’equazione cultura-territorio-identità. In sostanza si è giunti alla fine di un’idea, appunto, di cultura come identità organizzata in modo coerente e sottoposta a regole di trasformazione.3 In questo capitolo cercherò di analizzare proprio la possibilità della trasformazione, la “produzione” di nuove culture. Bagagli culturali diversi, che si incontrano nella quotidianità dei migranti, nei luoghi di lavoro, nei parchi delle grandi metropoli, nei call Definizione di Taylor della cultura, 1871. Parte di una relazione del prof. Ugo Fabietti, docente di Antropologia culturale – Università degli studi Milano Bicocca – presso la Casa della cultura, febbraio 2001. 2 3 86 center o nei mercati, ovvero indagherò quel processo che porta alla creazione di culture sempre più ibride. Le configurazioni delle culture e delle relazioni culturali nel mondo contemporaneo congiuntamente ai cambiamenti nello statuto scientifico del sapere hanno aperto nuovi spazi e nuove strategie di ricerca che impongono di modificare una serie di topoi fondativi del discorso antropologico: cultura, comunità, identità, etnia, razza, tribù, nazione. Le dicotomie del discorso modernista (modernità, tradizione, centro-periferia, globalitàlocalismo ecc.) sono state frantumate in una molteplicità di articolazioni complesse, appunto in ibridazioni, “traffici di culture”. Da differenti punti di vista gli scienziati sociali articolano immagini di ecumeni globali, di panorami etnici, mettendo in discussione il rapporto esoticizzante fra distanza e differenza e sottolineando una non più immediata coincidenza di luogo, cultura e identità. Anziché attributi naturali di conchiuse comunità organicamente unificate, indipendenti e discrete, le identità e le culture emergono come prodotti artificiali, dinamici e aperti, di rappresentazioni contingenti, precarie e parziali, attivamente articolate da differenti individui e gruppi a vario livello ed è proprio su questo voglio spingere la mia attenzione. Nella società attuale risulta quasi impossibile non pensare alle convivenze e al contatto, al confronto di diverse culture. La contemporaneità come ibridazione tra culture appare come un evento e risuona come un paradigma effettivamente trasparente, ma essendo un fenomeno complesso esige profonde precisazioni. Il termine contemporaneità non consiste nell’indicare solo l’oggi, l’orizzonte del mondo attuale. Sappiamo quanto veloci siano i tempi e i mondi attuali,4 quanto il presente sia sempre in tempo reale come la televisione, uno spazio in cui confluiscono immagini in una sorprendente rapidità spesso disorientante. 4 Per approfondire la tematica, M. Augé, Che fine ha fatto il futuro, dai nonluoghi al nontempo, elèuthera, Milano 2009. 87 Internet diventa uno spazio virtuale in cui il mondo intero vi confluisce in una dimensione istantanea. La contemporaneità è anche una simultaneità di eventi, di vissuti, di immagini che in qualche modo restituiscono l’idea di un mondo in cui tutto ha un’incidenza potenziale sul resto: è la dimensione della simultaneità. È proprio questa contemporaneità del mondo attuale a far concepire la nostra civiltà come sottoposta a un processo di ibridazione culturale. L’ibridazione, sostanzialmente è un’emozione pervenuta dalle scienze naturali, ma che possiede una connotazione fortemente ambigua se utilizzata nell’ambito delle scienze umane, perché pare che se si intenda ibridazione a proposito di culture, diamo per scontato che esistano culture pure, non ibride. In realtà tutte le culture risultano ibride, non pure. Il termine ibridazione serve a denotare nel quadro delle scienze umane, specialmente dell’antropologia, soprattutto una qualità intrinseca alle culture altre, una dinamica di incontro che le caratterizza e si configura come scambio, trasmissione che non avviene mai in un ambito caratterizzato da rapporti neutri, ma da interazioni di forza. Quindi ibridazione intesa come riformulazione continua delle identità culturali che sono tipiche del mondo contemporaneo, sia attuale sia di un mondo virtuale, dove eventi e immagini abbiano la possibilità e capacità di risultare simultaneamente in ambiti globali. Quindi l’espressione “ibridazione di culture” si riferisce alla natura intenta e rapida del portato culturale e questa idea non rinvia a quella per cui fino a un certo momento le culture sono sempre risultate pure e hanno cominciato a ibridarsi nel mondo contemporaneo, facendo pensare che le culture possono essere pure, autentiche, autoctone, sui generis.5 Parlare di culture ibride quindi non dovrebbe coincidere con un’idea di contaminazione che produce un soggetto ibrido e che C. Nestor G., Culture ibride. Strategie per entrare e uscire dalla modernità, Guerrini e Associati, Milano 2000. 5 88 è stato nella sua essenza. Ma piuttosto il concetto, la nozione di ibridità o ibridazione dovrebbero far intendere come tutte le emergenze, le presenze culturali, siano frutto, risultato di un processo di tipo negoziale tra le culture, le istanze etniche che interagiscono, entrando in dialogo, prodotto di una dinamica processuale di negoziazione di significati culturali. Ibridazione è anche una nozione per cogliere tutte quelle strategie di riformulazione identitaria che si presentano attualmente nel mondo contemporaneo. Nelle vite dei migranti queste strategie non costituiscono una novità, ma sono semplicemente solo più frequenti nel mondo postmoderno. Si tratta di forme di appropriazione di codici appresi, di appartenenze a culture diverse per potersi disporre in maniera attiva di fronte all’alterità. È importante ribadire che tutte le culture sono ibride, tutte le culture sono meticce. Rinegoziazioni migranti Con la differenza e nella diversità l’esistenza si esalta. Victor Segalen Chiunque si sposti da un paese a un altro in qualche modo si sente spaesato. Se chi si sposta è un lavoratore migrante che deve fare i conti con difficoltà di ogni genere, burocratiche, economiche, linguistiche, culturali, lo spaesamento sarà moltiplicato. Culture che si mescolano attraverso il contatto con il diverso che può essere un migrante di un’altra area geografica o un cittadino della nazione di arrivo e attraverso l’incontro sperimentano nuove tipologie culturali, perché come ho scritto le culture sono sempre in transito.6 I lavori svolti dai migranti come abbiamo visto nei capitoli 6 S. Allovio, Culture in transito. Trasformazioni, performance e migrazioni nell’Africa sub-shariana, Franco Angeli, Milano 2002. 89 precedenti sono di tutte le tipologie, non sempre e non solo sono lavori umili, riporto qui di seguito un’intervista di una lavoratrice di uno sportello di assistenza per migranti che arriva dall’Oceania e che rivendica il suo essere meticcia come una grande qualità: Vengo da un continente lontano, l’Oceania, e per lavoro incontro ogni giorno, a uno sportello per gli immigrati, tantissime persone che arrivano anch’esse da paesi lontani. Questi incontri con gente spaesata sono sempre carichi di molta sofferenza e alla fine della giornata sento l’urgenza di uscire fuori da questa immersione, ritornare a me stessa. L’incontro, per esempio, con un uomo della Mauritania, o una donna che è appena arrivata dal Congo è sempre struggente, almeno per me. Mi identifico, solidarizzo, mi indigno. Sì, anche io ho sofferto molto, quando sono arrivata e anche dopo. Ma loro hanno sofferto il triplo e forse anche di più. Quando rientro a casa mi sento spesso confusa. Per potermi ritrovare, al sabato o alla domenica, faccio un giro in montagna. Vado a cercare fuori dalla città la mia parte più intima, quella in cui ho riposto, per preservarla, la mia umanità, la mia sensibilità. Allo sportello migranti si presentano persone con storie terribili, durissime. Persone come me straniere, che spesso ripercorrono le tappe di un difficile cammino che anche io a suo tempo ho con fatica affrontato. Alla sera, quando torno a casa, questi problemi vengono con me e me li porto a casa. Non posso e non voglio lasciarli in ufficio quando finisce il mio turno. Staccare, uscire dal ruolo, non mi è possibile. Vorrei poter dire: oh, finalmente chiudo lo sportello e vado a casa; mi rifugio nel luogo della mia intimità, della mia sicurezza e per qualche ora ritrovo me stessa. Vorrei poterlo dire e soprattutto fare. Ma il mio cuore non si stacca dalla sofferenza che incontra negli altri e che riconosce come sua. E mi dice: “prendi sotto braccio questa persona e vai con lui a mangiare un buon piatto di 90 thiebou dien7 o di thiebou yapp,8 ascoltalo davvero, fatti carico del suo problema come fosse della tua famiglia, cerca insieme a lui una buona soluzione”. Dissociare il ruolo e i sentimenti per altri forse è un’abitudine consolidata ma per me non è proprio possibile. Se dovessi limitarmi al ruolo, senza offesa, mi comporterei da occidentale. Me ne fregherei. Ma io sono meticcia, non sono bianca, soffro a innalzare muri e non vorrei mai arrivare un giorno a scoprire che anche io sono diventata capace; che mi sono a tal punto insensibilizzata da diventare una perfetta lavoratrice inumana.9 Un migrante si trova per definizione in una situazione di difficile equilibrio, nel senso che non è ancora uscito dal suo spazio sociale e culturale ma non è ancora entrato se non marginalmente, in quello nuovo in cui secondo “noi” vorrebbe inserirsi. Questo si riflette nell’estrema varietà di forme e reti sociali e culturali a cui i migranti danno vita o si adattano nei paesi di destinazione. Adattamenti individuali e utilitaristici coesistono con reti informali, più o meno derivate da solidarietà familiari o di altro tipo dei paesi di origine. Assistiamo ad adattamenti diversi sul piano delle scelte o delle necessità professionali, sociali e economiche che non escludono allo stesso tempo legami di tipo culturale-religioso con i paesi di origine. Non esiste nessuna identità collettiva, culturale, etnica o religiosa del migrante in quanto tale, ma esistono tante identità plurali quante sono le appartenenze di soggetti che si trasformano nel corso della loro esperienza,10 e in questo vissuto si concretizza il divenire meticcio, delle culture che cambiano attraverso 7 Thiebou dien, una brisure di riso orientale cotto in assorbimento con pesce stufato alle spezie, piatto nazionale del Senegal. 8 Thiebou yapp, carne di agnello, con verdure, piatto nazionale del Senegal. 9 In R. Curcio, I dannati del lavoro, cit., p. 109. 10 A. Dal Lago, Non persone, cit. 91 le storie di vita dei singoli individui, non ci sono delle regole prestabilite, a ognuno il suo modo di reinventare, mescolare la propria cultura di origine con la cultura, più precisamente con le culture che si incontrano nel paese di arrivo. Anche gli italiani quando migravano in cerca di una nuova vita, di un posto di lavoro ibridavano la loro cultura. La portata del processo di adattamento alla società di immigrazione che, ben oltre le apparenze, conduce a una sorta di ricodificazione delle regole e dei comportamenti. Per esempio, l’attaccamento al santo patrono da parte del reticolo di emigratiimmigrati originari dello stesso paesino o città acquista un altro significato rispetto a quello che riveste nel luogo di origine: è connesso alla condizione di emigrati-immigrati. Le risorse simboliche, morali, affettive presenti all’origine sono proiettate nel divenire immigrati o anche cittadini del paese di arrivo.11 I cambiamenti, le rinegoziazioni sono le più svariate nella vita di un uomo o di una donna che hanno scelto di emigrare in un nuovo paese, uno dei primi ambiti di cambiamento, di meticciamento è quello culinario. Come tutte le identità anche quella legata alla cucina è una costruzione culturale, e comunque questo non impedisce che nella vita quotidiana tale identità venga percepita come reale, non di rado intenzionalmente costruita.12 Un migrante in cucina si trova di fatto davanti al problema della mancanza di determinati ingredienti e quindi reinventa i piatti modificando le sue tradizionali abitudini culinarie. Alcuni meticciano per convinzione, si inventano ricette, qualcuno invece lo fa quasi senza accorgersene, la pratica di adattarsi agli ingredienti disponibili e di sperimentarne qualcuno nuovo è 11 12 92 S. Palidda, Mobilità umane, cit., p. 42. M. Aime, Eccessi di culture, cit. una consuetudine che si ritrova in tutte le cucine casalinghe del mondo.13 Questo cambiamento, culturale del migrante, causa diversi sentimenti nell’individuo che ne è protagonista, sia positivi sia negativi ma soprattutto di spaesamento, come racconta un ragazzo senegalese a Milano dopo un viaggio di ritorno nel suo paese. Un giorno ero appunto in canottiera e pantaloni corti quando è arrivato mio fratello maggiore, oggi capo famiglia. C’era anche suo figlio che gli ha fatto una domanda: “Papà perché lo zio mette i pantaloni corti?”. Il padre gli ha risposto: “Perché lo chiedi a me chiedilo a lui, non ti pare”. “No” ha risposto il figlio, “a lui non lo chiedo perché lo zio è un bianco, è un tubab. Lui può fare quello che vuole ma tu no.” Poi si è avvicinato a me e ha commentato: “Lo zio puzza di questi vestiti dei bianchi (è l’odore del detersivo) puzza di fugujai (del mercato in cui si vendono i vestiti della Caritas)”. Questa storia mi ha fato percepire il punto di crisi della mia identità. Dico “crisi” perché ho avvertito per la prima volta che i miei non mi vedevano più “africano”, anche se io continuavo a percepirmi come tale e come tale ero percepito in Italia e in Europa. Il punto è che se cerco di portare nel mio paese di origine ciò che c’è di buono nella cultura europea mi trovo spaesato. E viceversa. Ciascuno dei due mondi mi cambia un po’ e nessuno dei due mi corrisponde completamente, vivo nella contraddizione e non so proprio come gestirla. “Cosa mi resta da fare?”14 Dalla cucina, al modo di vestire, dalla velocità quotidiana ai simboli religiosi, la vita dei migranti mette in gioco le identità, ibrida le culture. 13 A. Perin, Ricette scorrette, racconti e piatti di cucina meticcia, elèuthera, Milano 2009. 14 In R. Curcio, I dannati del lavoro, cit., pp. 124-125. 93 Un caso specifico Le badanti, precarie per eccellenza Mio amato marito, emigrate diveniamo immortali. Mai nate, non siamo state cresciute, non invecchiamo, non ci stanchiamo, non moriamo. Un’unica funzione: lavorare. Immortali poiché continuamente interscambiabili. Esisterà la fine del lavoro, ma non c’è limite alle forme del servire. Guido Tassinari1 Non hanno un contratto regolare, nessuna assistenza sanitaria e in molti casi nemmeno un permesso di soggiorno: secondo uno studio dell’Istituto di studi di genere del Mediterraneo (Migs) la maggior parte delle badanti in Italia, Spagna, Grecia, Germania e Cipro sono lavoratrici invisibili per lo stato, costrette a volte a lavorare e vivere in condizioni ai limiti della decenza. Precarie per eccellenza perché sin dal momento della loro “assunzione” sono consapevoli che il loro lavoro ha un tempo determinato perché legato dalla durata della vita dei loro assistiti. All’inizio sono stata sfortunata perché appena trovavo un anziano da accudire poco dopo decedeva e rimanevo senza lavoro. Poi ho trovato un posto come colf in una famiglia dove ho avuto un contratto con cui ho potuto regolarizzare la mia posizione. Molti datori di lavoro italiani, però, speculano sulla 1 In G. Tassinari, rete indi.genti, Quelle voci dal vuoto, Iacobelli, Roma 2009, p. 150. 95 nostra pelle. Conosco molte georgiane che hanno pagato di tasca propria il contributo di 500 euro a carico del datore di lavoro fissato dalla sanatoria.2 In Italia, stando ai dati dell’Inps, nel 2010 le collaboratrici domestiche regolari erano 845.000, e solo una piccola parte di esse erano immigrate. Questo perché le lavoratrici straniere sfuggono alle statistiche dell’Inps, in quanto la maggior parte lavora senza contratto, in nero: secondo l’Istituto italiano di ricerche sociali sono circa 600.000 le badanti immigrate, di cui solo il 40% ha un contratto regolare mentre il 38% non ha nemmeno il permesso di soggiorno. A questi dati, spiega lo studio del Migs, vanno aggiunte le cifre del lavoro in nero. È chiaro che in Italia si presta più attenzione alle necessità delle famiglie che ai bisogni di collaboratrici domestiche e badanti, che restano lavoratori invisibili per lo stato, nonostante la richiesta delle loro prestazioni sia in salita per l’invecchiamento della popolazione e per il sistema insoddisfacente. Gli analisti del Migs riportano inoltre diversi casi di badanti che dormono nella cucina del loro assistito, sono in servizio ventiquattro ore al giorno e non ricevono una paga regolare. Giorno e notte accanto al letto dove giace un anziano. Le badanti le incontriamo nei parchi delle nostre città che spingono una sedia a rotelle o nei supermercati mentre comprano i pannoloni per i loro assistiti. Sono donne e in rari casi uomini, soprattutto dell’est Europa, che lasciano la famiglia e dei figli per venire in Italia a svolgere un lavoro sempre più richiesto. Arrivano in Italia in modo regolare con un visto turistico, ma quando scade diventano irregolari e quindi costrette a sottostare ai loro nuovi padroni italiani che decideranno prezzo e modalità del loro lavoro, diventano vittime delle famiglie italiane per le quali lavorano. 2 In C. Morini, La serva serve. Le nuove forzate del lavoro domestico, Derive e approdi, Roma 2001, p. 75. 96 Per circa tre anni ho lavorato a nero, per circa 800 euro al mese, senza contratto né contributi e con orario continuato. La cosa peggiore, però, è quando sei costretta a rinunciare alla tua dignità. Mi è accaduto quando accudivo una anziana all’ospedale. Per non spendere il mio misero stipendio mi sono ridotta a mangiare per un mese gli avanzi dei pasti ospedalieri della nonna. Prima che l’infermiera tornasse per portare via il vassoio andavo in bagno e ripulivo i piatti.3 Le difficoltà non sono finite qui anzi potremmo dire che sono appena iniziate perché a questi nuovi padroni che dettano leggi lavorative “criminali” si aggiungono “caporali e caporalesse” che per trovare loro un lavoro si fanno pagare. Anche io ho dovuto pagare per avere un lavoro, – dopo quattro anni di soprusi ce l’ha fatta a svincolarsi dalla connazionale aguzzina – tutto il mio primo stipendio l’ho dovuto dare a “Dio”, è così che tra di noi chiamiamo la caporalessa che gestisce tutto il giro delle badanti. Lei è il punto di riferimento di tutte le georgiane che quando arrivano non conoscono la lingua e non sanno dove andare. “Dio” ti porta in uno dei suoi appartamenti con altre georgiane in attesa di un lavoro [...]. Ciascuna di noi paga una retta giornaliera di 7-8 euro, mentre per mangiare si fa la colletta. Chiuse in casa si aspetta da uno a tre mesi, col visto d’ingresso ormai scaduto. Per il mio visto turistico ho pagato 4.000 dollari. Funziona così perché per essere certi di ottenerlo bisogna affidarsi a fantomatiche agenzie georgiane che pensano a procurarti i documenti per il consolato.4 Le badanti, le colf, che dal lontano oriente, dall’est Europa, dalle isole di Capo Verde o da una Somalia ancora lacerata dai conflitti, lasciano il loro paese per inseguire un sogno e in 3 4 Ibidem. Ibidem. 97 realtà arrivano in Italia o in altri paesi dell’occidente per fare le serve. Sono donne che a differenza delle nostre connazionali che emigravano fino a pochi decenni fa, spesso hanno una diversa professionalità da proporre, ma è una professionalità che non viene loro riconosciuta, che non serve in questa nostra società. La “nostra” società gli chiede tutto in cambio di un misero lavoro, devono spogliarsi di capacità e di ambizioni, accettare le nostre regole, rinunciare alla loro vita privata, al loro tempo libero, alle loro amicizie e alle loro abitudini. La loro presenza è una presenza invisibile, che risolve molti problemi delle famiglie italiane che per svariati motivi non hanno più né il tempo né la voglia di curarsi delle proprie case, delle loro madri, padri e figli. Queste donne che migrano con grande coraggio molto spesso sono disposte a mescolarsi, ibridarsi con “noi”, purtroppo siamo “noi” che mettiamo grandi limiti che costruiamo grandi muri, a questo divenire meticcio e ribadiamo, imponiamo solo le nostre regole, le nostre abitudini, la “nostra cultura” e siamo sempre “noi” che decidiamo ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. Sono donne sole in questo percorso in questa loro lacerante esperienza, è un modo di vita che il più delle volte non hanno scelto, ma che non possono rifiutare a meno di non tornare nella guerra o nella miseria del loro paese a meno di non rinunciare al loro sogno, a una vita degna. E così restano a lungo in quelle case che le ospitano in modo totalizzante. Per loro queste case sono senza dubbio un riferimento importante quando ancora non possiedono strumenti per orientarsi nel nuovo contesto, ma ben presto questa loro “protezione” si traduce in isolamento forzato e si rivela un modo in cui la società si alleggerisce della responsabilità di fornire spazi, ambiti di formazione. La percezione di queste donne che lavorano quasi ventiquattro ore al giorno con le nostre madri o i nostri padri, segregate in vecchie e silenziose case, si distorce e con il passare degli anni si sentono come delle macchine da buttare, non come delle persone che hanno lavorato sodo, che giustamente si sentono 98 stanche, invecchiate anche loro, è come se gli venisse negato anche il diritto alla vecchiaia. Ai paesi che hanno vengono date donne. Le macchine vecchie si sostituiscono. Le persone che invecchiano vengono custodite. Le custodi che invecchiano non servono più. È così? E rappresentare dall’esterno noi nuove lavoratrici sarebbe come custodire macchine obsolescenti? Come guardare altrimenti questi rapporti nei quali siamo immerse, se è la nostra nuda vita che viene messa al lavoro?5 Potrebbe sembrare un’esagerazione e invece è la dura realtà che vivono queste donne giunte nel nostro paese per lavorare, in un articolo del 10 agosto 2009 pubblicato sulla “Gazzetta del mezzogiorno”, Mauro Ciardo ci racconta la storia di una badante rumena di 54 anni, l’anziana presso cui lavorava muore e viene letteralmente scaricata ai giardinetti: La badante diventa inutile e la famiglia decide di abbandonarla nei giardinetti pubblici. Un’incredibile vicenda ha visto come protagonista l’altra notte una donna rumena di 54 anni, originaria di Timisoara, letteralmente scaricata dalla famiglia di una anziana che accudiva. Arrivata in Italia da pochi mesi infatti la donna aveva prestato servizio in una abitazione della zona come assistente di una vecchietta, che è deceduta alcuni giorni fa. Finito il compito i familiari dell’anziana hanno pensato bene di caricare la badante in macchina insieme a tutti i bagagli e abbandonarla al suo destino su una panchina al parco cittadino. Questo articolo ci fa capire bene come molte volte vengono considerate le badanti dai loro datori di lavoro, delle macchine da usare e buttare quando non servono più, capiamo il tipo di 5 In G. Tassinari, rete indi.genti, Quelle voci dal vuoto, cit., p. 152. 99 relazione che prevalentemente si instaura tra cittadini locali e stranieri. Si parla molto di differenze culturali o cose simili, io credo che la vera differenza sia dovuta semplicemente al fatto che loro sono le nostre serve. Anche se non si usa più questo termine, il succo non cambia.6 Abbiamo sempre più bisogno di queste donne, di queste serve come scrive Olga Piscitelli in questo articolo sul “Corriere della Sera” del 30 luglio 2007: Da soli, sono già una città: un milanese su cento ha più di 80 anni, uno su cinque ha superato la soglia dei 65. E sono sempre più soli: i “single” che hanno già spento 75 candeline, secondo le statistiche sono 73 mila. Di questi, una gran parte non ha più nemmeno un parente, spesso, nemmeno amici. Quando la solitudine rischia di tramutarsi in abbandono cominciano i problemi. La Asl Città di Milano ha recentemente calcolato che, su una popolazione di 301 mila ultra-sessantacinquenni, gli anziani “fragili” e dunque a rischio sono 75 mila. Per questo Milano è anche la capitale delle badanti. Un esercito in gonnella, in arrivo dai paesi dell’est Europa, per lo più e poi da quelli del sud America. Un plotone che resta in ombra per più della metà delle forze, oscurato dal lavoro nero. Sono 126 mila le badanti in Lombardia, il 18,2% delle 693 mila assistenti familiari del paese. Almeno secondo le stime dell’Irs, l’Istituto per la ricerca sociale che, in collaborazione con Caritas Ambrosiana, Cgil, comuni di Brescia e di Sesto San Giovanni, ha fotografato uno spaccato di vita quotidiana. Un’istantanea in bianco e nero, che mette in luce le debolezze del sistema. Ogni cento anziani 6 In T. Torre, Non sono venuta per scoprire le scarpe. Voci di donne immigrate in Liguria, Sensibili alle foglie, Milano 2001, p. 27. 100 residenti, sette ricorrono all’aiuto esterno per le cure. E si affidano alle donne venute dall’est soprattutto d’estate, quando restano soli. Il loro stipendio, in media va da 800 a 1.200 euro al mese. Troppo, per gli anziani. Anche quando ci sono gli aiuti di comune e regione. Così il 20% delle badanti milanesi con permesso di soggiorno è senza contratto di lavoro. I due terzi di chi invece ha un contratto, lavora almeno il doppio delle ore dichiarate. Un “nero parziale”, secondo la definizione degli esperti, che sommato al “nero totale” porta le irregolari al 77% del totale. Cifre importanti se si considera che soltanto nella provincia di Milano le badanti sono 75 mila, il 60% dell’intera regione, con un’incidenza sulla popolazione over 65 di circa 10 assistenti ogni 100 anziani. E tra le badanti con regolarizzazione al minimo, il 76% dichiara che dipenderebbe “dal costo troppo elevato a carico del datore di lavoro”. Il punto è presto fatto, secondo i ricercatori dell’Irs: “Il lavoro di cura in Lombardia è prestato quasi esclusivamente da donne, in larga parte provenienti dall’Europa dell’est (56,2% nel nostro campione lombardo) e dal sud America (30%, sono quelle che hanno un progetto migratorio più lungo) e in misura minoritaria dall’Africa e dall’Asia. In lieve crescita la presenza di italiane (2,5%)”. “Prendersi cura di un anziano che invecchia è un onere che le famiglie italiane sono sempre meno disposte a gestire in proprio” spiegano i ricercatori Irs. L’esternalizzazione dell’onere della cura è uno dei cambiamenti dal basso più rilevanti che ha conosciuto il welfare italiano negli ultimi anni. 1.200 euro lo stipendio massimo di una colf. Il salario minimo è sugli 800 euro. Sono 75 mila le badanti che lavorano a Milano, più della metà del totale lombardo: 125 mila unità. Lavorano molto, ma non sempre risulta. Sette badanti su dieci assistono l’anziano 24 ore su 24. Quelle che lavorano per il maggior numero di ore al giorno “sono le europee dell’est, che più frequentemente convivono con il datore di lavoro”. Lo dice la ricerca dell’Istituto di ricerca sociale. La tendenza 101 “Diminuisce la disponibilità totale”. Un dato dalla doppia lettura: segno di una sempre maggiore autonomia abitativa delle assistenti familiari, ma anche causa della “ripresa di domande di ricovero in strutture residenziali per anziani” L’aspirazione “Metà delle assistenti vorrebbe fare altro”, ma questo lavoro “è più facile da trovare (21%)”, spesso, anzi, “è l’ unico effettivamente accessibile (24,8%)”, a donne con titoli di studio quasi mai riconosciuti. La segregazione diventa anche una sorta di “segregazione occupazionale”. Il 47% delle badanti che ha cercato un altro lavoro, non lo ha trovato. Le poche fortunate che ce l’hanno fatta “non hanno potuto accettare, perché avrebbero guadagnato meno, o perso l’alloggio”. Non hanno permessi orari o riposi pagati e una su tre non ha nemmeno i giorni di malattia retribuiti. Il nostro è diventato un paese per vecchi ma non sappiamo come occuparci di loro. Fra vent’anni un italiano su tre avrà più di sessantacinque anni ma le famiglie di questi anziani avranno sempre meno tempo e voglia di prendersi cura dei genitori non autosufficienti, di una nonna cardiopatica, di una zia affetta da demenza senile. Là dove il welfare centrale non prevede la gestione del pianeta anziani, là dove l’iniziativa di molti enti locali è minacciata dal crescente esaurimento dei fondi, ecco la donna ucraina o romena che lavora per meno di 1.000 euro al mese, pagata peraltro dal privato, risolve gli aspetti pratici e spesso anche affettivi che figli e nipoti non sono in grado e non vogliono affrontare. In Italia oggi lavorano come assistenti familiari circa 750 mila persone (quasi tutte donne) iscritte all’Inps. Ma ce ne sarebbero quasi 900 mila irregolari. In fin dei conti la badante rappresenta una grande fonte di risparmio per lo stato; pensiamo a quanto costerebbe il ricovero in una struttura convenzionata per lungodegenti. Forse la sanità pubblica spenderebbe in un giorno quello che il privato paga in un mese. Carlo Pieri, 102 presidente dell’Associazione per la difesa e l’orientamento dei consumatori (Adoc), ha calcolato che l’apporto delle badanti, regolari e non, costituisce per lo stato un risparmio di 45 miliardi di euro all’anno.7 Concludendo, chi sono e da dove vengono queste 2 milioni di donne del Terzo millennio? La frantumazione del blocco comunista ha favorito l’esodo di donne russe, ucraine, moldave, bulgare e rumene verso l’Italia. Secondo una ricerca commissionata all’Iref dalle Acli il 60,3% delle badanti viene dall’Europa dell’est, il 16% dall’Asia, il 14,5% dal centro e sud America, il 9,4% dall’Africa. Molte di queste donne hanno anche un curriculum scolastico di tutto rispetto che va dal diploma superiore a una o perfino due lauree. Il 38% è tra i trenta e i quarant’anni e il 27,7% è tra i quaranta e i cinquanta. Quasi sempre arrivano in Italia con il visto turistico, su indicazione di un’amica, e iniziano a lavorare presso una famiglia. Quando vengono ritenute brave ed eccezionali lavoratrici le famiglie iniziano a ritenerle indispensabili e dopo averle tenute un po’ in clandestinità, fanno domanda per regolarizzarle. Se tutto va bene, con il permesso di soggiorno arriva l’aumento di stipendio (sui 700-800 euro al mese) e l’iscrizione all’Inps, quasi sempre con un numero di ore dichiarate inferiori alla realtà. Ma il vero salto che la maggior parte delle badanti sanno garantire è quello del legame con l’assistito. Molto spesso la badante rappresenta per l’anziano l’unica vera fonte di compagnia e di affetto. Miscila Ruth Macuri Caro ha 35 anni è una donna che viene da Lima, Perù, è arrivata in Italia nel 1996. Nelle sue parole ho letto molta saggezza: Quando sono arrivata c’era la solitudine e c’era la sofferenza che nasceva dalla solitudine. Lavorare in famiglia per me era 7 In www.adoc.org. 103 come se lì dentro quelle stanze si potessero ricostruire i tessuti affettivi che avevo perso, una specie di surrogato della mia vera famiglia, quella che avevo lasciato in Perù. Mi figuravo di essere ancora in casa mia, facevo finta di vedere loro come fossero i miei, mio padre, mio fratello i miei nipoti. Dentro le case mi sentivo più protetta, più sicura. Quando invece stavo da sola, a pulire la scala del condominio, mi accompagnava sempre il pensiero fisso della mia terra lontana e mi veniva da piangere [...]. Certo deve essere una famiglia che, come ho detto, ti sappia valorizzare, perché invece ci sono persone che ti disprezzano, ti stanno dietro, ti controllano, non ti lasciano lavorare [...]. Gli anziani hanno bisogno di un lavoro psicologico sottile e difficile, loro sono degli alberi duri, alberi grandi, cresciuti con i rami e le foglie e tutto. Con gli anziani è più difficile che con i bambini l’aspetto psicologico è fondamentale.8 Nelle parole di Miscila c’è una grande serietà verso il lavoro che deve svolgere, una comprensione alta dell’importante ruolo di una badante, cerca di farci capire che ovviamente vuole essere rispettata come una persona e che non vuole essere considerata solamente come uno strumento che produce servizi, modo in cui purtroppo molto spesso vengono trattate dai loro datori di lavoro, dai politici e da sociologi di turno. È importante invece saper riconoscere e comprendere la condizione esistenziale e psicologica della badante, il suo processo di “trasferimento” e di vero e proprio “trasloco” di emozioni, sentimenti, affetti dal proprio paese e dalla propria famiglia di origine, nei confronti della quale è costretta a consumare un’assenza affettiva non risarcibile in cambio di un reddito che può migliorare il tenore di vita dei propri cari, verso un mondo e un modello culturale i cui codici sono tutti da comprendere, ma che implica e richiede un urgente investimento relazionale. 8 104 In C. Morini, La serva serve, cit., pp. 82-83. I sogni di emancipazione di queste donne si infrangono molto spesso contro la brutalità delle famiglie che le assumono, contro la brutalità del liberismo e delle sue politiche xenofobe, devono passare attraverso la cruna delle molteplici violenze particolarmente riservate alle donne migranti.9 9 Ibidem. 105 Le voci dei migranti L’intervista riveste un ruolo importante nella ricerca sociale e antropologica, sottolinea il grande valore dell’oralità, della visualità, della partecipazione e dell’osservazione, rende fondamentale il contatto diretto per la costruzione di uno studio antropologico. Si possono usare diverse tipologie di interviste, per esempio interviste non strutturate, semistrutturate e strutturate. Io ho scelto, per la costruzione della mia ricerca, l’intervista non strutturata. Con questo tipo di intervista, che racconta storie di vita, ho tentato di realizzare una comprensione profonda, complessa del punto di vista e della situazione degli intervistati. Desideravo scoprire le esperienze, le sofferenze delle donne e degli uomini che ho intervistato, ho cercato di esaminare a fondo le loro storie di vita da migranti, permettendogli di comunicare liberamente. Proprio per questo motivo questo tipo di intervista è denominata non strutturata. 107 Ho lasciato l’intervistato libero di parlare delle esperienze importanti, con una mia influenza poco direzionale, cercando di stabilire dei rapporti umani, fondamentali perché dovevano fidarsi di me per rivelarmi informazioni intime della loro vita. Per questo è importante lasciare ora la parola ai migranti, lavoratori precari, sfruttati che vivono con noi e che troppo spesso non vogliamo ascoltare. Le interviste costituiscono parte integrante del testo, sono i racconti delle donne e degli uomini che hanno vissuto i fatti che raccontano, sono le storie orali, documenti di grande importanza per capire la complessità della vita quotidiana. In una società che ci sottopone a un continuo sovraccarico informativo gli eventi ci vengono raccontati da altri quasi in tempo reale, facendo perdere agli individui la capacità di sentirsi testimoni o narratori delle situazioni di cui si è stati protagonisti. Rendersi protagonisti, e non meri spettatori, della memoria, significa invece saper ascoltare, significa ricostruire esattamente gli eventi e il loro significato, ma anche riuscirli a rappresentare attraverso i protagonisti diretti. Senza aver parlato, discusso con i migranti questo testo non sarebbe esistito, per questo ora lascio la parola ai veri protagonisti della ricerca. Marcelo Sono partito nel 1989 dall’Argentina, avevo 19 anni e mai mi sarei immaginato di dover andare via dal mio paese. Pensavo di morire dove sono nato. Poi ho iniziato quella che io ora chiamo l’ora dell’esilio. L’attività politica in Argentina era controllata dalla “polizia democratica” e io dovevo andare via. In Brasile, dopo tre mesi, non avevo trovato il mio contatto ed ero senza documenti, quindi ho deciso di andare in Uruguay e lì ho preso coscienza che la mia situazione legale in Argentina era ormai compromessa, perciò ho fatto richiesta alle Nazioni 108 unite per ottenere lo stato di rifugiato politico. Dopo altri tre mesi di attesa mi è stato concesso. In Uruguay ho trascorso quattro anni da rifugiato, ma nel 1994 mi è stato tolto perché l’Argentina era diventata democraticamente credibile, non era più una dittatura da dieci anni. Sulla carta non ero più un rifugiato politico. Voglio ricordare che in questa transizione democratica ci sono ben ventimila giovani ammazzati dalla polizia, erano giovani ribelli dai 13 a 19 anni, a cui lo stato voleva far imparare bene quello che voleva dire democrazia. Gli stessi quadri della dittatura erano quelli che poi sono passati per la democrazia, hanno continuato a sparare per inerzia. Una volta che mi hanno tolto lo stato di rifugiato le autorità argentine sarebbero potute venire a prendermi in Uruguay quando volevano. Dovevo fuggire un’altra volta. Sono stato aiutato ad andare nuovamente verso il Brasile. Ho passato cinque anni in Uruguay uno solo in clandestinità e poi cinque in Brasile quattro da clandestino uno con il permesso. In Brasile sono arrivato via terra a San Paolo, l’unico modo per non venire controllato al confine. Per fortuna avevo un contatto, la stessa persona che non avevo incontrato cinque anni prima. Questa volta mi va bene e ci vediamo subito. Lui mi aiuta a trovare lavoro e alloggio. Sono riuscito a integrarmi abbastanza velocemente. La cosa che mi ha aiutato di più è stata quella di studiare la storia del paese dove sono arrivato, la stessa cosa che ho fatto appena sono arrivato in Italia. Studiare la storia contemporanea del paese dove sei capitato è fondamentale. Ho lavorato in una scuola agro ecologica vicino a San Paolo, un progetto in cui sono stato impegnato per tre anni. Dopo tanto tempo fuori dall’Argentina avevo capito che avrei avuto troppi problemi a ritornare nel mio paese. Ho quindi cercato una patria sostitutiva e mi è venuto in mente di chiedere la cittadinanza italiana. Lo avevano fatto anche i miei genitori, perché i miei nonni 109 erano italiani. La richiesta l’ho compilata dal Brasile, mentre aspettavo la risposta sono andato via terra in Venezuela in autostop verso Caracas con altri due amici, quattro mesi di viaggio. In Venezuela ho lavorato nella manutenzione di una scuola in un paese dell’interno, volevo stare con la gente comune, ero curioso di conoscere il processo Chavez. In seguito ho deciso di non aspettare i tempi della burocrazia italiana e di provare ad arrivare in Europa lo stesso. Prima tappa: Spagna. Conoscevo la lingua era più semplice. Mi sono trasferito in Andalusia, è stato un bel momento, sono arrivato con un visto turistico e poi sono ritornato a essere un clandestino. La questione della cittadinanza italiana era un mio diritto e non poteva essermi negato. A parte i procedimenti lunghi della burocrazia esisteva un modo, diciamo fai da te, e quindi decido di andare nel comune di residenza dei miei nonni e in ventiquattro ore mi hanno concesso la cittadinanza. Per arrivare in Italia ho dovuto fare la strada senza documenti, ma sono stato fortunato perché con il cognome italiano e il fatto che stavo andando a fare la cittadinanza non ho avuto grossi problemi. Poi il razzismo è irrazionale, se sei sud americano o meglio ancora argentino, per la polizia sei un gradino più in su rispetto a un africano, è incredibile ma mi sono sentito un migrante privilegiato. Il comune dove ho fatto la cittadinanza è in Calabria. Avuto le carte in regola non sono rimasto in quella regione, sono tornato in Spagna ma finalmente con i documenti in regola. Lavoravo nell’estrazione del marmo ma era troppo faticoso, guadagnavo poco e volevo provare a vivere a Milano, che per me era il nord Europa ricco. Arrivo Milano nel 2002 e in una settimana ho trovato lavoro nelle cooperative, mi hanno chiamato in tanti. Le cooperative non pagavano molto ma c’era tanto lavoro. Io non parlavo la lingua e all’inizio anche sul lavoro è stato difficile, per esempio non capivo la differenza fra su e giù, il problema linguistico non 110 è stato da poco, lavoravo in una ditta di traslochi e facevo fatica a capire tutti i discorsi. Cambio cooperativa e mi capita una cosa particolare che mi ha segnato. La ditta è a Lainate, una piccola azienda di logistica, di magazzinieri dove lavoravano sei persone fisse, cinque italiane e un marocchino. Ero l’unico lavoratore esternalizzato, cioè lavoravo per la cooperativa. Il primo giorno mi blindano subito gli operai negli spogliatoi e mi dicono: ci devi dire quanto guadagni! Erano 800 euro al mese. Questi mi hanno portato dal direttore della azienda e gli hanno detto che non gli permettevano di pagarmi meno di loro. Gli dicono: “Stesso lavoro, stesso stipendio, non permettiamo che qualcuno guadagni meno per lo stesso impiego”. Sapevano che rischiavano, se entravo io pagato meno poi ne sarebbero arrivati due di Marcelo e così in due giorni mi hanno aumentato del 33% lo stipendio e mi hanno pure concesso il buono mensa che non sapevo neanche cosa fosse. Si è creato subito da parte mia il massimo rispetto per i miei colleghi. In più chiedevano al padrone di non cambiare ogni tre mesi il personale precario ma di tenere una persona se lavora bene e mandarla via solo se lavora male. Un passaggio per me importante, questo serve anche per capire il tema dell’immigrazione, siamo noi operai che ci freghiamo da soli quando lasciamo che un migrante clandestino lavori per 3 euro l’ora, non possono esporsi da soli, per questo noi dobbiamo appoggiarli. Stesso lavoro, stesso stipendio, un livello per cominciare fondamentale. Lì ho lavorato nove mesi, poi siccome mi ero trasferito a Varese, ho trovato un posto presso un magazzino e ci sono rimasto un anno inseguendo il posto fisso che non è mai arrivato Più tardi ho trovato lavoro alla Carlo Colombo ad Agrate Brianza dove ho affittato una casa. A quel punto è arrivata anche mia madre dall’Argentina. È stato un momento di stabilità, in questa azienda facevamo trafileria in rame. Anche qui ho trovato un gruppo di persone simpatiche, 111 c’era un’abitudine fantastica in fabbrica: si andava tutti insieme a comprare da mangiare alle sette di mattina per poi fare dei panini accompagnati da una bottiglia di vino. Questa piccola abitudine creava unità, io questo lo chiamavo il filo che unisce l’Italia, il filo del salame... Lì non c’erano capi, argentini, siciliani o lombardi eravamo tutti uguali, questa unità è stata importante anche per il dopo fabbrica, la relazione umana diventava più importante di quella politica. Ma a un certo punto la situazione è diventata critica quando è subentrato un nuovo direttore che faceva gli stessi discorsi che sentivo in Argentina: “Dobbiamo tagliare i rami secchi, stiamo andando incontro a una crisi”. Qualcosa non andava... Stava iniziando il gioco della speculazione. Nel 2008 il treno arriva al capolinea: si deve chiudere la fabbrica e ci ritroviamo tutti in strada. Con i miei colleghi abbiamo iniziato i primi passi di una lotta per non perdere il lavoro. Grazie all’esperienza degli altri operai eravamo sicuri di non potere contare sulle decisioni dei sindacati o dei padroni, e così siamo passati all’azione per rivendicare i nostri diritti Ci siamo piazzati davanti ai cancelli bloccando per quattordici giorni le merci in entrata e in uscita. L’azienda è stata costretta a sottoscrivere un accordo che, tra le altre cose, prevedeva la ricollocazione di trentotto lavoratori nell’arco di due anni, durante i quali i dipendenti sarebbero stati coperti dalla cassa integrazione straordinaria. Nel gennaio 2009 siamo entrati in cassa, ma a oggi la ricollocazione è rimasta lettera morta. Vista l’immobilità del sindacato e la sua incapacità di dare risposte chiare si è formato un Comitato lavoratori Colombo, che ha dato vita a una manifestazione davanti agli uffici dell’azienda a Milano. In seguito la proprietà ha accettato di anticipare anche il secondo anno di cassa integrazione. Nel gennaio abbiamo cominciato a svolgere una serie di iniziative: assemblee settimanali autoconvocate, presidi davanti alla sede di Confindustria, occupazione per sei ore degli uffici 112 dell’azienda da parte di trentacinque lavoratori. È stata una sorta di scuola che ci è servita non solo a consolidare il gruppo dei lavoratori, ma anche a capire i limiti di queste forme di lotta. Si è infatti arrivati a una situazione di stallo in cui i tavoli di trattativa non portavano a nulla di concreto e i lavoratori sono poi giunti alla conclusione che occupare il vecchio stabilimento di Agrate era l’unico modo per fare un salto di qualità. Mentre in otto salivamo sul tetto, tutti gli altri hanno dato vita a un presidio permanente davanti alla fabbrica. L’occupazione ha fatto venire meno tutte le divergenze tra i lavoratori e ha rafforzato lo spirito più combattivo. Anche i più scettici si sono riavvicinati trovandosi in prima linea, cosa che non era stata possibile con le altre forme di lotta più limitate. Inoltre il sostegno popolare degli altri lavoratori e degli abitanti di Agrate, è stato davvero eccezionale. E infine ci tengo a sottolineare che l’azione si è svolta mentre ancora era in corso la riunione con i rappresentanti dell’azienda e in questo modo il tavolo delle trattative è stato completamente ribaltato. Non c’è più stato solo il monologo della proprietà, ma le istituzioni sono state costrette dalla pressione politica e sociale a schierarsi pubblicamente dalla parte degli operai, il che ha sicuramente alzato il nostro morale. Abbiamo chiamato quello che è successo “effetto Vodafone”, perché “tutto ruota intorno a noi”. In quel momento politici e giornalisti che prima non ci avevano considerato sono venuti davanti alla fabbrica. Prima eravamo noi ad andare a cercarli per avere un po’ della loro attenzione, ma una volta che abbiamo alzato la testa sono state le istituzioni a correrci dietro. Questa lotta si è conclusa bene, perché ci hanno riconosciuto due anni di stipendio, la cassa e poi la mobilità. Abbiamo ottenuto quasi quattro anni di tranquillità economica per trovarci un altro lavoro. Finita questa lotta, dopo una vacanza, ho cominciato a frequentare più attivamente il movimento dei migranti contro la sanatoria truffa. 113 Ci ho messo tutte le mie energie anche se io ormai ero in regola con i documenti. La logica che ho spinto nelle assemblee era questa: se ho un diritto me lo devo prendere con un atto politico, dobbiamo sbloccare la situazione della sanatoria truffa. I migranti avevano sganciato i soldi e non gli davano il permesso, era un’ingiustizia da denunciare subito. Il prefetto ci ha subito detto che non poteva fare nulla e noi abbiamo deciso di metterlo nelle condizioni di poterlo fare. Ci voleva determinazione per farlo. Dovevamo mettere le forze in campo, era chiaro che l’epoca delle grandi manifestazioni era passata, anche quella del presidio era passata, perché non importava più a nessuno, era arrivata l’ora di un’azione nuova. Tramite l’esperienza della fabbrica l’idea è stata: cerchiamo una gru e la occupiamo. Non erano tutti d’accordo, principalmente i partiti e le associazioni. In quei giorni a Brescia c’era un presidio permanete che durava da venti giorni davanti alla prefettura. Io e un amico egiziano decidiamo di parlare con loro proponendogli di occupare una gru per sbloccare l’indifferenza che c’era sul problema della sanatoria truffa, un azione pacifica ma determinata. I ragazzi di Brescia decidono in un ora di occupare la gru. Neanche sapevamo i nomi di tutti e abbiamo fatto un accordo: “Se voi salite qui Brescia, noi saliamo a Milano”. Eravamo determinati, loro hanno cercato la gru e sono saliti, ma non avevano il necessario e l’hanno pagato con freddo e fame. Dopo di loro siamo saliti anche noi a Milano, ma abbiamo capito che la gru era troppo esposta al clima e perciò ci siamo trasferiti su una torre che era più difendibile e meno esposta alle intemperie. Abbiamo preparato il comunicato, le coperte, i viveri e siamo saliti anche noi. Eravamo in cinque a organizzare l’occupazione della torre, cani sciolti di varie parti del mondo, volevamo rompere la dinamica dell’attesa. Il 5 di novembre con alcuni cittadini immigrati che vivono a Milano, dopo un presidio convocato in piazzale Maciachini, 114 siamo saliti sulla torre della ex Carlo Erba in via Imbonati, alta circa quaranta metri. Nell’anno precedente si erano svolti presidi e manifestazioni per rivendicare dignità e diritti per gli immigrati. È la nostra condizione di vita quotidiana, che peggiora sempre di più a causa della crisi economica, che ci ha spinto a tentare un’azione del genere. Tanto, dicevamo tra noi, non c’era molto da perdere, peggio di così. Gli italiani ci dicevano che la nostra idea era rischiosa, che la fase politica era avversa, che faceva freddo... Insomma, che si trattava di una forzatura che non avrebbe portato a nulla. Forzatura: mai parola è stata più azzeccata! Infatti ci dà l’idea di un’azione per aprire qualcosa di ben chiuso, con la forza appunto, quando i mezzi normali non bastano. Esattamente come la situazione giuridico-sociale degli immigrati in questo paese di emigranti: una situazione bloccata, con una legge studiata apposta per creare la cosiddetta clandestinità, per avere a disposizione una massa di semischiavi ricattabili cui far svolgere i lavori più umili alle peggiori condizioni. Sia i governi di centro-destra sia quelli di centro-sinistra hanno finora governato il fenomeno migratorio con il bastone e a unico beneficio degli imprenditori, piccoli e grandi che fossero, e senza nessuno scrupolo per la nostre vite. Oggi a maggior ragione, con il partito razzista Lega al governo, la situazione è insostenibile e assolutamente scevra di una via di uscita. Cosa dovremmo dunque fare noi immigrati? Starcene in silenzio a masticare amaro e spezzarci la schiena in attesa che qualche genio della politica si degni di rappresentare anche noi? Questo ci siamo chiesti per mesi, ma poi i nostri fratelli a Rosarno hanno alzato la testa, ricordandoci che si può anche non avere nulla, ma almeno bisogna conservare la dignità di uomini. La nostra è stata una forzatura, e ne siamo stati consapevoli fin dall’inizio, ma non potevamo agire diversamente. Eravamo e siamo convinti che questa realtà che ci riguarda non la cambieremo grazie a preghiere, attese di governi amici o speranze che la fasi politica cambi. Noi viviamo qui e ora, ed è qui e ora che dobbiamo agire, perché ci spinge a 115 farlo l’insopportabilità della nostra condizione di vita. Quando i giornalisti ci chiedevano come facevamo a resistere al freddo e alle intemperie, il mio amico egiziano sulla torre rispondeva che quello era un hotel di lusso, lo chiamavamo l’Hilton, in confronto al viaggio in gommone durato cinque giorni in mezzo a gente che moriva di stenti o affogata. Se non si capisce che l’aver determinato queste condizioni di vita spinge e spingerà sempre più immigrati a lottare, non ci si può dire davvero amici degli immigrati. La strada istituzionale del cambiamento si dimostra sempre un terreno perdente perché è solo peggiorativa e molto limitata per noi immigrati, visto che siamo sottoposti a una legislazione speciale senza alcuna possibilità di sbocco. Abbiamo la consapevolezza che solo la via della lotta è capace, tra tutte le altre, di accelerare e far maturare condizioni che le altre vie, da sole, non riescono. Dovevamo dare un segnale, forzare l’immobilismo della realtà e quello di tanti amici che sembrano spaventati più da chi prende l’iniziativa che dal nemico. Il segnale lo abbiamo dato ed è arrivato forte e chiaro. I media hanno dato ampio risalto alla protesta e soprattutto alle nostre motivazioni. Finalmente abbiamo potuto far ascoltare le nostre ragioni anche a chi guarda solo la tv. Persino in parlamento si sono scomodati a parlarne. La visibilità delle nostre ragioni era il nostro obiettivo principale ed è stato raggiunto, ma non era l’unico. C’era anche quello di dimostrare concretamente la nostra solidarietà a Brescia, e anche questo è stato raggiunto. E poi l’obiettivo più difficile: sbloccare la situazione dei tanti permessi di soggiorno negati o nel limbo burocratico della sanatoria truffa. Su quest’ultimo punto era impossibile ottenere risultati immediati. L’esperienza della torre ha visto fin dal primo giorno una grossa differenza tra la determinazione a resistere di noi sopra, e le incertezze e la mancanza di determinazione di diversi compagni sotto, compensate per fortuna nostra dall’arrivo di decine di nuovi immigrati che ci hanno sostenuto in modo totale, sobbarcandosi 116 l’onère e l’onore del mantenimento del presidio. Del resto, la lotta è positiva anche per questo: fa crescere nuovi attivisti, e fa chiarezza tra chi, oltre a parlare, è disposto anche a rischiare. La presenza quotidiana di decine di immigrati, ma anche di italiani (studenti, lavoratori, gente del quartiere che ci ha materialmente sostenuto con cibo e coperte) ha dimostrato che avevamo fatto la mossa giusta. Da lassù noi vedevamo tutto e ci rendevamo conto delle dinamiche positive e negative che nascevano. Una volta che inizi una lotta non ci vogliono tante parole, ci guardavamo negli occhi e sapevamo cosa fare, avevamo tutti dei compiti: dai contatti con chi stava al presidio al parlare con i giornalisti. Tranne me e un altro erano tutti giovani. Eravamo un gruppo che funzionava, si riusciva anche a dormire nonostante il freddo. Avevamo messo tre tende in poco spazio e chiaramente bisognava portare pazienza, ma tutti avevamo passato nella nostra vita esperienze simili. Quattro nevicate, tanta pioggia, un novembre freddo, molto freddo. Era curioso vedere quanta determinazione ci fosse tra di noi sopra e quanta poca ce ne fosse sotto, dove in molti volevano tornarsene a casa. La lotta è servita e ha dimostrato che quando i migranti dicono basta, si prendono il proprio destino in mano. Sono stati i migranti a determinare il ritmo della lotta, questa è la cosa più importante. La torre è stata uno spartiacque per la lotta dei diritti dei migranti, una lotta per la dignità! Una volta che la lotta è per la dignità capisci che non è solo il permesso di soggiorno quello che stai chiedendo e il legno diventa ferro. L’importante è stato capire che dobbiamo unirci per costrui re un altro paese, un paese moderno, dove le relazioni umane diventino una ricchezza, dove la speculazione non sia la regola, dove la legge sia al servizio delle persone e non uno strumento di riduzione e negazione di diritti. Abbiamo tanto lavoro da 117 fare, la strada è tutta in salita, ma la lotta più bella è quella che serve per cambiare questo paese e per farne un posto migliore Moktar Ho 27 anni arrivo dalla Mauritania, da una città vicino al deserto, molto povera con pochissime possibilità di trovare lavoro. In Europa ci sono arrivato nel 2006. Sono approdato in Spagna passando per Ceuta. In quel periodo insieme ad altri amici marocchini avevamo iniziato delle lotte contro le barriere che separavano il Marocco dalle vostre città. Non so se lo sai, ma Ceuta, che è nel nord del Marocco, in realtà è Europa, Spagna. Insieme ad altri abbiamo cercato di scavalcare quei recinti per riuscire ad arrivare in Europa. I primi tentativi sono andati bene e io sono riuscito a passare, il problema è stato che nelle settimane a seguire la Guardia civil ha aperto il fuoco contro i ragazzi e ci sono stati feriti e morti, ma nessuno se lo ricorda. Nel marzo del 2006 arrivo ad Algeciras in Spagna senza permesso. Speravo tramite dei parenti che avevo nel sud della Spagna di trovare lavoro in fretta e dimenticare le tragedie che avevo vissuto. Ma non è andata così. I miei parenti non riescono a trovarmi lavoro e soprattutto non posso regolarizzare i miei documenti. Comincio a fare piccoli lavori nelle serre ma la paga è molto bassa e le ore di lavoro sono dodici tutti i giorni. Parlando con i miei parenti decido di partire verso l’Italia, a Genova dove il fratello di mio padre avrebbe dovuto trovarmi lavoro. Verso la fine di agosto del 2006 parto con un treno, compro il biglietto per me costosissimo visto i pochi soldi che ero riuscito a mettere da parte. Il viaggio inizia bene incontro degli ottimi compagni di viaggio spagnoli. I problemi cominciano quando arrivo alla frontiera con la Francia. Dei poliziotti mi chiedono i documenti e si accorgono che il mio passaporto è senza permesso di soggiorno e mi fanno scendere dal treno. Non 118 ricordo precisamente il nome della stazione dove sono sceso mi sembra Cerbère. Io per fortuna parlo francese e almeno capivo la lingua, il problema era quello che mi dicevano. Non ho mai capito legalmente cos’è successo, io so soltanto che sono stato trattenuto delle ore in stazione fino a che mi hanno portato in un posto molto simile a una prigione. Dopo alcune ore mi dicono che mi avrebbero rimandato a casa. Io gli ho chiesto se potevano farmi tornare in Spagna e il poliziotto si è messo a ridere e mi ha fatto portare in una stanza con altre otto persone. In questa stanza eravamo tutti africani c’erano due ragazzi senegalesi, quattro marocchini e due egiziani. Ero disperato e i ragazzi cercavano di tirarmi su di morale. Il giorno dopo comincio a capire grazie ad Hamed che sono in una prigione per immigrati e che dovevo fare qualcosa se non volevo tornare a casa da mia madre e le mie sorelle come uno sconfitto che non era stato in grado di trovarsi un lavoro. Dopo quasi una settimana all’interno di questa prigione iniziano delle proteste, i primi giorni soltanto con le guardie che ci controllavano, a cui chiedevamo di poter telefonare alle nostre famiglie o a dei parenti che vivevano in Francia. Io non riuscivo a capire cosa fare non avendoli e soprattutto non sapevo come fare con mio zio a Genova che mi aspettava ormai da tempo. Dopo qualche giorno le proteste diventano più forti ed è proprio Hamed uno dei più incazzati. Io decido di seguirlo nella protesta anche perché mi aveva detto che erano i giorni giusti per riuscire a scappare. Il capo guardia era uno distratto che si addormentava spesso durante le ore notturne. Era un martedì notte, mi ricordo bene, io e Hamed con altri due decidiamo che è il momento giusto per scappare ma per farlo dovevamo accettare di non correre il rischio di essere presi e portati in un’altra prigione che Hamed diceva essere ancora peggio. Quella notte anche se ho avuto paura è stata una bella esperienza perché alla fine ce l’abbiamo fatta. La cosa più difficile non è stato uscire dalla prigione ma una volta fuori muoversi 119 a piedi con il buio senza sapere dove andare. Decidiamo di dividerci per non farci notare e ognuno va per la sua strada io riesco ad arrivare in poche ore di cammino al primo paese, Millas. In questo posto che non avevo mai sentito nominare, ho avuto fortuna di trovare dei ragazzi che mi hanno offerto una sigaretta chiedendomi come ero arrivato lì. Dopo che gli ho raccontato la mia storia, uno di loro mi dice che può aiutarmi. Mi parla di suo zio che ha della terra e che se volevo poteva farmi lavorare da lui. Io accetto anche se in realtà pensavo a come proseguire il mio viaggio e alla telefonata a mio zio. Però i soldi mi servivano per forza e soprattutto non sapevo come muovermi, dove andare. Provavo un senso di totale spaesamento e ripensavo alle mie giornate prima della partenza per il Marocco e se devo dirti la verità le rimpiangevo ma come ti dicevo prima non potevo tornare a casa. Il giorno dopo conosco lo zio di Jean e comincio subito a lavorare, mi dice che per un mese posso stare lì e dormire in una specie di casa costruita sul suo terreno, la paga per me era buona e in un mese avrei fatto i soldi che mi servivano per riaffrontare il viaggio e soprattutto mi sarei fatto un’idea su come arrivare a Genova. Il lavoro era semplice, ma la fatica comunque era tanta, lavorare la terra non è una cosa che mi piace troppo... Quando andavo a lavorare provavo sempre un senso di paura, non sapevo se mi stavano cercando perché ero scappato dalla prigione e quindi non mi muovevo mai. Per un mese la mia giornata era occupata soltanto dal lavoro: mi alzavo, facevo colazione e andavo a raccogliere nel campo, una pausa per il pranzo e poi ritornavo a lavorare. Alla sera ero distrutto e non me la sentivo di andare in giro quindi se non passava Jean per fare due chiacchiere, mi mettevo a dormire. Molte volte mi distendevo con gli occhi chiusi e un milione di pensieri su cosa sarebbe potuto ancora accadere alla mia vita. Quando stavo in Mauritania lavoravo poco e la mia vita si ripeteva simile tutti i giorni, non mi sentivo pronto 120 per un viaggio in un mondo sconosciuto, infatti rispetto ai miei amici, sono quello che ha iniziato il viaggio per l’occidente da più grande, avevo già 24 anni e nel mio paese non sono pochi come qua. Da noi a 24 anni sei un uomo e devi lavorare per la tua famiglia. Per questo mi sono sentito costretto a partire. Insomma ero agitato e soprattutto volevo arrivare in Italia dai miei parenti, ma non sapevo come fare. Ero spaventato dalla possibilità di finire rinchiuso un’altra volta. In quel mese Jean mi ha aiutato a capire il modo migliore per arrivare a Genova e alla fine un suo amico che lavorava con il furgone mi ha offerto un passaggio fino al confine con l’Italia. Luc, l’amico di Jean, non se la sente di attraversare con me il confine e lo capisco. Quindi decido di passarlo da solo a piedi. Va tutto bene ed entro finalmente in Italia. Credevo di metterci qualche giorno invece ci ho messo mesi. A Sanremo prendo un treno per Genova e per fortuna va tutto per il verso giusto. Alla stazione di Porta Principe mi viene a prendere mio zio che non vedevo da quando avevo 12 anni. L’emozione è stata forte ma mio zio mi dice subito che è meglio andare via dalla stazione che in Italia la polizia fa ancora più controlli che in Francia. Questa frase me la ricordo ancora perché dalla felicità di pochi secondi prima ho pensato con terrore che potevano rimettermi in una prigione per immigrati. Anche a Genova non è stato semplice, grazie a mio zio avevo cibo e un letto nella sua casa. Ho cominciato a lavorare con lui nei mercati. Ma il problema dei documenti rimaneva. Visto che mio zio non poteva regolarizzarmi dovevo cercarmi un lavoro a contratto, ma il problema è che non avendo i documenti nessuno me lo voleva dare. Quindi tutti quelli da cui andavo mi dicevano che dovevo lavorare in nero perché non avevo il permesso di soggiorno. La situazione oggi per me è ancora difficile, sì, sono riuscito dopo quattro anni a trovarmi una stanza con altri amici, ho imparato l’italiano ma non ho il permesso di soggiorno. Quando 121 esco di casa ci penso sempre, ho paura anche di prendere un treno, perché so che se vengo fermato vado a finire in prigione. Quest’anno ho cominciato a informarmi con altri ragazzi africani e sud americani sulle possibilità che abbiamo di rivendicare i nostri diritti. Ho partecipato a manifestazioni per il permesso di soggiorno per i lavoratori immigrati ma se ti devo dire la verità sono pessimista, non riesco a credere in una vittoria, la mia speranza e di riuscire a sposarmi e di trovare un lavoro con il contratto. Bic Vengo dal Senegal, ho 34 anni e sono in Italia da dieci anni. Adesso vivo a Genova ma ho vissuto in tante altre città: Cagliari, Roma e Torino. I primi anni sono stati belli, c’era lavoro e a Cagliari mi trovavo bene. Mi piaceva il clima, il mare. Lì mi sono fatto tanti amici. Tutti mi prendevano in giro per il mio accento sardo, vendevo sulla spiaggia del Poetto e urlare “ajo” era divertente e poi la lingua sarda mi piaceva proprio. In quegli anni avevo un permesso per lavorare durante la stagione estiva e a novembre me ne tornavo in Senegal dalla mia famiglia, dove adesso ho una moglie e tre figli. Dopo sei anni tra Cagliari e il Senegal ero diventato un africano sardo che si sentiva a casa sia qui sia là. I problemi sono iniziati quando mi hanno tolto il permesso di vendere in spiaggia e i vigili hanno cominciato a rendermi la vita impossibile, in una sola stagione avevo preso più multe di quello che avevo guadagnato. Quell’anno ero tornato in Senegal disperato, non sapevo cosa fare. L’anno dopo decido di andare a Roma con un mio amico di Dakar che aveva un ristorante di cucina africana e che gestiva da anni con la sua famiglia. Mi aveva proposto di fare il cameriere perché sua moglie era incinta e non poteva lavorare, mi avrebbe pagato abbastanza, ma sicuramente non come quello che riuscivo a guadagnare in Sardegna. 122 La vita a Roma, a differenza di Cagliari, non mi è piaciuta per niente, ho avuto un sacco di problemi e soprattutto non avevo le carte in regola, il mio amico non aveva i soldi per regolarizzarmi. Il grave problema di cui mi sono reso conto troppo tardi è che senza documenti in regola era difficile anche tornare in Senegal. Dopo otto mesi al ristorante avevo deciso che non faceva per me, a quel punto o tornavo in Senegal dalla mia famiglia o mi cercavo un lavoro migliore. Parlando con dei clienti del ristorante mi spiegarono che al nord c’era molto più lavoro e che dovevo andare a lavorare in qualche fabbrica come metalmeccanico, o in Veneto o in Piemonte. Io non avevo mai lavorato in fabbrica ma volevo andarmene da Roma e quindi ho cominciato tramite internet a cercare lavori nelle fabbriche del nord. Il primo colloquio l’ho fatto con una piccola fabbrica di contenitori di plastica vicino ad Alessandria, ma sono stato rifiutato subito perché non ero in regola. Il secondo incontro invece è stato quello giusto, una fabbrica di Torino che produce componenti elettriche. Il responsabile con cui ho parlato mi assicurato che mi avrebbe fatto un contratto e che da lì a poco avrei ricevuto tutte le carte per il mio passaporto. Per me era molto importante perché volevo tornare in Senegal dalla mia famiglia che ormai non vedevo da un anno. Così accetto immediatamente quel lavoro. All’inizio sono stato ospite da amici del Senegal e al primo stipendio sono riuscito a trovarmi una stanza in affitto. La paga era buona, più di 1.000 euro al mese, solo che le carte non arrivavano mai. Io chiedevo e mi dicevano che la procedura era lunga, mi hanno anche fatto firmare dei fogli ma alla fine non è andata a finire bene. Dopo solo sei mesi che ero lì, la fabbrica entra in crisi e gli operai cominciano a protestare perché il rischio di essere licenziati era veramente alto. Io sono stato il primo a venire licenziato e solo pochi operai sono andati a protestare per come ero stato trattato, io e altri tre ci siamo anche incatenati ai cancelli della fabbrica ma alla fine abbiamo ceduto perché, soprattutto io, rischiavo di finire 123 arrestato. Dopo questa breve esperienza torinese ho deciso di andare via da Torino e grazie ad altri amici senegalesi ho trovato un altro lavoro ai mercati qua a Genova. Gli affari non vanno tanto bene ma almeno, grazie a un’amica italiana con cui mi sono sposato, posso tornare in Senegal ogni anno e non corro il rischio di essere portato in carcere dalla polizia. Da quando ho il permesso m’impegno con una associazione di amici italiani e africani per fare da interprete con i ragazzi senegalesi che sono appena arrivati, oltre a questo organizziamo uno sportello legale e di ascolto per aiutare gli uomini e le donne che sono senza permesso di soggiorno. Con le nuove leggi è diventato praticamente impossibile ottenere il permesso. Penso che la legge Bossi-Fini è stata scritta apposta per non regolarizzare nessuno, in modo da poterli sfruttare meglio. Nell’ultimo periodo ho cominciato a pensare di portare qua la mia famiglia ma anche questo con le nuove leggi è difficile per non dire impossibile e se gli affari continuano così penso che tornerò in Senegal, almeno i soldi saranno pochi ma potrò stare con i miei figli. Paco Ho 24 anni arrivo dal Perù, sono a Milano da quattro anni e l’unica cosa che va bene è che ho imparato l’italiano. Da quando sono arrivato ho fatto tutti i tipi di lavori ma nessuno è durato più di due-tre mesi. Sono arrivato come molti del mio paese con il visto turistico che poi è scaduto e quindi mi sono ritrovato senza permesso di soggiorno. I primi mesi che stavo a Milano ero felice, avevo mille speranze ero sicuro di trovare lavoro, una bella casa la macchina e tutte le cose che ti metti in testa quando sogni di cambiare la tua vita e invece niente. Sono arrivato e ho cominciato a lavare i piatti in un ristorante 124 dove prima lavorava un mio cugino. Mi pagavano 20 euro la serata, non avevo un orario dipendeva da quanti piatti dovevo lavare ma la paga era sempre quella. Pensavo fossero tanti 20 euro e invece non mi bastavano per niente. Per fortuna mi ospitavano i miei cugini a Corsico vicino a Milano, eravamo in sette, ma le mie cugine c’erano poco in casa perché stavano sempre a lavoro con le nonne. In quel ristorante è durata poco perché non riuscivo ad avere dei buoni rapporti con gli altri lavoratori italiani con cui ho litigato dopo poche settimane. Mi dicevano di pulire la cucina anche se io non dovevo farlo e una sera dopo una discussione il capo mi ha detto di non farmi più vedere. Dopo il ristorante ho fatto tanti altri lavoretti fino a oggi che lavoro con R. un peruviano come me che fa il corriere. Lo aiuto a caricare e scaricare i pacchi, mi paga anche lui poco, 30 euro, a volte qualcosa in più ma lavoro tanto e non so come finirà. Prima di conoscere R. le ho provate tutte e alla fine l’unico lavoro che mi è piaciuto è stato montare i palchi dei concerti perché ho conosciuto tanti ragazzi e poi mi sentivo un sacco di musica, ma è durata poco perché quelli della finanza hanno fatto un controllo e io son dovuto scappare, perché non avevo i documenti. Poi il padrone si è spaventato e non mi ha più chiamato. A Milano ho conosciuto tanti ragazzi e adesso ho degli amici italiani, mi piace parlare con loro e capire le somiglianze e le differenze che ci sono, alla fine io sono ormai mezzo italiano perché ascolto la musica dei ragazzi di Milano, mi piace mangiare la pizza e la sera uscire con loro per andare a ballare. Quest’anno ho partecipato insieme ad altri immigrati e italiani a delle manifestazioni, una cosa che in Perù non avevo mai fatto. È stato bello sentirsi uniti e lottare per la stessa causa con ragazzi di tutto il mondo, perché alla fine se sei arabo, nigeriano o italiano, è la stessa cosa, sarebbe giusto avere tutti gli stessi diritti e in Italia non è così. Anche tra i corrieri dove lavoro ci 125 sono state manifestazioni ma io non ci sono andato perché era troppo pericoloso, rischiavo di venire preso dalla polizia. In questo periodo sto cercando un lavoro per guadagnare meglio, trovarmi una casa e mettermi in regola, ma è un casino, nessuno mi vuole assumere e il permesso me lo sogno. Ho un amico italiano che sta cercando di convincere i suoi genitori a farmi assumere come cameriere, ma non per farlo veramente, solo per ottenere le carte, però costa tanto. La mattina quando esco di casa e mi viene a prendere R. con il furgone comincio a pensare a cosa farò da grande se starò in Italia, se mi fermerò a Milano e molte volte finisce la giornata che neanche mi accorgo che ho scaricato pacchi tutto il giorno. In questo periodo sto uscendo con una ragazza italiana, è più piccola di me e mi sta insegnando un sacco di cose sull’Italia, mi parla della storia, delle città del sud e delle isole, spero di farmi presto un viaggio con lei e vedere tutti questi bei posti di cui mi parla, ma tutti e due abbiamo paura della polizia che se ci ferma mi porta via. Milano alla fine mi piace, il vero problema è che vorrei avere i documenti per poter girare la città di notte e di giorno senza la paura di essere fermato. Una cosa è sicura, finché non metto da parte dei soldi in Perù non ci torno. L. Arrivo dalla Romania, in famiglia siamo in quattro: io, mio padre, mia madre e mia sorella che ha 20 anni. La situazione economica non era delle migliori perché mio padre era ammalato e non poteva lavorare. Così, finiti gli studi, ho iniziato a frequentare una scuola per pasticceri per poter lavorare e dare una mano ai miei genitori, ma sono stato chiamato a prestare il servizio militare. Il problema era che, a fronte di un anno di leva, non mi veniva riconosciuto nessun compenso economico. 126 Così, dopo una settimana sotto le armi, mi sono reso conto che la situazione sarebbe stata insostenibile, per me, ma soprattutto per la mia famiglia. Per questo ho chiesto immediatamente di essere esonerato. Credevo che in un anno avrei potuto fare molte cose, pensavo che non avrei perso tempo e mi sarei dato da fare. Ma il lavoro non c’era. Il mio paese è economicamente e politicamente a terra. Le poche fabbriche non si sono rivelate competitive sul mercato mondiale e l’occupazione scarseggia. E questo quadro tragico mi è diventato ancor più chiaro quando ho avuto modo di vederlo dall’esterno, dall’Italia appunto. Ho una zia in Calabria che convive con un italiano. È stata lei a consigliarmi di venire qui. Mi diceva che si poteva trovare un impiego facilmente, e mi ha messo di fronte al miraggio di guadagni immediati. Appena ha saputo che avevo intenzione di trasferirmi, mi ha spedito 1.400 euro per pagarmi le spese del viaggio e raggiungerla. E così il viaggio ha avuto inizio. All’inizio è stato facile. La mia famiglia mi ha accompagnato alla stazione degli autobus e dopo parecchie ore sono arrivato a Roma. Il caldo era soffocante, insolito per uno che viene dalla Romania. Ma tutto sembrava andare per il meglio: avevo conosciuto una signora rumena che si stava recando in villeggiatura da un’amica a Latina e che sapeva parlare l’italiano. È stata molto gentile, mi ha aiutato a fare il biglietto per la Calabria, mi ha spiegato come e dove prendere il pullman successivo e mi ha lasciato il suo indirizzo, nel caso avessi bisogno di qualcosa. Mi sono sentito al sicuro: all’epoca avevo 22 anni e parlavo solo l’inglese che, devo dire, in Italia non è molto conosciuto. Così, grazie a lei sono arrivato a destinazione senza troppi problemi. All’arrivo in Calabria mia zia mi ha detto di stare tranquillo, dovevo semplicemente sistemarmi a casa sua e riposarmi per qualche giorno, poi avrei subito incominciato a lavorare. Fin qui è andato tutto bene. Una mattina, dopo molte raccomandazioni, mia zia mi ha mandato in un paese vicino, in cui avrei incontrato il mio nuovo datore di lavoro. Si trattava di un impiego presso 127 un distributore di benzina, dove dovevo occuparmi del lavaggio auto. Mi sono detto: “Bene, ho già fatto un’esperienza simile in Romania, per cui non sarà difficile imparare”. La paga era di 20 euro al giorno, un po’ poco per vivere, ma abitavo nel retro della struttura, dove c’era un letto, per cui non avrei avuto spese particolari. Se non che, dopo tre mesi non avevo visto ancora l’ombra di un euro. Solo in seguito ho scoperto cosa stava succedendo. La mia paga veniva girata direttamente alla persona che aveva prestato a mia zia parte dei soldi per il mio viaggio, per cui, prima di guadagnare qualcosa, avrei dovuto saldare un debito di 800 euro. Dopo tanto lavoro ho capito perché il proprietario del distributore mi tirava spesso insulti ingiustificati. Quando riesco finalmente ad avere in tasca 200 euro, incontro una signora anziana che mi consiglia di partire per Reggio Emilia. Pensavo di trovarmi una sistemazione, un lavoro e una casa. E così, anche se per poco, è stato. Bagagli alla mano, ho rintracciato il figlio della signora, che mi ha assunto come muratore in un cantiere. In poco tempo avevo una casa, in cui avrei abitato per un mese, fino allo scadere del contratto d’affitto e avevo anche un lavoro. È stato uno dei periodi più belli qui in Italia. Alla fine del primo mese avevo guadagnato 2.000 euro. Poi il contratto d’affitto scade e, disperato, chiedo al titolare di poter vivere in cantiere. Una scelta dura. Purtroppo non avevo alternative. Faceva piuttosto freddo, dato che si era in novembre, e di notte avevo paura per via delle voci e dei rumori che mi circondavano. Ma ogni mattina, prima di iniziare la giornata, il mio datore di lavoro mi portava un caffè bollente e tutto prendeva un’altra forma, anche perché mi sentivo trattato bene e rispettato. Lavoravo anche il sabato e a volte la domenica, ma ero contento e i due mesi sono volati. Alla fine avevo in tasca 4.050 euro (i 50 euro erano un regalo del titolare per il buon lavoro svolto) e mi sembrava un sogno. Ho mandato ben 3.000 euro a casa, ed ero contentissimo perché potevo contribuire all’acquisto dei medicinali per mio padre e 128 al pagamento della retta universitaria di mia sorella. Io non ho avuto la possibilità di studiare nella vita e mi piace pensare che mia sorella possa farlo. Poi mi sono comprato un cellulare per chiamarli e un vestito nuovo perché se una persona è vestita nel modo giusto viene trattata con rispetto. A quel punto avevo 400 euro. Poi il lavoro in cantiere è finito, le villette erano state ultimate e l’impresa non aveva altri incarichi, così non mi restava che tornare in Calabria. All’epoca non rivolgevo più nemmeno la parola a mia zia, che mi aveva in tutto e per tutto imbrogliato, ma mio padre insisteva dicendomi: “Mi vergogno io per lei, lascia correre”. Tornato dal benzinaio riprendo il lavoro di lavaggio auto, stavolta a 15 euro al giorno, lavorando dalle otto del mattino alle otto di sera, da dicembre del 2002 a luglio del 2003. Con i pochi soldi rimasti mi sono attrezzato per l’estate con un paio di scarpe, uno di pantaloni e qualche maglietta, ma non sono riuscito più a mandare i soldi a casa. Una brutta situazione. Mi sentivo un fantasma, non conoscevo nessuno e mi sembrava di non fare nulla di utile; così, dopo aver trovato una casa a 100 euro al mese (era di un calabrese che lavorava al nord e rientrava al sud solo per le ferie estive), decido di cambiare lavoro. E finalmente trovo un’occupazione: raccogliere frutta e verdura in campagna, tra cui mandarini, uva, pomodori e olive, a seconda della stagione. La paga era decisamente meglio di quella al distributore: 22 euro per un lavoro dalle cinque del mattino alle quattro del pomeriggio. Ma nel frattempo puntavo a qualcosa di meglio e continuavo a cercare. Alla fine ho trovato un lavoro come pizzaiolo. Sottopagato, non c’è dubbio: 10 euro per una giornata di lavoro di più di undici ore. Tutti mi chiedevano “Perché lo fai? Non puoi cercare qualcosa di meglio?”, ma io volevo imparare il mestiere e nel giro di quattro mesi sono riuscito a far ruotare le pizze come un professionista. “Number one” mi dicevo. Ma a novembre non avevo ancora i soldi da mandare a casa. Già era difficile 129 mantenersi, figuriamoci risparmiare. Inoltre il titolare non mi pagava puntualmente per impedire che me ne andassi: pensava che non avrei rinunciato ai quei 60 euro che non mi dava mai. Un giorno mi sono arrabbiato e ho mollato tutto. Avevo in tasca 100 euro, ma non mi sono fermato e ho seguito il consiglio di chi mi diceva che al nord i pizzaioli erano molto richiesti. Ho fatto le valigie e sono andato in stazione a prendere un treno per Piacenza. Quando mi hanno detto il prezzo del biglietto, mi è caduto il mondo addosso: si trattava di più di 60 euro ma poi, non so per quale misteriosa coincidenza, una signora in biglietteria mi dice: “Se prendi il treno delle sei per Bologna, lo paghi 12 euro”. A Piacenza avrei pensato in un secondo momento. A questo punto nessuno mi poteva fermare, nemmeno le minacce e le percosse del titolare della pizzeria, venuto a farmi desistere dal partire. Così, mi sono infilato nello scompartimento e sono salito al nord. L’atmosfera era promettente: avevo conosciuto due nuovi amici italiani – con uno sono ancora in contatto – e avevo avuto l’indirizzo di una persona che mi avrebbe potuto aiutare a Pavia. Quindi, da Bologna ho preso il biglietto per Piacenza: 15 euro. Mi sono detto: “Ok, adesso sei rovinato, se qui non combini nulla di buono non puoi più nemmeno tornare in Calabria”. Ma non avevo intenzione di desistere. Il treno per Pavia sarebbe partito dopo due ore e mezza, ma io iniziavo a sentirmi male. Ero solo, praticamente non avevo più soldi e nemmeno un posto per dormire. Non sapevo più dove sbattere la testa. È a questo punto che mi è venuta in mente la chiesa. Avevo bisogno di parlare con qualcuno che mi ascoltasse e mi potesse dare una mano, così ho fermato una signora anziana in bicicletta, che mi ha indicato la casa di don Diego. Ora stava a me scegliere, visto che il tempo stringeva: andare a Pavia o parlare con il prete. In un batter d’occhio ero a bussare alla sua porta e sentivo la mia voce dire: “Non mi servono i soldi, ma sono a terra. Vorrei solo una mano per alzarmi”. La risposta è 130 stata: “Forse qualcosa c’è” e lì, per la prima volta, ho sentito nominare Lodi e la Casa dell’accoglienza. Il letto era libero per una sola sera ma, dopo qualche giorno alla Caritas, ho avuto finalmente un posto sicuro. A Lodi per qualche giorno ho lavorato in un’osteria come lavapiatti, ma pretendevano che dormissi in una casa disabitata, senza acqua né riscaldamento, con un altro ragazzo rumeno. Una notte, quando ho visto passare un topo grosso come un gatto, ho deciso di lasciar perdere. Per il resto lavoro a chiamata come lavapiatti per un servizio di catering. Ogni volta che guadagno qualcosa mando i soldi a casa per mio padre e ricarico il cellulare, così posso sentire la mia famiglia, anche perché di amici qui non ne ho molti: dopo tutto quello che ho passato, faccio fatica a fidarmi della gente. Sono sicuro che qualcosa deve cambiare. Voglio solo una vita normale: una ragazza, degli amici. Mi capita di chiedermi, quando vedo le ragazze in centro, perché sono ancora single: non sono brutto e mi vesto normalmente. Ma forse ho capito: non puoi trovare qualcuno se sei solo. Come puoi avvicinare gli altri? Ho 24 anni e vorrei andare in discoteca a divertirmi e conoscere qualcuno, ma non ho una macchina, non ho la patente e soprattutto non ho un lavoro. Alì Ho 32 anni arrivo dall’Egitto, sono entrato in Italia nell’estate del 2003 dopo una terribile sosta di un mese in Libia. L’arrivo è stato traumatico perché nulla era come me lo aspettavo. Ho fatto molta fatica a trovare lavoro e mi sembrava come se la gente avesse paura di me. Ho lavorato nei campi al sud Italia tra la Calabria e la Campania, ma il lavoro era troppo duro, in quel periodo pensavo di morire sulla terra. Per questo ho deciso di trovare coraggio e partire per il nord, perché girava la voce che 131 lì sarebbe stato tutto diverso. Sono arrivato a Milano verso la fine di ottobre... Non ero abituato al freddo che per me era già forte. Il primo periodo è stato durissimo, avevo solo un amico e non sapevo come fare per cercare lavoro. Lui mi ha aiutato molto ma comunque non riuscivo a farmi assumere da nessuno. Il lavoro più lungo sarà durato tre mesi. Ormai sono sette anni che vivo in Italia, lavoro sempre tantissimo, ho imparato la lingua ma sono ancora senza documenti e vivo tutti i giorni con la paura di essere fermato e portato in carcere. In questo periodo sto lavorando nei mercati, esco di casa alle 4 meno 10 di mattina e vado a piedi fino al magazzino, poi da lì andiamo con il camion all’ortomercato, carichiamo e andiamo a vendere. Tutti i giorni, da sette mesi. Mercati comunali all’ingrosso, cassette di frutta e verdura da caricare, trasportare, consegnare: il lavoro c’è, ma nessuno dei titolari vuole mettermi in regola, mi dicono che costa troppo. Nel 2009 ho sperato con la sanatoria colf e badanti, una regolarizzazione per chi era già in Italia, senza tetti numerici, né gara di velocità. Ci contavo, anzi ero sicuro, ma poi il mio titolare ha dovuto fare la domanda per la badante della madre e alla fine per me niente documenti. Non ho patente né macchina, ma grazie ai mezzi pubblici e alla bicicletta (per le consegne) giro a Milano dall’alba al pomeriggio... La mia fortuna sono stati gli amici che mi sono fatto, grazie a loro mi sono sistemato piano piano e ora spero ancora nel permesso di soggiorno perché un amico ha fatto domanda per me a dicembre con le quote. Ma anche se non arriva, resto qui, tanto al mio paese ho ancora meno speranze e devo aiutare la mia famiglia, i miei fratelli più piccoli. Voglio farli studiare per riuscire a fargli fare qualcosa di meglio di ciò a cui sono stato costretto io. Milano mi piace è una città grande, piena di bei palazzi, spero di ottenere il permesso per potermi godere di più la vita con i miei amici, adesso ne ho anche tanti italiani e marocchini, mi trovo bene con loro e soprattutto ci scambiamo tante informazioni sul come tirare avanti con pochi soldi e poco 132 tempo. Se riesco ad avere il permesso posso anche tornare in Egitto a trovare la mia famiglia e magari, mettendo da parte qualche soldo, potrei cominciare a costruire una casa per la mia famiglia. Ci sono molti amici che mi dicono che sarebbe meglio andare in Francia, ma ormai io mi sono abituato a Milano, non guadagno tanto ma il lavoro nei mercati lo trovo sempre, ho imparato la lingua e mi piace la vostra cucina, soprattutto quella del sud, quella milanese non l’ho ancora capita molto bene. Mi piace ascoltare la radio italiana più che la televisione perché posso immaginare di più, posso dire che se parlo italiano è soprattutto grazie alla radio che a casa mia non è mai spenta. M. Abito a Firenze da sette anni, sono arrivata qui dal Perù nel 2004 con mio figlio, che oggi ha 11 anni. Mio marito è stato il primo a partire, è venuto in Italia per trovare lavoro e per un periodo è stato qua da solo. Poi abbiamo fatto il ricongiungimento familiare. Lui ha preso il permesso di soggiorno grazie alla sanatoria. Mi ricordo il giorno in cui ci siamo separati per la sua partenza, ero davvero triste. Il Perù è un paese povero, diverso da qua, ci sono tanti problemi. Noi avevamo delle difficoltà, alla fine mio marito ha preso la decisione di venire in Italia per migliorare la situazione. Appena è stato possibile siamo venuti tutti e così ci siamo riuniti. È stato molto difficile rimanere lontani per tutto quel tempo, non solo per me, ma anche per mio figlio, che nei suoi primi anni non ha quasi mai visto il padre. Io e mio marito ci sentivamo per telefono, a volte era difficile perché mancava la linea. Ci scrivevamo anche ogni tanto. Quando lui è arrivato a Firenze dopo qualche giorno mi ha mandato una cartolina con il Duomo, che conservo ancora oggi. Volevamo riunirci il prima possibile ma abbiamo dovuto aspettare per sistemare 133 tutte le cose, essere immigrato è molto complicato. Io ammiro molto mio marito. Vivere qua ha voluto dire fare enormi cambiamenti: Firenze è una città molto grande rispetto a dove noi stavamo in Perù, tutto è diverso. All’inizio mi muovevo con una certa difficoltà a orientarmi, avevo quasi un po’ di timore. Imparare l’italiano non è stato troppo difficile, soprattutto perché mio marito ormai lo conosceva già quando io sono arrivata. Comunque anche ora non lo parlo benissimo, ma capisco e mi faccio capire. All’inizio sentivo un grande spaesamento. Per fortuna a Firenze ci sono tanti peruviani, tra noi ci troviamo spesso e questo aiuta a sentirsi in mezzo ad altre persone. Adesso ho rapporti anche con degli italiani, soprattutto per via della scuola dove va mio figlio, che gioca anche a calcio. Lui si trova molto bene con i suoi compagni e a scuola prende buoni voti: sono molto contenta. Altri contatti con italiani sono quelli con i miei datori di lavoro: io faccio le pulizie domestiche, frequento le case di tre famiglie italiane. In futuro però vorrei cambiare lavoro. Mio marito è autotrasportatore, per questo spesso sta lontano da casa per più giorni: insomma, il problema della distanza è rimasto anche ora. La decisione di lasciare il Perù non è stata per nulla semplice, perché là abbiamo ancora molti legami. Tuttavia viviamo a Firenze da molti anni e credo che resteremo qua. Del resto oggi è una cosa normale che ci siano persone che vanno a vivere in paesi diversi dal loro. B.Y. Sono del Kenya. Sono venuto via perché il mio paese è molto povero. Appena arrivato, sette anni fa, ho trovato lavoro 134 all’Albergo del popolo. Ho fatto l’elettricista, il muratore e tutto quello che serviva per aggiustare l’albergo. Non ero in regola nonostante le continue promesse. E intanto lavoravo sempre. Poi, due anni fa, ho trovato le mie valigie fuori. Senza motivo. Al padrone ho detto: “Ma come, ho lavorato per te tutti questi anni, anche la notte, e ora mi mandi via?”. Non ha sentito ragioni. Mi sono trovato senza posto da dormire, senza soldi e senza lavoro. Trovarne un altro era difficile. Qualche giornata, poca roba... Ho provato a fare l’ambulante, ma non va bene. Anche qui in Italia vivo da povero, forse però peggio che nel mio paese, perché laggiù almeno avevo tutta la mia famiglia e quindi ci aiutavamo a vicenda. Adesso la mia situazione è tragica, perché dopo sette anni che lavoro sodo e non faccio niente di male sono ancora senza permesso di soggiorno e nessun capo italiano mi vuole far lavorare mettendomi in regola. Oltre al lavoro, è un grande problema trovare una casa, perché anche per la casa devi avere i documenti. Quindi sono costretto a prendere in affitto da italiani che se ne approfittano e mi fanno pagare tantissimi soldi per una stanza in una casa con molti altri migranti. In questo periodo ho deciso che se entro un anno non riesco a regolarizzare la mia situazione, farò di tutto per guadagnare dei soldi e per tornare nel mio paese, vivrò da povero ma almeno sarò con la mia famiglia nella terra dove sono nato. O.M. Arrivo dall’Ucraina, sono laureata in biochimica e in Italia sono una badante, da ormai cinque anni. Nel mio paese lavoravo in una fabbrica privata, facevo analisi alimentari, avevo un contratto a tempo indeterminato, lavoravo dal lunedì al venerdì, otto ore al giorno, mi piaceva il mio lavoro ed ero molto soddisfatta, l’ho fatto per diciassette anni, ma lo stipendio era bassissimo: circa 60 euro al mese, per questo sono partita. Qui ho sempre fatto 135 la badante, da anni mi occupo di una signora con l’alzheimer, vivo con lei: oltre a lavarla ed essere sempre a sua disposizione, faccio le pulizie, la spesa, da mangiare. Da quando ci sono io la signora è migliorata tantissimo, pesava trentotto chili e ora ne pesa cinquantuno, più parla più sta bene, si tiene in allenamento, si scorda molte meno cose, mi trovo bene con lei, è una persona stupenda... Ho un giorno libero alla settimana e guadagno 900 euro al mese. Non ho comunque idea di rimanere in Italia, voglio tonare in Ucraina da mio marito da mio figlio, rimarrò qua ancora qualche anno... Se mi piacerebbe fare la biochimica in Italia? Magari! Ma la mia laurea non è riconosciuta qui, penso che continuerò a fare la badante e spero di regolarizzarmi con la sanatoria in corso. F.C. Vengo dall’Ucraina e sono laureata in pedagogia. Ho fatto la maestra elementare per ventitré anni con un contratto a tempo indeterminato, mi piaceva il mio lavoro, mi piacciono molto i bambini, ma guadagnavo soltanto il corrispettivo di 50 euro al mese, per questo ho deciso di partire. Quando eravamo sotto l’Unione sovietica i soldi erano sufficienti, ma poi non bastavano più e inoltre gli stipendi non arrivavano regolarmente. Sono in Italia da cinque anni. Da quando sono qui lavoro come badante, come baby sitter e come assistente domestica. Prima stavo in una famiglia dalle otto di mattina alle otto di sera e mi pagavano solo 500 euro, attualmente mi prendo cura di una signora anziana malata di alzheimer. Il primo periodo non è stato facile perché sono arrivata e non sapevo nemmeno dove dormire perché i figli della signora che curavo non volevano che mi fermassi in casa. Allora ho cominciato a cercarmi un posto letto e non è stato semplice, all’inizio speravo di prendermi una casa per me e invece ho 136 scoperto subito che non mi sarebbe bastato tutto lo stipendio. Anche una stanza costava troppo, meno di 350 euro non riuscivo a trovare e io dovevo mangiare e mandare i soldi a casa. Con altre badanti del mio paese ci siamo organizzate e visto che tutte condividevamo lo stesso problema abbiamo cercato un posto abbandonato dove andare a riposare le poche ore che non lavoravamo. Finalmente, vicino alla stazione della metro Romolo a Milano, una collega ha trovato una fabbrica dismessa dove dormire. Ovviamente era uno schifo, sporca, fredda, con topi e scarafaggi, per fortuna io ci sono rimasta pochi mesi, poi ho trovato un lavoro migliore e potevo dormire nella casa della signora che accudivo, ma la cosa triste e che se ci passi oggi, quella fabbrica è ancora piena di donne, donne che non hanno i soldi per una casa ma che lavorano sodo. Ora vivo con la signora che aiuto, lavoro dalle nove di mattina alle nove di sera e anche la notte sono a disposizione: dormo vicino alla signora e se ha bisogno di qualcosa ci penso io. Mi danno 1.000 euro al mese, mi trovo bene, e poi non ho tante alternative, in Ucraina ci sono otto persone che, ogni mese, aspettano i miei soldi... M.A. Sono venuto qui in Italia per salvarmi la vita. Sono un egiziano. Nel mio paese ho frequentato l’università, Economia e commercio. Quando sono arrivato, non conoscevo nessuno, né la lingua. Ho fatto il lavapiatti, l’aiuto cameriere e il cameriere. I proprietari dei ristoranti italiani s’approfittano di noi migranti. Alla fine arrivavo a prendere 800 euro, ma c’era un collega italiano che ne prendeva 1.200. Non lavoravo tutto l’anno, ma facevo le stagioni. Spesso capitava che dovevo lavorare qualche ora in più. Io non avevo pensione, tredicesima, malattia e festività come i colleghi italiani. Secondo me i proprietari prendono 137 uno straniero perché lo fanno lavorare di più e lo pagano molto meno. Anche se troviamo un posto fisso, ci pagano di meno uguale. Dato che noi siamo venuti qui per salvarci la vita, accettiamo tutto. Pure se sono tante ore, 13, 14, 15, 16 e pochi soldi. La nuova legge sui lavoratori immigrati è una favola! Tu devi andare alla Camera del lavoro e ti danno tre mesi per cercare un lavoro. Se dopo tre mesi non l’hai trovato, e nemmeno la Camera del lavoro l’ha trovato, ti danno un altro anno. Se in questo anno ancora niente, allora, forse, non so, ti mandano via. Amici italiani? Questo è un problema. Sarebbe bello mischiare il carattere nostro e il vostro. Purtroppo, pure se dicono che l’Italia è un paese democratico, io esco con tutta gente del mio paese. C’è un muro tra voi e noi! A.N. Vengo dalla Tunisia. Nel mio paese facevo la guida turistica. Lavoravo bene. Ma in Tunisia c’è una situazione molto repressiva: alle 10 di sera tutti devono essere a casa, non si può andare in giro. Il 90% dei tunisini vengono qui perché non possono vivere in quella situazione. Poi c’è anche chi scappa dalla guerra, è il caso di un mio amico palestinese. Ad Ancona, nove anni fa, ho trovato un lavoro come marinaio. Lavoro regolare. Mi sono imbarcato e sono stato sei mesi a New York. In seguito, un giorno, stavo su una barca, non ero in regola, sono caduto, e mi sono fatto male. Ho avuto un’operazione al cervello e le gambe ancora non mi funzionano bene. Ho pagato le cure da solo. Con i soldi che avevo. Adesso ho una causa con il padrone della barca. Il comune di Roma mi ha dato una camera e da mangiare. I miei amici lavorano nei ristoranti oppure fanno gli ambulanti. Due di loro erano lavapiatti in un ristorante, poi, finito lì, andavano a scaricare sacchi di farina. Lavoravano quasi venti ore al giorno. E mangiavano solo una 138 volta. Abitano all’Albergo del popolo. All’ostello si sta male, perché alla mattina alle 9 devi uscire anche se sei malato (se no dovresti avvertire il giorno prima). Durante il giorno non si può ritornare, puoi farlo solo alla sera. Si dovrebbe pagare 5 euro a notte, ma il capitano fa pagare anche 6. Questo per il letto nella camerata. Lì ci sono tanti letti. Se vuoi la camera singola, devi pagare 13 euro. Poi tutto è sporco. Non lavano mai. C’è solo un bagno per piano. Certe volte uno fa prima a farla fuori che aspettare. E poi il capitano fa discriminazioni: non dà da dormire e da mangiare a tutti. Pure se uno paga. Per esempio a miei amici iraniani e palestinesi, che fuggono dalla guerra e che non hanno niente, non hanno soldi, non hanno casa, lui non ha dato da mangiare. Io pagavo per loro, ma il capitano non ha voluto farli mangiare lo stesso. Paolo Sono arrivato a Milano quasi cinque mesi fa, alla fine di gennaio 2010. Vengo da un piccolo paese della Romania. Ho sempre vissuto là con la mia famiglia, mi sono sposato, ho avuto due figli. Adesso ho 25 anni. Sono venuto qua con mia moglie, mentre i miei due figli di 7 e 6 anni sono rimasti a casa insieme a mia madre. Lei ha 43 anni, è malata di cuore, dovrebbe operarsi ma ci vogliono dei soldi, ci vogliono 3.000 euro. Anche mio fratello più piccolo per ora è rimasto a casa. In Romania non si trova lavoro, non si riusciva a fare niente. Molti altri dal mio paese sono venuti in Italia, in tanti partono per provare a cercare lavoro, una situazione migliore. Io vorrei lavorare, come imbianchino, come giardiniere, come stalliere. Anche qua è difficile, ma un po’ meglio. Però se trovassi lavoro potrei mandare dei soldi in Romania; anche ora li mando, ma pochi. Adesso chiedo l’elemosina. Oggi ero al centro commerciale, ma dopo un po’ 139 la guardia mi ha mandato via. Allora sono sceso nel parcheggio, sono stato lì tutta la mattina e ho guadagnato 3 euro: un panino. Da quando sono arrivato ancora non mi è riuscito di trovare nessun lavoro. È difficile anche cercare. A Milano non conoscevo nessuno. Siamo arrivati qua una mattina e subito ho costruito una baracca, perché non avevo un posto dove stare insieme a mia moglie. Abbiamo passato tutti questi mesi nella baracca, ma non c’erano alternative. Abbiamo paura che ci mandino via, non possiamo stare là. Ogni tanto passa la polizia a fare controlli, forse è la gente che la chiama. Ci sono anche altri come noi. Tutti che abitano nelle baracche. I vestiti che ho addosso me li hanno dati i volontari di un’associazione. Con i soldi dell’elemosina posso solo comprarmi qualcosa da mangiare e le sigarette. Anche mia moglie chiede l’elemosina. Davanti alle chiese, nei centri commerciali, per strada. Molte persone non ti guardano nemmeno. Nei posti dove vado più spesso con qualcuno ho fatto amicizia. Se uno mi riconosce magari si ferma a parlare. Un signore mi ha portato dei vestiti suoi. Me li ha regalati. Le giornate sono sempre così. Giorno dopo giorno. La maggior parte del tempo in giro per guadagnare un po’ di soldi. In centro non andiamo mai, restiamo in zona, vicino a dove viviamo. Per ora è così. Forse vorrei tornare in Romania, ma con un po’ di soldi. Vorrei riunire tutta la famiglia, stare insieme. Ora posso solo parlare al telefono con mia madre, i miei bambini, mio fratello. Vado alla stazione e chiamo da una cabina. Spero che le cose migliorino. Abasi Prima della guerra io non stavo male in Somalia. Certo la situazione non era facile, c’erano tanti problemi, la povertà... 140 Non si aveva certezza del futuro, lo stato non era diverso da qui, non c’erano aiuti. Sono venuto via quando è scoppiata la guerra. Sono un profugo di guerra. Adesso sono vent’anni che vivo in Italia. Sono scappato via dal mio paese, dalla mia città, con molta tristezza. Inoltre ho perso un fratello, che è morto. È stato ucciso... Ancora oggi è dura pensare a lui. È morto un mese prima della mia partenza per l’Italia. Parte della mia famiglia è ancora in Somalia, un altro fratello è qua in Italia, mentre un cugino si è trasferito in Francia. Prima della guerra abitavamo tutti nella stessa città, adesso siamo divisi in diversi paesi, ci teniamo in contatto ma non è la stessa cosa. Quando sono partito avevo 22 anni, ero un ragazzo. Mi ricordo soprattutto la paura. L’Italia mi sembrava un mondo misterioso, con grandi differenze. Non avevo punti di riferimento, non conoscevo nessuno. Dovevo iniziare tutto da capo e non sapevo cosa pensare della mia vita in quel momento, cosa sarebbe successo, come e dove costruirmi un futuro. C’erano altri somali con me, ci incoraggiavamo a vicenda, per tirarci su il morale. La prima città che ho visto è stata Bologna, dove sono stato qualche mese, poi sono andato a Firenze, perché c’era un mio amico arrivato in Italia un po’ prima di me e quindi mi ha aiutato per quel che ha potuto. Così, quando sono arrivato a Firenze, c’era almeno una persona che conoscevo davvero. Il primo periodo è stato davvero brutto, mi sentivo estraneo, straniero. Non so se era la mia poca confidenza con quasi tutto quello che mi circondava, ma spesso mi capitava di sentirmi addosso gli occhi della gente, come se le persone guardassero me in maniera diversa. Non mi è mai successo niente di spiacevole, ma l’aria non mi faceva stare tranquillo. Penso che sia normale, considerata tutta la mia situazione di quel momento. A Firenze ci vivevano altri somali, ci incontravamo spesso e passavamo il tempo insieme. Grazie a un mio connazionale ho trovato il lavoro che ancora oggi faccio: sono dipendente di una 141 ditta di pulizie. Trovare questa possibilità per me è stato molto importante, mi ha permesso di inserirmi. Ogni giorno ci vado volentieri, anche se agli italiani può sembrare strano. Spesso sento dire in televisione che gli italiani non vogliono fare questi lavori. In realtà alcuni miei colleghi sono italiani. Mia moglie è italiana. L’ho conosciuta un’estate alla festa dell’Unità. Abbiamo due figli. Penso di essere stato molto fortunato a conoscerla. Lei lavora in un supermercato. Viviamo in una casa in affitto. Il fatto di essere somalo, di essere nero e immigrato con lei non è mai stato un problema. Anche i suoi genitori non hanno mai avuto niente in contrario. Tutto questo mi ha molto aiutato e così in tante cose io mi sento italiano. Certamente so che la mia terra è la Somalia, ma la mia vita ora è qui, il mio futuro è qui. I miei figli vanno a scuola, e a volte i loro insegnanti mi hanno chiesto di andare in classe per raccontare la mia esperienza, la guerra, e la fuga dal mio paese. Ho sempre accettato questi inviti, anche se per me è molto difficile ricordare, perché in fondo non sai mai quale può essere la reazione di chi ti ascolta. Però è importante far conoscere queste storie ai ragazzi, perché oggi in Italia ci sono tanti stranieri immigrati per motivi diversi ed è molto importante capire come si possa convivere tutti insieme. Per questo la conoscenza è la prima cosa. Ajene Il mio viaggio per arrivare in Italia è iniziato nel deserto tra l’Africa subsahariana e i paesi del Maghreb. Io abitavo in Ghana. Ho iniziato la mia traversata a bordo di un camion guidato da un ragazzo di Tripoli. Durante il viaggio siamo stati fermati tante volte dalla polizia e ci hanno rubato tutto quello che avevamo. Ho visto con i miei occhi persone costrette dai militari a bere acqua 142 sporca per provocare problemi intestinali, per costringere a espellere le palline con le banconote arrotolate nel cellophane che avevano ingoiato per non farsi derubare. Due ragazzi sono stati ammazzati come cani perché non volevano dargli tutto.1 Queste cose sono dure da sopportare e il viaggio è stato lungo e difficile. Non abbiamo mangiato mai nulla e avevamo soltanto una bottiglia d’acqua, siamo entrati in Libia nei pressi della frontiera di Toummo se non ricordo male anche perché sono passati quasi dieci anni da quei giorni. Sono stato molto fortunato perché ero riuscito a nascondere bene i miei soldi. Arrivato in Libia dalla frontiera sono riuscito a raggiungere in poco tempo Tripoli e da li ho cominciato a capire cosa dovevo fare per imbarcarmi e per arrivare in Italia. Non vedevo l’ora di iniziare la mia nuova vita. Sapevo che non sarebbe stato facile e che mi sarebbe costato tanto, sia per i soldi sia per la mia testa, ma non pensavo così tanto. A Tripoli sono riuscito a mettermi in contatto con alcuni ragazzi che volevano andare in Italia a lavorare e che sapevano a chi chiedere, ma il prezzo per il “passaggio” era veramente troppo alto. Speravo di trovare qualcosa di meglio ma alla fine ho capito che dovevo aspettare... Trovarmi un lavoro in Libia, mettere da parte i soldi e partire. A Tripoli ho lavorato tre mesi per accumulare soldi, mangiavo il meno possibile, non uscivo mai e non conoscevo quasi nessuno, facevo una vita orribile. Ma alla fine avevo i soldi che mi chiedevano e sono partito. Era una notte d’estate del 2002. Il viaggio in mare è stato se possibile ancora più duro di quello nel deserto, prima di tutto perché io non avevo mai viaggiato in mare e poi perché la barca era piccola e noi eravamo tanti, quasi tutti uomini africani, poche donne e solo due o tre bambini, se Per chi rimane senza soldi il viaggio si tramuta in tragedia. Secondo diverse testimonianze le oasi del deserto nigerino e libico sarebbero disseminate di schiavi. Giovani partiti dall’Africa occidentale alla volta dell’Europa e rimasti bloccati senza soldi per proseguire né per ritornare 1 143 non ricordo male. Parlando poi in Italia con tanti amici africani penso che sono stato fortunato perché nella nostra barca non è morto nessuno, anche se in molti sono stati male. A Lampedusa la polizia ci consegna un numero, acqua e cibo e ci porta in una specie di carcere. Lì capisco che devo lottare ancora per riuscire a vivere libero e trovarmi un lavoro. All’epoca non parlavo italiano e anche questo era un problema perché non capivo quello che mi dicevano. Da Lampedusa però riesco ad andarmene abbastanza in fretta, anche perché quasi tutte le sere arrivavano altre barche e non ci stavamo più. Ci hanno spostato in Puglia ma non ne sono sicuro, in un centro che sembrava meno carcere di quello a Lampedusa. C’era poca polizia e soltanto una rete all’entrata. Dopo tre giorni in questo centro, conosco Labaan e con lui decidiamo di andarcene senza aspettare il permesso perché avevamo capito che ci volevano rimandare a casa nostra e dopo tutti i sacrifici fatti per arrivare e cambiare vita, era una cosa che non poteva proprio succedere. Andiamo via di notte, non è stato difficile perché come ti dicevo c’era solo una rete e la polizia sembrava non guardasse troppo quello che facevamo, infatti andò tutto bene. Una volta scavalcata la rete nessuno ci fermò. Da lì abbiamo passato la notte a pochi chilometri dal centro, ci siamo messi a dormire in un campo ben nascosti. Con la luce siamo andati alla ricerca di una stazione per riuscire ad andare via dal sud Italia verso il nord che ci aspettavamo ricco e pieno di lavoro. Troviamo la stazione dopo poche ore di cammino e decidiamo che è meglio separarci per non dare nell’occhio anche perché il primo problema da affrontare era come pagare il treno, visto che non avevamo soldi italiani. Mi presento alla biglietteria ma non concludo nulla, capisco che però è impossibile prendere un solo treno per arrivare a Milano, ne devo prenderne almeno due. Avevo 20 dollari ma 144 non li hanno voluti. Salgo sul treno per Roma senza biglietto. Anche Labaan sale sullo stesso treno ma non ci mettiamo nello stesso vagone. Da lì non ci siamo più rivisti e spero che anche per lui il viaggio sia continuato senza troppi problemi. A Roma riesco a cambiare i miei dollari e a fare il biglietto per un treno fino a Modena, la città dove ho fatto il mio primo lavoro italiano. A Modena scendo in stazione molto presto di mattina, sono totalmente spaesato e anche se dentro di me sono felice, capisco che la mia situazione è complicata, non ho nessuna carta che dice che posso stare in Italia. Per fortuna incontro dopo poche ore dei ragazzi ghanesi che mi aiutano subito, mi invitano a mangiare nella loro casa e mi spiegano che è meglio se non me ne vado in giro troppo senza il permesso di soggiorno. Questi ragazzi sono stati la mia salvezza perché per un mese mi hanno fatto dormire sul loro divano, facendomi conoscere gli italiani giusti che mi hanno aiutato a trovare lavoro. Sono stato nelle campagne per sei mesi, venivo pagato poco ma almeno riuscivo a mangiare e a permettermi una stanza in affitto. Il problema del permesso però rimaneva perché non lavoravo in regola. Dopo questo lavoro ne ho trovato uno meno faticoso e pagato meglio, lavoravo da un benzinaio dove sono rimasto quasi un anno, il padrone era tranquillo ma anche lui mi diceva che non aveva i soldi per regolarizzarmi. I miei amici italiani mi dicevano che entro poco ci sarebbe stata una sanatoria per tutti i migranti e di non preoccuparmi e io ci speravo anche perché sinceramente mi stavo trovando bene. Nella mia testa c’era ancora la voglia di andare a Milano, la città dove avrei potuto fare un vero lavoro e guadagnare bene per mettermi da parte dei soldi. Dopo cinque anni a Modena senza permesso di soggiorno e altri due lavori, uno in un forno e uno in una cooperativa edile, ne trovo un altro vicino a Milano in una fabbrica metalmeccanica come operaio. Questo impiego l’ho trovato grazie a un amico, Mario, era anni 145 che cercava una possibilità per la mia regolarizzazione. In questa fabbrica ho lavorato duramente per due anni, mi hanno fatto subito il contratto, con varie difficoltà ma alla fine ce la abbiamo fatta e ho ottenuto un permesso di soggiorno legato al mio contratto. Guadagnavo più di 1.000 euro al mese, finalmente potevo avere una casa e una vita tutta mia. In quei due anni 2007\8 ho conosciuto vari amici e amiche, uscivo la sera e mi occupavo insieme ad africani e italiani di una scuola di italiano per migranti. È stata un’esperienza molto bella e soprattutto ho conosciuto Monica, mia moglie, una ragazza toscana di Firenze ma che stava a Milano. Adesso siamo sposati e io sono diventato italiano. Sinceramente non mi sento proprio italiano, ma afritaliano, nel senso che non vivo più da ghanese ma non sono neanche un italiano al 100%. Certo tante cose della vostra cultura ormai fanno parte di me, le ultime esperienze si sono incontrate e mescolate con la mia parte africana. Anche se non è stato facile, adesso amo l’Italia, mi piace la musica, la cucina, il cinema, ma amo anche l’Africa, il mio paese dove finalmente posso tornare senza paura per stare con la mia famiglia. Quando vado in Ghana per i figli di mia sorella sono un italiano con la faccia nera e che parla la loro lingua ma per gli italiani sono un africano che lavora in Italia, insomma un casino ma finalmente sono felice. Anche se non finirò mai di pensare a tutti i fratelli che non ce la fanno, che muoiono nel viaggio o che vengono riportati a casa dalla polizia. Io alla fine sono stato fortunato e adesso devo lottare per i diritti di tutti quelli che non sono arrivati o che vogliono arrivare. Marc Mi chiamo Marc sono arrivato in Italia solo da tre anni ma sono bastati per capire che anche qui la vita non è facile. Nel mio paese, l’Ecuador, non c’è lavoro, però c’è tutta la mia 146 famiglia. Sono arrivato in Italia con la speranza di sistemarmi, lavorare duramente per due anni, mettere da parte i soldi per costruirmi la casa e aprire un attività nel mio paese. Invece non sono riuscito a mettermi da parte quasi nulla. Ho avuto mille problemi e ancora oggi non ho il permesso di soggiorno. Sono arrivato con il visto turistico e tramite un amico della mia città speravo di trovare un posto regolare e invece niente. Ho cominciato con lui a fare il muratore in una piccola ditta che lavorava per grandi ditte e dopo solo sei mesi mi hanno cacciato, e la cosa ancora più grave è che hanno licenziato anche il mio amico che era regolare. Dopo questa botta non sono riuscito a trovarmi niente di serio, tanti piccoli lavoretti con cui riesco a tirare su i soldi giusto per mangiare e mandare 100, massimo 200 euro alla mia famiglia. Come se non bastasse l’anno scorso mi ha fermato la polizia a una festa di gente del mio paese del Perù e della Bolivia. Era una bella festa in un parco, non stavamo facendo niente di male, una grigliata, qualche birra e bella musica. La polizia mi ha portato in un centro di detenzione dove mi hanno tenuto quasi un mese, non avevo fatto nulla ero con altri amici solo che io non avevo i documenti, e non avevo un lavoro. Non ero l’unico senza documenti ma ci hanno portato via solo in quattro. Dopo un mese non ho capito bene cosa è successo ma mi hanno fatto uscire dicendomi che dovevo tornare nel mio paese, ma con quali soldi mi compro il biglietto? Adesso le cose vanno un pochino meglio, ho un lavoro e guadagno 700 euro al mese. Passo otto o nove ore al giorno a scaricare e caricare pacchi sul furgone ma purtroppo senza contratto. Altro grande problema è la casa. Nel mio paese casa mia non era perfetta ma avevo lo spazio per vivere e stare con la mia famiglia, qui devo condividere con due amici una stanza che sarà di dodici metri quadrati, poi in casa ci sono altri quattro, 147 due in una stanza e due nel salotto. Per questa casa non ti dico cosa abbiamo dovuto fare, perché a noi non ce la voleva affittare nessuno. Per fortuna Luis ha un bravo amico di una associazione antirazzista che telefonava per noi e poi veniva agli appuntamenti perché se non ci fosse stato questo contatto mi toccava pagare 300 euro per un letto. Pensavo che in Europa era così facile lavorare, l’unica cosa che mi è andata bene è la lingua, non ho avuto grosse difficoltà e poi molti italiani capiscono lo spagnolo. Adesso sto anche frequentando una scuola gratuita per migranti per imparare la grammatica, almeno se imparo bene la lingua posso avere qualche possibilità in più di trovare un buon lavoro. Una cosa che mi piace un sacco qui in Italia è il cibo, è tutto molto costoso ma è tutto molto buono, pensa che in tre anni non ho ancora trovato niente che non mi piace. Il vero problema per me adesso è capire come fare a trovare i soldi per tornare a casa, dopo tutti questi sacrifici non posso tornare in Ecuador a mani vuote, senza la possibilità di dare un futuro alla mia famiglia, ai miei figli. Se riuscissi a regolarizzarmi, ma la vedo veramente dura, potrei provare a far venire qua mia moglie e mio figlio... Anche perché è uno strazio non vederli mai! Certe volte invece penso che l’unico modo per tirare su qualche soldo vero sia quello di mettermi in affari... Non so se mi capisci nel senso fare qualcosa che in breve tempo mi faccia trovare i soldi per andarmene, tanto cosa devo fare se mi fermano ancora? Dico la polizia o i carabinieri... Penso che mi manderanno sicuramente in carcere, quindi tanto vale andarci con dei soldi messi da parte e così, una volta che esco, me ne posso tornare in Perù con qualcosa. Ma è una scelta difficile e non sono sicuro di volerla fare, se lo sapesse mia moglie che ci sto solo pensando... Ma è anche difficile guadagnare 3 euro all’ora, è ingiusto. Nel mio paese potrei lamentarmi e chiedere 148 di più, ma qua come faccio o dico sì o non mi fanno lavorare e io non posso non lavorare. Arrivo alla sera e penso alla mia vita che è una continua lotta per cercare di tirare su dei soldi, sono giovane ma molto pessimista sul futuro speravo che almeno qui in Italia fosse più semplice, che fosse più facile essere liberi e invece comincio a pensare che qui è peggio che da noi. 149 Quale futuro? Viviamo in un mondo fatto di informazioni e immagini che ci sommergono continuamente, viviamo in metropoli affollate, con strade che sembrano fiumi in piena di umani delle etnie più differenti, che con il passare del tempo si mescolano, si incontrano si scontrano e danno forma al processo meticcio; siamo “umani al di là delle appartenenze”. L’insieme dell’umanità si sta interconnettendo attraverso una rete di rapporti che si estende progressivamente all’intero delle nostre città, nelle nostre vite. Nella società postmoderna assistiamo sempre di più a una rapida e profonda evoluzione dei modi di vita quotidiani, determinata da un insieme di eventi, dal mescolarsi di culture, esperienze diverse, fino alle sempre più veloci innovazioni tecnologiche che cambiano il nostro modo di vivere e vedere la realtà. Assistiamo a trasformazioni culturali dovute all’interazione tra fattori evolutivi, sociali, culturali, economici e tecnologici che raggiungono un’ampiezza senza precedenti. I mutamenti in 151 atto stanno modificando, in modo irreversibile, il nostro modo di vivere quotidiano, il nostro modo di pensare e di percepire il mondo e la convivenza umana. La trilogia identità-cultura-territorio è ormai un’accezione desueta, ma è innegabile che l’uomo necessiti di un’identità, e nel terzo millennio in un mondo sempre più in movimento in cui ogni barriera vacilla, le identità non sono più territoriali, ma sono in viaggio. I migranti sono i protagonisti di questi cambiamenti e portatori di alterità all’interno dell’occidente. Le esperienze che vivono i migranti sembrano cogliere lo sfondo di questi fenomeni di deterritorializzazione e la concezione di cultura come struttura di significato in viaggio sembra essere più corretta rispetto a quella tradizionale legata a un territorio. Ora, il fatto che si possa parlare di ibridazione di culture rappresentate come strutture di senso e significato in viaggio, come non si possano più solo identificarle con il territorio e con l’identità, non significa che il desiderio di possedere un luogo a cui ancorare la propria individualità e personalità identitaria e il desiderio di essere riconosciuti, siano fenomeni obsoleti. Al contrario, le localizzazioni culturali costituiscono potenti fattori di rafforzamento dell’anelito d’identità e della persuasione che quest’ultima debba possedere un locus dove rappresentarsi e poter essere riconosciuta. L’identità può avere valenza positiva, ovvero riconoscersi in altri, e una negativa nella quale scoprirsi e definirsi in base a ciò che ci differenzia dagli altri. Le identità di cui ci avvaliamo paiono figure convenzionali, dove ruolo e abitudini sono debitamente appresi. Sono maschere, travestimenti spesso ridicoli, che ci impediscono di accettare pienamente la complessità che c’è in ognuno di noi. È auspicabile che il processo meticcio che viviamo nel mondo contemporaneo decostruisca le politiche legate ai discorsi identitari, conservatori e di appartenenza a una fantomatica etnia pura. Un’etnia inesistente, falsa, utile soltanto a produrre 152 differenze e razzismo. D’altro canto mi rendo conto, dopo svariate interviste e letture, che per molti migranti è una vera sofferenza “diventare meticci”; non sempre infatti vivono serenamente questo percorso di ibridazione culturale. Dobbiamo comprendere che viviamo un mondo estremamente complesso dove è necessaria l’apertura allo scambio, all’interazione, alla tensione dialogante fra diversi.1 È fondamentale costruire un mondo che sappia accogliere, ascoltare e capire le differenze e che tali differenze diventino la ricchezza della nostra società. Non dobbiamo assolutizzare mai l’identità culturale, ma fare in modo che le diverse espressioni identitarie siano filtrate alla luce della libertà e dell’autonomia propria e di ogni altro essere umano al fine di saper costruire un’identità dai confini aperti che non sia rigida, cristallizzata, chiusa. Quindi prefigurare un mondo aperto, senza muri e pregiudizi, dove donne e uomini siano pronti all’ibridazione culturale e consapevoli che l’unica patria possibile è il mondo intero. Un mondo con al suo interno una miriade di culture differenti pronte al cambiamento, all’ascolto e l’incontro. La creazione di una relazione sociale tesa a soddisfare un’esigenza, un interesse, dove sia importante accettare di trasformarsi nell’interazione egualitaria con gli altri e prevedere la possibilità di diventare una persona anche molto differente da quella originaria. Una comunità che non entri in contrasto con la libertà del singolo. Deve essere altrettanto facile da smantellare di quanto sia stato costruirla. Deve essere e restare un tipo di comunità flessibile, sempre e soltanto a tempo e durare solo fino a che conviene. La sua creazione e smantellamento devono dipendere dalla decisione di chi ne fa parte di restarle o meno fedeli, e in nessun caso tale fedeltà, una volta dichiarata, deve diventare 1 F. Laplantine, A. Nouss, Il pensiero meticcio, cit. 153 irrevocabile: il legame creato dalle scelte non deve mai ostacolare, né tanto meno precludere, ulteriori e diverse scelte. Il legame ricercato non deve essere mai vincolante. Per citare la famosa metafora di Weber, ciò che si ricerca è una mantellina, non una gabbia di ferro.2 Sto parlando di un mondo di eguali per diritti ma differenti per culture, una società di donne e uomini liberi di creare la loro specificità culturale, non parlo di un programma politico ma di un atto di autodeterminazione sociale. La cultura non è mai una conclusione ma una dinamica costante alla ricerca di domande inedite, di possibilità nuove, che non domina, ma si mette in relazione, che non saccheggia, ma scambia, che rispetta.3 Un pensiero meticcio come rifiuto del falso universalismo e della purezza, un processo dinamico di scambi reciproci, di accettazioni e di rifiuti, di rinunce e di appropriazioni. Dobbiamo essere consapevoli dei tanti possibili errori ma anche essere forti della necessità di accettare la complessità del reale, perché la complessità è il fondamento della nostra identità Senza paura verso il divenire meticcio. Z. Bauman, Voglia di comunità, Laterza, Bari 2001 J. Bernabé, P. Chamoiseau, R. Confiant, Elogio della creolità, Ibis, Pavia 1999. 2 3 154 Postfazione Meticci anche in cucina Andrea Perin Si può definire meticcia una cucina? Se la si affronta nel suo percorso storico nessuna tradizione è pura, ognuna si è modificata nel corso tempo da scambi e ingressi. La stessa cucina italiana, una delle più ricche e articolate al mondo, non è un modello codificato e unitario bensì una rete di saperi e pratiche, strutturatisi in secoli di storia grazie anche alla posizione centrale che la penisola occupa nel Mediterraneo e che ha portato a secoli di occupazioni subite (e imposte), commerci con tutto il mondo, immigrazioni ed emigrazioni.1 Da ultimo, i poderosi trasferimenti che portarono milioni di persone dal sud al nord, che hanno rimescolato ancora gusti e ingredienti. Si tratta di una storia spesso dimenticata, oppure omessa per superficialità o interesse: la tipicità non di rado viene spacciata per tradizione, e la stessa tradizione viene presentata come un fattore statico che attraversa i secoli immutabile. Si vagheggia di un passato fatto di natura e sincerità, mentre per la maggior parte della popolazione la quotidianità era fatta di fame e miseria. La cucina italiana è diventata in molti casi un astratto elemento identitario da difendere, una barricata rispetto all’invasione di “stranieri”. In questo contesto il termine meticcio può essere utile per definire un tipo di cucina: non la moda fusion dei ristoranti glamour e neppure le fantasie dei blogger gastrofanatici, ma la 1 A. Capatti, M. Montanari, La cucina italiana. Storia di una cultura, Laterza, Roma-Bari 1999; M. Montanari, L’identità italiana in cucina, Laterza, Roma-Bari 2010. 155 contaminazione casalinga di ricette, ingredienti e conoscenze delle diverse culture che si confrontano nella società, una pratica che supera nella consuetudine le barriere culturali che limitano l’incontro e lo scambio. È un termine che trova giustificazione nell’impatto accellerato che la contemporaneità comporta nei cambiamenti rispetto al passato quando le modifiche delle abitudini richiedevano decenni o anche secoli.2 E soprattutto nella conseguente possibilità di scegliere. “È l’era del politeismo alimentare che spinge le persone a mangiare di tutto, senza tabù, generando combinazioni soggettive di alimenti e anche di luoghi ove acquistarli, neutralizzando ogni ortodossia alimentare”. Nel primo rapporto Coldiretti/Censis del 2010 sulle abitudini alimentari degli italiani si evidenzia che “il rapporto con il cibo è una dimensione sempre più soggettiva, espressione dell’io che decide e che, a partire dalle proprie preferenze, abitudini, prassi e aspettative, nonché dalle risorse di cui dispone, definisce il contenuto del carrello e della tavola”. Solo per il 30,4% la propria alimentazione deriva ormai dalla tradizione familiare.3 Se l’immigrazione, con l’arrivo di nuovi gusti e nuovi prodotti, è anche un’occasione per allargare le possibilità a tavola degli italiani, la situazione per i migranti è sicuramente più complessa. Si sono scritti fiumi di inchiostro per raccontare come il cibo sia un fattore identitario, sull’importanza che assume per uno straniero costretto a cambiare tutti gli aspetti della sua vita. Per molti, specialmente qualche anno fa quando le comunità erano meno organizzate, è stata in effetti un’autentica sofferenza doversi cibare solo di pietanze italiane e spesso era difficoltoso trovare alimenti compatibili con la propria religione. 2 M. Montanari, Il cibo come cultura, Laterza, Roma-Bari 2004; A. Appadurai, Modernità in polvere, cit. 3 www.coldiretti.it/docindex/cncd/informazioni/747_09.htm. 156 L’inizio è stato un po’ faticoso soprattutto perché non si trovava il nostro riso o altri ingredienti (Hasina, Bangladesh).4 Per tutte le comunità la cucina è un orgoglio culturale e una esternazione di appartenenza. Basta scorrere le pubblicazioni di cucina o partecipare alle feste dove sono i migranti stessi a raccontare o eseguire i propri piatti per verificare come le ricette siano riproposte uguali a quelle eseguite a casa, come se centinaia o migliaia di chilometri di distanza fossero annullati. Quando ero un po’ più grande mia madre mi ha detto: “Quando finirai la scuola tu dovrai andare in un altro paese a cercare lavoro, qui non ci sono soldi, devi andare in altro paese. Non ci sarò più io a cucinare per te, e chi aiuterà te? Devi imparare adesso, guarda bene come faccio, sei grande abbastanza per imparare a cucinare” (Somot e Raju, Bangladesh).5 In realtà per il migrante l’alimentazione più che veicolare un’astratta appartenenza a una patria o definire una specificità culturale, rappresenta un legame emotivo e sensoriale soprattutto con la famiglia lontana, con i sapori condivisi sin dall’infanzia: i modelli gastronomici sono la cucina della mamma e della nonna, che sommati e condivisi con gli altri costruiscono un gruppo, una comunità.6 Sono molto contento di cucinare questo piatto perché mi ricorda la mia famiglia, specialmente mia nonna, che cucinava i 4 R. Rashidy (a cura di), Mi racconto... Ti racconto. Storie e ricette del nostro mondo, Editrice Coop Consumatori, Bologna 2007, p. 44. 5 Testimonianza raccolta durante la rassegna “Parole di frontiera”, nella serata dedicata al “Piacere”, cena aperta di condivisione di piatti, svoltasi nel circolo arci La Scighera di Milano, 13 maggio 2010. A cura di Naga e arci Scighera, in collaborazione con Associazione Asinitas di Milano. 6 K.E. Müller, Piccola etnologia del mangiare e del bere, il Mulino, Bologna 2005, pp. 109-116. 157 Domoda per noi, sempre. Ho mangiato cose diverse in Italia, ma non ho ancora trovato il cibo che mi ricorda la mia famiglia. Quando mi hanno informato della cena, sono stato molto contento di cucinare i Domoda per ricordare la mia famiglia. Questo incontro è molto importante perché mi sento come con la mia famiglia (Muhammed, Gambia).7 Quando cucino questo piatto mi sento come dentro a casa mia in Egitto, con la mia famiglia. Ogni volta che cucino questo piatto mi sento come dentro le braccia di mia madre. Perché è troppo buona, come un dolce (Bahaa, Egitto).8 Il cibo definisce chi appartiene e per esclusione identifica lo straniero, ma non è solo questo: è anche il primo grado di scambio e di riconoscimento dell’altro. Mangiare il cibo del diverso, dello straniero, vuol dire accorciare le distanze e appropriarsi di un pezzetto dell’identità altrui, farla propria. Se è vero che il “sapore è sapere”, è sempre possibile imparare nuovi gusti. La realtà per i migranti è meno lineare della semplice conservazione della propria tradizione perché il consumo alimentare risulta assai pragmatico e comprende spesso la cucina italiana, sia sui luoghi di lavoro o a scuola sia a casa. Fino a pochi anni fa pensavo che il cibo senegalese fosse il più buono al mondo. Ora penso che sia stata una gran fortuna conoscere anche quello italiano (Aliou, Senegal).9 Io e mio marito preferiamo le cose fast tipo pasta, cose insomma che si preparano rapidamente durante la settimana, quando siamo di corsa. Quando c’è tempo cucino marocchino, o se Testimonianza raccolta durante la rassegna “Parole di frontiera”. Ibidem. 9 Le ricette di Sunugal. Scambio di sapori e saperi tra Italia e Senegal, Milano 2011, pp. 27-28. 7 8 158 c’è gente a cena o pranzo o durante le feste religiose. Le cose italiane sono più veloci da preparare (Sara, Marocco).10 I risultati di un’indagine svolta nel biellese nel 2006 sui consumi alimentari di un piccolo campione di migranti hanno mostrato per esempio una notevole familiarità e assimilazione con il modello italiano, insieme a un allontanamento dalle usanze più tradizionali: la maggior parte quotidianamente mangia e beve all’italiana (81,3%) o consuma cibi e bevande internazionali (20,5%). I cibi del paese d’origine vengono consumati saltuariamente (32,5%) o addirittura mai (17,5%).11 Questa disinvoltura a tavola nasce in buona parte dalla comodità, visto che la cucina italiana è ritenuta più facile e veloce, spesso è desiderio di omologazione al modello della cultura ospite: sono sempre di più i corsi di cucina italiana per migranti, anche per obbligo professionale (colf, collaboratrici ecc.). I migranti poi sono inseriti sempre più stabilmente nei processi produttivi della catena alimentare italiana. Nel 2010 sono già oltre 38 mila le imprese del settore gestite da migranti secondo una ricerca del Fipe, pari al 12,1% del totale, e se oltre 2.500 sono i ristoranti etnici è ormai evidente a tutti come molti ruoli siano coperti da “stranieri” anche nei bar, nelle panetterie, nelle pizzerie, nelle cucine di ristoranti e trattorie. Senza contare le persone impiegate nella produzione, come nei prosciuttifici emiliani o nei caseifici del grana padano e della fontina valdostana.12 L. Fontana Sabatini, I consumi e i cultural bridging. Le seconde generazioni di donne egiziane e marocchine a Milano, tesi di laurea specialistica in Marketing management, Università Commerciale Luigi Bocconi, facoltà di Economia di Milano, anno accademico 2007-2008, p. 63. 11 E. Sulis (a cura di), Abitudini, opinioni e consumi migranti. Un approfondimento nel contesto biellese, in C. Fiorio, E.M. Napolitano e L.M. Visconti (a cura di), Stili migranti, i quaderni di welcome marketing etnica, 2007, pp. 169-199. 12 www.confcommercio.it/home/Inchieste/Il--melting-pot--della-ristorazione-italiana.htm_cvt.htm. 10 159 Tanto che, in un provocatorio articolo il “New York Times” di qualche anno fa si chiedeva: Is the Cuisine Still Italian Even if the Chef Isn’t? Sebbene la a cucina italiana sia una delle più impermeabili alle modifiche, scriveva il corrispondente, sarà sempre uguale o comincerà a subire modifiche dai suoi cuochi “stranieri”?13 Senza scomodare gli chef professionali sono le cucine casalinghe i laboratori del cambiamento, dove nella quotidianità dell’alimentazione si fondono i sapori, le esperienze si incrociano, i gusti si adattano. Se nelle feste si mangia come lo preparavano la mamma o la nonna, e agli amici si offre la cucina tradizione per soddisfare le aspettative, per sé e per i propri familiari e gli amici più stretti ci si comporta come in ogni cucina del mondo: ci si adatta alla disponibilità della dispensa e del frigorifero. Sono modifiche quasi clandestine, al di fuori delle regole, che si possono al momento cogliere solo per singoli fotogrammi senza una visione generale: alle feste o nei libri non compaiono o si negano, qualche volte si leggono in trasparenza, quasi mai sono oggetto di specifiche attenzioni o sono protagoniste di avvenimenti. D’altro canto, quando mai un ricettario è specchio fedele della realtà? Una prima causa di meticciamento, forzata, è dovuta alla sostituzione degli ingredienti originali con le con materie prime del luogo. Questa ricetta che vi presento oggi è il bulz come l’abbiamo mangiato a Pasqua in Romania a Moeciu preparato però quando siamo tornati a casa con la farina di mais italiano, la salsiccia bolognese e il formaggio che abbiamo comprato in Romania.14 Lo spunto per l’articolo furono il premio del Gambero Rosso per la miglior carbonara a Nabil Hadj Hassen, chef d’origine tunisina, e il secondo posto del premio conferito dalla prestigiosa rivista gastronomica a un ristorante il cui capo cuoco è indiano. I. Fisher, Is the Cuisine Still Italian Even if the Chef Isn’t?, “New York Times”, 7 aprile 2008. 14 http://lacucinadicrista.blogspot.com/2011/06/bulz-ca-la-moeciu-likei-eat-at-moeciu.html. 13 160 La differenza è data proprio dal sapore che il mercato e la produzione italiana conferiscono a verdure, frutta e carne, spesso anche all’acqua. In realtà però, quando si tratta di ingredienti freschi, utilizzati sia nella cucina russa sia in quella italiana [...], devo ammettere che il gusto è notevolmente diverso da quello dei prodotti della mia terra (Alla, Russia).15 È probabilmente facile adattare le ricette italiane ai propri gusti, tenendo presente che i piatti più conosciuti e apprezzati sono soprattutto i primi o la pizza, ottime basi cui aggiungere e modificare sapori. Io per esempio, preparo una carbonara speciale con modifiche al dosaggio e con l’aggiunta di panna acida” (Daniel, Romania)16 mentre la giapponese Ayame condisce gli spaghetti con tonno, daikon e alghe nori17 e Alexandra, di madre cretese, mette la cannella nel ragù delle lasagne.18 Le spezie sono tipiche di giù e ce le portiamo qui, poi le usiamo sulla pasta e viene un mix ottimo (Shaima, Marocco).19 In ritardo di anni rispetto all’Europa, sta iniziando una B. Cucci (a cura di), Ricette delle nuove famiglie d’Italia, Pendragon, Bologna 2010, p. 94. 16 R. Rashidy (a cura di), Mi racconto... Ti racconto, cit., p. 216. 17 Intervista in JallaJalla, Radio Popolare di Milano del l’11 marzo 2011, in studio Andrea Perin e Nello Avellani. Vedi anche http://ricettescorrette. noblogs.org/post/2011/07/08/jallajalla-storia-della-pasta. 18 Intervista in JallaJalla, Radio Popolare di Milano del 30 aprile 2010, in studio Andrea Perin e Paolo Maggioni. Vedi anche http://ricettescorrette. noblogs.org/post/2010/05/03/jallajalla-alexandra-e-le-lasagne-alla-cannella. 19 L. Fontana Sabatini, I consumi e i cultural bridging, cit., p. 62. 15 161 produzione industriale di cibo italiano “halal”, una sorta di meticciato industriale, che rende lecite ai musulmani le ricette che conterrebbero ingredienti non ammissibili.20 Un processo meno scontato è l’intervento e la modifica sui propri piatti identitari, per esempio con l’introduzione di ingredienti italiani prima sconosciuti. Quando cucino piatti peruviani aggiungo spesso formaggi italiani, anche perché mi piace fare degli esperimenti (Maritta, Perù). Il riso che comunemente si mangia in Romania, lo modifico con l’aggiunta di funghi, zucchine e quant’altro (Daniel, Romania).21 Oppure con una semplificazione dei piatti tradizionali, come fa Modou tramutando in risotto il senegalese ceebu jën22 (senza dimenticare che in patria spesso gli uomini non cucinano). Ma chi opera questi cambiamenti, e perché? La sensazione è che in generale non esistano regole ma solo situazioni, disponibilità e curiosità, e che diventa una scelta programmatica e consapevole solo in alcuni casi, come per esempio quello delle coppie miste: qui l’incontro dei sapori assume spesso il valore anche orgoglioso di uno scambio riconosciuto, di una metafora della propria condizione, a volte rappresenta un equilibrio per conciliare le diverse tradizioni e abitudini. Non posso passare la vita a escludere mio marito dalla cucina italiana che amo tanto, ma troppe ricette prevedono vino, per sfumare, soffriggere, aromatizzare, pancetta dolce o affumicata per aggiungere sapore – scrive Cristina – ho provato e ho Per esempio: www.trealfierihalal.com. R. Rashidy (a cura di), Mi racconto... Ti racconto, cit., pp. 200 e 216. 22 Intervista in JallaJalla, Radio Popolare di Milano del 6 febbraio 2010 – in studio Andrea Perin e Paolo Maggioni. Vedi anche http://ricettescorrette. noblogs.org/post/2010/03/04/jallajalla-modou-e-il-riso-alla-modouu. 20 21 162 scoperto ottimi compromessi, le ricette si “sporcano” un po’ e noi ci mescoliamo.23 Per quelle che vengono chiamate burocraticamente “seconde generazioni”, e che rispecchiano condizioni assai variegate tra loro, le abitudini di consumo alimentare esprimono in maniera evidente la doppia appartenenza culturale, spesso non vi sono rigide preferenze per i cibi italiani o quelli della propria tradizione, che vengono consumati indifferentemente. Vista la giovane età raramente cucinano e si confrontano con la creazione di sapori, ma spesso il soddisfacimento congiunto delle diverse appartenenze culturali a tavola è una via potenzialmente aperta a nuove forme di meticciamento, anche a quelle che incrociano tradizioni diverse da quella italiana. Per concludere, se la cucina meticcia è un’esperienza casalinga e dispersa, resterà qualcosa di condiviso? L’unica grande regola del meticciato è l’assenza di regole. [...] Ciò che nascerà dall’incontro rimane sconosciuto.24 Sono troppe le variabili per fare previsioni, e in fondo non importa. La cucina è un’attività libera, fuori dai controlli e in sostanza refrattaria alle imposizioni, anche da quelle fintamente benevole dei ricettari tradizionali e non. Ed è bello vedere come le barriere culinarie, erette a difesa delle identità, si possano superare in un boccone. 23 http://cribaba.blogspot.com/2011/04/brasato-al-barolo-per-palatiislamici.html. 24 F. Laplantine, A. Nouss, Il pensiero meticcio, cit., p. 10. 163 Ringraziamenti Prima di tutto voglio ringraziare tutti i migranti che mi hanno aiutato a capire la difficoltà del “viaggio”, ringrazio Gaia per l’aiuto continuo nelle riflessioni, A.sperimenti per i fondamentali stimoli teorici e pratici, Bruno Barba per avermi ascoltato e aiutato nella mia ricerca negli ultimi anni, Andrea Perin per le lunghe discussioni, Abi, Elena e Devis per la ricerca del dubbio, Rossella Di Leo e Amedeo Bertolo per lo stimolo continuo, Paolo Finzi con “A rivista” e Luciano Lanza con “Libertaria” per gli spazi di riflessione che mi concedono, Amalia Rossi e Stefano Boni per i consigli antropologici, Giordano, Graziella, Marcello, Fabrizio, Mattia, Stefano, Anna, Luca, Miki, Sara, Pubia, Moreno, Massimo, Japi, Romano e tutte le amiche e gli amici di Bologna, Torino Genova, Roma, Milano... 165 Bibliografia ragionata Aime M., Eccessi di culture, Einaudi, Torino 2004. 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