CAPITOLO IV Gli spazi padovani dedicati al gioiello

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CAPITOLO IV Gli spazi padovani dedicati al gioiello
CAPITOLO IV
Gli spazi padovani dedicati al gioiello contemporaneo
All’arte contemporanea non si dedica solo lo spazio di un museo, ma anche di una galleria,
pubblica o privata. Vi è tuttavia una sostanziale differenza tra lo spazio del museo e quello
della galleria: nel primo si espone solamente, nella seconda si espone al fine di vendere.
Il gioiello contemporaneo, che si è definito opera d’arte, trova una sua collocazione
naturale sia negli spazi espositivi del museo, sia in quelli della galleria. In entrambi i casi,
nel tempo trascorso entro il contenitore espositivo, il gioiello assume una propria validità,
indipendente dal corpo umano.
Il gioiello, tra le opere d’arte del nostro tempo, è forse quella manifestazione artistica che
meno si adatta a stare isolata, protetta dal contenitore trasparente della vetrina. Infatti, in
qualità di oggetto funzionale all’ornamento della persona, trova la sua ultima
giustificazione nell’essere indossato, nell’apparire insieme ad una parte del corpo; il
gioiello deve essere “usato”. In un’apparente contraddizione, un oggetto così ricco di
pensiero, prezioso, nonché costoso, al pari delle creazioni delle grandi maisons, deve
essere adoperato nel quotidiano.
Detto questo, è importante sottolineare il fatto che il gioiello di ricerca, dentro una teca,
acquista una valenza di indicatore culturale, di espressione creativa del nostro tempo.
D’altronde, mai come nella società contemporanea, scandita dal turbinio veloce di parole e
fatti in continua trasformazione, gli ambienti espositivi del museo o della galleria fermano
l’orologio del cambiamento e fissano le tappe di una memoria storica. Qualsiasi opera
d’arte (compreso il gioiello di ricerca) solo all’interno di una realtà espositiva, ordinata
criticamente, diventa traccia storica e completa la sua funzione di vettore culturale. Ancor
più quando il museo o la galleria in questione diventano vivaci luoghi d’incontro, magari
affacciati sulla strada, facilmente accessibili anche ad un pubblico profano.
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Insomma, il gioiello contemporaneo, oggetto di un valore intrinseco, trova la sua
collocazione ideale, sia in rapporto al corpo umano, sia all’interno di contenitori espositivi,
purché si tenga a mente che è un oggetto creato da e per il corpo.
Nei paesi europei, quali soprattutto la Germania, l’Olanda, la Svizzera o anche
l’Inghilterra, l’arte contemporanea del gioiello ha sempre trovato ampi spazi, soprattutto
espositivi.
Tra i musei pubblici, si ricordano, il Kunsthandwerk di Berlino, il Mak di Vienna, il
Victoria & Albert Museum di Londra, il Mudac di Losanna, il già citato, Schmuckmuseum
di Pforzheim e il Deutsches Goldschmiedehaus di Hanau224.
Da decenni ormai, tali fondazioni straniere acquistano, per le proprie collezioni
permanenti, i gioielli di quegli artisti ritenuti rappresentativi delle nuove espressività
ornamentali. Generalmente, al di fuori dei confini dell’Italia, musei, fondazioni o anche
semplici gallerie private, non si limitano alla semplice attività espositiva, ma anche
organizzano incontri sul tema e pubblicano testi o cataloghi a commento critico delle loro
mostre.
Inoltre, sin dalla metà del secolo scorso, per la diffusione del linguaggio orafo
contemporaneo, si sono rivelati di fondamentale importanza i concorsi internazionali
organizzati in alcune città straniere. Un caso esemplare è la città di Monaco dove
sin dal 1950 si manifesta la straordinaria azione culturale dello studioso Herbert Hofmann che
determina la nascita di strutture espositive annuali. La prima esposizione, denominata «Form und
Qualität», modificata successivamente in «Exempla», fu realizzata nel 1950 nell’ambito della
International Trade Fair. Sempre Herbert Hofmann nel 1959 crea una seconda sede espositiva.
[…] Anche questa istituzione prevedeva manifestazioni annuali, regolate come concorsi a premi,
in una severa selezione […] pure questa manifestazione, nel tempo, assume denominazioni diverse
[…] sino all’attuale nome «Schmuck» 225, dal 1996226.
224
Queste ultime due fondazioni sono di estrema importanza in quanto sono state istituite per la sola «raccolta,
catalogazione e studio di opere di oreficeria e argenteria, con una forte presenza di gioielli di ricerca creati dagli
anni Cinquanta a oggi da artisti provenienti da ogni parte del mondo» (A. ZORZI, Il rapporto dell’artista orafo
contemporaneo con il pubblico, in L. LENTI (a cura di), Gioielli in Italia. Il gioiello e l’artefice… cit., 2005, p.
215).
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Schmuck oggi rappresenta, forse, la rassegna concorso di oreficeria internazionale più importante. Nel 2007,
Schmuck, giunta per la prima volta in Italia, è stata ospitata solamente a Padova.
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Sin dalle prime edizioni di Form und Qualität le creazioni degli orafi padovani (a
cominciare da Pinton) hanno trovato un valido sostegno e mezzo di promozione.
Accanto all’iniziativa pubblica, fin dagli anni Settanta, le gallerie private straniere hanno
avuto un ruolo determinante nello scoprire e far conoscere i nuovi modi di concepire
l’ornamento, compresi quelli proposti dalla scuola di Padova. Tra le prime fondazioni
private si ricordano la Galerie Sieraad (1969) e la Galerie Râ (1976) di Amsterdam, la
Electrum Gallery di Londra (1971), la Galerie am Graben di Vienna, la Helen Drutt
Gallery di Filadelfia (1974) e la Galerie Marzee di Nijmegen (1978).
Caso diverso quello dell’Italia.
Nel campo delle iniziative pubbliche, nel nostro paese, mancano ancora oggi i presupposti
per poter attuare una valida politica espositiva legata al gioiello di ricerca227 e, per quanto
riguarda l’ambito privato, le gallerie dedicate a tale forma espressiva sono ancora troppo
poche. In tal modo, si ostacolano inevitabilmente le operazioni di aggiornamento e di
affermazione degli artisti, nonché si limitano le possibilità di conoscenza degli
appassionati che non sanno dove rivolgere e approfondire i loro interessi.
Caso isolato nella realtà italiana è la città di Padova228 che, grazie all’impegno dei suoi
artisti e dei galleristi, nonché conoscitori appassionati, è diventata un centro di levatura
internazionale per la ricerca e la promozione dell’oreficeria contemporanea.
226
G. FOLCHINI GRASSETTO , Sezione
GRASSETTO (a cura di), Contemporary
retrospettiva delle esposizioni. Biografie, Bibliografia, in G. FOLCHINI
Jewellery… cit., 2005, pp. 151-52. La critica padovana, sempre in queste
pagine, ricorda come, nel 1973, sia stato istituito un premio intitolato a Hofmann, diventato presto «uno dei
massimi riconoscimenti internazionali», vinto, in più occasioni, dai padovani.
227
Il Museo degli Argenti di Palazzo Pitti a Firenze è l’unico museo statale italiano ad avere una sezione dedicata
ai gioielli realizzati dal XVI al XX secolo. La raccolta pecca però in termini di scelta critica delle opere esposte
essendo, infatti, il frutto esclusivo di donazioni private di artisti (spesso solo insigni artigiani) e collezionisti.
Pochissime le opere straniere esposte e comunque allestite in modo tale da essere poco significative, come nel
caso del Circle bracelet (1967), unico gioiello esposto di Gijs Bakker. Tra gli artisti padovani, Pinton, Babetto,
Franzin e Zorzi hanno donato alcuni dei loro pezzi.
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Padova è l’unica città italiana che da anni ha impostato un discorso critico attorno al gioiello contemporaneo.
Anche Firenze, negli ultimi anni, comincia a muoversi bene in questa direzione (basti solo pensare all’istituzione
della scuola orafa Le Arti Orafe). Se devo pensare ad altri spazi italiani dedicati al gioiello contemporaneo, oltre
alle gallerie padovane che rappresentano un unicum nel panorama espositivo nazionale, mi viene in mente
l’Alternatives Gallery di Roma, diretta da Rita Marcangelo. La galleria, ormai attiva da undici anni, organizza
mostre di grande prestigio oltre a presentare una collezione permanente di ragguardevole bellezza. Zorzi, nel
2004 (A. ZORZI, Il rapporto dell’artista orafo contemporaneo con il pubblico, in L. LENTI (a cura di), Gioielli in
Italia. Il gioiello e l’artefice… cit., 2005, p. 212-14), ricorda come, in Italia, ci siano numerosi spazi privati che si
dedicano, anche saltuariamente, alla promozione del gioiello contemporaneo; per esempio, la galleria Borghesi di
Verona, Valmore Studio d’arte di Vicenza e lo spazio Anthias di Milano. Lo stesso autore nota come negli ultimi
tempi, anche le gallerie d’arte contemporanea cominciano ad interessarsi all’argomento; egli cita, nel caso di
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In città, i primi due spazi privati dedicati al gioiello contemporaneo sono stati inaugurati
tra il 1982 e il 1983. Si tratta dello studio GR.20 di Graziella Folchini Grassetto e del
Marijke Studio di Marijke Bianchi Vallanzasca229.
Prima di tale data, l’ambiente provinciale di Padova non era forse pronto a promuovere
veramente il gioiello d’arte, anche se qualche timido accenno d’interesse si era verificato
già a partire dagli anni Cinquanta.
Porto ad esempio solo il caso di una mostra che si organizzò in quegli anni. All’inizio del
1958, i giornali locali riportarono il successo dell’esposizione di artigianato padovano
allestita nella sala della Scuola di San Rocco. A detta dei giornalisti, tale manifestazione
voleva dimostrare come
all’origine […] dell’attività artigiana, che si concreta nei manufatti pregiati, sta un’ampia
ispirazione di creatività e, quindi, un’espressione d’arte230.
Tale parere è sicuramente positivo e incoraggiante, ma è rivolto pur sempre alle opere
esposte in una rassegna di artigianato artistico, e si confondono ancora i gioielli di Pinton
tra le ceramiche, le lacche, il mobilio in stile e i metalli sbalzati.
Pinton, in quegli stessi anni, dimostrò non solo di essere uno dei pionieri dell’oreficeria
contemporanea, ma anche uno dei primi protagonisti che attivamente si muoveva per
diffondere, presso una clientela tradizionalista, un diverso intendimento del prezioso.
In particolare, dal 1958 fino al 1968, Pinton nel suo negozio in via S. Francesco «non si
limitava tanto alla semplice attività commerciale», ma aveva creato «una sorta di punto
d’incontro e di confronto per gli artisti, quasi una piccola galleria»231. Grassetto ricorda
come il negozio del maestro fosse assai frequentato dai padovani che capivano e
Padova, la galleria Fioretto, cui io aggiungo la galleria Stevens, sempre di Padova, la quale ha organizzato, nel
1987, una mostra monografica di Babetto (cfr. F. M. FATA, Giampaolo Babetto. Stevens, Padova, in «Flash Art»,
140, estate 1987, p. 111).
229
Le mostre organizzate dalle due galleriste padovane, così come le esposizioni curate dal Settore Cultura del
Comune di Padova, hanno sempre trovato ampio spazio sulle pagine della rivista locale «Padova e il suo
territorio». Anche il periodico «L’orafo Italiano» ha dedicato sempre molta attenzione alle iniziative espositive
delle gallerie padovane.
230
Oggetti artigiani d’arte nella Scuola di S. Rocco, in «Il Gazzettino», 20 marzo 1958, p. 4.
231
A. CASTELLANI, La Scuola Orafa padovana, in C. VIRDIS LIMENTANI (a cura di), 1950-2000. Arte a Padova…
cit., 2003, p. 216.
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apprezzavano lo stile squisitamente primitivista dei primi gioielli pintoniani. La levità di
segno e di maniera, e la classicità di tali oggetti non poteva che incontrare un grande
favore di pubblico232.
Il “cassetto” di Alberto Carrain
I primi promotori e scopritori dell’attività orafa padovana furono i coniugi Carrain,
Alberto e Annamaria.
Alberto Carrain (scomparso nel 1994), collezionista e conoscitore d’arte, aveva un negozio
di interior design nel centro storico di Padova.
Carrain fu un uomo di grande carisma e intuito artistico, un «cercatore d’arte»233
lungimirante e preparato. Egli riconosceva il talento nei giovani artisti e sapeva
individuare e trasmettere ciò che di nuovo avveniva nel mondo delle arti. A partire dai
primi anni Cinquanta, Carrain divenne uno dei protagonisti più importanti della cultura
artistica cittadina; una persona entusiasta e attenta alle novità. Furono questi gli anni che lo
videro protagonista delle attività culturali realizzate negli spazi della galleria la
Chiocciola234 (1952-1958), prima in qualità di coordinatore, insieme al pittore Mario
Disertori, e poi di direttore (dal 1955).
Fu Carrain a voler intitolare la galleria con il nome “Chiocciola”, richiamando, la scala a
chiocciola che permetteva l’accesso, dai locali della libreria Draghi-Randi, all’ambiente
232
Incontro con la gallerista del 21 novembre 2007.
V. BARADEL, Alberto Carrain, cercatore d’arte, in Mario Pinton. L’oreficeria… cit., 1995, s. p.
234
Da non confondere con la galleria La Chiocciola diretta da Sandra Leoni e Marina Garretto Valeri, inaugurata
nell’ottobre del 1961 e chiusa nel 1992. La nuova Chiocciola aveva la propria sede in galleria Santa Lucia 11
(fino al 1986), in un altro locale sempre di proprietà della libreria Draghi (questa volta al pianterreno collegato da
una scala ad un scantinato). Per le date precise mi sono riferita, oltre alla testimonianza del signor Randi e a sue
documentazioni personali, anche ad articoli apparsi sui giornali locali tra cui: L. GROSSATO, Alla «Chiocciola»
riaperta Magnolato e Strazzabosco, in «L’orologio», III, 45, 29 novembre 1958, p. 16; Un importante
avvenimento cittadino. Si riapre in pieno centro la Galleria della Chiocciola, in «Il Gazzettino», 5 settembre
1961, p. 4.; C. SEMENZATO, Inaugurata la nuova «Chiocciola», in «Il Gazzettino», 8 settembre 1961, p. 4; M.
GORINI, Mostre d’arte. Alla «Chiocciola», in «Patavium», 5-6 dicembre 1971, p. 93; C. S., I 25 anni della
Chiocciola, in «Padova e il suo territorio», I, 1, maggio-giugno 1986, p. 39; P. RANDI, La Chiocciola e Picasso.
Com’è nata la galleria, in «Il Gazzettino», 9 aprile 1986, p. VI; S. LEONI, La storia della Chiocciola non è quella
di Pietro Randi, in «Il Gazzettino», 17 aprile 1986, p. V; L. GAVA, La politica culturale delle gallerie, in C.
VIRDIS LIMENTANI (a cura di), 1950-2000. Arte a Padova… op. cit., 2003.
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rialzato della galleria235. L’allora proprietario della libreria, Pietro Randi, in occasione di
un’intervista che mi ha concesso pochi mesi fa, definiva Carrain il «braccio che portò a
realizzare materialmente la galleria»236.
Una giovanissima Annamaria Bellutta (Carrain), già interessata al mondo delle arti e del
design, seguiva le conferenze e i dibattiti che si svolgevano presso la Chiocciola. Di lì a
poco l’incontro con Alberto Carrain e l’inizio di un sodalizio affettivo e artistico che li
legò per oltre trenta anni.
Per Alberto Carrain «la bellezza come evidenza»237 fu sempre il principio estetico che
intimamente lo guidava nella scelta dell’opera d’arte. Il bello gli si rivelava in un istante, il
bello di un’opera che era frutto di un pensiero realizzato, di un istinto creativo unico e
completo. Il bello che si riusciva a recepire ad un primo sguardo. Da valore estetico,
intrinseco, “la bellezza”, negli anni, divenne un atto di giudizio critico, forse anche troppo
rigido, che guidò Carrain nelle sue scelte di gallerista.
Per la moglie, invece, il bello, ancor oggi, si traduce più concretamente nella compiutezza
delle forme rigorose, geometriche e caratterizzate da un’essenzialità lineare. Nel momento
in cui le si chiede di definire l’idea del bello, la signora Carrain parla anche di «armonia
delle forme»238. E allora si capisce perché, ben presto, nei primi anni Sessanta, i Carrain
apprezzassero le creazioni degli orafi padovani che si impegnavano nell’inseguire
l’armonico sviluppo di un pensiero.
I coniugi Carrain, due «mentalità diverse» e dai «gusti ben precisi»239, facevano del
confronto e dello scambio reciproco di impressioni e di idee, un valore fondamentale nella
loro personale ricerca nel mondo dell’arte; l’arte che per Annamaria Carrain appartiene
all’essere umano come la musica e senza cui non si può vivere. La personale sensibilità
per il bello, il saper vedere e leggere, l’ascoltare l’opera d’arte, sono tutte facoltà che i
Carrain affinarono con l’esperienza di galleristi e con un continuo lavoro di ricerca.
235
Di particolare bellezza le vedute di Padova affrescate da Fulvio Pendini, nel 1963, sulle pareti della galleria
Santa Lucia. In uno di questi affreschi, ancor oggi ben visibile, sullo sfondo della città, si stagliano i simboli della
galleria Draghi e della galleria di Carrain e Disertori.
236
Incontro con il signor Randi del 2 novembre 2007.
237
V. BARADEL, Alberto Carrain, cercatore d’arte, in Mario Pinton. L’oreficeria… cit., 1995, s. p.
238
Incontro con la gallerista del 10 luglio 2007.
239
Incontro con la gallerista del 10 luglio 2007.
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Entrambi erano attratti dalle cose che “avevano un’anima”, essi hanno sempre avuto un
rapporto molto istintuale con l’oggetto d’arte.
Fin dalle prime esperienze espositive, i due galleristi, sempre comunque impegnati nel
mondo del design, cominciarono a guardare con attenzione alle cosiddette arti minori.
Negli anni, innumerevoli sono state le rassegne dedicate al vetro, alla tessitura (ad esempio
le opere di Sandra Marconato) e alla ceramica (Gambone, Fabrili, Bucci, Bonaldi e altri),
dimostrando un primato di interesse che, all’epoca, non trovava pari in Italia.
Per quanto riguarda l’oreficeria, il discorso è un po’ diverso. I Carrain non hanno mai
tradotto la loro passione personale per l’ornamento contemporaneo in un impegno
espositivo continuo.
Resta il fatto che, già durante la direzione della Chiocciola e di Stagioni (la sua prima
galleria privata cui seguì Interni), Carrain cercò di unire alle mostre di pittura e scultura
anche qualche pezzo d’oreficeria progettato e, magari anche eseguito, da artisti come i
fratelli Pomodoro, Franco Cannilla, Gem Montebello, Consagra e altri240.
Ai gioielli progettati dagli artisti, ma creati dagli artigiani, Annamaria Carrain, ha sempre
preferito i pezzi unici realizzati interamente dagli orafi artisti.
Inutile insistere sulle difficoltà che hanno incontrato i Carrain nel promuovere il gioiello
contemporaneo. Fin dalle prime mostre, i gioielli esposti erano pochi, quasi sempre chiusi
in qualche cassetto che Carrain apriva solo nel momento in cui vedeva un cliente
particolarmente interessato o semplicemente incuriosito. Di fronte ad ornamenti così
diversi dal tradizionale, i clienti apprezzavano l’estetica interessante o il materiale
dell’esecuzione, ma pochissimi compravano l’oggetto e spesso non trovavano piacere
nell’indossarlo a causa della poca praticità dello stesso. Il gioiello d’artista rischiava di
divenire così un’interessante soprammobile. Inoltre, la signora Carrain ha potuto
constatare come alcune sue clienti indossino solo ora un gioiello anni prima acquistato
nella sua galleria perché l’artista che lo aveva eseguito solo ora è un nome importante.
240
In alcuni casi le opere d’oreficeria venivano esposte insieme a quelle di altri artisti come nel caso di Pinton
(già presente alla Chiocciola nel 1954) esposto insieme a Sartori, Galvan e altri cfr. Oggi alla «Chiocciola»
artisti padovani, in «Il Gazzettino», 25 gennaio 1958, p. 4; L. GROSSATO, Artisti padovani alla Chiocciola, in
«L’orologio», III, 6, 8 febbraio 1958, p. 14.
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Insomma, come spesso succede anche il gioiello non è esente da questa miopia che
accompagna spesso la valutazione di un’opera contemporanea.
Ben presto le creazioni degli orafi licenziati dall’Istituto Selvatico richiamarono
l’attenzione dei Carrain. Sono gli anni Sessanta e la galleria d’arte e design dei Carrain
ormai è l’Adelphi di via Giotto (chiusa nel 2001).
La signora Annamaria ricorda quegli anni con queste parole:
Tutti apprezzavano le doti di mio marito, questa sua capacità di vedere l’artista, di capire il
giovane che sarebbe diventato qualcuno; questo valeva per gli orafi, per i pittori e per gli
scultori241.
L’approvazione di Alberto Carrain valeva come una garanzia di qualità e di valore.
Se Babetto oggi è un orafo artista di successo internazionale, deve molto ad Alberto
Carrain e alla volontà del gallerista di voler vedere come lavorava un allora giovanissimo
studente del Selvatico. Nel momento in cui Carrain vide i lavori di Babetto, non solo
acquistò immediatamente l’intera collezione, ma anche incoraggiò l’artista a sviluppare la
sua ricerca; Babetto capì che doveva continuare a interessarsi di oreficeria242.
I Carrain, negli anni, si impegnarono soprattutto nell’esposizione di opere d’arte e di
design. Essi erano poco interessati a scrivere, a trattare criticamente delle opere che
esponevano, soprattutto nel caso dei gioielli; per loro, il far vedere nel modo giusto aveva
più valore di tante parole scritte, e il confronto e lo scambio di impressioni tra gallerista e
visitatore era molto più fruttuoso. Ciò valeva soprattutto nei decenni passati quando le
gallerie in città erano molte di più, le proposte più interessanti e la gente disposta a perdere
un po’ del suo tempo. Allora, i giovani che frequentavano le gallerie erano diversi, e, nota
la signora Annamaria,
241
Incontro con la gallerista del 10 luglio 2007.
Incontro con l’artista del 7 novembre 2007 (Cfr. anche M. L. BIANCOTTO, “Anello d’onore” a Giampaolo
Babetto, in «Padova e il suo territorio», XII, 70, dicembre 1997, pp. 58-59). Carrain, oltre a Babetto, sostenne il
giovane Visintin, Piazza e altri.
242
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erano molto più attenti e curiosi di oggi nel vedere e conoscere quello che di nuovo stava nascendo
[…]. C’era entusiasmo, attesa di rinnovamento e di aspettative per un futuro diverso 243.
Negli anni, i gioielli proposti nelle vetrine dei Carrain non sono mai stati estremamente
eccentrici, dissacranti, o creazioni puramente concettuali come la collana (formata da
guanti di gomma cuciti insieme) realizzata nel 2004 da Camilla Prasch (fig. n. 89); opera,
questa, che Puig Cuyàs ha scelto di esporre in occasione dell’ultimo Schmuck (2007) che
ha fatto tappa anche nella nostra città (fig. n. 90). A proposito della collana della Prasch e,
in generale, delle creazioni ornamentali dei paesi nordici, la Carrain, parla non di gioielli
ma proprio di ornamenti che, in quanto tali, non sottendono per forza il concetto di
prezioso e quindi dell’uso di metalli nobili e di gemme. La signora Annamaria sottolinea
coma la nostra cultura invece tenda ancora oggi a legare indissolubilmente, alla parola
gioiello, il valore di materia preziosa.
Sappiamo bene come, in realtà, usare materiali poveri, come la plastica, l’acciaio o la
carta, per realizzare ornamenti, non si traduca in un reale contenimento dei costi del
gioiello – del resto già Pinton aveva ridotto al minimo l’impiego dell’oro per realizzare
opere di raffinata leggerezza – perché, in tal caso, si compra il progetto e la tecnica con cui
si è tradotta l’idea iniziale in un fatto concreto. Ciò implica che le possibilità di acquisto da
parte di un pubblico più ampio si riducano di molto.
La signora Carrain insiste da anni sull’importanza di affiancare alla creazione del pezzo
unico, una produzione, magari anche seriale, di ornamenti contemporanei dal prezzo più
accessibile, acquistabili, quindi, anche da una giovane clientela.
Quando, all’inizio degli anni Ottanta, Grassetto e Vallanzasca aprirono i loro spazi, i
Carrain preferirono rivolgere la loro totale attenzione a ciò che si realizzava nei diversi
ambiti della pittura e della scultura.
Annamaria Carrain oggi lavora come critica d’arte e del gioiello.
243
Intervento della signora Annamaria Carrain in occasione della tavola rotonda organizzata dal Comune di
Padova il 18 febbraio 2007 (Padova, Palazzo Moroni, Sala Paladin), dal titolo Gioiello contemporaneo: qualità,
attori, tendenze.
91
Lo studio GR.20244
Fin dalla prima mostra (1982), Graziella Folchini Grassetto si è sempre dedicata, con pari
energia, all’attività espositiva e allo studio critico del gioiello, tanto da essere, oggi, una
delle esperte più stimate a livello internazionale245.
L’interesse per l’arte contemporanea e, in particolare, per il gioiello di tutte le epoche è
qualcosa di innato per Folchini Grassetto, e i due saperi sono per lei inscindibili.
La gallerista si avvicina al mondo del gioiello da autodidatta. Ella comincia ben presto a
frequentare le case d’aste o le fiere d’antiquariato, ampliando così il giro di conoscenze nel
mondo dell’oreficeria europea.
I primi contatti con l’ornamento contemporaneo avvengono a Padova, grazie ad una
mostra organizzata da Alberto Carrain. Le opere di scultura di Cannilla, Carmelo Cappello
e altri, esposte negli spazi della galleria Adelphi, colpiscono talmente l’immaginario della
Grassetto da spingerla a conoscere di persona gli artisti. Nel momento in cui si rende conto
che tali scultori sono anche prestigiosi orafi, ella decide di approfondire le sue iniziali
curiosità. Ecco allora l’incontro con Masenza e con l’ambiente romano così importante
nell’ambito della cultura italiana del gioiello contemporaneo. Di lì a poco la decisione
della Grassetto di aprire lo studio GR.20, uno spazio dedicato alle arti applicate del XX
secolo.
Essere gallerista non significa solo vendere dei pezzi d’arte, ma significa anche sapere in
che punto della storia dell’arte tali creazioni si situano, che relazioni hanno, che linguaggi
usano, conoscere l’artista che li ha creati, e con quali tecniche, il suo percorso personale, e
così via.
Nel caso del gioiello, oltre ad un’ovvia conoscenza delle materie orafe e delle tecniche di
lavorazione, è di fondamentale importanza, per un gallerista, avere una precisa coscienza
244
Si rimanda in appendice per l’elenco completo delle esposizioni e delle pubblicazioni realizzati, dal 1982 ad
oggi, dalla signora Folchini Grassetto.
245
Dal 1993, la Grassetto è membro permanente del comitato scientifico della mostra-concorso (Schmuckszene)
che si tiene annualmente a Monaco di Baviera.
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di come il gioiello si sia trasformato nel corso dei secoli, perché, come Grassetto ricorda
«il gioiello contemporaneo ha grandissimi riferimenti col passato»246.
Allora si capisce bene la ragione dell’interesse che la gallerista nutre sia per le creazioni di
inizio secolo scorso, sia per i gioielli del nostro tempo.
Le prime esposizioni presentavano pezzi d’oreficeria di primo Novecento con opere d’arte
coeve per dimostrare le sottili relazioni tra i due linguaggi. Altre volte, Grassetto esponeva
gioielli in stile liberty o déco, insieme a ornamenti contemporanei di fronte ai quali il
pubblico, sconcertato, non riusciva ad esprimere la stessa ammirazione dimostrata nei
confronti dei gioielli d’epoca.
La Grassetto non ha mai proposto alla sua clientela oggetti di semplice comprensione e
quindi facilmente vendibili, accettando così le leggi del mercato. Un mercato del gioiello
contemporaneo che d’altronde, per la gallerista, non può esistere nel momento in cui si
sceglie di presentare opere di alta qualità, che, in quanto tali, sono poche, uniche e di
conseguenza costose e adatte ad essere acquistate da una ristretta cerchia di clienti247.
La gallerista padovana non sceglie le opere da esporre in base a criteri di valutazione
puramente personali, istintuali. Ella ritiene che per capire quali opere sia giusto proporre,
bisogna prima viaggiare molto, incontrare artisti e critici, scambiarsi pareri, visitare
mostre, convegni e documentarsi accuratamente.
Nelle opere degli artisti che presenta, la Grassetto deve riconoscere l’originalità, «il rigore
dell’esecuzione»248 che si fa tutt’uno con la progettazione (spesso affidata al disegno); ella
espone solamente oggetti che considera «veramente riusciti e quindi perfetti da
indossare»249, che non sono piccole sculture, ma gioielli, ornamenti.
246
Incontro con la gallerista del 21 novembre 2007.
Alberto Zorzi scrive «nel nostro paese non esiste un rapporto con il pubblico e con il mercato (in termini di
dimensioni e di qualità) tale da sostenere che esista una commerciabilità e vendibilità elevata del gioiello
d’artista, creato dall’autore contemporaneo, a differenza di quanto avviene nel mondo dell’arte moderna e
contemporanea. […] Una circolazione delle opere, dei gioielli creati dagli artisti e dai designer, strutturata e
articolata in manifestazioni fieristiche specifiche, non esiste». Più avanti, l’autore nota che ci possono essere
alcune eccezioni nel momento in cui, nell’ambito delle tre fiere internazionali di Vicenza, Arezzo e Valenza, si
decide di dar spazio anche al «design contemporaneo» (da A. ZORZI, Il rapporto dell’artista orafo contemporaneo
con il pubblico, in L. LENTI (a cura di), Gioielli in Italia. Il gioiello e l’artefice… cit., 2005, p. 211-12).
248
Incontro con la gallerista del 21 novembre 2007.
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Incontro con la gallerista del 21 novembre 2007.
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Ella afferma poi che è di fondamentale importanza spiegare ciò che si espone, ancor più
se, in tale operazione, si è aiutati dal pensiero chiarificatore dell’artista stesso. Dal 1989, la
gallerista padovana ha pubblicato diversi interventi scritti, quasi tutti a complemento
critico delle rassegne da lei stessa organizzate, rendendole occasioni di comprensione
importanti, nonché uniche, nel panorama internazionale; ancor più se si pensa che le
mostre curate dallo Studio GR.20 sono itineranti e spesso ospitate in spazi di antiquari;
conoscitori che sanno individuare nell’arte contemporanea i riferimenti col passato250.
La signora Grassetto ha promosso, fin dalle prime esposizioni, gli artisti orafi «di maggior
rottura»251. Per esempio, all’inizio degli anni Ottanta, per quanto riguarda gli artisti della
scuola di Padova, rompere col vicino passato significa mostrare le opere coeve di Pavan e
Babetto ovvero gli
iniziatori di un nuovo linguaggio dove il rigore geometrico è basato sulla normativa, dove il
gioiello diventa riferimento tecnologico o architettonico 252.
Sono gli anni, ricorda la gallerista, in cui l’idea di spazio entra prepotentemente nell’arte,
non solo orafa, basti pensare alle sperimentazioni del gruppo Enne.
Alcuni degli orafi padovani, come dimostra il caso di Pavan e Babetto nei confronti del
Minimalismo o, negli anni successivi, della Zanella nei confronti dell’Informale, vivono e
interpretano «i movimenti coevi della cultura visiva»253, recependone subito le più
originali stimolazioni. Altri, invece, sempre secondo la signora Grassetto, scoprono più
tardi le novità apportate dai linguaggi visivi. È il caso di Pinton che si dedica ad una
creazione orafa stilisticamente geometrica in seguito ad operazioni simili realizzate dai
suoi allievi, intimamente influenzati dalle contemporanee sperimentazioni del Gruppo
Enne. Anche la nuova generazione (tra cui Stefano Marchetti) dimostra di muoversi molto
bene dentro la cultura contemporanea, post-moderna.
250
Incontro con la gallerista del 21 novembre 2007.
Incontro con la gallerista del 21 novembre 2007.
252
Incontro con la gallerista del 21 novembre 2007.
253
Incontro con la gallerista del 21 novembre 2007.
251
94
Gli artisti di Padova, poi, differiscono, al di là di ovvie questioni stilistiche, per un diverso
atteggiamento nei confronti della promozione personale. Sia la Grassetto che la Carrain
notano infatti, come gli artisti della vecchia generazione, eccezion fatta per Babetto, siano
sempre stati schivi, chiusi nei loro laboratori col solo pensiero di creare.
In occasione del colloquio con la signora Grassetto, ho voluto anche capire quale fosse la
clientela che tradizionalmente acquistava un gioiello contemporaneo, e la sua risposta mi
ha particolarmente colpito. I gioielli esposti nello Studio GR.20 vengono comprati spesso
dagli uomini perché amano vedere queste opere d’arte indossate da figlie e mogli. Solo
negli ultimi tempi, gli uomini cominciano ad acquistare ornamenti contemporanei per se
stessi, superando «una triste restrizione che risale al secolo scorso»254.
Per quanto riguarda un certo tipo di clientela femminile, nota Grassetto, pur amando
questo genere di gioiello, essa preferisce indossare, nelle occasioni ufficiali, ancora il
diamante.
Gli artisti esposti nelle vetrine dello Studio GR.20 sono stati moltissimi, dai padovani fino
agli olandesi (ad esempio Ted Noten, fig. n. 91, Robert Smit, Katja Prins fig. n. 92),
austriaci, tedeschi (tra cui Winfried Krüger, Georg Dobler, fig. n. 93) e anche inglesi
(ultimamente David Watkins). L’ultima esposizione del 2007 ha visto insieme i lavori di
Robert Baines, Karl Fritsch, Fritz Maierhofer (fig. n. 94) e Ramon Puig Cuyàs.
In collaborazione col Comune di Padova, la Grassetto ha organizzato rassegne pubbliche
di grande interesse, in spazi cittadini di intima suggestione.
Oggi, la signora Grassetto auspica la realizzazione di un museo cittadino dedicato al
gioiello contemporaneo e un’accademia orafa perchè, purtroppo, il Selvatico, da quasi
venti anni non riesce più a formare grandi artisti.
254
Incontro con la gallerista del 21 novembre 2007.
95
Il Marijke Studio255
“Non andiamo vestite con la crinolina, però il gioiello è dell’epoca della crinolina.”
Marijke Bianchi Vallanzasca256
Da sempre appassionata di tutto ciò che è contemporaneo, dal pensiero alla forma
compiuta di un oggetto di design o d’architettura, Marijke Bianchi Vallanzasca inizia a
interessarsi del gioiello contemporaneo per caso, o, per meglio dire, per un’apparente
disgrazia. Alla fine degli anni Settanta, perde tutti i gioielli di famiglia durante un viaggio
in treno; poco dopo, la signora Vallanzasca scopre che in città operano abilissimi artisti
dell’oro, quali Pinton, Pavan e Babetto. E’ subito una grande passione che inizialmente la
porta a collezionare dei gioielli per sé e poi a far scoprire questo mondo segreto ad un
pubblico più vasto.
Vallanzasca aveva già avuto modo di conoscere l’oreficeria straniera presentata in alcune
gallerie viennesi (tra cui la Galerie am Graben di Inge Asenbaum). Si può immaginare
come le opere esposte, fatte di lamierino, plastica, o carta colpissero profondamente la sua
immaginazione e la sua sensibilità così votata all’espressione contemporanea.
Nei primi anni Ottanta comincia a curare le prime mostre.
La prima esposizione è del 1983 e già dal titolo, Inno alla gioia, dimostra un sottile intento
ludico: la parola inno è infatti riferita alla gioia intesa come piacere di indossare gli
ornamenti esposti? o forse gioia come oggetto prezioso?
La rassegna è realizzata in collaborazione con Ennio Chiggio, già esponente del Gruppo
Enne, e Giulia Laverda, e allestita negli spazi della galleria Tot, in via Santa Lucia. È
proprio Chiggio, ricorda la signora Vallanzasca, a insegnarle come si realizza
concretamente una mostra. Tra gli artisti esposti, tutti maestri eccezionali, risaltano i nomi
di Babetto, Maierhofer e Martinazzi; per una donna avvicinatasi da poco al mondo del
gioiello, per di più da autodidatta, tale scelta espositiva dimostra come, già allora, la
signora Marijke si muovesse con grande spirito critico e intelligenza tra le maglie strette
255
Si rimanda in appendice per l’elenco completo delle esposizioni realizzate da Marijke Vallanzasca dal 1983 al
2007.
96
dell’oreficeria, diventando una delle promotrici più valide nell’ambito del gioiello
contemporaneo257.
Vallanzasca non apre subito uno spazio privato, chiede invece «asilo politico alla galleria
Lanaro, negozio d’arredamento, design e oggettistica in centro a Padova»258.
Del 1987 è la prima mostra itinerante, organizzata sempre in collaborazione con Chiggio,
intitolata Segnali per il corpo259. È solo nel 1992, dopo quasi un decennio di impegno nel
settore orafo, che Vallanzasca decide di aprire un proprio spazio, per soddisfare, in parte, il
bisogno di avere un luogo di riferimento legato alla sua attività. La prima mostra
organizzata nella nuova galleria è intitolata Hom. Age. maestri di gioia260. Tra i vari nomi
presentati nella rassegna, spicca quello dello svizzero Bernard Schobinger, per la prima
volta in Italia.
La signora Vallanzasca, dal 2003, ha ampliato i suoi spazi, allestendo una piccola vetrina
permanente, in pieno centro cittadino. Uno spazio che la gallerista vuole tenere idealmente
sempre aperto, abbassando solo di sera delle serrande con dei fori particolari, allungati, a
forma di occhio, posti ad altezza d’uomo. Il gioco dei tagli della barriera che protegge, ma
allo stesso tempo allontana, spinge a curiosare all’interno di questo piccolo contenitore di
pensiero.
Per la gallerista padovana, il gioiello contemporaneo è
una ricerca, di forma e materiali, che stacchino da secoli di collane di perle e catene schiaviste.
[…] Il gioiello contemporaneo è soprattutto concettuale261.
La ricerca della Vallanzasca è continua e volta sempre a scoprire e a presentare l’artista
che attraverso la propria forma d’arte «mette in moto il pensiero»262, perché il gioiello
256
Incontro con la gallerista del 21 novembre 2007.
Cfr. V. BARADEL, 21 anni di Marijke Studio. Gioiello contemporaneo d’autore, in «Padova e il suo territorio»,
XIX, 112, dicembre 2004, p. 53.
258
Incontro con la gallerista del 21 novembre 2007. Le mostre organizzate negli spazi della galleria Lanaro di
Padova sono due: Razionale e fantastico nel decoro del corpo del 1984 e, del 1986, Evoluzione Gioiello in cui si
presentavano anche i lavori del caposcuola padovano Pinton.
259
V. BARADEL, Segnali per il corpo. Una mostra a Padova del gioiello contemporaneo olandese, in «Padova e il
suo territorio», III, 12, 1988, pp. 34-35.
260
Cfr. V. BARADEL, Maestri di gioia, in «Padova e il suo territorio», VIII, 41, febbraio 1993, pp. 32-33.
261
Incontro con la gallerista del 21 novembre 2007.
257
97
contemporaneo contiene «in sé le tensioni comuni alle altre manifestazioni dell’arte e del
design»263.
Organizzare una mostra significa per lei viaggiare molto, conoscere di persona gli artisti,
investire le proprie energie nel presentare i talenti emergenti, per veicolare le novità di
pensiero. Insiste, la signora Vallanzasca, nel dire che per dedicarsi al gioiello di ricerca,
bisogna avere una grande curiosità e un’intensa passione che spinge a scoprire, a proporre
e a sopportare le classiche porte in faccia.
A differenza della Grassetto, la signora Marijke non ha mai sentito l’esigenza di scrivere.
Ella definisce il suo modo di operare in tali termini: «conosco, vedo, scelgo ed espongo»264
e afferma ciò con la sicurezza di un’esperienza oramai ventennale.
Mentre, lo studio GR.20 si presenta come un accogliente salotto, un luogo di incontro per
appassionati e artisti, molto raccolto, dove le vetrine del gioiello convivono con opere di
arte contemporanea, lo spazio del Marijke Studio è totalmente dedicato al gioiello. Un
ambiente contemporaneo, un contenitore d’arte minimalista, fatto di legno e vetro, che fa
della pulizia della linea un principio guida.
Da sempre la gallerista padovana organizza ogni anno due mostre che presentano, per lo
più, artisti stranieri, spesso olandesi.
La signora Vallanzasca ammira molto l’operato degli artisti olandesi, spregiudicati,
irrazionali, in assoluto «i più liberi […] non imbrigliati nella geometria euclidea»265; gli
stessi olandesi le hanno spiegato come questa libertà di pensiero nascesse dal fatto che, fin
dal secondo dopoguerra, essi avessero avuto la fortuna di potersi facilmente aggiornare su
quelli che erano i nuovi linguaggi visivi americani, grazie alle innumerevoli mostre
allestite ad Amsterdam266.
Il nome di Marijke Vallanzasca, dal 1994, è legato all’esperienza della fondazione Chi ha
paura… del gioiello contemporaneo?
262
Incontro con la gallerista del 21 novembre 2007.
C. MOROZZI , Quel gioiello è un’eresia, in «Amica», 25 agosto 1999, s. p.
264
Incontro con la gallerista del 21 novembre 2007.
265
Incontro con la gallerista del 21 novembre 2007.
266
Io aggiungerei però una considerazione. Gli artisti del nord Europa, in particolare gli olandesi, sono liberi
mentalmente, perché lo sono anche materialmente. Mi spiego meglio. Le istituzioni culturali favoriscono
l’espressione d’arte contemporanea e gli artisti sono spesso sovvenzionati dallo stato; essi non hanno l’ansia di
263
98
La sede della fondazione è ad Amsterdam e lo scopo, non certo nuovo, è quello di far
realizzare, da designer internazionali, gioielli riproducibili in multipli, ovvero in serie
illimitate, dai prezzi contenuti e culturalmente accessibili. Già Bakker, negli anni Settanta,
aveva tentato un progetto simile senza ottenere risultati soddisfacenti. Ciò che inibisce,
oggi come allora, è il fatto di comprare un oggetto che altri posseggono uguale; viene
meno quel senso di orgoglio nel possedere l’unico, il prezioso oggetto. La fondazione Chi
ha paura… vuole promuovere un tipo di ornamento, chiaro sintomo creativo del nostro
tempo, adatto ad un pubblico ampio, possibilmente giovane. A riprova di ciò, basti
ricordare il mezzo scelto dalla fondazione per ordinare e vendere i propri gioielli: internet,
il mondo telematico che permette la comunicazione più immediata e accessibile oggi
esistente.
I pezzi della serie Chi ha paura… sono stati progettati oltre che da Gijs Bakker, fondatore
del progetto insieme alla Vallanzasca, anche da Alberto Meda, Ron Arad, Marc Newson,
Hannes Wettestein…
Dal 1994, Chi ha paura… è diventato un appuntamento abituale al Salone del Mobile di
Milano. Nel 2004 la collezione ha partecipato anche alla Triennale del capoluogo
lombardo.
Virginia Baradel ricorda come Vallanzasca abbia portato a Padova mostre di levatura
internazionale, quali la rassegna dedicata ai pettini d’artista (1993)267, straordinaria
esposizione di genialità ludica e creativa piegata alla funzionalità di un oggetto banalmente
quotidiano e ancora, la retrospettiva internazionale dedicata alla van Leersum, l’antologica
di Martinazzi e le più recenti rassegne dedicate a Gerd Rothmann (fig. n. 95), a Manfred
Bischoff (fig. n. 96)268 e a Bakker nel 2006; quest’ultime allestite nello spazio cittadino,
l’Oratorio di San Rocco, ormai deputato a ospitare spesso le manifestazioni dedicate al
gioiello contemporaneo.
affermazione che affligge l’artista italiano. L’artista straniero è senz’altro più libero, libero di pensare solo alla
sua arte.
267
V. BARADEL, Metamorfosi di un oggetto qualsiasi, in «Padova e il suo territorio», IX, 47, febbraio 1994, pp.
40-41.
268
M. CISOTTO NALON , Manfred Bischoff. Organiche astrazioni, in «Padova e il suo territorio», XX, 118,
dicembre 2005, pp. 51-52.
99
Galleria Paolo Marcolongo
“Assorbimento totale-informazione internazionale per CAPIRE il mondo dell’oreficeria
contemporanea-il tutto consumato in maniera radicale e coerente con il mio “modo” di concepire il
manufatto e portarlo ai vertici della “conoscenza”.
Paolo Marcolongo 269
Paolo Marcolongo è prima di tutto un artista, un cultore dell’arte e un eclettico
sperimentatore.
Giovane allievo del corso di discipline plastiche del Selvatico di Padova, Marcolongo
completa i suoi studi presso l’Accademia di Belle Arti di Venezia dove si diploma in
Scultura nel 1977. Il suo è un interesse innato per tutto ciò che è forma nello spazio, idea
plastica, in scale dimensionali variabili tra il micro e il macro, tra la progettazione
architettonica, l’installazione o l’ideazione di un piccolo oggetto da indossare. Dopo
l’esperienza nell’ambito della Body Art (1978-1984) che lo porta «a ri-vedere la scultura
nel senso però di FIGURE per il corpo»270, Marcolongo comincia, in tali termini, ad
interessarsi di oreficeria. Per l’artista «fare OREFICERIA»271 è creare figure plastiche
adatte alla superficie del corpo che diventa così struttura portante di questi oggetti
“parlanti”. Nel momento in cui crea, l’artista non decide a priori se la materia cui sta
dando una forma e una proporzione possa essere concepita come un gioiello o meno; il
momento creativo non deve essere piegato alle costrizioni del funzionalismo e solo ad
opera finita si può attuare quel processo che lui chiama di «identificazione»272 decidendo
così lo scopo che si vuol dare all’oggetto creato; d’altronde l’artista ricorda come
tutto possa diventare spilla quando si mette un ago, sta a noi decidere273.
269
Appunti scritti conservati nell’archivio personale dell’artista.
Appunti scritti conservati nell’archivio personale dell’artista.
271
Appunti scritti conservati nell’archivio personale dell’artista.
272
Incontro con l’artista del 4 aprile 2008.
273
Incontro con l’artista del 4 aprile 2008.
270
100
Qualsiasi segno o figura, tracce del vivere quotidiano, possono diventare per Marcolongo
il pretesto inaspettato per un processo creativo frutto dell’incontro improvviso tra
immaginazione e realtà. Un processo artistico che trasforma singole intuizioni
bidimensionali, magari rubate da una visione o da un pensiero, in composizioni
tridimensionali, esistenti nello spazio in tutta la loro corposa presenza fatta di forme e
colori. Nel caso del gioiello, forma e colore, si piegano ai principi di purezza ed
essenzialità, rigorose linee guida dell’operare artistico di Marcolongo, diventando intime
architetture. Degli esempi possono essere i lavori realizzati nei primi anni di questo
decennio. Tali gioielli sono costruzioni dalle forme elementari, geometriche, realizzate con
metalli puri e sezioni cristalline di quarzi e vetri colorati; l’artista compone e interseca tra
loro piani e volumi, in un tutto armonico e lirico (fig. n. 97).
Fin dalla fine degli anni Ottanta, il suo interesse per la creazione orafa lo porta a viaggiare
molto, a conoscere molti artisti; di qui a poco il desiderio di aprire a Padova uno spazio
dedicato al gioiello contemporaneo.
Paolo Marcolongo inaugura a metà degli anni Novanta una prima galleria dal nome
Officina PD362 per poi aprire, nel 1998, la Galleria Paolo Marcolongo. Per quasi dieci
anni mette da parte la sua attività d’artista per dedicarsi completamente alla promozione
dell’oreficeria internazionale274.
La Galleria Paolo Marcolongo era uno scrigno di preziosi in pieno centro, dietro al Teatro
Verdi; settantacinque metri quadri completamente dedicati al gioiello contemporaneo
(almeno per i primi cinque-sei anni). Incastonati nelle pareti bianche, quasi come delle
gemme, alcuni contenitori espositivi: semplicissimi cubi di vetro. Le vetrine della galleria
davano sulla strada e le pareti ad essa rivolte erano mobili. Nel momento in cui si
inaugurava una mostra, fatto assai frequente, le pareti mobili, prima addossate alle vetrine
si spostavano verso l’interno tanto da svelare lo spazio interno della galleria.
In nove anni di attività e dopo quarantatrè esposizioni, Marcolongo ha mostrato le
creazioni di orafi provenienti da tutto il mondo, avvicinando e appassionando a quest’arte
un pubblico fino a quel momento del tutto ignaro. Le rassegne si susseguivano a ritmi
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molto stretti, tanto da essere una ogni due mesi. Marcolongo amava presentare soprattutto
artisti stranieri, sia in personali che in collettive, esponendo magari, per la prima volta in
Italia, creazioni di autori, come per esempio, Peter Skubic o ancora Karl Fritsch (fgg. nn.
98-99). Le collettive della galleria Marcolongo sono state un viaggio intorno al mondo. Il
gallerista infatti era interessato a presentare gli artisti più rappresentativi di uno stesso
paese, in un'unica rassegna; ecco che allora presentò David Watkins insieme agli inglesi e
poi fu la volta degli austriaci, dei tedeschi, dei francesi, degli svizzeri, dei norvegesi, dei
finlandesi, degli spagnoli, dei portoghesi…
Marcolongo ricercava i linguaggi da esporre nel suo spazio, visitando gallerie, accademie,
frequentando gli studi degli artisti, in un desiderio di aggiornamento continuo. Essere un
buon gallerista per lui significa: «avere una conoscenza molto vasta non solo
dell’oreficeria, ma di tutte le discipline, un buon pensiero e una buona cultura»275.
La galleria ha chiuso i battenti nel 2005 dedicando il suo canto del cigno al grande tedesco
Hermann Jünger, docente e direttore, tra gli anni Settanta e Novanta dell’Akademie der
Bildenden Kunste di Monaco di Baviera.
Da allora Paolo Marcolongo continua la sua ricerca personale nel mondo delle arti276.
274
Come sempre il mensile «Padova e il suo territorio» è uno dei pochi spazi informativi rivolti all’attività delle
gallerie cittadine. Tra queste, insieme allo Studio GR.20 e il Marijke Studio, non poteva mancare la Galleria
Paolo Marcolongo.
275
Incontro con l’artista del 29 gennaio 2008.
276
Marcolongo, da anni, è molto apprezzato nella veste di curatore di mostre, non solo dedicate al gioiello
contemporaneo. A tal proposito, un esempio, può essere la rassegna dedicata a Ernst Gamperl: P. MARCOLONGO
(a cura di), Ernst Gamperl. Un giro più del cerchio, catalogo della mostra, Padova, Oratorio di San Rocco,
ottobre-novembre 2006, Vicenza, Campisi, 2006.
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