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l’autunno della guerra santa
Domenica 11 novembre
Oggi il centro del mondo si trova in Qatar. L’emirato è in stato d’assedio, per accogliere con serenità la
riunione plenaria dell’Organizzazione mondiale per
il commercio. I disordini causati dagli oppositori
alla globalizzazione, durante l’ultima assemblea a
Seattle, sono ancora negli occhi di tutti – e questa
penisola di sabbia incassata nelle acque del golfo
Persico ha saputo convincere che sarebbe stata
un’oasi sicura, dove le folle della sinistra, gli ecologisti e gli altri terzomondisti non sarebbero riusciti a
penetrare. Per entrare in Qatar ci vuole un visto, che
viene concesso solo se si dispone di un garante, o
sponsor. Il paese ha acquistato una notorietà universale dopo che qui è stata installata la televisione via
satellite in lingua araba al jazeera – che sta alla guerra
dell’autunno 2001 come la cnn alla guerra del Golfo
del 1991. Si conosce il Qatar grazie ad al jazeera,
come tanti turisti giapponesi o australiani hanno
scoperto l’esistenza della Francia da quando Parigi è
a solo mezz’ora da EuroDisney. È dunque nel paese
di al jazeera, canale regolarmente incriminato dall’amministrazione americana per aver diffuso i proclami incendiari di bin Laden, che si riunisce l’Organizzazione mondiale per il commercio, istanza consacrata a favorire la libertà degli scambi economici
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per il maggior profitto dell’imperialismo americano
– se si deve credere a José Bové e agli altri contestatori della globalizzazione.
Lo stato del Qatar, che ha dimostrato la sua acuta intelligenza dei rapporti di forza mondiali al punto da creare al jazeera, non poteva lasciarsi incastrare
da apprendisti manipolatori dei media: il nostro
uomo-sandwich del roquefort, il grande accusatore
di McDonald’s davanti all’eterno, ha ottenuto il suo
visto. Bella messa in scena per l’incontro con i fotografi: José Bové con la bocca chiusa da un cerotto incollato sui grandi baffi e con l’inutile pipa in mano,
sorvegliato da vicino da guardie di sicurezza in dishdash e keffiah. Tutta la stampa internazionale del
giorno dopo lo ha ripreso, e la riunione dell’omc,
tenutasi in tutta tranquillità, ha perfino potuto festeggiare l’ingresso della Cina dei diritti dell’uomo
nel club mondiale degli affari, hamdullah! I delegati
non hanno distrazioni nell’emirato: in mancanza di
manifestazioni e di teppisti come a Seattle, si procurano la loro razione di emozioni forti andando a visitare i locali dell’esplosiva al jazeera – i cui giornalisti
anglofoni o francofoni sono mobilitati per accogliere e guidare interi gruppi di pellegrini nel santuario
sacro della Mecca televisiva araba. Omaggio del
commercio planetario al merchandising di prodotti
bin Laden – che a quanto pare si nasconde nelle
montagne pashtun, a portata di missile dalla peniso77
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la del Qatar. Forse ci troviamo sulla linea del fronte
del famoso «scontro di civiltà», ma non saprei dire
più da quale lato.
Avevo visitato i locali della rete nel 1997, impressionato dalla professionalità dei giornalisti e dalle attrezzature ultimo grido che potevano fare invidia a
non poche televisioni europee. Ma non è il giorno
per rivedere queste cose, in mezzo a questa folla di
curiosi. Non c’è granché da fare nei grandi alberghi
dove si tengono le sessioni dell’omc. Sono venuto in
Qatar questa domenica per approfittare della presenza dello sceicco Yussef al Qardhawi, che registra
su al jazeera la sua trasmissione domenicale in diretta al shari’a wa-l hayat (“la legge islamica e la vita”).
È la trasmissione che dà il la alla predicazione sunnita di lingua araba nel mondo intero. Sono circa vent’anni che osservo la carriera, i discorsi e gli spostamenti di questo ex Fratello musulmano egiziano,
imprigionato sotto Nasser, espatriato in Qatar dove
gli fu conferita la nazionalità (una rara onorificenza), mentore di studenti islamisti nell’Egitto di Sadat dove l’avevo visto arringare le folle riunite per la
preghiera dell’Aid, chiamato alla riscossa dal presidente algerino Chadli per conferire al regime del
fln una qualche legittimità religiosa negli anni precedenti alla nascita del Fronte islamico di salvezza,
guida spirituale dei giovani militanti islamisti nel78
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l’Europa occidentale, autore prolifico tradotto in varie lingue (del suo libro Il lecito e l’illecito in Islam è
stata un tempo vietata la vendita in Francia dal ministero dell’Interno), animatore di un suo sito internet, e membro del shari’a board delle maggiori banche d’affari islamiche (il shari’a board è il loro consiglio di sorveglianza religioso, incaricato di verificare
che le operazioni finanziarie siano conformi alle ingiunzioni dei testi sacri; la qualità degli ulema che ne
fanno parte è un must per attirare i clienti). In breve,
Yussef al Qardhawi è ovunque si trovi l’islam sunnita – o quasi. E la sua trasmissione domenicale su al
jazeera è la chiave di volta di questo edificio, ciò che
ha conferito oggi a questo “catodico praticante” una
notorietà che gli consente di surclassare tutti i suoi
pari. Non che questo avvenga senza gelosie in un
mondo in cui le gerarchie religiose sono fluide, al
contrario del cattolicesimo. Un ulema in vista deve
di continuo lottare per la sua quota di mercato contro rivali che ricorreranno, per distruggerlo, all’appoggio di stati o di gruppi finanziari di pressione interessati a promuovere la loro causa. Qualche giorno
prima del nostro incontro, Qardhawi si è visto rifiutare l’ingresso alla frontiera dei vicini Emirati arabi
uniti, per ragioni non spiegate – ma tutti nella regione hanno registrato il fatto. La sua trasmissione televisiva e il suo sito internet sono costruiti secondo lo
stesso schema: telespettatori e internauti pongono
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domande su questa o quella pratica individuale o sociale, e “l’islam risponde” – come avviene da sempre
quando un credente si rivolge a un dottore della legge nella sua moschea. L’ulema interrogato emette
una fatwa, un parere giuridico fondato sui testi sacri.
Egli si costituisce come autorità, come direttore di
coscienza, senz’altro criterio che il sapere religioso di
cui è accreditato da coloro che lo ascoltano.
Oggi queste antiche tradizioni si sono trasferite
nelle nuove tecnologie dell’età informatica, e il ciberpredicatore più abile a usare questi strumenti
post-moderni ha la meglio sui suoi concorrenti. Anche per l’islam, the medium is the message. La religione rivelata al profeta Maometto resta viva nell’epoca
della globalizzazione.
Queste consultazioni giuridico-religiose vertono su
tutti gli aspetti della vita, si interrogano i “sapienti
dell’islam” sulle norme da applicare nel comportamento quotidiano. Possono avere a che fare con le
relazioni di lavoro, i contratti, la guerra o la pace, il
tempo libero (alcuni ulema sauditi hanno recentemente dichiarato illeciti i Pokemon, provocando
una caduta immediata del valore delle azioni del
loro produttore giapponese), il rito – perfino i temi
che la pudicizia cattolica considererebbe scabrosi,
ma di fronte ai quali non si ferma la passione codificatrice del diritto musulmano (simile in questo all’e80
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braismo). Il lecito e l’illecito in Islam abbonda di codificazioni della sessualità e delle posizioni del coito.
E lo sceicco Qardhawi non teme di far parlare di sé
dichiarando leciti alla televisione – in seguito a una
precisa domanda – il cunnilingus e la fellatio. Egli occupa tutto lo spettro televisivo, dalla predica al talkshow. Dà risposte su tutto, e un uditorio planetario
crede che l’islam si esprima attraverso la sua bocca. È
per questo che sono curioso di farmi precisare la sua
posizione rispetto a bin Laden, agli attentati dell’11
settembre, alla guerra in Afghanistan, e all’evoluzione immediata del mondo musulmano. Il suo parere
anticipa abbastanza fedelmente il sentimento dell’opinione conservatrice religiosa, delle classi medie pie
e di altri islamisti borghesi il cui sostegno è essenziale per il successo di qualsiasi impresa rivoluzionaria
condotta nel nome della religione. Al contrario,
quando questi gruppi sono spaventati dai militanti
radicali, questi ultimi, privi allora di connessioni e di
appoggi finanziari e sociali, non hanno alcuna possibilità di trasformare le loro prodezze o le loro operazioni terroristiche in una mobilitazione duratura e di
impadronirsi del potere come desidererebbero. Lo
sceicco Qardhawi è un ulema a sangue freddo, sprofondato nel corpus del suo sapere dogmatico, impavido di fronte agli sconvolgimenti passeggeri delle
folle sentimentali, agli smarrimenti della “via araba”, ai turbamenti di giornalisti e studenti affascina81
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ti dal verbo e dall’abbigliamento di Osama davanti
alla sua grotta.
Abbiamo preso appuntamento all’Università del
Qatar – dove dirige un dipartimento di studi religiosi –, luogo che ben si addice a un incontro tra professori, un orientalista francese in doppio petto da
un lato, un ulema “integralista” molto legato al suo
titolo di dottore dall’altro. Al di là dei reciproci pregiudizi e dell’assenza d’illusioni che ciascuno nutre
sul suo interlocutore, spero che questa discussione
tra addetti ai lavori non sia inutile. Sono sorpreso
dai locali, situati dietro un parcheggio in fondo al
campus, in una baracca in mezzo alla sabbia – niente
a che vedere con il fasto degli altri edifici immersi in
una vegetazione verdeggiante irrigata grazie ai soldi
del petrolio. Tutti sanno che allo sceicco non manca
nulla: la modestia dei luoghi dove riceve gli ospiti
traduce il distacco dai beni di questo mondo a cui
dovrebbe contribuire il sapere universitario.
L’accoglienza è puntuale e cordiale. Lui si esprime nel fluido arabo degli ulema, ben costruito e
scorrevole; quando il discorso si fa più rilassato, passa al dialetto egiziano, che crea tra di noi un sentimento di prossimità malgrado la differenza d’età (è
nato nel 1926). Non è vestito con gli abiti con cui
l’ho sempre visto, il caffettano e il capo coperto da
un fez rosso cinto da un turbante bianco – la tenuta
dei laureati di al Azhar – ma con un abito di tutti i
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giorni alla moda qatara: dishdash bianco, sui capelli
una sorta di velo bianco che si aggiusta di continuo.
Con questo abbigliamento mi fa pensare ad alcuni
rabbini marocchini che avevo intervistato nel 1990
nelle città popolari del sud d’Israele per il mio libro
La rivincita di Dio.
Dietro la sua scrivania, una grande biblioteca a
vetri accoglie collezioni di opere di teologia musulmana: un corpus abbastanza diversificato, che non si
limita alla sola vulgata wahhabita diffusa in tutto il
mondo dalle istanze saudite. Sopra la scrivania, sono
sparsi ovunque mucchi di fogli coperti da una sottile
scrittura ben curata – resta un uomo del calamaio,
senza dubbio c’è qualcun altro che si occupa di gestire il suo sito internet. Ricordiamo un congresso a
Parigi, nel 1994, in cui avevamo discusso sotto gli
auspici dell’Unione delle organizzazioni islamiche di
Francia. Un militante islamista algerino, da tempo
in Francia e ben introdotto presso alcuni politici
francesi, mi aveva attaccato molto violentemente,
esecrando il libro che avevo appena pubblicato sull’insediamento di quegli stessi movimenti in Occidente, Ad ovest di Allah.
Quando gli domando cosa pensa di bin Laden,
quale importanza hanno le sue dichiarazioni da un
punto di vista religioso, mi risponde che l’interessato non ha mai pubblicato nulla che consenta di valutare le sue reali conoscenze; non è un dottore della
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legge, dunque non può emettere alcun parere giuridico, alcuna fatwa: è un “sermonatore” (wa’ez) – il
grado più basso della gerarchia dei predicatori nell’accezione corrente. È questa carenza di cultura che
gli ha fatto commettere l’errore fondamentale di
lanciare un jihad contro l’Occidente: per Qardhawi
è una cosa priva di senso, oggi che si dispone di internet e della televisione via satellite. La propagazione e l’espansione dell’islam, il proselitismo, possono
aver luogo senza violenza. Il jihad contro l’Occidente rischia di rimettere in questione anni di pazienti
sforzi di insediamento, e di diffondere il sospetto.
Lo sceicco tuona contro il portavoce di bin Laden, il calciatore kuwaitiano Abu Ghaith (storpiato
in un ironico “Ben Ghaith”), che ha invitato i musulmani a non prendere più aerei di linea nell’attesa
di un prossimo attentato, e incitato i suoi correligionari residenti in Occidente a ritornare. Per queste
ragioni, e allo scopo di evitare che i musulmani d’America vengano percepiti oltre Atlantico come una
quinta colonna, Qardhawi ha controfirmato una
fatwa emessa da un ulema americano che autorizza i
soldati musulmani dell’esercito degli Stati Uniti ad
andare a combattere contro i talebani. La cosa ha
fatto grande scalpore: il 20 ottobre, a Damasco, ho
visto su al jazeera un dibattito sull’argomento tra
musulmani degli Stati Uniti; tra gli invitati c’era l’ulema in questione – un omaccione che si esprimeva
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in arabo con un chiaro accento d’Oltreatlantico
poco suscettibile di procurargli le simpatie delle telespettatrici del Medio Oriente affascinate da bin Laden. È stato molto attaccato sulla stampa della regione; ma il sostegno dello sceicco Qardhawi ha seminato qualche dubbio tra molti suoi detrattori.
Mi chiedo ad alta voce: se è lecito che i soldati
musulmani americani combattano contro i talebani,
la guerra di questi ultimi contro gli Stati Uniti che
bombardano il loro territorio può lo stesso essere definita jihad? Per Qardhawi non ci sono dubbi: ci
troviamo precisamente di fronte al caso di “jihad difensivo” previsto dai testi sacri. I bombardamenti
americani significano che eserciti non musulmani
attaccano il territorio dell’islam: il mullah Omar ha
buone ragioni per chiamare alla mobilitazione generale i suoi correligionari in tutto il pianeta. Pongo
un interrogativo ulteriore: quando i talebani si difendono dagli attacchi dell’Alleanza del Nord –
composta di combattenti musulmani –, hanno diritto di proclamare il jihad e di chiamare i credenti alla
riscossa? La risposta cade come una mannaia: «No –
non è un jihad, in alcun modo».
La causa di bin Laden e dei talebani mi sembra
ormai compromessa. Gli ulema non si mobiliteranno in loro favore, al di là di una solidarietà di facciata con l’Afghanistan, che cesserà non appena i combattenti dell’Alleanza avranno rovesciato l’equilibrio
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di forze sul terreno. Hanno già conquistato ieri Mazar-i Sharif, e poco importa se il generale uzbeko Rachid Dostom che ha guidato l’attacco non è mai stato un modello di pietà – dall’epoca in cui serviva il
regime comunista filosovietico di Kabul. Agli occhi
degli ulema, basta poterlo rivestire da musulmano
“sociologico” per far cadere qualsiasi proclamazione
di jihad nei suoi confronti.
C’è un jihad difensivo che valga oggi nel mondo? Lo sceicco cita il Kashmir (di fronte agli indiani), la Cecenia (di fronte ai russi) e soprattutto Israele. Gli attentati suicidi commessi da Hamas e da altri sono leciti? Risposta affermativa. Tuttavia, mi ha
spiegato prima che condanna radicalmente il massacro di civili innocenti negli attentati dell’11 settembre. E quando una bomba esplode in una pizzeria di
Tel Aviv e uccide i civili presenti? Risposta: Israele è
una società militare, uomini e donne prestano servizio nell’esercito, non si tratta di civili innocenti.
Sono tutti bersagli legittimi del jihad.
Un’altra persona che ha appuntamento con lo
sceicco entra nella stanza e si unisce a noi – secondo
l’abitudine orientale che prevede che non si faccia
anticamera, ma che le visite si accavallino, come succede nel diwan. Durante i salamelecchi perdo il filo
delle mie domande. Avevo in mente i testi di “al ansar”, la rivista del gia (il Gruppo islamico armato algerino) che giustifica l’assassinio di civili e perfino di
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bambini nei caffè di Algeri durante la guerra civile
degli anni novanta, e volevo sapere se e come lo
sceicco (che a quella guerra ha dedicato nel 1996 una
trasmissione molto seguita) reagiva di fronte ai massacri di bambini – in questo caso israeliani. Perché
non ci sono dubbi che, una volta che il fantasma di
un bin Laden trionfante si sarà dileguato, l’ondata di
attenzione, rafforzata dalla frustrazione di tutti quelli che lo hanno portato alle stelle, ritornerà sul conflitto arabo-israeliano. Ma l’arrivo di un nuovo ospite vuole che la conversazione si avvii verso la sua
conclusione, e pongo un’ultima domanda: alla fine,
dopo che questo jihad proclamato in fretta e furia da
bin Laden si sarà ritorto contro i suoi autori, il mondo musulmano non rischia di sprofondare in una
nuova fitna, quella sedizione interna, quel caos e
quell’anarchia contro i quali gli ulema hanno da
sempre messo in guardia, utilizzando perciò con
grande parsimonia, nel corso dei quattordici secoli
di storia musulmana, quest’arma a doppio taglio? La
risposta arriva in dialetto egiziano: non è una, ma
due fitna (mesh fitna, bes fitnatain) che viviamo oggi.
La prima è stata quella di Saddam Hussein nel 1990,
da cui l’universo dell’islam è uscito durevolmente
sfiancato; la seconda, quella dell’11 settembre, non
farà che approfondire le ferite e scavare le fratture
che dividono la comunità dei credenti e che rafforzano il potere dei suoi nemici.
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