Studia Moralia 53/1 Gennaio

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Studia Moralia 53/1 Gennaio
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Studia
Moralia
Biannual Review
published by the Alphonsian Academy
Revista semestral
publicada por la Academia Alfonsiana
Rivista semestrale
pubblicata dall’Accademia Alfonsiana
53/1 • 2015
EDITIONES ACADEMIAE ALFONSIANAE
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Gennaio-Giugno 2015
CONTENTS / ÍNDICE / INDICE
Articles / Artículos / Articoli
Luce della fede, verità dell’amore
Sulla tesi di fondo dell’enciclica Lumen fidei. . . . . . . . . . . . . .
Stefano Zamboni
5
Lo spirito dell’etica cristiana . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Giorgio I. Mantzaridis
23
Pastoralità come criterio morale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Alfonso V. Amarante
37
Marriage in the Theology of St. Thomas Aquinas . . . . . . . . . . .
Terence Kennedy
61
The contribution by religions to peaceful coexistence in Society
Martín Carbajo Núñez
83
Patient’s autonomy and informed consent
An end-of-life case study from Turkey . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Antuan Ilgit
103
Reviews / Recensiones / Recensioni
CHIMIRRI GIOVANNI, Relativismo morale e teologia del bene. Il senso
cristiano dell’etica (Alfonso V. Amarante) . . . . . . . . . . . . . . . . .
125
GERARDI RENZO, Le malattie dell’anima. Trattato sui vizi capitali
(Filomena Sacco) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
129
NEMO PHILIPPE, Esthétique de la liberté (Aristide Gnada) . . . . . .
133
WITASZEK GABRIEL, La famiglia. L’istituzione divina fondata sul matrimonio. Dono divino e risposta umana
(Vincenzo La Mendola) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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CONTENTS / ÍNDICE / INDICE
Book Presentation / Presentación del libro /
Presentazione del libro
DI PIETRO MARIA LUISA e FAGGIONI MAURIZIO PIETRO
Bioetica e infanzia. Dalla teoria alla prassi
Principi di bioetica pediatrica, Giovanni Del Missier. . . . . . .
141
Prudenza medica e casistica. Alcune considerazioni a proposito del libro “Bioetica ed infanzia. Dalla teoria alla prassi”,
Pablo Requena Meana . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
154
“La vocazione alla santità” – Prospettive nel 50° della Lumen gentium
Studi in onore di Terence G. Kennedy
A cura di GIUSEPPE DE VIRGILIO
La universale vocazione alla santità nella Chiesa. A cinquanta
anni da “Lumen gentium”, Dario Vitali . . . . . . . . . . . . . . . . .
169
Fedeli alla chenosi del Redentore
Scritti in onore di Sabatino Majorano
A cura di ALFONSO V. AMARANTE
La chenosi del Cristo come paradigma della proposta morale,
Nicola Ciola . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
177
Teologia morale come esercizio di memoria e annuncio di speranza, Vincenzo Viva . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
191
CLAUDIO BERTERO
Persona e comunione. La prospettiva di Joseph Ratzinger
Relazione tenuta in occasione della presentazione del libro,
Gerhard Card. Müller . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
199
International Conference / Congreso Internacional
Congresso Internazionale
Glaube und Moral. Konferenzbericht Catholic Theological Ethics
in the World Church (CTEWC), Kraków, 14.-16. November
2014, Konrad Glombik . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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LUCE DELLA FEDE, VERITÀ DELL’AMORE
SULLA TESI DI FONDO DELL’ENCICLICA
LUMEN FIDEI
Stefano Zamboni*
1. La fede è luce: la tesi dell’enciclica
Il primo movimento dell’enciclica Lumen fidei1 – un’enciclica singolarissima perché frutto della imprevedibile collaborazione di due
papi2 – è la posizione di una tesi: la fede è luce (lumen fidei), e non una
luce tra altre luci, ma quella che decisivamente, escatologicamente,
illumina il senso totale dell’esistere umano. Come già in Spe salvi, dove si contrapponeva l’illusoria speranza dei pagani alla certezza di coloro che hanno speranza3, così anche in questa enciclica (compimento del trittico sulle virtù teologiche4) la luce vera del Cristo è in op-
* An associate Professor at the Alphonsian Academy
Profesor asociado en la Academia Alfonsiana
1
Tra i diversi commenti apparsi, si vedano soprattutto: A. COZZI, «“Lumen
fidei”: un’enciclica tra due pontificati. Dalla “fede che dilata la ragione” allo
“sguardo di Cristo in noi”», in La Rivista del Clero Italiano 94 (2013) 11, 734754; M. IMPERATORI, «Lumen fidei, un esodo dall’io al noi», in La Civiltà Cattolica 2013 III, 345-356; G. SGUBBI, «Fede e logica dell’amore. Sull’enciclica Lumen fidei», in Rivista di Teologia dell’Evangelizzazione 18 (2014) 91-126.
2 Lo si dice in modo esplicito al n. 7: il fatto appare senz’altro di interesse ermeneutico rilevante. Per quanto riguarda il tema di questo studio, lo stile, l’andamento dell’argomentazione, la scelta dei temi pare essere tipicamente ratzingeriana, almeno nella parte di taglio «fondamentale» che qui si prende in considerazione.
3 Cf. Spe salvi, n. 2.
4 Cf. A.-M. IGIRUKWAYO, «La lettera enciclica Lumen fidei nella visuale del
trittico Deus caritas est – Spe salvi – Lumen fidei», in Teresianum 64 (2013) 341-372.
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posizione al Sol invictus, a quel dio Sole che il mondo pagano, «affamato di luce», doveva riconoscere inevitabilmente insufficiente e
transitorio (n. 1).
Ma l’opposizione più radicale è verso la concezione moderna della fede che la considera una luce illusoria, effimera, soggettivamente
consolatoria certo, ma in confronto con la ragione – la luce della ragione – non altro che oscurità. Così la modernità e la pretesa cristiana divergerebbero fin dalla radice, nel principio che rispettivamente
le guida: la ragione delle idee chiare e distinte e l’obscura cognitio della fede; l’evidenza del misurabile (e dunque trasformabile) e l’inevidenza del dogma, del rito, del precetto; la stabilità oggettiva dell’episteme e la soggettiva relatività della doxa.
Come è noto, l’idea della fede come luce ha una lunga tradizione.
Basti il breve riferimento alla presenza del tema nell’opera di Tommaso, secondo cui oltre alla luce naturale della ragione (lumen rationis), Dio infonde nel fedele un’altra luce, più alta: il lumen fidei, una
luce con cui Dio partecipa all’uomo il suo splendore (divinum lumen)
e che anticipa la luce che ci sarà data definitivamente nella patria
escatologica (lumen gloriae)5.
L’enciclica, completata e firmata da Francesco, ma il cui impianto
argomentativo è chiaramente riferibile a Benedetto XVI, si inserisce
nel solco del recupero – tema fra i maggiori del pontificato di quest’ultimo – della razionalità del logos cristiano e della sua connessione
essenziale con la verità dell’amore6. In questo contesto, l’idea della
luce – a cui tra l’altro J. Ratzinger aveva dedicato negli anni ‘60 una
voce apposita nello Handbuch theologischer Grundbegriffe 7 – può servire da guida per la riproposta della significatività della fede nel tempo
del tramonto dell’illusione salvatrice della ragione illuminista.
5
Per una breve rassegna del tema in Tommaso d’Aquino, cf. I. BIFFI, «La fede come luce. Nell’enciclica “Lumen fidei” un tema caro a Tommaso d’Aquino», in L’Osservatore Romano, 21 agosto 2013, 7.
6 Cf. P. SEQUERI, L’amore della ragione. Variazioni sinfoniche su un tema di Benedetto XVI, EDB, Bologna 2012.
7 Cf. «Licht», in H. FRIES (hg.), Handbuch theologischer Grundbegriffe. Bd. II,
Kösel, München 1963, 44–54.
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2. La «pretesa» dell’enciclica
L’uomo contemporaneo – così l’enciclica – ha perduto la fiducia
nella ragione illuminista, ha smesso di credere ai grandi progetti totalizzanti, ai sistemi dell’ideologia moderna e ora si accontenta, per
usare due metafore fortunate, delle piccole luci di un pensiero «debole» e di una più modesta concezione «liquida» del reale (cf. n. 3).
Una situazione di fragilità estrema, fatta di oggettiva complessità e di
soggettiva rassegnazione, dinanzi a cui è necessario riproporre una
luce diversa, perché l’uomo di oggi è pur sempre «particolarmente
bisognoso di luce» (n. 4).
Si ricorderà che nella tradizione filosofica, una delle distinzioni
classiche era quella fra sensi non teoretici (olfatto, gusto, tatto) e sensi teoretici (udito e vista). Tra i sensi teoretici, poi, il primato veniva
assegnato alla vista, in quanto capace di stabilire con la realtà una relazione «pura», vale a dire senza contatto, senza contaminazione
(theoria)8. Una visione distaccata, teoretica per l’appunto, che sola garantiva l’obiettività e l’incontrovertibilità («evidenza») del sapere stesso. La forma del sapere fondata su una pretesa evidenza solare poteva
però, come di fatto è stato, esporsi alla tentazione di un dominio onnicomprensivo sul reale, motivato da una volontà di potenza impositiva e violenta. Derrida, nella scia di Emmanuel Lévinas che metteva
in guardia da un sapere che pretenda di essere «totalità» e inevitabilmente degeneri in totalitarismo, ha parlato di «violenza della luce»9.
Ora, sembra che la metafora della luce non sfugga all’aut-aut fra
questi due estremi: o la fede è troppo poco luminosa – è obscura cognitio – e dunque ultimamente inutile, perché superstizione, confusa
incapacità di sguardo, ineffabilità mistica; oppure essa è troppo luminosa, e diventa sistema, violenza della luce, idolatria fotologica, per
8
Cf. M. HEIDEGGER, Essere e tempo, Longanesi, Milano 1976, § 31, 187: «La
tradizione filosofica, fin dall’inizio, ha considerato il “vedere” come modo d’accesso privilegiato all’ente e all’essere».
9 Cf. J. DERRIDA, «Violenza e metafisica. Saggio sul pensiero di Emmanuel
Levinas», in ID., La scrittura e la differenza, Einaudi, Torino 1971, 99-198.
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riprendere l’aggettivo di Derrida. Qual è dunque l’idea di luce utilizzata dall’enciclica? Che luce è la luce della fede? Quale pretesa può
esibire dinanzi alla critica moderna?
Le caratteristiche di fondo di questa luce sono elencate al n. 4. Il
testo, pur scritto in termini molto piani, è piuttosto complesso nell’articolazione. Proviamo a enucleare alcune tesi: a) La luce della fede è luce «capace di illuminare tutta l’esistenza dell’uomo» in quanto proviene da Dio; b) La provenienza da Dio ha la sua radice nell’amore di Gesù, su cui possiamo appoggiare fiduciosi la nostra esistenza. Tale provenienza si specifica in due momenti: l’uno che viene dal
passato (è «luce di una memoria fondante»: memoria di Gesù) e l’altro che viene dal futuro (Cristo risorto che ci attira a sé); c) L’uomo
che incontra Cristo è trasformato dall’amore, riceve occhi nuovi per
camminare nella storia ed esce dal suo «“io” isolato verso l’ampiezza
della comunione».
Da queste premesse risulta chiaro, rispettivamente, che: la luce
della fede si oppone al progetto rinunciatario della contemporaneità
riguardo alla totalità, rivendicando il carattere di pienezza che le altre luci non possono assicurare; si oppone al progetto moderno di
una ragione «autonoma», slegata da Dio, che possa da se stessa illuminare compiutamente l’uomo e la sua esistenza; non ha un carattere semplicemente teoretico, non parla la lingua dell’ideologia, ma è
trasformante, apre cammini storici e comunionali.
Pur non elaborando, come è ovvio, una sistematica «filosofia della luce», l’enciclica non si sottrae al compito di pensare la qualità della luce che la fede ha la pretesa di essere10, e lo fa scongiurando una
possibile deriva intellettualistica. Infatti considera, da un lato, la necessaria connessione dello sguardo con altri sensi (la fede è «ascolto»:
n. 29; la fede è «con-tatto»: n. 31), e dunque il riferimento alla totalità dell’esperienza umana e, dall’altro, la declinazione cristologica,
presente fin dalla citazione iniziale «Io sono venuto nel mondo come
10
Cf. P. GIUSTINIANI, «Verso una filosofia della luce e dell’ascolto? Il secondo capitolo dell’enciclica sul Lumen fidei», in Aisthema 1 (2014) 2-19:
http://www.aisthema.eu/ojs/index.php/Aisthema/article/view/2.
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luce» (Gv 12, 46) e che innerva tutta la trama dell’argomentazione
magisteriale11. Per seguire la tesi dell’enciclica – la fede è luce – bisogna tentare di portarne ad evidenza la «struttura» di fondo, quale
si trova soprattutto nei primi due capitoli.
3. Una luce che viene dall’alto
La fede nasce da un incontro. Benedetto XVI lo ha espresso in
modo emblematico nella sua prima enciclica ricordando che «all’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea,
bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva»12. Anche in Lumen fidei la genesi della fede è spiegata in riferimento alla figura di
Abramo che viene chiamato: il primo movimento è dunque l’essere
chiamati, è l’interpellanza personale di un Tu che chiama per nome
(n. 8). Ma qual è il contenuto di questa parola? Consiste in una chiamata ad uscire e in una promessa: «è prima di tutto chiamata ad uscire dalla propria terra, invito ad aprirsi a una vita nuova, inizio di un
esodo che lo incammina verso un futuro inatteso. La visione che la
fede darà ad Abramo sarà sempre congiunta a questo passo in avanti
da compiere: la fede “vede” nella misura in cui cammina, in cui entra
nello spazio aperto dalla Parola di Dio. Questa Parola contiene inoltre una promessa: la tua discendenza sarà numerosa, sarai padre di un
grande popolo» (n. 9).
Il paradigma che qui viene illustrato è composto dunque di tre termini: il Tu che prende l’iniziativa di parlare e che interpella; l’invito ad
uscire, all’esodo da sé verso questa stessa parola che interpella; la promessa di compiutezza, di fecondità, contenuta nella parola. Si potrebbe rintracciare agevolmente lo stesso dinamismo sotteso alla vocazio-
11
Per una preziosa rassegna neotestamentaria del tema, cf. K. STOCK, «Gesù Cristo la luce del mondo secondo il Nuovo Testamento», in PATH 9 (2010)
47-58.
12 Deus caritas est, n. 1.
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ne dei discepoli di Gesù: un farsi incontro del Tu di Dio nella chiamata di Gesù; l’invito a lasciare la loro vita per affidarsi a questa parola di
vocazione; la promessa di una fecondità misteriosa («sarete pescatori
di uomini»; cf. in modo emblematico Mt 4, 18-22; Mc 1, 16-20).
Lo schema biblico è dunque riproposto dall’enciclica come l’articolazione di fondo della genesi della fede. Ma non è sempre questo
lo schema di ogni incontro decisivo della vita? Non accade questo
ogni volta che brilla la luce di un evento decisivo? Anche qui una
struttura in tre momenti. La sorpresa di un tu che mi rivolge la parola, e non una parola funzionale – per «questo» o per «quello» –,
ma che mi si rivolge nella totalità del mio essere, nel mio «io». La
promessa che questo incontro contiene, anticipata nel suo farsi prossimo: «se mi affido ad esso potrò più compiutamente realizzarmi». E,
dunque, l’invito a uscire, a fidarmi di questa pro-vocazione per rischiare un esodo verso il luogo indicato dalla promessa del tu che mi
si accosta.
L’enciclica approfondisce questo aspetto, questo paradigma dell’accadere di un incontro decisivo che si dà come luce (che brilla inaspettata e che convoca a un cammino verso una luce più piena), legandolo al tema della «affidabilità»13. La fede richiede che si intraveda l’affidabilità di colui che chiama se non vuole degenerare in cieco fideismo; d’altronde l’affidabilità non può essere verificata a priori, come se l’affidamento non comportasse sempre e comunque il rischio della decisione. Qual è dunque la roccia su cui poggiare, sicuri
che essa non verrà meno? Qual è il «luogo» dell’affidabilità di Dio?
Qual è la luce originaria che garantisce la non illusorietà del lumen
che mi raggiunge? «“Abbiamo conosciuto e creduto all’amore che
Dio ha per noi” (1Gv 4, 16). La fede coglie nell’amore di Dio manifestato in Gesù il fondamento su cui poggia la realtà e la sua destinazione ultima» (n. 15). La chiamata di Dio (con il triplice riferimento:
Tu divino che parla, invito all’esodo, promessa di fecondità) ha luogo – escatologico – nell’appello dell’amore di Dio manifestato in Ge-
13
Riferimento obbligato, sul tema, è P. SEQUERI, Il Dio affidabile. Saggio di
teologia fondamentale, Queriniana, Brescia 20135.
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sù. È questo il lumen divinum che si imprime nell’animo umano (nella coscienza) plasmandolo nella forma della fede.
L’enciclica lo esprime, con un linguaggio che nel suo stesso stile
rimanda alla chiarezza della luce che addita, ai nn. 16-17, da cui si
possono estrapolare alcune tesi: a) «La prova massima dell’affidabilità dell’amore di Cristo si trova nella sua morte per l’uomo»; b) «La
morte di Cristo svela l’affidabilità totale dell’amore di Dio alla luce
della sua Risurrezione»; c) «L’affidabilità di Gesù (...) si fonda, sì, nel
suo amore fino alla morte, ma anche nel suo essere Figlio di Dio»; d)
«I cristiani (...) confessano l’amore concreto e potente di Dio, che
opera veramente nella storia e ne determina il destino finale».
Il mistero pasquale è il cuore genetico della fede cristiana: è qui, nella croce gloriosa, che si rende visibile la luce dell’amore di Dio che risplende in maniera definitiva, fin nelle più fitte tenebre di ogni morte
e di ogni odio. Riformulando le tesi appena estrapolate: la morte di
Gesù è morte per tutti, dimostrazione di un amore che ha la caratteristica della totalità: è infatti amore assoluto (gratuito e divino) e universale (per tutti, anche per i nemici). Se Cristo non fosse risorto, la fede
sarebbe vana (cf. 1Cor 15, 17), perché l’amore non sarebbe più forte
della morte: la risurrezione non è una luce che si aggiunge all’evento
del morire del Figlio di Dio, ma ne manifesta la sostanza stessa (trinitaria). L’affidabilità di Gesù è, a ben vedere, l’affidabilità del Figlio, radicato in modo assoluto nel Padre: in quanto Lumen de Lumine, ha potuto vincere la morte e far risplendere in pienezza la vita, nel mistero
della sua «persona». Quell’amore, infine, che si è fatto incontrabile,
che si è rivelato in pienezza nella passione, morte e risurrezione di Cristo, cambia decisivamente la storia e gli uomini. Non è amore che arriva al capolinea della storia: è «consegna», perché i discepoli facciano,
in lui, «memoria» del suo amore salvifico per la vita del mondo.
Nel suo saggio sulla fede J. Pieper cita a un certo punto un’espressione di Newman, secondo cui we believe, because we love14. Crediamo
14
J. PIEPER, Sulla fede. Saggio filosofico, Morcelliana, Brescia 1963, 36. La citazione di Newman è tratta dal sermone Love the Safegard of Faith against Superstition (1839).
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perché amiamo: classicamente la carità è forma delle virtù, ed è perciò radice di ogni fede in quanto si dà fiducia a colui che si ama. Ma si
potrebbe ribaltare la sentenza: we love, because we believe, sottolineando la priorità genetica della fede, nel senso che l’amore non scaturisce
se non in un atto di fede, in una fiducia accordata a un’anticipazione
di senso e di amore. Ma infine, ed è questa, mi pare, l’intenzione iniziale dell’enciclica, si potrebbe dire così: we believe, because we are loved.
Se esiste questa anticipazione che viene dall’altro, deve esistere un’anticipazione assoluta che viene da un essere la cui natura è di amare, di
essere il primo Amante, l’amore assoluto: «Dio è agape» (1Gv 4, 8). In
modo affidabile, definitivo. La pienezza gratuita di questo amore è il
dono originario della luce che viene dall’alto: «solo nell’aprirci a quest’origine e nel riconoscerla è possibile essere trasformati, lasciando
che la salvezza operi in noi e renda la vita feconda, piena di frutti buoni» (n. 19).
4. Lo «sguardo» della fede
Nella storia di Abramo, oltre allo schema presentato sopra (chiamata di un Tu, promessa, invito al cammino), è importante sottolineare un altro aspetto, che consiste nella singolare consonanza fra
l’appello divino, sempre nuovo e sorprendente, e la più intima verità
dell’esperienza del credente, fra la voce della Parola e la voce della
coscienza. «Il Dio misterioso che lo ha chiamato non è un Dio estraneo» (n. 11). La chiamata di Dio viene da fuori, è un avvenimento
gratuito, che non può essere semplicemente dedotto dalla struttura
antropologica: eppure proprio così esso è ciò che corrisponde misteriosamente a quanto l’uomo è nel più profondo del suo essere. Il mistero di Dio non coincide con la sua estraneità, ma con la sua alterità: è l’Altro che, accolto, svela pienamente il sé dell’uomo. Con ciò
l’enciclica mostra che l’avvento della luce divina con-viene propriamente all’esperienza dell’uomo, ne illumina decisivamente l’enigma,
rivela l’uomo a se stesso; eppure, proprio in quanto luce che con-voca essa richiede una risposta da parte dell’uomo, che posizioni il suo
sguardo riguardo alla luce che risplende.
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Silvano Petrosino, in un rigoroso e avvincente saggio sulla metafisica della luce15, ha mostrato che dinanzi all’apparire della luce – al
suo risplendere – l’uomo non semplicemente «reagisce» in modo
meccanico, ma «risponde» con l’investimento della propria singolare libertà. La risposta umana all’apparire della luce è lo sguardo. Ma
lo sguardo si può declinare in modo diverso, si può rifrangere in varie sfumature, proprio perché non è una reazione meccanica, ma un
atto di libertà. L’enciclica sottolinea due modalità antitetiche dello
sguardo, due poli estremi tra i quali si situa la possibilità dello sguardo umano interrogato dall’apparire della luce della chiamata. Iniziamo dal polo negativo, che ovviamente renderà più intelligibile, sub
contrario, anche quello positivo. Il movimento contrario alla fede –
quale si esprime nella vicenda di Abramo – non è tanto l’incredulità,
la mancanza di fede, l’indifferenza, ma l’idolatria, vale a dire l’affidamento a ciò che non è ultimamente affidabile (n. 13).
Se la fede viene dall’unità di Dio e di conseguenza rischiara in totalità l’esistenza dell’uomo, l’idolatria è per natura politeista, perché
smarrita e dispersa dinanzi alle tante voci degli idoli che gridano:
«Affidati a me». Lo sguardo idolatrico, mediante cui l’uomo elegge
un qualcosa a oggetto capace di possederlo e ad esso si consegna, deriva in fondo dall’inquietudine e dal bisogno dell’uomo di avere una
relazione con oggetti non appropriabili, non semplicemente posseduti. Il bisogno di una relazione diversa da quella con le cose è però
qui deviata verso un affidamento all’altro – istituto come idolo – in
cui estinguere la propria inquietudine e a cui delegare la propria responsabilità16. Si tratta, come nel caso del Leviatano di Hobbes, di
una vera e propria «cessione» della propria libertà a un altro – al «dio
mortale» – ricevendone in cambio una protezione che rafforza il ripiegamento narcisistico su di sé.
Se, dunque, come si vedrà anche in seguito, la fede è forma dell’esistere, l’idolatria è de-formazione; se quella è integrazione che
conferisce unità (a somiglianza dell’unità tripersonale di Dio), questa
15
16
Cf. S. PETROSINO, Piccola metafisica della luce, Jaca Book, Milano 2004.
Cf. ivi, 75-81.
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è dispersione nella molteplicità dei desideri che governano l’uomo.
Da ciò si deduce che l’idolatria, ed è chiaramente questa la prospettiva che emerge dalla rivelazione biblica, è l’antitesi della fede, il suo
pericolo più insidioso, la sua malattia mortale. Secondo il Sal 115, 5
(di cui l’enciclica cita stranamente solo un altro punto) gli idoli hanno «occhi ma non vedono»: manca appunto a loro quel lumen che
può rischiarare la vita; essi hanno bensì apparentemente la facoltà visiva, che però si rivela del tutto illusoria, copia ingannatrice dell’oculata fides che sola salva l’esistenza. In questo senso occorre passare
«dagli idoli al Dio vivente» (cf. 1Ts 1, 9), dalla cecità del molteplice
alla luce che viene dall’alto.
Il polo opposto nella declinazione dello sguardo, si diceva, è lo
sguardo della fede. Ma qui risuona inevitabilmente un’obiezione. È
proprio vero che si tratta di uno sguardo diverso, persino opposto, da
quello idolatrico? Non è forse vero che anche nella fede, anzi proprio
in essa, ci si affida ad altri? Non è essa uno sguardo che elegge e istituisce un idolo a cui sacrificare l’autonomia del sé?
Nella fede, spiega l’enciclica, non soltanto crediamo a Gesù, ma
crediamo anche con lui, a lui ci uniamo per poter credere: «La fede,
non solo guarda a Gesù, ma guarda dal punto di vista di Gesù, con i
suoi occhi: è una partecipazione al suo modo di vedere» (n. 18). L’enciclica, prudentemente attenta a non entrare nella vexata quaestio della «fede di Gesù», parla di una partecipazione al modo di vedere di
Gesù. L’impressio divini luminis, che Tommaso riconosce a origine e
fondamento del lumen della fede, si specifica qui come partecipazione allo sguardo di Gesù, visione nella luce di colui che è la luce del
mondo (cf. Gv 8, 12; 9, 5).
Considerare lo sguardo della fede come partecipazione al modo di
vedere di Gesù, consente di superare l’obiezione alla concezione greca della visione (theoria), che l’enciclica riporta ai nn. 29-30. La luce,
così si argomenta, sarebbe intrinsecamente violenta (come si accennava prima, è l’idea di Derrida), si imporrebbe a prescindere dalla libertà del soggetto che vede: la totalità della visione offerta dalla luce
sarebbe con ciò anche totalitarismo, annientamento del soggetto da
parte della stessa luminosità della luce. Inoltre – seconda obiezione –
l’apparire della luce indurrebbe a una visione statica, a-storica, posta
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al di fuori del tempo in cui si gioca, drammaticamente, la vicenda dell’uomo quaggiù.
Due obiezioni a cui l’enciclica risponde, in modo suggestivo, a partire dal vangelo più «greco», quello di Giovanni. Visione qui non è in
contrapposizione all’ascolto, anzi ne è il correlato: «Grazie a quest’unione con l’ascolto, il vedere diventa sequela di Cristo, e la fede appare come un cammino dello sguardo, in cui gli occhi si abituano a vedere in profondità» (n. 30). La visione non è né statica né necessaria:
è un cammino, un itinerario dello sguardo che cerca di cogliere sempre di più l’oggetto amato. È questo – secondo la narrazione di Gv 20
– il cammino pasquale che, a partire dal buio, si apre alla pienezza della visione del Risorto: dal discepolo amato che, mentre è ancora buio,
alla vista del sepolcro vuoto «vide e credette» fino a Maria Maddalena che confessa davanti ai discepoli: «Ho visto il Signore!» (n. 30)17.
La luce è quella di Cristo: la concentrazione cristologica della verità
consente di superare l’obiezione all’idea greca di una contemplazione
distaccata e ultimamente impersonale sia con il riferimento alla Persona divina del Figlio («La luce della fede è quella di un Volto in cui
si vede il Padre»: n. 30) sia con l’idea del cammino che la luce suscita
(«la fede “vede” nella misura in cui cammina»: n. 9).
Diego Javier Fares, in una suggestiva meditazione su La Civiltà
Cattolica18, sostiene, leggendo l’enciclica sullo sfondo dell’episodio biblico della trasfigurazione, che la grazia della fede comunicata da Gesù è precisamente la possibilità di condividere non solo un contenuto
del vedere, ma soprattutto la prospettiva dello sguardo, in modo che
si produca una vera e propria trasformazione dello sguardo. La luce di
17
Per una ricca meditazione su questo capitolo del Quarto Vangelo, cf. U.
VANNI, «Dalla fede al contatto con Gesù risorto. Il messaggio pasquale di Giovanni 20», in La Civiltà Cattolica 165 (2014) II, 113-129.
18 D. J. FARES, «Gli occhi della fede», in La Civiltà Cattolica 164 (2013) IV,
530-542. A proposito degli occhi della fede si veda il testo classico di P. ROUSSELOT, «Les yeux de la foi», in Recherches de science religieuse 1 (1910) 241-259;
444-475. Per una ripresa del tema, cf. D. ZORDAN, «Occhi della fede o luce della grazia? Note per ripensare l’atto di credere nel solco di Pierre Rousselot», in
Rassegna di teologia 52 (2011) 103-117.
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Gesù trasforma gli occhi dei discepoli, che si assimilano al modo di vedere di Gesù, «in uno scambio dialogico di prospettive». Questo significa che lo sguardo del discepolo che si affida allo sguardo del Signore non viene semplicemente assorbito dalla luminosità divina di
quest’ultimo (in un idolatrico annientamento del soggetto), ma vi
«partecipa», nel singolarissimo modo a lui proprio. Il modo di vedere di Gesù, in altri termini, non si impone violentemente sostituendosi allo sguardo del discepolo, ma istituisce una relazione, uno scambio di prospettive, che consente al discepolo di vedere nella misura in
cui cammina. Cristo ci è dato «come grande dono che ci trasforma interiormente, che abita in noi, e così ci dona la luce che illumina l’origine e la fine della vita, l’intero arco del cammino umano» (n. 20).
Dire questo significa che lo sguardo guadagnato mediante la fede
– in opposizione allo sguardo idolatrico che letteralmente «as-soggetta» la libertà del soggetto all’impersonalità dell’idolo – è sguardo
di amore. Non nel senso dello sguardo innamorato, che tendenzialmente inchioda a una reduplicazione narcisistica del guardare, ma nel
senso, ricordato sopra, dell’affidabilità di un amore che trasforma. «Il
cristiano – sostiene l’enciclica – può avere gli occhi di Gesù, i suoi
sentimenti, la sua disposizione filiale, perché viene reso partecipe del
suo Amore, che è lo Spirito. È in questo Amore che si riceve in qualche modo la visione propria di Gesù» (n. 21). La trasformazione dello sguardo è resa possibile solo dall’amore. Solo mediante l’amore è
possibile il rispetto, e lo scambio fecondo, delle prospettive; solo mediante l’amore si accoglie la trasformazione della prospettiva dell’altro; solo mediante l’amore l’esistenza si dilata e si percepiscono le cose con gli occhi dell’altro. L’amore, una volta accolto, trasforma colui che vi si affida (che gli crede): «la fede cristiana è dunque fede nell’Amore pieno, nel suo potere efficace, nella sua capacità di trasformare il mondo e di illuminare il tempo» (n. 15).
5. La fede e l’amore
La fede è fede nell’amore, essa è luce proprio nel suo essere trasparenza all’amore che si dona. Ma dire questo non significa forse av-
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vallare l’idea secondo cui in fondo la fede sarebbe riducibile a sentimento, pur nobile e magari persino necessario? Non equivale questo
a recidere ogni legame essenziale fra fede e verità? La figura di una fede senza verità è precisamente quella che la ragione moderna assegna
al cristianesimo: luce di conforto, forse («per chi ci crede»), ma priva
di sostanza. Una fede senza verità, però, non salva – così ribadisce
l’enciclica in perfetta continuità con il magistero ratzingeriano – e resta vuoi «la proiezione dei nostri desideri di felicità» vuoi «un bel sentimento che consola e riscalda» (n. 24). Il sospetto gettato sulla fede
cristiana, priva di luce, è in buona sostanza la critica moderna (l’oscurità della fede vs la chiarezza della ragione illuminista). La critica postmoderna suona addirittura più radicale (cf. n. 25). La verità che si impone come l’unica degna (di fede) è quella della tecnologia: non più
quella di una ragione che rischiari l’intera esistenza, ma di una capacità effettiva di trasformazione della realtà, il cui scopo si riduce in
fondo a «rendere più comoda e agevole la vita». Essa non interpreta
la realtà, non getta sul reale uno sguardo che lo rischiari integralmente: si limita appunto a rendere più comoda la vita. Accanto a ciò esiste
la verità «privata», la verità del singolo che vale per lui, la verità del
«sentire autentico»: essa vale solo nel foro interno della coscienza e
non può certo assurgere a criterio pubblico, entrare in discussione con
il punto di vista di altri. Quella che l’enciclica chiama «la verità grande» è guardata con sospetto e ultimamente destinata all’oblio.
Ma la quaestio de veritate è ineliminabile e ha a che fare con l’autentica concezione della fede. Se la fede vuol essere luce deve essere
capace di confrontarsi con la verità. In altri termini deve poter esibire la sua capacità di «conoscere». L’enciclica non si sottrae alla questione e individua la risposta al perché la fede è conoscenza adeguata
all’uomo di ogni tempo – oltre la pretesa illuministica di una ragione
alternativa alla fede e la riduzione contemporanea della verità (nella
duplice figura della verità pubblica, tecnologica e di quella privata,
sentimentale) – nel fatto che la fede parla al «cuore».
Sembrerebbe un rimando contraddittorio, visto che l’accezione di
cuore è, per la contemporaneità, irrimediabilmente connotata in senso emotivo-sentimentale. Tuttavia qui si deve intenderne la risonanza nello sfondo della rivelazione biblica, dove «cuore» – come è sta-
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to detto e ridetto – è centro dell’uomo, il crocevia delle sue facoltà
interiori (ragione, volontà, sentimento). In altri termini, cuore non è
qui in opposizione di contraddizione con la ragione, ma ne è per così dire il fondamento etico: cuore è la coscienza dell’uomo, l’interiorità più profonda, lo spazio in cui il logos e l’affetto, la giustizia e il desiderio, si coimplicano originariamente. La verità della vita non può
essere colta che dal cuore, inteso in questo senso. La fede, il cui organo è il cuore – «con il cuore si crede» (Rm 10, 10) – è la capacità
radicale dell’accoglienza dell’amore che trasforma: «è in questo intreccio della fede con l’amore che si comprende la forma di conoscenza propria della fede, la sua forza di convinzione, la sua capacità
di illuminare i nostri passi. La fede conosce in quanto è legata all’amore, in quanto l’amore stesso porta una luce» (n. 26).
Anche in senso antropologico, prima ancora che teologico, la fede
conosce, e lo fa in quanto legata all’amore. Secondo J.-L. Marion, la
fede non si oppone alla ragione (il contrario della fede è la cattiva fede; il contrario della razionalità è l’ideologia), ma le è unita in modo
indissolubile, dal momento che l’oggetto che si dà a vedere può essere colto nella sua significazione solo previa una credenza che anticipa
la piena visibilità dei fenomeni. Se questo è vero, allora si può affermare che la fede diventa la condizione dell’intelligenza di alcuni fenomeni: quelli che paradossalmente ci sono più distanti in quanto ci toccano più da vicino, quelli che Pascal assegnava all’ordine del «cuore»,
della carità e della santità. Questo è l’ordine a cui si accede solo nell’amore, e vi si accede solo nel modo in cui si dà, mediante la fede19.
Dunque la fede conosce attraverso l’amore – amor ipse notitia est secondo la celebre espressione di Gregorio Magno citata dall’enciclica –
e l’amore a sua volta è tale solo se non viene inteso nella sua deriva sentimentalistica, ridotto a «un guscio vuoto»20 senza contenuto di logos.
«Nella sua realtà intrinseca» – scrive von Balthasar – «l’amore viene conosciuto soltanto dall’amore». Questo significa: «Soltanto l’a-
19
Cf. J.-L. MARION, Le croire pour le voir. Réflexions diverses sur la rationalité de
la révélation et l’irrationalité de quelques croyants, Parole et silence, Paris 2010, 13.
20 Caritas in veritate, n. 3.
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more è credibile, ma anche non si deve e non si può credere a null’altro che all’amore. Questo è il compito, l’opera della fede, riconoscere
questo prius assoluto e assolutamente inafferrabile. Fede che esiste un
amore, un amore assoluto e che questo è l’ultimo punto d’arrivo e che
al di là non esiste altro: contro ogni probabilità dell’esperienza esistenziale (“credere contra fidem” come “sperare contra spem”), contro
ogni concezione “intellettuale” del divino, che può ragionare sulla base di una impassibilità, o nel migliore dei casi di una bontà assolutamente distaccata, ma non può assolutamente pensare sulla base di
questo principio incomprensibile e irrazionale»21.
La citazione di von Balthasar ci conduce all’ultimo tratto di questa riflessione sulla luce della fede. L’enciclica sottoscriverebbe senz’altro l’affermazione secondo cui opera della fede è il riconoscimento del prius assoluto, inafferrabile, dell’amore (cf. n. 15). Potrebbe eccepire invece sull’affermazione secondo cui l’amore assoluto sarebbe
assolutamente al di là di ogni probabilità dell’esperienza esistenziale,
sarebbe un principio incomprensibile e irrazionale. In realtà, scrive
l’enciclica, «la fede cristiana, in quanto annuncia la verità dell’amore
totale di Dio e apre alla potenza di questo amore, arriva al centro più
profondo dell’esperienza di ogni uomo, che viene alla luce grazie all’amore ed è chiamato ad amare per rimanere nella luce» (n. 32).
L’incomprensibilità dell’amore di Dio, in altri termini, non è assoluta: questo possiede un logos, una «logica» che si comunica e che è in
qualche modo anticipata nella forma della coscienza, nella dotazione
di una «grammatica» dell’amore che dobbiamo imparare a utilizzare,
nel sorprendente incontro con l’amante (e in primis con il Divino
amante), nella «sintassi» del dono di noi stessi. Per questo la fede non
è una fiducia cieca, un affidamento irrazionale. È la conoscenza adeguata di ciò che certo non può essere mai «capito» – l’amore sempre
più grande e imprevedibile di Dio – perché non è «qualcosa» di misurabile e di quantificabile, ed è insieme sempre capace di illuminare
decisivamente l’esperienza umana. In quello che l’enciclica definisce
21
H. U. VON BALTHASAR, Solo l’amore è credibile, in ID., La percezione dell’amore, Jaca Book, Milano 2010, 59-153, qui 105. 122-123.
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«movimento circolare» fra il nostro amore e quello di Dio, la luce
della fede che viene a noi dall’amore del Crocifisso risorto illumina
l’amore che ogni uomo sperimenta (e ne definisce la sua vocazione22);
l’esperienza che ogni uomo fa dell’amore – il fatto che dal punto di
vista «naturale», per usare questa espressione, l’amore porti con sé
una luce – permette di cogliere la convenienza all’humanum dell’agape di Dio rivelata nella croce del Figlio. Alla luce piena dell’amore di
Gesù «scopriamo che in ogni nostro amore era presente un barlume
di quella luce e capiamo qual era il suo traguardo ultimo. E, nello
stesso tempo, il fatto che il nostro amore porti con sé una luce, ci aiuta a vedere il cammino dell’amore verso la pienezza di donazione totale del Figlio di Dio per noi» (n. 32).
In tal modo, in questa relazione di anticipazione, purificazione,
compimento, ogni rapporto umano può essere colto e vissuto nella luce della fede. Si pensi, per rimanere agli esempi ricordati nell’enciclica, al fecondo intreccio vissuto da Agostino fra filosofia della luce e rivelazione biblica del volto (cf. n. 33) o alla ricerca dei Magi nel loro
cammino verso la luce, in cui si manifesta «la pazienza di Dio con i nostri occhi, che devono abituarsi al suo splendore», il «rispetto di Dio
per gli occhi dell’uomo» (n. 35). La luce che viene dall’alto – seppur
inaspettata e di uno splendore inimmaginabile – non annulla lo sguardo dell’uomo: è kindly light, luce gentile, per usare le parole di Newman, che conduce progressivamente verso l’incontro con la luminosità di Dio, con il suo risplendere incandescente nell’agape di Cristo.
Questo sguardo della fede coglie «la verità dell’amore» (n. 34): è
un essere toccati nell’affetto per iniziare un cammino che conduca a
un espandersi dell’io, a un dilatarsi verso un «noi». Ritroviamo qui,
riferita all’amore, la scansione dei tre momenti dell’incontro di cui
abbiamo parlato sopra: chiamata/affezione, promessa di fecondità,
esodo verso la promessa. La fede è allora luce in quanto mostra la
22
Cf. Familiaris consortio, n. 11: «Dio ha creato l’uomo a sua immagine e somiglianza: chiamandolo all’esistenza per amore, l’ha chiamato nello stesso tempo all’amore. (...) L’amore è, pertanto, la fondamentale e nativa vocazione di
ogni essere umano».
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chiamata-promessa-esodo dell’amore, vocazione di ogni uomo e di
ogni tempo. Essa diventa così «un modo relazionale di guardare il
mondo» (n. 27), che ha in se stesso la capacità di illuminare il cammino di ogni uomo che viene nel mondo (cf. Gv 1,9): «non c’è nessuna esperienza umana, nessun itinerario dell’uomo verso Dio, che non
possa essere accolto, illuminato e purificato da questa luce. Quanto
più il cristiano s’immerge nel cerchio aperto dalla luce di Cristo, tanto più è capace di capire e di accompagnare la strada di ogni uomo
verso Dio» (n. 35).
6. Una luce che basta per il cammino
Luce della fede, verità dell’amore: questo il titolo di questa breve
nota. Ma si potrebbe esplicitare, dopo l’analisi qui abbozzata: la luce
della fede è la verità dell’amore, di quell’amore pieno, definitivo rivelato in Gesù Cristo e donato, come compito e luce, ad ogni uomo che
viene nel mondo (Gv 1, 9).
Che non si tratti di una luce semplicemente contemplabile in modo distaccato (estetica), ma richieda sempre anche il cammino (etica),
appare evidente in base all’analisi della struttura della fede descritta
nell’enciclica. Solo così essa può onorare la sua pretesa di valere come interpretazione autentica dell’universale antropologico e di porsi
come dimora ospitale di ogni cammino davvero umano.
A patto che non si confonda la totalità della sua pretesa di senso
con un totalitarismo ideologico che pretenda di annullare l’oscurità
di un cammino segnato dall’incertezza e dal rischio: «La fede non è
luce che dissipa tutte le nostre tenebre, ma lampada che guida nella
notte i nostri passi, e questo basta per il cammino» (n. 57).
La fede è lampada ai passi dell’uomo; essa rischiara solo se questi
si mette in cammino (cf. n. 9) e a misura del suo lasciarsi coinvolgere da essa. In questo intreccio di visione e cammino, di logos e di ethos,
di conoscenza e di amore, in una chiarezza che progressivamente si
conquista camminando nella luce, sta il fascino e la perenne novità
della luce della fede, della verità dell’amore.
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SUMMARIES
The Encyclical Lumen Fidei upholds the position that faith is a not a light among
other lights, but the one which decisively illuminates the total sense of human
existence. Especially in the first two chapters it shows that the light of faith is
the truth of love, of that full definitive love revealed in Jesus Christ and given, as
a task and light, to every person coming into the world. The light of faith is not
simply to be contemplated in a distanced way (esthetics) but requires always
the sense of journey (ethics). Only in this way can it do honor to its aim to have
worth as an authentic interpretation of the anthropological universe and to offer itself as the hospitable dwelling place of every truly human journey.
***
La encíclica Lumen fidei sostiene que la fe no es una luz entre otras luces, sino aquella que ilumina decisivamente el sentido total del existir humano. Sobre todo en los dos primeros capítulos muestra que la luz de la fe es la verdad del amor, de aquel amor pleno y definitivo revelado en Jesucristo y dado,
como tarea y luz, a cada ser humano que viene a este mundo. La luz de la fe
no ha de contemplarse sólo de manera desapegada (estética), sino que también requiere siempre camino (ética). Sólo así puede honrar su pretensión de
valer como interpretación auténtica del universal antropológico y de proponerse como hogar hospitalario de todo camino verdaderamente humano.
***
L’enciclica Lumen fidei sostiene che la fede non è una luce tra altre luci, ma
quella che decisivamente illumina il senso totale dell’esistere umano. Soprattutto nei primi due capitoli essa mostra che la luce della fede è la verità dell’amore, di quell’amore pieno, definitivo, rivelato in Gesù Cristo e donato, come compito e luce, ad ogni uomo che viene nel mondo. La luce della fede non
è semplicemente contemplabile in modo distaccato (estetica), ma richiede
sempre anche il cammino (etica). Solo così essa può onorare la sua pretesa
di valere come interpretazione autentica dell’universale antropologico e di porsi come dimora ospitale di ogni cammino davvero umano.
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LO SPIRITO DELL’ETICA CRISTIANA1
Giorgio I. Mantzaridis*
L’etica cristiana appare agli occhi di molti come un insieme di regole vincolanti o finanche come un sistema chiuso che opprime l’uomo e delimita la sua libertà. Una simile visione di essa non è priva di
spiegazioni, qualora la si configuri con criteri esterni senza che sia esaminata la sua reale identità. Tuttavia con un migliore approccio ed
esame di essa si constata facilmente che non solo non opprime l’uomo
e non delimita la sua libertà ma al contrario gli reca sollievo e lo guida alla libertà vera e illimitata: lo introduce alla libertà increata di Dio.
L’etica cristiana non è convenzionale: è rivoluzionaria e radicale.
Cristo con la sua presenza e con il suo insegnamento «ha sconvolto
la nostra quiete. Dormivamo spiritualmente un sonno animale ed
eravamo soddisfatti»2. Egli ha detto: «Prendete il mio giogo sopra di
voi e imparate da me che sono mite ed umile di cuore e troverete ri-
* Emeritus Professor of moral theology at the Faculty of Theology of the Aristotelian University of Thessalonica
Profesor emérito de Teología Moral en la Facultad de Teología de la Universidad
Aristotélica de Tesalónica
Translation from modern greek edited by Basilio Petrà
La traducción del griego moderno editado por Basilio Petrà
1
Il breve saggio è apparso con lo stesso titolo (To pneuma tês christianikês êthikês) primariamente in Theologia (in greco) 82 (2011) 49-56, quindi in Giorgio I.
MANTZARIDIS, Innovazione e tradizione (in greco), Sacro Grande Monastero di
Vatopedi, Monte Athos 2014, 71-92.
2 ARCHIMANDRITA SOFRONIO (Sacharof), Il mistero della vita cristiana (in greco), Essex (Inghilterra) 20112, 301. Si tratta della traduzione in greco moderno
curata dall’archimandrita Zacharias Zacharou e pubblicata dal monastero San
Giovanni il Precursore fondato dall’archimandrita ad Essex in Inghilterra all’inizio degli anni ’60 del secolo scorso (NdT).
StMor 53/1 (2015) 23-36
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GIORGIO I. MANTZARIDIS
poso per le vostre anime; il mio giogo infatti è dolce e il mio carico
leggero» (Mt 11, 29-30). Non esiste uomo senza giogo e senza peso.
Chi però segue il Cristo, assume un giogo dolce e un peso leggero.
Del resto anche la provocazione che Cristo indirizza all’uomo, il
cammino al quale lo chiama, è provocazione e cammino verso la libertà. «Voi infatti siete stati chiamati alla libertà, fratelli» (Gal 5, 13),
dichiara l’apostolo Paolo.
Sul piano orizzontale la libertà è vissuta dall’uomo come un movimento e un’espansione senza impedimento nello spazio e nel tempo. Chiunque subisce limiti entro lo spazio e il tempo ha pure una libertà delimitata. Quanto è libero chi è in prigione? E di quanta libertà dispone chi sta per morire? Dato dunque che il tempo della vita dell’uomo è di fatto limitato e quando esso finirà sarà sepolto nello spazio, è naturale che la sua libertà sia delimitata.
Tuttavia, insieme con il movimento/espansione sul piano orizzontale dello spazio-tempo, c’è bisogno anche della liberazione dell’intelletto dalle passioni che lo racchiudono su questo piano e impediscono
la sua elevazione al piano verticale del trascendente. Quando l’uomo
rimane nell’orizzonte dell’immediatezza delle cose sensibili e il suo intelletto, che è l’occhio e l’organo direttivo della sua anima, non mantiene la sua posizione egemonica, così da controllare e dirigere i suoi
desideri e le sue energie, ma si trasforma in un puro organo asservito
al compimento di essi, non può esistere per l’uomo una libertà reale.
I cristiani sono chiamati «alla libertà». E sono chiamati «alla libertà», poiché come uomini che sono stati sottomessi al peccato e soggiacciono alla legge della corruzione e della morte, hanno una libertà
limitata. Non hanno una libertà assoluta ma una libertà ed autopotestatività relativa. La morte, che li punge con il peccato e che alla fine
pone termine alla loro vita, pone termine anche alla loro libertà relativa. La paura della morte, che opprime l’intera vita dell’uomo, opprime anche la sua libertà: lo fa schiavo per tutta la sua vita. Chiunque
teme la morte, dice san Giovanni Crisostomo «è schiavo, e tutto subisce pur di non morire»3.
3 JOHANNES
CHRYSOSTOMUS, Hom. in Litteram ad Hebraeos, 4: PG 63, 41.
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L’intera vita e il pensiero dell’uomo, la sua cultura e la sua scienza, si trovano sostanzialmente sotto l’ombra della morte e si dispiegano come una disperata lotta a vari livelli contro di essa. L’intelletto ‘appassionato’ serve il soddisfacimento delle passioni. E la qualità
della vita dell’uomo è calcolata avendo come base la capacità di soddisfare le sue passioni. I valori morali e spirituali non sono contati come fattori qualitativi. Anzi con l’autonomizzazione e la divinizzazione dell’economia che viviamo nella nostra epoca tutti i valori non
economici sono stati messi da parte.
La verità del cristianesimo si riassume nell’illuminazione dell’intelletto dell’uomo e nella vittoria sulla morte, che è il suo nemico ultimo (cfr. 1Cor 15, 26). Se questa vittoria non è vera, se non è vera la
risurrezione mostrata da Cristo al mondo illuminando l’ecumene, allora l’intero cristianesimo non è vero4. Con la luce della risurrezione
l’uomo intero è valorizzato come unità psicosomatica e l’intera creazione acquista senso e scopo.
La chiamata alla libertà non può essere indeterminata. Deve avere una qualche direzione. Quando la libertà non ha direzione conduce al caos. La direzione dell’etica cristiana non limita la libertà ma
la promuove. Non è una limitante strada a senso unico, ma un orizzonte infinito nel quale ognuno può valorizzare l’esistenza nel suo
proprio modo personale. Con essa non si dà il modo del cammino
ma il presupposto della libertà che in ultima analisi è il superamento della paura della morte. Senza questo superamento l’uomo non
può conquistare una vera libertà.
Il cammino verso la libertà è anche cammino verso il compimento e la valorizzazione dell’uomo. Questo cammino si realizza come
cammino verso il Cristo. Qualunque altra ricerca della libertà è vana,
perché è limitata dalla paura della morte ed è smentita con l’arrivo
della morte. Il cammino verso il Cristo che è insieme cammino con
il Cristo è cammino verso la vera libertà. Perché il Cristo come vincitore della morte è il liberatore dell’uomo dalla schiavitù e via verso
4
“Se Cristo non è risorto allora è vano il nostro annuncio, vana la nostra fede” (1Cor 15, 14).
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la libertà (cfr. Gv 11, 25: 14, 6). È colui che dona la vita eterna e la libertà indistruttibile.
L’etica cristiana è intelligibile e applicabile solo come etica della
risurrezione ovvero della vittoria sopra la morte. E il suo contenuto
specifico non si attinge dal piano naturale, psicologico o sociale della vita umana, come accade con ogni altra etica. Certo, anche questi
piani sono utili e di aiuto all’etica cristiana; del resto, tutto quel che
è riconosciuto come giusto e morale è accolto anche dal cristianesimo e assunto come strumento di elaborazione e ed espressione del
suo spirito. L’apostolo Paolo scrive: «Tutto quel che è vero, tutto
quel che è pudico, tutto quel che è giusto, tutto quel che è casto, tutto quel che è amabile, tutto quel che è di buona fama, se c’è qualche
virtù e qualcosa di lodevole, tutto questo sia oggetto dei vostri pensieri» (Fil 4, 8).
Quel che tuttavia caratterizza e distingue questa etica da qualsiasi
altra non sta in questi elementi né deriva dal piano psicologico o sociale, ma dal piano ontologico o spirituale, dall’ontologia della nuova
creazione. In altre parole, l’etica cristiana non è un qualche sistema di
etica né crea un suo proprio ambito chiuso. È totalmente aperto alla
natura umana.
Ma qual è la natura umana autentica? Forse quella che ognuno vive quotidianamente? Ma questa è frammentaria e condotta dalle passioni. Per questo ogni moralista o riformatore sociale può creare e
crea la sua propria etica. L’etica cristiana si fonda sull’autentica natura umana, sull’uomo perfetto, che è Cristo. E Cristo è uomo perfetto perché è Dio perfetto. È l’archetipo «ad immagine e somiglianza»
del quale l’uomo è stato creato. Essenzialmente l’etica cristiana guida l’uomo all’uguaglianza di ethos con Dio (homoêtheia Theou)5.
5
«La Luce increata, riflesso della quale sono i comandamenti di Cristo, discende secondo i suoi gradi gerarchici, si materializza gradualmente e diventa
etica cristiana. Noi non la rigettiamo; al contrario, la conserviamo come possibilità di transizione dall’inferiore al superiore, come un qualche ponte tra l’essere psichico e l’essere spirituale, come passaggio dalla piccola luce alla luce
grande e perfetta»: ARCHIMANDRITA SOFRONIO (Sacharof), Il mistero della vita
cristiana, 259.
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L’etica cristiana è l’attualizzazione dell’ontologia cristiana. È l’attualizzazione dell’ontologia della «nuova creazione», e specialmente
dell’ontologia dell’uomo nuovo, manifestata da Cristo nel mondo
con la sua vittoria sulla morte. È la chiamata dell’uomo a vivere nel
mondo con un nuovo modo di vita, che si lascia dietro la morte: «affinché come Cristo è risorto dai morti... così anche noi camminiamo
in novità di vita» (Rm 6, 4). Questa nuova ontologia è avvicinata e vissuta con la fede, mentre senza la fede appare come un’ideologia romantica. La fede è quella prassi dinamica, con la quale l’uomo accoglie come un dato la verità escatologica di Cristo e si affretta ad appropriarsene.
Senza il superamento della paura della morte non possono essere
comprese e vissute le esigenze propriamente cristiane dell’Evangelo
di Cristo: «Ma io vi dico: amate i vostri nemici» (Mt 5, 44) o «se
qualcuno viene dietro a me e non odia suo padre e sua madre... finanche la sua propria anima, non può essere mio discepolo» (Lc 14,
26). L’amore per i nemici e l’odio per i propri familiari e addirittura
per se stessi sono non solo impossibili ma anche irrazionali nella condizione data del mondo presente. Come può l’uomo amare i suoi nemici, cioè coloro che aggrediscono la sua esistenza, o odiare i suoi genitori, cioè coloro che gli hanno donato e sostengono la sua vita, per
di più poi odiare il suo essere stesso, se non ha vinto la paura della
morte o se non è impazzito?
L’etica della nuova creazione è in ultima analisi possibile e applicabile solo con l’esperienza della risurrezione, con l’esperienza che
offre la partecipazione alla vita di Cristo e la sintonizzazione con le
energie divine attuata dall’osservanza dei divini comandamenti, che
si riassumono nel duplice comandamento dell’amore. Con questa
esperienza hanno vissuto e vivono i santi, come anche tutti i veri cristiani nel mondo: «Noi sappiamo di essere di essere passati dalla
morte alla vita, perché amiamo i fratelli» (1Gv 3, 14). Con l’amore il
fedele fa della vita dell’altro la sua propria vita, ed anch’egli vive nella persona di coloro che lo amano veramente, mentre tutti insieme
vivono nella persona, nella ipostasi del Cristo risorto. Ciò presuppone naturalmente che l’amore sia vero, cioè disinteressato. Così deve
essere l’amore del cristiano.
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Tuttavia, come può l’uomo indigente, che ha così tanti bisogni e
vive nel clima della corruzione e della morte, mettere da parte l’interesse proprio e vivere di un amore disinteressato?
Questa domanda per l’uomo che ha ereditato lo spirito moderno
rimane senza risposta. La sua chiusura nella intramondanità, la sua
assoluta fiducia nella retta ragione, la sua limitazione alle verità oggettive utilitaristiche, la visione lineare del tempo senza alcuna prospettiva o riferimento trascendente, la sua autonomizzazione autocompiaciuta, senza considerare che egli non è la causa della propria
esistenza ma ha «l’essere dato in prestito»6, lo allontanano da una ricerca simile. Né la vita né la libertà né l’amore disinteressato possono esistere ed essere vissuti senza che non sia vinta la potenza distruttiva della morte che accompagna l’uomo.
Il cristiano può vivere con un amore disinteressato perché quel che
persegue lo prende fin dal principio con il suo ingresso nella Chiesa e
lo può gustare con la sua fede come esperienza quotidiana. La fede in
Cristo e nella sua risurrezione, ma anche la partecipazione alla vita in
Cristo con i sacramenti e l’amore offrono l’insieme dei doni di Dio o,
più precisamente, Dio stesso all’uomo e vincono la paura della morte.
L’assimilazione però di questa verità non è un’ipotesi teorica né si realizza con ricerche intellettuali o immaginarie: costituisce un evento
ontologico che si compie nella vita quotidiana con una fede sicura,
un’ascesi e una pazienza di lunga durata. Finché l’intelletto rimane
prigioniero delle passioni e dei pensieri dominati dalle passioni l’uomo è incapace di respirare l’aria della vera libertà. Questo dominante
organo dell’anima, l’intelletto, viene oscurato, si riduce solo ad un’energia intellettuale al servizio della passioni animali, si abbrutisce e
perde la sua capacità di ricevere la luce della verità7.
Vivere la risurrezione non è qualcosa che si attende solo dopo la
morte biologica, ma qualcosa che si vive nel quotidiano con l’amore
6
Cfr. MAXIMUS CONFESSOR, Expositio Orationis Dominicae: PG 90, 893C.
Cfr. GREGORIUS NYSSENUS, De hominis opificio 18, 3: PG 44, 192D. Cfr. anche GRÊGORIOU TOU PALAMA, Homilia 51, 6; edizione di S. Oikonomou, Tou en
hagiois Patros hêmôn Grêgoriou tou Palama Homiliai KB’, Atene 1861, 144-145.
7
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per Cristo e per il prossimo. Questo vissuto per altro offre la forza di
far fronte e superare le strettezze della vita quotidiana. L’apostolo
Paolo «moriva ogni giorno» (cfr. 1Cor 15, 21), poiché viveva ogni
giorno la risurrezione. Ed ogni imitatore della sua vita può morire
come lui «ogni giorno», nella misura in cui vive ogni giorno la risurrezione. Così giunge al culmine «l’educazione (paideia)» che Dio
esercita sull’uomo.
Dio mette alla prova l’uomo nei limiti della sua sopportazione e
delle sue forze. Questi limiti sono noti a Dio, non però all’uomo. In
ultima analisi tuttavia il limite estremo dell’uomo è la sua creaturalità. Il dolore che l’uomo prova diventa certe volte eccessivo o anche
troppo lungo. Ciò lo fa pensare. Facilmente lo piega o lo estenua.
Perché una simile prova, per quale ragione? Come può conciliarsi
con l’amore e la provvidenza di Dio per l’uomo? Abbiamo qui un risvolto del grande problema della teodicea che tanto intensamente ha
occupato l’Antico Testamento.
Ma Dio è eterno e onnipotente. Con le misure dell’eternità e dell’onnipotenza divine niente può essere caratterizzato come eccessivo
o di troppo lunga durata. Certo, ciò non vale per le misure della vita
e della forza umane, che sono brevi e limitate. Nonostante ciò, l’uomo che è immagine di Dio dispone in nuce di tutte le sue caratteristiche ed è chiamato ad assomigliare a Lui. È chiamato a diventare perfetto come Lui (cfr. Mt 5, 48). La perfezione dell’uomo sta nella sua
divinizzazione. E la sua divinizzazione coincide con il suo entrare
nella divina eternità e onnipotenza.
Con il dolore che Dio permette che l’uomo sopporti è data all’uomo l’opportunità – certo, dura e dolorosa – di superare i limiti
convenzionali della sopportazione e delle sue forze e di toccare in
qualche modo – apofatico – le frontiere della divina eternità e onnipotenza. In questa prospettiva la «educazione (paideia) divina», che
senza la fede e la fiducia nella sua provvidenza potrebbe essere considerata dura o anche disumana, si manifesta eminentemente benefattrice e amica degli uomini. Come nei giochi olimpici gli allenatori sospingono gli atleti a risultati che superano le loro prestazioni
ordinarie, così anche Dio esercita gli uomini in ordine alla perfezione.
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Ogni sforzo che è fatto da parte dell’uomo avviene per la conservazione, la valorizzazione e la manifestazione di quel che gli è stato
dato al principio col suo innesto nella Chiesa, la comunione della divinizzazione, e non per l’acquisizione di qualcosa di nuovo che si trovi fuori di lui. È così del resto che è tolta dall’uomo la causa dell’interesse proprio e gli è data la possibilità del disinteresse.
L’amore disinteressato è inversamente proporzionale all’amore di
sé, la philautia, la madre di «tutti i mali»8. Quanto più è vinto l’amore di sé, tanto più si rafforza l’amore disinteressato. E quanto più si
sviluppa l’amore disinteressato, tanto più scompare l’amore di sé.
Questo processo tuttavia esige una lotta intensa contro l’egoismo,
che costituisce il nemico più grande dell’uomo, la radice del peccato
e delle passioni. Perciò l’odio verso se stessi, il cosiddetto odio di sé,
non solo non contraddice l’amore, ma ne costituisce un sostegno. È
l’odio verso le passioni e il peccato, che assicura l’amore dalla penetrazione di elementi negativi e allontana la sua corruzione da parte
dell’umano amore di sé. Se il fedele odia il suo sé passionale, per
amore di Cristo e del prossimo, allora lotta contro l’amore di sé e
smette di essere trascinato dalla passioni e dai desideri della carne.
Proprio in questa prospettiva si colloca anche la chiamata del cristiano «a libertà» (cfr. Gal 5, 13). La libertà non è offerta al fedele come grazia creata o come un dono statico, che possa ricevere e immagazzinare, ma come un’energia dinamica e come un’illuminazione
delle quali è chiamato ad appropriarsi assimilandole alla propria vita.
Senza lo sforzo e la lotta per appropriarsene e per assimilarle rischia
di ritornare alla condizione di schiavitù dalla quale Cristo lo ha liberato (cfr. Gal 5, 1).
Qui si trova anche il punto nodale dell’etica cristiana; qui si riassume il suo carattere cruciforme e il suo spirito di risurrezione. La libertà non è sfrenatezza o abbandono di sé alla carne e ai suoi desideri.
Una simile condizione costituisce una decadenza spirituale e una forma estrema di schiavitù. La libertà si conquista con il sacrificio e con
l’amore disinteressato, cioè con l’amore cruciforme che si offre agli al-
8
Cfr. MAXIMUS CONFESSOR, Quaestiones ad Thalassiumo: PG 90, 301B.
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tri secondo il modello dell’amore di Cristo. Esso crea nell’uomo l’illimitata apertura allo spazio e al tempo; lo apre all’altro, ad ogni altro,
amico o nemico, ed anche a tutta intera la creazione. E questa apertura, che si realizza con l’amore cruciforme, porta alla risurrezione e alla vita, offrendo già entro il presente l’esperienza del «passaggio dalla
morte alla vita» (cfr. 1Gv 3, 14).
L’uomo come creazione «ad immagine e somiglianza» di Dio, ha
dentro di sé in potenza tutta l’umanità consustanziale (omoousios). E
come mondo «nel piccolo grande»9 riassume in potenza tutta la
creazione. Per questo la sua salvezza o rovina, la sua perfezione etica o la sua decadenza non si collocano esclusivamente nella sua individualità ma si collegano con gli altri e con tutta intera la creazione.
Chi ama se stesso cerca con la sua «peri-ousia»10 di trincerare e assicurare la sua ousia ma in questo modo si separa dagli altri uomini
che sono a lui omoousioi, consustanziali. Rinnegando se stesso secondo il consiglio di Cristo invece trova la sua identità entro la comune
natura umana rinnovata dal Cristo nella quale si manifesta anche l’alterità ipostatica «di chi è ad immagine di Dio»11.
L’uomo come ipostasi nella sua ultima perfezione, scrive lo starez
Sofronio, «si mostrerà portatore dell’intero pleroma divino e dell’essere creato, cioè teantropo. Nella Santa Trinità ogni Ipostasi porta in
sé l’intero pleroma assoluto delle Altre due senza annullarle, senza ridurle solo a ‘contenuto’ della Sua vita, ma anch’essa penetra pienamente nel loro Essere, assicurando così la loro ipostaticità. Lo stesso
vale anche per l’essere multi-ipostatico dell’umanità. Ogni ipostasi è
stata chiamata a contenere in sé il pleroma dell’intero essere umano,
senza abolire in alcun modo le altre ipostasi: penetra nella loro vita
come loro contenuto essenziale e così assicura la loro personalità»12.
19
GREGORIUS NAZIANZENUS, Sermo 38, 11: PG 36, 324A.
C’è qui un gioco di parole difficilmente traducibile: ousia indica l’essenza,
sostanza o natura di una cosa. In greco moderno periousia significa l’insieme dei
beni materiali di una persona (la ricchezza) mentre etimologicamente significa
‘quel che sta intorno all’essenza’ ovvero ciò che non è essenziale. (NdT)
11 BASILIUS MAGNUS, Adversus Eunomium, 2, 28: PG 29, 637D.
12 ARCHIMANDRITA SOFRONIO (Sacharof), Il mistero della vita cristiana, 371-372.
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Entro questa prospettiva si comprende e si affronta correttamente anche la terribile minaccia della nostra epoca, l’inquinamento dell’ambiente. Esso esteriorizza l’interiore inquinamento dell’uomo,
l’inquinamento del suo intelletto, e non può essere affrontato correttamente se non viene esaminato insieme con il suo inquinamento etico e spirituale. L’inquinamento, come anche la purificazione dell’uomo, si riflette nel suo ambiente, che è anche il corpo più esteso. E la
catastrofe, come la salvezza dell’ambiente, rende sensibile la catastrofe o la salvezza che si compiono nell’uomo.
Lo spirito dell’amore disinteressato e della libertà, che caratterizza
l’etica cristiana, è donato ai fedeli entro la Chiesa con i sacramenti.
Essi attuano mistagogicamente il rinnovamento del fedele, che è conservato ed è vissuto con l’osservanza dei comandamenti. I comandamenti di Cristo non sono regole obbliganti ma indicazioni di libertà13.
L’uomo liberato dalla legge del peccato e rinnovato nel corpo di
Cristo che è la Chiesa è chiamato ad assimilare come persona questa
nuova ontologia. È chiamato con la sua fede nel Cristo e con l’amore a vivere la verità della vita immortale, che non è attesa solo nella
vita del secolo venturo ma inizia e diventa sensibile esperienzialmente qui ed ora.
Particolarmente rivelativo per il carattere della dottrina cristiana
sono le seguenti parole del Cristo stesso: «Se qualcuno vuole compiere la Sua (cioè ‘di Dio’) volontà, conoscerà riguardo alla dottrina se è
da Dio oppure se io parlo da me stesso» (Gv 7, 17). Ovvero, il Cristo
propone la sua dottrina come proposta di vita e chiama l’uomo a fare
esperienza, per collocarsi adeguatamente dinanzi ad essa. Come i ricercatori delle scienze positive fanno esperimenti, per verificare o
smentire le ipotesi che fanno, così anche chi è interessato al Cristo e
alla sua dottrina può sperimentare, per conoscere in modo esperienziale quel che gli è donato.
Questa esperienza ha carattere esistenziale ed è vissuta come immediata visibilità. Tuttavia poiché quel che qui è donato non proviene dal livello del creato, come accade con le scienze empiriche, per-
13
Cfr. MARCUS EREMITA, De baptismo: PG 65, 989.
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ciò anche la sua attestazione non avviene con oggettivazioni e sillogismi ma con la comunione personale e il vissuto esistenziale. Chi
non accetta di camminare lungo la via stretta e dolorosa dei comandamenti non può conoscere la natura della verità cristiana. Poiché
poi quel che è donato è Dio stesso che non soggiace a costrizione ma
agisce con assoluta libertà, proprio per questo l’uomo non può «afferrare» (cfr. Fil 2, 6) la conoscenza di Dio ma può solo accoglierla
con umiltà e con pazienza14.
Infine, come i ricercatori delle scienze positive constatano con
esperimenti e osservazioni le leggi della natura, o si appoggiano su
leggi già constatate, che seguono con religiosa venerazione per progredire nella loro opera scientifica, così anche quanti constatano esperienzialmente la natura della dottrina cristiana, o la accolgono fin dal
principio come vera perché si basano sulla testimonianza di Cristo e
sull’esperienza dei santi, è conseguente che la osservino con venerazione e che la eseguano con esattezza nel loro cammino spirituale.
Nessuno condanna come reazionari gli scienziati perché riconoscono
come stabili le leggi naturali. E neppure nessuno li caratterizza come
fondamentalisti perché seguono principi diacronici o aderiscono a stabili forme e numeri, come ad es. al fatto che il rapporto tra la circonferenza e il diametro del cerchio sia sempre di 3,14 (π = 3,14).
Molti però si affrettano a condannare come reazionari o fondamentalisti quanti seguono tutti i comandamenti cristiani o cercano di
conservare integro il messaggio evangelico. La questione principale
però qui per i cristiani è se davvero seguono i principi cristiani e il
messaggio evangelico oppure se presentano al loro posto dei surrogati dal nome cristiano ma vuoti di contenuto o alienati dalla verità. E
dobbiamo riconoscere che non poche volte si propongono letteralmente e si sostengono enfaticamente determinati elementi esteriori
del cristianesimo o posizioni e principi cristiani alienati senza alcuna
sostanziale relazione con la verità e con la vita cristiana, nel qual caso
abbiamo in realtà il fenomeno del fondamentalismo che rende il cristianesimo ripugnante agli occhi del mondo.
14
ARCHIMANDRITA SOFRONIO (Sacharof), Il mistero della vita cristiana, 225.
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Ed è molto facile, specialmente nel caso dei cristiani ortodossi che
insistono sull’esattezza del dogma e dell’ethos, che ci si limiti alcune
volte a forme o figure di pietà, senza spirito e vita, e si scivoli verso il
fondamentalismo.
Questo fenomeno si presenta più intensamente nella nostra epoca, anche a causa di un aggiornamento fatto senza giudizio e senza
teologia, che tenta di radere al suolo e cancellare l’intera tradizione
patristica. Ma il rischio di questo aggiornamento non giustifica lo sviluppo di un ugualmente pericoloso e ripugnante fondamentalismo.
Se l’aggiornamento senza teologia rende fluida la verità della Chiesa
e la dissolve, il fondamentalismo la restringe, la deforma e ne fa un
idolo. La vita della Chiesa in ogni momento della sua storia conserva la sua identità poiché continua la vita che ha avuto in precedenza.
Se la Chiesa si scarnificasse, smetterebbe di vivere. Ma anche se se separasse dalla sua vita precedente, se negasse i suoi Padri, si alienerebbe. Qualunque cosa nuova venisse collocato al suo posto non sarebbe più la Chiesa ma qualcos’altro e questo altro non costituirebbe
continuità della vita della Chiesa ma annuncio della sua morte.
Aristotele caratterizzava la virtù come medietà tra due vizi, dei
quali il primo costituisce l’eccesso e il secondo il difetto. Tuttavia, se
dal punto di vista quantitativo la virtù costituisce medietà, dal punto
di vista qualitativo costituisce estremità. Il fondamentalismo e l’aggiornamento senza teologia costituiscono rispettivamente l’eccesso e
il difetto. La medietà è la tradizione. La tradizione non è estranea all’aggiornamento; la sua stessa identità è un aggiornamento senza interruzione. È l’aggiornamento che non toglie il passato ma lo valorizza e lo promuove. E dall’altra parte, la tradizione non è estranea
alla conservazione anche della più particolare verità o virtù. Nella
tradizione però la verità non esiste per la virtù ma la virtù per la verità: «La virtù è per la verità e non per la virtù la verità»15.
Questa collocazione previa della verità significa riduzione della
virtù alla verità. Non esiste virtù là dove non esiste verità. D’altra
parte, non esiste verità là dove manca la virtù. La virtù serve la vita e
15
Cfr. MAXIMUS CONFESSOR, Quaestiones ad Thalassium, 30: PG 90, 369A.
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la verità. E la vita virtuosa, che si riassume nella vita dell’amore, è la
vita vera. È la vita ad immagine della vita divina, la vita del Dio trino
dell’amore.
In casi determinati l’amore sembra entrare in conflitto con la giustizia. Ciò tuttavia non giustifica la precedenza della giustizia e la
messa da parte dell’amore. Dio è amore. Tuttavia da nessuna sua opera è assente la giustizia. Iddio ama la giustizia e rigetta l’ingiustizia
(cfr. Ps 10, 7). L’uomo non deve isolare e autonomizzare la giustizia
ma deve sempre metterla in connessione con la volontà di Dio e con
l’amore. La giustizia ha senso e funziona correttamente quando sostiene il disinteresse, ovvero l’amore autentico.
Conclusivamente si può dire che l’etica cristiana è l’ontologia applicata della nuova creazione, dell’uomo nuovo. Questa ontologia,
che si fonda sul corpo di Cristo, ristabilisce l’indebolita «consustanzialità» degli uomini e richiama le alterità personali ad un’unità armonica secondo il modello della Santissima Trinità: «Affinché tutti
siano una cosa sola come tu, Padre, sei in me ed io in te» (Gv 17, 21).
L’attivazione di questa ontologia, nella quale l’uomo è introdotto con
i sacramenti della Chiesa, si compie con l’osservanza dei comandamenti. In questo modo si realizza la comunione della vita di Cristo e
della vita del prossimo, che conduce all’inclusione di tutti entro ogni
alterità personale, ogni ipostasi personale, in un modo ogni volta irripetibile. Così ogni uomo eleva in forma di croce – con la crocifissione dell’amore di sé – lo specchio della sua deiforme natura, cioè il
suo essere «ad immagine», verso l’essere «a somiglianza» e diventa
orizzonte di manifestazione integrale dell’essere: uomo universale e
non uomo globalizzato.
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SUMMARIES
The foundation of Christian ethics is constituted by Christian ontology, the ontology of the ‘new creation’ or rather the ontology of the new person manifested by
Christ in the world through his victory over death. The Christian is called in faith
to exist in the form of Christ, in the form of freedom from death, in the form of
crucified love, freed from philautia. This form of existence is given in the Church
through the sacraments and is concretely made actual in history through the
commandments. Indeed, at the level of mystery the sacraments make actual the
renewal of the faithful, which is then conserved and lived out through the observance of the commandments. Such observance is not to be understood in a fundamentalist way but as the concrete unfolding in history of the truth of eternal
life, which is not reserved for the future but starts and becomes experimentally
felt here and now.
***
El fundamento de la ética cristiana está constituido por la ontología cristiana, la
ontología de la “nueva creación” o la ontología del hombre nuevo, manifestada
por Cristo en el mundo con su victoria sobre la muerte. El cristiano es llamado
en la fe a existir en la forma de Cristo, liberado de la muerte, en amor crucificado y sustraído a la philautia. Esta forma de existencia es dada en la Iglesia a través de sus sacramentos y es actualizada concretamente en la historia a través
de los mandamientos: los sacramentos en efecto actualizan mistéricamente la
renovación del fiel que es conservada y vivida con la observancia de los mandamientos. Tal observancia no debe entenderse en modo fundamentalista sino
como el concreto explicarse en la historia de la verdad de la vida inmortal, que
no está reservada sólo al futuro sino que comienza y se hace sensible experiencialmente aquí y ahora.
***
Il fondamento dell’etica cristiana è costituito dall’ontologia cristiana, l’ontologia
della «nuova creazione» ovvero l’ontologia dell’uomo nuovo, manifestata da Cristo nel mondo con la sua vittoria sulla morte. Il cristiano è chiamato nella fede
ad esistere nella forma di Cristo, della libertà dalla morte, dell’amore crocifisso
e sottratto alla philautia. Questa forma di esistenza è donata nella Chiesa, attraverso i suoi sacramenti, ed è concretamente attuata nella storia attraverso i
comandamenti: i sacramenti infatti attuano mistericamente il rinnovamento del
fedele che è conservato ed è vissuto con l’osservanza dei comandamenti. Tale
osservanza non va intesa in modo fondamentalistico ma come il concreto esplicarsi nella storia della verità della vita immortale, che non è riservata al futuro ma
inizia e diventa sensibile esperienzialmente qui ed ora
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PASTORALITÀ COME CRITERIO MORALE
Alfonso V. Amarante, C.Ss.R.*
Introduzione
Nell’esortazione apostolica Evangelii Gaudium papa Francesco invita gli operatori pastorali ad una «costante attenzione per cercare di
esprimere le verità di sempre in un linguaggio che consenta di riconoscere la permanente novità del Vangelo» (n. 41). Con franchezza il
Papa sottolinea come alcune consuetudini della Chiesa «non direttamente legate al nucleo del Vangelo, alcune molto radicate nel corso
della storia» si debba avere il coraggio di «rivederle». Citando santo
Agostino, nota come i precetti aggiunti posteriormente dalla Chiesa
si devono esigere con moderazione «per non appesantire la vita ai fedeli» e trasformare la nostra religione in una schiavitù, quando «la
misericordia di Dio ha voluto che fosse libera» (n. 43).
Il Pontefice ribadisce che il Vangelo deve parlare al nostro presente per costruire il futuro. La ricerca delle modalità di comunicare
le verità essenziali del vangelo in un mondo che cambia, richiede di
accordare una varietà di visioni teologiche e pastorali più che difendere specifiche posizioni teologiche. In quest’ottica la chiave di volta
è il dialogo (cf. EG, 40). Infatti siamo incoraggiati ad abbandonare
norme e precetti non più incisivi (cf. EG, 43) tenendo conto delle
condizioni della persona senza intromettersi a livello spirituale. A
partire da questa visione il pontefice sostiene che «senza sminuire il
valore dell’ideale evangelico, bisogna accompagnare con misericordia e pazienza le possibili tappe di crescita delle persone che si vanno
costruendo giorno per giorno. Ai sacerdoti ricordo che il confessio-
* An extraordinary Professor at the Alphonsian Academy
Profesor extraordinario en la Academia Alfonsiana
StMor 53/1 (2015) 37-59
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ALFONSO V. AMARANTE
nale non dev’essere una sala di tortura bensì il luogo della misericordia del Signore che ci stimola a fare il bene possibile. Un piccolo passo, in mezzo a grandi limiti umani, può essere più gradito a Dio della vita esteriormente corretta di chi trascorre i suoi giorni senza fronteggiare importanti difficoltà. A tutti deve giungere la consolazione e
lo stimolo dell’amore salvifico di Dio, che opera misteriosamente in
ogni persona, al di là dei suoi difetti e delle sue cadute» (n. 44).
L’Accademia Alfonsiana, nei suoi cinquant’anni di vita e attività in
fedeltà al carisma missionario redentorista, ha sempre cercato il dialogo per far interagire la verità morale con l’azione pastorale. Nel venticinquesimo della fondazione (1957-1982) il preside del tempo, il
teologo redentorista Domenico Capone, ripercorrendo la nascita e la
storia dell’Accademia come Istituto di specializzazione in morale che
esulasse dal diritto canonico notava come: «Con il concetto di Accademia si voleva tentare la ricerca di tale speciale identità. E a questo
scopo concorreva anche l’altra idea: ampliare il concetto di teologia
morale affermandone la continuità con la vita spirituale o ascetica e la
funzionalità che è in ordine alla pastorale»1. L’accademia inizialmente era stata pensata come un Istituto di ricerca e di studio di morale e
pastorale in quanto, nella fedeltà all’intuizione alfonsiana, la morale si
potesse incarnare nella prassi o azione pastorale.
Alla luce delle indicazioni magisteriali e in continuità con la storia
del nostro Istituto il presente contributo si prefigge di leggere l’azione pastorale di Alfonso de Liguori come criterio morale.
Per fare ciò ci soffermeremo ad analizzare alcuni aspetti della pastoralità alfonsiana per poi andare a delineare il criterio di verità morale così come egli lo elabora in funzione della sua azione apostolica
per il popolo minuto del suo tempo per cogliere quegli elementi ancora validi per la formazione integrale dell’uomo del nostro oggi.
1
Accademia Alfonsiana (1957-1982). A Pontificia Approbatione XXV Anniversarium, Roma 1982, 25.
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1. Il popolo di Dio criterio pastorale e morale
Uno dei grandi problemi che la Chiesa si trovò ad affrontare nel
XVIII secolo era l’istruzione del cristiano – resa obbligatoria dal concilio di Trento – che non poteva limitarsi al solo catechismo imparato nell’infanzia. È vero che lo stesso Concilio aveva stabilito che la
predicazione fosse obbligatoria nei giorni di festa e la domenica ma,
restavano comunque aperti vari problemi di natura pastorale e teologica. Come curare la formazione continua del popolo di Dio? Quale
metodologia di predicazione era la più consona e quali contenuti?
Quale verità morale insegnare in modo basilare ai fedeli?
Queste sono solo alcune delle domande a cui i pastori del Settecento dovettero trovare una soluzione o almeno una risposta parziale. Anche se le loro risposte potrebbero non risultare più valide nel
nostro oggi, la dinamica e il discernimento che hanno guidato le loro scelte possono suggerirci ancora strade valide da percorrere.
L’istruzione nei rudimenta fidei del cristiano nasceva come una prima risposta all’istanza conciliare. L’esigenza maggiore era rappresentata dal continuo approfondimento dei misteri della fede a cui ogni
battezzato era chiamato. La pastorale del Settecento cerca di offrire
una risposta articolata attraverso tre grandi tipi di predicazione: l’esortazione omiletica domenicale e nei giorni festivi preceduta, secondo
le indicazioni delle chiese locali, dal catechismo obbligatorio per i
fanciulli, per i “giovinetti” e gli adulti.
Una seconda risposta, per facilitare l’istruzione cristiana, la si riscontra nei periodi forti dell’anno liturgico come l’Avvento e la Quaresima attraverso la predicazione straordinaria affidata ai “predicatori” specializzati nell’arte omiletica.
Infine l’ultima risposta è individuata nella predicazione delle missioni popolari. Le missioni popolari a loro volta potevano seguire varie metodologie, come quella penitenziale, catechetica, “centrale” o
parrocchiale2. Di fatti, la Chiesa optando per la predicazione, e favo-
2
A. V. AMARANTE, Evoluzione e definizione del metodo missionario redentorista
(1732-1764), Copiosa Redemptio 1, Materdomini 2003, 61-96.
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rendo il metodo missionario, compie una scelta a favore dei ceti semplici e più destituiti di aiuti spirituali. Questa opera di evangelizzazione realizza una trasformazione culturale delle masse rurali.
1.1. Le forme di predicazione e formazione per il popolo di Dio
La predicazione ordinaria, cioè quella che veniva tenuta dal parroco, consisteva nell’insegnamento delle verità di fede a partire dalla
Sacra Scrittura. Le caratteristiche proprie della predica erano l’istruzione circa qualche mistero della fede, la brevità e la chiarezza di linguaggio. Esse erano precedute dalla recita di preghiere per i defunti,
per il papa, per il re e il signore locale, dal Padre Nostro, dall’Ave
Maria, dal Credo e dalla recita mnemonica dei dieci comandamenti.
Questi atti di fede fungevano da catechismo e formazione continua
del popolo di Dio. Seguiva dopo la predica o omelia gli avvisi circa le
feste, le celebrazioni, i digiuni da praticare, eventualmente gli avvisi
di matrimonio e la lettura della lettera del pastore locale.
La predicazione straordinaria – come già scritto in precedenza –
veniva tenuta nei periodi forti dell’anno liturgico oppure per occasioni come la festa patronale, la pentecoste, il Corpus Domini, l’Assunzione o eventi particolari che riguardavano la vita della chiesa locale. Di fatti questo tipo di predicazione veniva tenuta solo nelle
chiese dei grandi centri abitati e raramente nei piccoli paesi o villaggi. E veniva tenuta da predicatori specializzati appartenenti per lo più
agli Ordini ed Istituti religiosi.
Se con la predicazione ordinaria e straordinaria l’istruzione cristiana era assicurata nei centri abitati di grande e media grandezza, le missioni popolari si prefiggevano di raggiungere tutti i focolari tra campagne e montagne. Il periodo successivo al Concilio di Trento trova nella missione popolare, come metodo per evangelizzare, il mezzo più valido per istruire, convertire e governare le anime. Infatti le prediche dei
missionari avevano il compito di istruire il popolo di Dio privo di aiuti spirituali. Attraverso le prediche di missione si catechizzavano gli
adulti al fine di istruirli nella fede. Il linguaggio che i missionari usavano era semplice, diretto, totalmente all’opposto dell’eloquenza barocca. La missione popolare come metodo per evangelizzare aveva a dis-
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posizione solo alcuni giorni. Per portare il maggior numero di benefici possibili si divideva l’uditorio per età, sesso e classi sociali. Le tematiche trattate dai missioni erano inerenti allo stato di vita del popolo di
Dio. La maggior parte degli ordini religiosi predicavano sulla grandezza di Dio, innescavano nell’uditorio l’idea che solo il Signore era
padrone della vita e quindi doveva essere servito, in contempo venivano sviluppati altri temi come l’accettazione del proprio stato di vita, la
sopportazione delle afflizioni e del dolore, ed evitare il peccato come la
più grande offesa che si può arrecare al creatore. Tutte queste tematiche erano usuali nelle prediche missionarie di alcuni Ordini religiosi
come i Francescani, i Passionisti, Gesuiti e Vincenziani.
1.2. L’esperienza alfonsiana – redentorista
Quando Alfonso, da chierico prima e da novello sacerdote poi, inizia il suo ministero di formazione a favore del popolo di Dio, la pastorale del tempo era orientata – come si scriveva nel paragrafo precedente – alla predicazione e al catechismo come forme privilegiate
di evangelizzazione. La sua prima esperienza è stata quella di catechizzare i ragazzi delle parrocchie di Napoli così come era richiesto
a tutti i seminaristi del tempo.
L’apprendistato missionario vero e proprio del de Liguori inizia
nel 1724, da chierico, nel momento in cui entra tra i membri della
Congregazione delle “Apostoliche Missioni” formata da preti secolari che si dedicavano, almeno una volta all’anno, all’evangelizzazione
della città di Napoli. Egli parteciperà, il 18 novembre 1724, alla sua
prima missione nella chiesa di Sant’Eligio a Napoli. Per lui, chierico
alle prime armi, il lavoro consisteva nell’osservare attentamente i
maestri nei vari esercizi di missione che caratterizzano tutta la giornata. In seguito, una volta ordinato suddiacono diventa decano dei
giovani novizi, promuovendo il fervore sacerdotale ed affrontando
anche le difficoltà pastorali, i casi di coscienza più comuni nelle missioni, ed istruiva nella pratica di una predicazione semplice ed incisiva, capace di convertire anche i più duri di cuore3.
3
Cf. ivi, 115-117.
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Alfonso comprende da subito che catechizzare ed evangelizzare
non basta. C’è bisogno che il frutto seminato nei momenti di formazione rimanga e per fare questo dà vita, insieme ad altri sacerdoti, alle “Cappelle serotine” che rappresentano un’esperienza di crescita
notevole nella sua vita. Egli non proviene da una famiglia povera: comincia ad incontrarsi con i poveri nel mondo dei ricchi. Tra il 1728
e il 1732 dà vita a questo progetto che continuerà anche quando lascerà Napoli per fondare al Congregazione del Santissimo Redentore4. Il Santo si rende conto dell’abbandono spirituale nel quale versa
il popolo di Dio e si fa carico della formazione spirituale a partire
dalla parola di Dio. Il Rey-Mermet sottolinea alcuni aspetti peculiari di questa esperienza «1. Pur non essendo degli esclusi dalle parrocchie, i destinatari delle Cappelle Serotine sono dei poveri, emarginati della morale e del ministero della Chiesa: piccoli artigiani,
operai, barbieri, avventurieri, tutti i marginali della fede e della cultura. 2. Ognuno di questi gruppi vuol essere un luogo di conversione e una scuola di santità [...]. 3. Infine le Cappelle sono l’apostolato dei laici fatto da laici, con dei responsabili. Il leader di ogni cappella è un lavoratore, un povero come gli altri. Il sacerdote non è altro che “un assistente”. Alfonso ha appreso dalla teologia ed ha constatato nella pratica che questi uomini battezzati hanno anche lo Spirito Santo»5.
Da fondatore dei missionari redentoristi invita tutti i fedeli a partecipare attivamente alla vita delle confraternite per mantenere i frutti della missione, attraverso la catechesi continua e la preghiera condivisa in queste forme di associazione laicale.
4
Il Rey-Mermet, l’ultimo grande biografo del Santo, parlando delle Cappelle Serotine scrive: «la fiaccola di questa permanente missione della capitale
che lo porterà ben presto a fare il suo primo esodo: passare cioè ai “popolani”
alla massa di poveri e di ignoranti che penava, brulicava, faceva baccano e si sforzava di ridere nei bassifondi mai dimenticati della parrocchia di Sant’Eligio o nei
bassi dei palazzi privati». Cf. TH. REY-MERMET, Il santo del secolo dei lumi: Alfonso
de Liguori 1696-1787, Ed. Città Nuova, Roma 1983, 220.
5 TH. REY-MERMET, «Il Fondatore», in Storia della Congregazione del santissimo Redentore, CHIOVARO F. (ed.), vol. I/1, Ed. Rogate, Roma 1993, 125-126.
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2. Connubio tra teologia pastorale, morale e spirituale
in Alfonso de Liguori
Nella prospettiva settecentesca la teologia morale era chiamata ad
occuparsi dei peccati da evitare e di conseguenza doveva stabilire il limite da non oltrepassare per non cadere nell’illecito, quindi nel peccato. Dall’altro lato la teologia ascetica guidava verso la vita di perfezione solo coloro che avevano scelto una vita di consacrazione a Dio.
I laici da questo cammino, proposto da Gregorio Magno già nel VI
secolo, erano esclusi. Infatti la teologia degli stati di vita prevedeva
tre gradi o ordines: la plebs, cioè i laici che vivono nel mondo; i praesules o praepositi, cioè coloro che hanno un incarico pastorale; i continentes o remoti, cioè i monaci e le monache, la cui vita è caratterizzata dalla quies, extra mundum e dalla lectio divina.
Gregorio parla dei laici come dei “figli della Chiesa” e designa il
loro insieme con il termine plebs. Il papa santo parla più spesso dei
praesules ed insiste particolarmente sulle disposizioni interiori che li
devono caratterizzare, come lo zelo per mantenere la disciplina, la
carità, che genera pazienza e misericordia, e l’umiltà che custodisce
la purezza. Lo stato di perfezione assoluto per Gregorio è quello dei
continentes o remoti perché essi sono chiamati alla contemplazione. I
monaci devono dedicare la maggioranza del loro tempo alla lectio divina e al lavoro manuale in modo tale da evitare vizi per santificarsi.
La teologia degli stati di vita ha scandito la pastorale fino al Concilio Vaticano II. Lo stesso Alfonso con i primi redentoristi si trovano ad operare pastoralmente tenendo presenti queste divisioni. La
loro proposta, in continuità con quanto già sostenuto da san Francesco di Sales, è rivolta però anche ai laici. Anzi Alfonso con i suoi missionari parlano della santità per ogni stato di vita nel percorso di uniformità alla volontà di Dio6.
6
Cf. A. V. AMARANTE, «Il progetto caritativo di vita cristiana alfonsiano: la
ricerca del volere di Dio» in O. F. PIAZZA – A. ABBATATIELLO (edd.), Alfonso Maria de Liguori e il Concilio Vaticano II. attualità e intuizioni, Ed. Città Nuova, 2013,
85-130.
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Proprio sul campo pastorale, la morale e la spiritualità si incontravano, o si scontravano. Infatti alcune proposte pastorali spirituali
erano o troppo rigide o troppo lasse. L’esigenza di trovare una via più
equilibrata portano Alfonso a scegliere la metodologia delle missioni
popolari come mezzo per annunciare la parola di salvezza.
2.1. L’esperienza missionaria di Alfonso
La predicazione del Regno di Dio da parte di Cristo ha mirato a
toccare mente e cuore dell’uomo. Dalla pedagogia evangelica sappiamo che solo la conversione ottenuta per amore resiste al tempo. Infatti solo intravedendo l’amore, che tutto scusa, il cuore dell’uomo è
pronto a fare scelte radicali e durevoli.
Alfonso e i suoi primi compagni vogliono far sperimentare l’amore di Cristo a tutti gli uomini anche quelli che la pastorale del tempo
non includeva nello stato di vita di perfezione. Scelgono, come si
scriveva poco sopra, la metodologia missionaria per toccare quanti
più gruppi di persone. A tal fine Alfonso con i suoi primi compagni
dando vita al progetto missionario, dopo 15 anni di esperienza viva,
scriverà nel regolamento primitivo delle Missioni che «Le sante Missioni possono stimarsi uno de più distinti tratti della Divina Carità,
per consultare alla salute dell’Anime in quest’ultimi tempi si depravati, e corrotti, che mai più. Ed effettivamente si vede quanta grazia
si è degnata S. D. M. di communicare alle Missioni. Poiché con essa
si fanno mutazioni tante signalate non solo in persone particolari, che
prima grandi scandali si vedevano, poi sommamente esemplari; ma
sino l’intiere Città, Terre, e Castelli si mutano in Santuarij, da quello ch’erano prima, tante Genevre»7.
7
Constitutio primitiva de missionibus in Analecta CSSR 1 (1922), 172-173. Alfonso redigendo un memoriale all’arcivescovo Celestino Galiani, Cappellano
maggiore del Regno di Napoli e Presidente del tribunale misto, scriveva: «Questa Congregazione ha per regola fondamentale di situar le sue case fuori dell’abitato e in mezzo alle diocesi, acciocché ivi possano meglio attendere a questo
impiego di scorrere continuamente per la campagna, e di più, acciocché le genti de’ paesi d’intorno abbiano la comodità di accorrere, sempreché vogliono, a
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Lo stesso Tannoia, primo biografo del Santo, parlandoci dell’intento di Alfonso per il nuovo Istituto, scriveva: «Voleva Alfonso, che altra
mira aver non dovesse il nuovo Istituto, che la santificazione del Clero, e delle Persone colte cogli Spirituali Esercizj in Casa, e quella delle Anime, che vivono abbandonate ne’ luoghetti e villaggi, colle sante
Missioni. Stimava così, perché in questi dati luoghi, per l’esperienze,
che aveva, o non ci giunge la parola di Dio, o non è che di sfuggita»8.
L’esperienza missionaria di Alfonso è risposta concreta alle periferie esistenziali del tempo, alla situazione di abbandono e di povertà
che incontra fuori dalla città di Napoli. Risposta non tanto centrata
su una metodologia bensì atta ad una progettualità come tentativo di
dare il Cristo ai più abbandonati.
Scopo della missione redentorista era, ed è, la conversione del
cuore per amore. La finalità della stessa predicazione Alfonso la riassume in queste parole nella Lettera ad religioso amico: «Nelle prediche
poi di missione non dee lasciarsi mai l’atto di dolore ch’è la parte più
importante di tali prediche, poiché poco sarà il frutto della predica,
se gli ascoltanti non restano compunti e risoluti di mutar vita, e ciò è
quello che s’intende di procurare nel farsi l’atto di dolore. Anzi bisogna replicarne più atti, ma ciascuno col suo motivo, acciocché la gente si compunga, non già per forza di schiamazzo, ma di ragione. Nel
proposito poi che va unito col dolore si faccia proporre al popolo con
modo speciale di fuggir le occasioni cattive, e di ricorrere nelle tentazioni all’aiuto di Gesù e di Maria: con far domandare in fine della
predica qualche grazia alla divina Madre, come il perdono de’ peccati, il dono della perseveranza e simili»9. Queste affermazioni alfon-
trovar i missionarj nelle loro chiese e a sgravar le loro coscienze; oltre la comodità che in quelle diocesi si dà a tutti gli ecclesiastici e sacerdoti a far gli esercizi, ritirandosi nelle loro case» F. PITOCCHI – F. KUNTZ (edd.), Lettere di S. Alfonso Maria de Liguori, Società S. Giovanni, Desclée, Lefebvre e Cia, Editori
Pontifici, Roma 1887-1890, I, 136.
8 A. TANNOIA, Della vita ed Istituto del ven. servo di Dio Alfonso M.a de Liguori, Vescovo di S. Agata e Fondatore della Congregazione de’ preti missionari del SS. Redentore, Ed. Vincenzo Orsini, Napoli 1798-1802, II, 90.
9 DE LIGUORI ALFONSO MARIA, Lettera ad un religioso amico, ove si tratta del
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siane ci fanno cogliere, in nuce, che la missione vuole tendere ad una
conversione totale dell’uomo, chiamato per sua intrinseca natura alla santità.
La missione diventa il luogo privilegiato dove sbriciolare la parola
di Dio agli ultimi, a coloro che sono privi di soccorsi spirituali, i quali non essendo istruiti nella fede e nella conoscenza dei precetti, si allontanano da Dio. Lo stesso Alfonso nella Lettera ad un vescovo afferma che il fine della missione è la conversione dei popoli in special modo di coloro che sono lontani da Dio: «Poiché nelle missioni essi dalle istruzioni e dalle prediche vengono illuminati a conoscere la malizia del peccato, l’importanza della loro salute, e la bontà di Dio, e così mutansi i loro cuori, si spezzano le funi dei mali abiti, e cominciano
a vivere da cristiani. Il Signore così nell’antica come nella nuova legge ha voluto che per mezzo delle missioni si salvasse il mondo»10.
La missione nel progetto di Alfonso permette agli uomini di avvicinarsi al sacramento della penitenza che spesso è disertato per “rossore” verso i propri parroci. Lo stesso Santo scriverà «Per cagione
che in questi luoghi piccoli, dove assistono pochi preti e paesani, facilmente in molte anime si trovano i sacrilegj di male confessioni per
ripugnanza di confessarsi a quelli che la conoscono e vi praticano
continuamente. Onde avviene che se queste anime così cadute non
hanno il comodo della missione per poter manifestarsi a’ sacerdoti
forastieri, è moralmente certo che seguitano a non lasciare i peccati,
e certamente si dannano»11.
Predicare, convertire, confessare e amministrare i sacramenti secondo Alfonso non basta. La missione deve impiantare la vita devota
che ha come scopo l’insegnare ai fedeli la strada sicura dell’incontro
modo di predicare all’apostolica con semplicità, evitando lo stile alto e fiorito, in Opere
complete, Ed. G. Marietti, Torino 1847, vol. III, 311.
10 DE LIGUORI ALFONSO MARIA, Lettera, ad un vescovo novello. Ove si tratta del
grand’utile spirituale, che recano a’ popoli le sante missioni, in Opere complete, Ed. G.
Marietti, Torino 1847, vol. III, 326.
11 DE LIGUORI ALFONSO MARIA, Riflessioni utili a’ vescovi per la pratica di ben
governare le loro Chiese. Tratte dagli esempi de’ vescovi zelanti ed approvate coll’esperienza, in Opere complete, Ed. G. Marietti, Torino 1847, vol. III, 874.
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“alla familiare” con Cristo per mezzo della preghiera. Periodicamente invita i missionari a ritornare nei luoghi evangelizzati per ravvivare
il seme della parola di Dio gettato nei cuori e riportare anime a Dio.
La metodologia missionaria redentorista pone in risalto come la
finalità dello stesso Istituto è l’evangelizzazione dei più abbandonati,
di coloro, cioè, che sono privi di aiuti spirituali. La collocazione delle case fuori dei centri abitati nel punto di congiuntura tra varie diocesi è indicata come il “distintivo” o il “distintivo assoluto” rispetto
ad altri Istituti missionari. Questa scelta permette di dare alla missione un’estensione ed un radicamento capaci di rispondere effettivamente alle urgenze del mondo degli emarginati. Non si tratta, tuttavia, di un momentaneo, anche se intenso, intervento evangelizzatore
ma di una strategia di più ampio e permanente respiro. Si comprende, così, la particolare importanza che Alfonso attribuisce all’introduzione della vita devota comunitaria – tanto da diventare nel tempo
un tratto essenziale della metodologia missionaria redentorista – come l’istituzione delle congregazioni dei sacerdoti, dei laici, e le stesse “rinnovazioni di spirito”.
Da questo excursus si comprende che la missione redentorista ha
quattro pilastri portanti: l’istruzione al popolo per convincere la
mente; la predica grande per muovere il cuore, il sacramento della
penitenza come momento di incontro e la vita devota per alimentare
il rapporto tra l’uomo e Dio per essere chiesa con tutti gli uomini di
buona volontà.
2.2. La pastorale come azione di formazione e crescita
della coscienza
La metodologia missionaria scelta da Alfonso per annunciare l’abbondante redenzione è ancora valida per raggiungere gli ultimi.
Questa metodologia di annuncio ha bisogno sempre di contenuti forti. Infatti Alfonso nei suoi testi insiste sul contenuto da comunicare
agli abbandonati spiritualmente per formare la loro coscienza. Proprio a partire dal contenuto della predicazione si comprende lo spessore teologico per la formazione della persona. Non bisogna mai dimenticare che Alfonso non è un cattedratico ma l’esperienza pasto-
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rale lo farà diventare maestro in teologia morale. Egli nel testo della
Selva di materie predicabili, edito dopo più di trent’anni di esperienze
missionarie nel 1764, insiste sull’importanza della predica sul peccato mortale, sui novissimi, sulla confessione, su Maria e sulla preghiera12. Egli trova queste prediche, con il loro contenuto, fondamentali
per la formazione del buon cristiano.
Qualche anno dopo consegna ai suoi missionari in un piccolissimo
opuscolo, un vademecum, di prediche da non tralasciare mai nelle
missioni. Ne indica cinque: 1. Dell’amore verso Gesù crocifisso; 2.
Della divozione verso la divina Madre; 3. Della necessità di pregare
per salvarsi; 4. Della fuga delle occasioni cattive; 5. Della rovina di
quelle anime che per rossore lasciano di confessare i loro peccati13.
Il centro della predicazione è l’amore di Gesù Cristo. Il volto di
Dio per Alfonso è stato troppo spesso presentato come colui che giudica. L’uomo che non obbedisce alla legge divina si danna senza rimedio. Per il Santo napoletano invece l’amore del Cristo deve essere il nostro modello per amare ecco la ragione per cui senza esitazione scriverà: «bisogna persuadersi che le conversioni fatte per lo solo
timore de’ castighi divini son di poca durata; durano solamente per
quanto dura la forza di quel timore conceputo: ma allorché il timore
manca all’anima rimasta debole per li peccati commessi, ad ogni nuovo urto di tentazione facilmente ritornerà a cadere. Se non entra nel
cuore il santo amore di Dio, difficilmente persevererà. [...]. Quindi
l’impegno principale del predicatore nella missione ha da esser questo, di lasciare in ogni predica che fa i suoi uditori infiammati del santo amore»14.
12 DE
LIGUORI ALFONSO MARIA, Selva di materie predicabili ed istruttive per dare gli Eserczi a’ Preti, ed anche per uso di Lezione privata a proprio profitto, con una
piena Istruzione pratica in fine degli esercizi di Missione, in Opere complete, Ed. G.
Marietti, Torino 1847, vol. III, 253.
13 Cf. DE LIGUORI ALFONSO MARIA, Foglietto in cui brevemente si tratta di cinque punti su de’ quali nelle missioni deve il predicatore avvertire il popolo di più cose necessarie al comun profitto, in Opere complete, Ed. G. Marietti, Torino 1847, vol. III,
288-297.
14 Ivi, 288.
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Dalle opere alfonsiane emerge la chiara volontà di infondere l’amore di Gesù Cristo nei suoi uditori. Egli presenta il Cristo, come il
padre, il fratello buono sempre atto al perdono. Invita sempre a meditare la passione come esempio pratico del grande dono della vita
del figlio di Dio data per amore. Sull’esempio di Cristo ogni cristiano è chiamato a dare la sua vita per il prossimo.
In questo cammino Maria è indicata come il modello perfetto dell’amore. Egli scrive: «Questa divozione non è una di quelle che si
chiamano di semplice supererogazione, secondo parlano molti santi
e tutti i maestri di spirito; ella si reputa necessaria per la salute eterna, non di necessità assoluta, ma almeno di necessità morale: onde si
fa mal prognostico di taluno che vive abitualmente alieno da tal divozione. Ciò basterebbe a persuaderlo solamente il sapere che la santa chiesa ci fa chiamare la Beata Vergine la nostra speranza»15. Alfonso invitava ogni uomo a dedicare un momento della giornata alla
preghiera verso la Vergine Madre.
Cristo e Maria sono i cardini su cui poggiare la vita cristiana. Infatti facendosi conquistare dal loro amore è possibile costruire una vita di oblazione totale evitando il peccato. Alfonso sa bene che per
conseguire la salvezza eterna sono necessari i mezzi che ci ha lasciato Cristo. Il mezzo più necessario è fuggire l’occasione prossima di
peccato: «È certo, che se gli uomini attendessero a fuggire le occasioni, si eviterebbe la maggior parte de’ peccati. Il demonio senza
l’occasione proprio poco guadagna; ma quando l’uomo volontariamente si mette nell’occasione prossima, per lo più, e quasi sempre il
nemico vince. L’occasione specialmente in materia di piaceri sensuali è come una rete che tira al peccato, ed insieme accieca la mente, sì,
che l’uomo fa il male, senza quasi vedere quel che fa. Ma veniamo alla pratica. L’occasione primieramente si divide in volontaria e necessaria; La volontaria è quella che facilmente può fuggirsi. La necessaria è quella che non può evitarsi senza danno grave, o senza scandalo. Per secondo si divide in prossima e rimota. La rimota è quella in
cui l’uomo di rado pecca, o pure quella che da per tutto si ritrova. La
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prossima, parlando per sé, è quella nella quale gli uomini comunemente per lo più cadono»16.
Alfonso indica alcuni rimedi per evitare le occasioni prossime di
peccato come la preghiera costante e la fiducia che aprono la vita del
credente all’azione della grazia di Dio. Conservare la grazia del proprio
stato di vita diviene per Alfonso il valore fondamentale della dottrina
cristiana. La carità quindi per il nostro Santo non è principio ascetico
bensì è un criterio di giudizio sulla verità pratica della morale17.
3. La comprensione morale come verità pastorale
La preoccupazione maggiore che si riscontra nelle opere del de
Liguori è di improntare il suo discorso teologico a ciò che è utile e
necessario alla “prassi pastorale” evitando accuratamente tutte quelle questioni “antropologiche” tipiche della teologia settecentesca.
Egli è alla ricerca di quei criteri guida come il personalismo cristiano
e la prudenzialità che fondano il discorso morale.
Alfonso proveniva dal mondo degli studi di diritto civile e canonico che nell’ambito dell’università di Napoli avevano ricevuto una forte accentuazione di praticità. Infatti «Il metodo deduttivo, che fondeva teologia e diritto, veniva sostituito, nello studio del diritto, da
quello induttivo e pratico»18. Questa impostazione dedotta dal mondo giuridico egli la riverserà nello studio della morale e nell’azione
pastorale. Come moralista non si accontenterà della opinione dei
teologi ma cercherà sempre la soluzione che eviti gli estremi e regga
alla verifica “personalistico-pastorale”. Infatti per Alfonso è importante che gli uomini non cadano nel peccato formale, che nasce dalla convinzione – vera o falsa – che facendo una determinata azione
commettono colpa grave.
16 DE
LIGUORI ALFONSO MARIA, Istruzione e pratica pei confessori, in Opere complete, Ed. Marietti, Torino 1861, vol. IX, 612.
17 S. MAJORANO «Criterio-Guida di s. Alfonso in Teologia Morale» in Studia Moralia 9 (1971), 132.
18 Ivi, 119.
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La sua opera maggiore, la “Theologia Moralis”, nasce come riflessione desunte dalla prassi pastorale dove le soluzioni derivanti
dalle opinioni morali devono avere una utilità per la salvezza delle
anime. Infatti non è mai superfluo sottolineare come il Santo, sempre nella Theologia Moralis, ricorda che la regola formale dell’agire
personale è la coscienza in ascolto della legge divina, che egli chiama
regola materiale19. Anzi non ha difficoltà a scrivere che la «Coscientia definitur sic: Est judicium seu dictamen practicum rationis, quo judicamus quid hic et nunc agendum ut bonum, aut vitandum ut malum. Dicitur autem conscientia dictamen practicum, ad differentiam synderesis, quae est cognitio speculativa principiorum universalium ad bene
vivendum, scilicet: Deus est colendus. Quod tibi non vis, alteri ne feceris,
etc., ut habetur ex S. Thoma»20.
Nella proposta alfonsiana la coscienza detta un giudizio pratico
“qui ed ora” per fare il bene ed evitare il male. Questo cammino lo
porterà gradualmente a prendere le distanze dalla sua formazione rigida per avvicinarsi ad un ragionamento che egli stesso definirà benigno21.
3.1 Il ragionamento alfonsiano
La formazione giuridica di Alfonso, ricevuta da giovane, lo porterà grazie all’esperienza missionaria a prendere le difese degli uomini
senza speranza, degli ultimi, degli abbandonati. Per comprendere la
morale alfonsiana è necessario inquadrare l’angolazione da dove egli
parte. Non si schiera dalla parte della forza che è insita nella legge,
bensì parte dalle ragioni dei poveri per camminare con loro attraverso il dinamismo della formazione della coscienza.
19
L. GAUDÉ, Opera Moralia sancti Alphonsi Mariae de Logorio, Theologia Moralis, Ex Typographia Vaticana, Roma 1905,Theologia Moralis, lib. I, tract. I, n. 1.
20 Ivi.
21 Sulla benignità della proposta morale alfonsiana il testo elaborato da Marciano Vidal resta uno degli strumenti più validi per la comprensione e l’evoluzione del pensiero del Santo Dottore. Cf. M. VIDAL, La morale di Sant’Alfonso.
Dal rigorismo alla benignità, Quaestiones Morales 7, Roma 1992.
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Come si può parlare di un esodo alfonsiano nella sua vita che da
avvocato lo condurrà alla consacrazione sacerdotale prima, per poi
fare un’offerta viva della sua vita per gli abbandonati, così si può parlare di esodo nel suo pensiero morale. Egli, formato nel pensiero
probabiliorista, aderirà successivamente al probabilismo finché non
elaborata un suo pensiero autonomo. Lo stesso Alfonso scriverà nella sua Teologia morale che le ragioni dei teologici che poggiavano
sulle invettive non lo hanno mai convinto22. Infatti egli ha sempre
preferito la ragione all’autorità.
Molti parlano dell’equiprobabilismo come di sistema morale. In verità ogni sistema di per sé è chiuso e in esso si riscontrano delle costanti fisse. L’equiprobabilismo alfonsiano non è in senso stretto un sistema
in quanto è aperto al dialogo continuo con i valori in gioco, con il personalismo e la prudenzialità23, per conservare la vita di grazia e condurre le anime verso il bene «l’equiprobabilismo non è mai per Alfonso
qualcosa di rigido e di tecnico: è sempre aperto, vagliato e animato dai
valori-principi del personalismo. Il criterio ultimo era sempre quello del
conservare la vita della grazia, di ciò che si rivelava “utile” alla salute delle anime. E questo suo personalismo è realistico, cioè “pratico”, tenendo conto delle esigenze della grazia e della natura, non astrattamente
considerate ma come concretamente si manifestavano nella persona»24.
Nell’azione pastorale di Alfonso è chiaro che egli combatte il rigore nei confronti dei peccatori. Proprio l’esperienza pastorale gli fa
comprendere l’esigenza di difendere l’aspetto personalistico della coscienza. «Dio giudica le nostre azioni non “secundum materiale obiec-
22
«Quomodo in omnibus adhaerere potuissem iis qui opiniones suas saepius
veriores et Evangelio conformiores praedicant, nonnisi quia rigidiores sunt; et
frequenter insultant in oppositas, tamquam falsas ac Evangelio adversas, nonnisi
quia libertati favent?» Theologia Moralis, libr. III, tract. V., cap. II, dub. I, n. 547.
23 Sulla prudenzialità alfonsiana si veda D. CAPONE, La proposta morale di S.
Alfonso sviluppo e attualità, S. BOTERO GIRALDO – S. MAJORANO (edd.), Quaestiones Morales 9, Edacalf, Roma 1997, 89-220. Cf. A. V. AMARANTE, «Prudenza e
Prudenzialità in S. Alfonso. Omaggio a Domenico Capone C.Ss.R.», in Studia
Moralia 43/2 (2005) 469-492.
24 S. MAJORANO «Criterio-Guida di s. Alfonso in Teologia Morale», 134.
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tum”, ma secondo che la persona apprende e giudica in buona fede,
quando agisce. [...] Ancora più evidente è il personalismo pastorale e
dottrinale di s. Alfonso nel difendere il penitente che ha un’opinione
contraria a quella del confessore ed ha quindi il diritto di essere assolto. [...] Ugualmente personalistica è la concezione e l’azione del santo
di fronte ad un uomo che, in buona fede, abbia un comportamento oggettivamente scorretto. Egli non considera solo l’agire dell’uomo ideale di cui l’uomo esistenziale debba essere esecutore di fatto, se vuole
essere moralmente buono; egli considera l’uomo totale: nella sua realtà sia ontologica che esistenziale; e per Alfonso è di massima importanza considerare se l’uomo è soggettivamente orientato a Dio con la
volontà di evitare il peccato formale»25.
L’uomo per agire prudentemente ha bisogno di conoscere la verità o avvicinarsi ad essa. Alfonso a questo punto elabora due principi
per agire in certezza di coscienza. Il primo principio è il seguente
«Dico I° quod si opinio, quae stat pro lege, videatur certe probabilior, ipsam omnino sectari tenemur; nec possumus tunc oppositam,
quae stat pro libertate amplecti. – Ratio, quia ad licite operandum,
debemus in rebus dubiis veritatem inquirere et sequi: at ubi veritas
clare inveniri nequit, tenemur amplecti saltem opinionem illam quae
propius ad veritatem accedit, qualis est opinio probabilior» per poi
aggiungere al numero seguente «Dico II° quod si opinio quae stat
pro libertate, est tantum probabilis, vel aeque probabilis ac altera
quae stat pro lege, nec etiam ipsam quis sequi potest, eo quod sit probabilis. Nam ad licite operandum sola non sufficit probabilitas; sed
requiritur moralis certitudo de honestate actionis»26.
Il primato della verità per Alfonso è fondamentale per agire. Ecco
perché egli afferma che se l’opinione in favore della legge sembra
certamente più probabile siamo obbligati a seguirla e non possiamo
seguire l’opinione in favore della libertà. La coscienza per agire ha
25
D. CAPONE, La proposta morale di S. Alfonso sviluppo e attualità, S. BOTERO
GIRALDO – S. MAJORANO (edd.), Quaestiones Morales 9, Edacalf, Roma 1997,
239-241.
26 Theologia Moralis, lib. I, tract. I, nn. 24-25.
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sempre il dovere di accertarsi del grado di probabilità dell’azione. Infatti un’opinione probabile o ugualmente probabile come quella in
favore della libertà non basta. Per agire in modo lecito è necessario
una certezza morale. Questo ragionamento lo porterà ad affermare
che se due opinioni sono equiprobabili, l’opinione in favore della libertà ha una probabilità uguale a quella in favore della legge; ciò fa sì
che l’esistenza della legge è dubbia. Non si può dire che è sufficientemente promulgata e quindi non può obbligare. «Una legge incerta
non può imporre un obbligo certo»27. Questa proposta morale, derivante dalla prassi pastorale, libera le coscienze dal peso della legge incerta per un cammino di ricerca della verità.
3.2. La difesa delle regioni degli uomini senza speranza
Alfonso nella Pratica del Confessore scrive che alcuni teologi sostengono che per confessare basta «possedere i principi generali della morale, poiché con quelli possono sciogliersi tutti i casi particolari. Chi niega che tutti i casi si hanno da risolvere coi principi? Ma qui
sta la difficoltà: in applicare a’ casi particolari i principi che loro convengono. Ciò non può farsi senza una gran discussione delle ragioni
che son dall’una e dall’altra parte; e questo appunto è quel che han
fatto i moralisti: han procurato di chiarire con quali principi debbano risolversi molti casi particolari. Inoltre oggidì, come si è detto, vi
sono tante leggi positive, bolle e decreti, che non possono sapersi, se
non si leggono questi casisti che li rapportano, ed in ciò i moderni
scrittori son certamente più utili degli antichi»28.
27
Ivi. «Dico III° quod, duabus aeque probabilibus opinionibus concurrentibus, quamvis opinio minus tuta teneri non possit, quoniam, ut diximus, sola probabilitas (nota, sola probabilitas) haud firmum praebet fundamentum ad licite
operandum; tamen opinio illa quae stat pro libertate, cum aequali potiatur probabilitate ac opposita quae stat pro lege, grave quidem immittit dubium, an existat lex quae actionem prohibeat, ac proinde sufficienter promulgata minime dici potest; ideoque dum eo casu promulgata non est, nequit obligare; tanto magis quod lex incerta non potest certam obligationem inducere» n. 56.
28 DE LIGUORI ALFONSO MARIA, Pratica del confessore, Casa Mariana – Santuario Buon Consiglio, Frigento (AV) 1987, 26.
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Da questa affermazione si comprende, ancora meglio, come Alfonso si sia impegnato nel campo della morale per rispondere ad una esigenza pastorale. Fedele alla sua scelta di avvocato per i poveri, poggerà tutto il suo ministero sul predicare all’apostolica e il confessare misericordioso29. Infatti il predicare all’apostolica «è la necessaria porta
che apre le menti e i cuori alla verità salvifica, superando resistenze e
incomprensioni; il secondo, sviluppandosi come momento privilegiato della formazione delle coscienze, permette la necessaria personalizzazione della stessa verità nella sua capacità di rinnovare la vita»30.
Alla luce di quanto detto fino ad ora si comprende che il centro
della sua azione pastorale come verità morale è il Cristo Redentore
con la sua “copiosa redemptio”. La fragilità umana nel pensiero alfonsiano è assunta dall’amore abbondante del Cristo il quale si è incarnato per sanare e salvare l’uomo nella sua totalità. Infatti il sovrabbondante amore del Cristo che sana il limite dell’uomo, permette, a quest’ultimo di sperimentare nuovamente l’amore come libertà
per il bene. La «copiosa redemptio» significava per Alfonso possibilità di pienezza per tutti. In questa prospettiva di prassi pastorale, come criterio morale, il Santo con forza contesta coloro che affermavano che «Dio non vuol tutti santi». Ribaltando questa posizione egli,
in continuità con il san Francesco di Sales, ha sostenuto con fermezza che «Iddio vuol tutti santi, ed ognuno nello stato suo, il religioso
da religioso, il secolare da secolare, il sacerdote da sacerdote, il maritato da maritato, il mercadante da mercadante, il soldato da soldato,
e così parlando d’ogni altro stato»31.
29
S. MAJORANO, «La teologia come fedeltà alla chenosi del redentore: la
proposta di S. Alfonso Maria de Liguori» in Divus Thomas 20 (1998), 94-115.
Cf. ID., «Il popolo chiave pastorale di S. Alfonso» in Spicilegium historicum
CSSR 45 (1997), 71-89.
30 S. MAJORANO, «Sant’Alfonso M. de’ Liguori: il confessore “Officio di carità istituito dal Redentore solamente in bene delle anime”» in Chiesa e Storia 1
(2011), 289. Cf. ID., «Il confessore pastore ideale nelle opere di Sant’Alfonso »
in Studia moralia 38/2 (2000), 326.
31 DE LIGUORI ALFONSO MARIA, Pratica di amar Gesù Cristo, in Opere ascetiche, 1, Roma 1933, 79.
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Il contatto con il popolo abbandonato fa percepire sempre più in
Alfonso la consapevolezza del volto misericordioso di Dio come
emerge nella croce del Cristo. Ecco perché scriverà «L’Apostolo dicea ch’egli non volea saper altro che Gesù e Gesù Crocifisso, cioè l’amore ch’esso ci ha dimostrato sulla croce... Ed in verità, da quale libro noi meglio possiamo apprendere la scienza dei santi, ch’è la
scienza di amare Dio, che da Gesù Crocifisso... O gran punto da considerarsi in tutta la vita e per tutta l’eternità: un Dio morto per nostro amore! un Dio morto per nostro amore! O gran punto!»32. La
certezza di un Dio padre, ricco di misericordia fa nascere in Alfonso
quella fiducia nella dignità e nella capacità di ogni uomo in cammino
verso la pienezza del bene.
Questo suo cammino come pastore di anime lo porterà a scrivere come teologo nella Dissertatio scholastico-moralis del 1749, scritta
in difesa delle posizioni antirigoriste, che «Nel corso del lavoro missionario, abbiamo scoperto che la sentenza benigna è comunemente
sostenuta da numerosissimi uomini di grande onestà e sapienza... ne
abbiamo perciò ponderato accuratamente le ragioni e ci siamo accorti che la sentenza rigida non solo ha pochi patroni e seguaci – e
questi dediti forse più alle speculazioni che all’ascolto delle confessioni –, ma è anche poco probabile, se si vagliano i principi, e per di
più circondata da ogni parte da difficoltà, angustie e pericoli. Al contrario abbiamo scoperto che la sentenza benigna è accettata comunemente, è molto più probabile dell’opposta, anzi è probabilissima
e, secondo alcuni, non senza un fondamento molto grave, moralmente certa»33.
La verità morale, nella proposta pastorale teologica alfonsiana, è
nella persona. Solo quando l’uomo sa riconoscere il bene e il male, la
sua conoscenza si trasforma in verità morale. In tal modo «Alfonso fa
32 DE
LIGUORI ALFONSO MARIA, L’amore delle anime, cioè Riflessioni ed affetti
sulla passione di Gesù Cristo, Premessa, n. 8, in Opere ascetiche, V, Roma 1934, 15.
33 DE LIGUORI ALFONSO MARIA, Dissertatio scholastico-moralis pro usu moderato opinionis probabilis in concursu probabilioris, in Dissertationes quatuor, Monza
1832, p. 77-78.
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una morale della persona cristiana, mentre gli altri praticano una
Morale della legge, ed altri ancora una Morale dell’atto libero, come
entità e valore a sé»34.
Tutto ciò ci fa meglio comprendere come le opere teologiche di
Alfonso nascono per aiutare coloro che erano impegnati nella pastorale per la salvezza delle anime.
Conclusione
Giovanni Paolo II nel 1987, in occasione del bicentenario della
morte di sant’Alfonso, scriveva: «Alfonso fu il rinnovatore della morale: a contatto con la gente incontrata in confessionale, specialmente
nel corso della predicazione missionaria, egli gradualmente e non senza fatica sottopose a revisione la sua mentalità, raggiungendo progressivamente il giusto equilibrio tra la severità e la libertà. A proposito del rigorismo spesso criticato nel sacramento della Penitenza, che
egli chiamava “ministero di grazia e di perdono”, soleva ripetere: “Siccome la lassezza, ascoltandosi le confessioni, ruina le anime, così loro
è di gran danno la rigidezza. Io riprovo certi rigori, non secondo la
scienza, che sono in distruzione e non in edificazione. Coi peccatori
ci vuole carità, e dolcezza: questo fu il carattere di Gesù Cristo. E noi,
se vogliamo portare anime a Dio e salvarle, Gesù Cristo e non Giansenio dobbiamo imitare che è il capo di tutti i missionari”»35.
La proposta morale di Alfonso nasce dal contatto vivo con il popolo di Dio. La verità morale diventa nel cammino personale di crescita verità salvifica. La decisione morale del credente è l’atto tramite il quale si realizza l’incontro salvifico della persona con la grazia.
Infatti per Alfonso la decisione morale avviene nella persona quando
34
D. CAPONE, «Dissertazioni e note di s. Alfonso sulla probabilità e la coscienza
dal 1769 al 1777» in Studia Moralia 1 (1965), 148. Cf. D. CAPONE, La proposta
morale di S. Alfonso sviluppo e attualità, S. BOTERO GIRALDO – S. MAJORANO
(edd.), Quaestiones Morales 9, Edacalf, Roma 1997,
35 Cf. GIOVANNI PAOLO II «Lettera apostolica Spiritus Domini» in AAS 79
(1987) 1365-1375.
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la coscienza comprendere il bene. In quest’ottica la decisione è atto
della persona stessa.
La dimensione salvifica della verità morale pone l’uomo in un dinamismo di responsabilità. Questo cammino graduale è possibile nel
momento in cui l’uomo comprende ed accetta la propria fragilità, sanata dalla grazia di Dio, ed inizia un cammino di ricerca della verità
che tenga conto delle circostante, della prudenza è della prudenzialità per arrivare ai valori personalistici in grado di indicare nella prassi pastorale la verità morale.
Lo stesso Giovanni Paolo II in occasione del terzo centenario della nascita di Alfonso de Liguori scriveva nella lettera inviata al Superiore Generale dei Redentoristi che «S. Alfonso si è particolarmente
prodigato perché in tutti gli strati del popolo di Dio venisse colmata
la separazione tra fede e vita. [...]. Occorre non fermarsi mai alla sola
enunciazione dei principi, ma illuminare con essi la quotidianità in
maniera da permettere alla coscienza di ogni battezzato un cammino
sicuro. Questa praticità alfonsiana esige essenzialità e concretezza, in
risposta agli interrogativi che effettivamente contano per il popolo,
nella fedeltà al Vangelo e alla Tradizione vivente nella Chiesa. Essa
spinge alla maturazione di coscienze capaci di illuminare con la saggezza dello Spirito la complessità delle diverse situazioni della vita.
Con s. Alfonso occorre ribadire la centralità del Cristo come mistero
di misericordia del Padre in tutta la pastorale. I Redentoristi non devono mai stancarsi di annunciare la «copiosa redemptio», cioè l’infinito amore con il quale Dio in Cristo si piega verso l’umanità, cominciando sempre da coloro che hanno più bisogno di essere guariti e liberati, perché più segnati dalle conseguenze nefaste del peccato»36.
36
GIOVANNI PAOLO II «Lettera Apostolica di Giovanni Paolo per il terzo
centenario della nascita di sant’Alfonso Maria de Liguori» in Il papa ai Redentoristi e alle Redentoriste, Valsele Tipografica, Materdomini 1997, 12-13.
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SUMMARIES
In the apostolic exhortation Evangelii Gaudium, Pope Francis invites pastoral
agents to a “constant attention to seek to express the lasting truth in a language
that recognizes the permanent newness of the Gospel”. (n. 41). From this, the
present study “Being pastoral as moral criterion” takes its origin. Indeed, in the
light of the magisterial indications and in continuity with the history of the Alphonsian Academy, the present contribution takes its shape by reading the pastoral
activity of Alphonsus de Liguori as a moral criterion. To do this, we will take time
to analyze some aspects of the Alphonsian pastoral way and then proceed to
outline the criterion of moral truth in a way that it is elaborated in function of its
apostolic action for the lesser people of its time so as to bring out those elements
that are still valid for the integral formation of the person of toady.
***
En la exhortación apostólica Evangelii Gaudium, el papa Francesco invita a los
agentes pastorales a “una constante atención para intentar expresar las verdades de siempre en un lenguaje que permita advertir” la permanente novedad del
Evangelio (n. 41). De ahí nace el presente estudio “Pastoralidad como criterio
moral”. En efecto, a la luz de las indicaciones magisteriales y en continuidad
con la historia de la Academia Alfonsiana, la presente contribución parte del
presupuesto de que se puede leer la acción pastoral de Alfonso de Liguori como criterio moral. Para realizar esto, nos detendremos a analizar algunos aspectos de la pastoralidad alfonsiana para después proceder a delinear el criterio de verdad moral tal como él lo elaboró en función de su acción apostólica a
favor del pueblo sencillo de su tiempo, para señalar así aquellos elementos válidos también hoy para la formación integral del hombre.
***
Nell’esortazione apostolica Evangelii Gaudium papa Francesco invita gli operatori pastorali ad una «costante attenzione per cercare di esprimere le verità di
sempre in un linguaggio che consenta di riconoscere» la permanente novità del
Vangelo (n. 41). Da qui nasce il presente studio “Pastoralità come criterio morale”. Infatti alla luce delle indicazioni magisteriali e in continuità con la storia dell’Accademia Alfonsiana il presente contributo si prefigge di leggere l’azione pastorale di Alfonso de Liguori come criterio morale. Per fare ciò ci soffermeremo
ad analizzare alcuni aspetti della pastoralità alfonsiana per poi andare a delineare il criterio di verità morale così come egli lo elabora in funzione della sua
azione apostolica per il popolo minuto del suo tempo per cogliere quegli elementi ancora validi per la formazione integrale dell’uomo del nostro oggi.
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MARRIAGE IN THE THEOLOGY
OF ST. THOMAS AQUINAS
Terence Kennedy, C.Ss.R.*
St. Thomas’ robust figure presides over many a hall of learning as
a model of wisdom and research. Catholic teaching has often quoted
his doctrines authoritatively and his theology of marriage is no exception. The Vatican II’s Declaration on Christian Education laid
down criteria that aimed at “progressively deeper understanding (...)
careful attention to the problems of these changing times... the convergence of faith and reason in the one truth...This method follows
the tradition of the doctors of the Church and especially St. Thomas
Aquinas” (no. 10).
The Council of Florence (1438-45) cited Thomas’ definition of
marriage as a sacrament in the Decree for the Armenians as did the
Council of Trent (1545-63) when the Protestants denied that it was
one of the seven sacraments instituted by Christ. His theology served
the evangelisation of culture in the Middle Ages and long after. He was
interested not just in theory, e.g., the nature of marriage, but also in
praxis, e.g. how it formed the family and society. He had a larger vision
than those who would consigned these issues principally to canon law.
He wanted to render the basis of such institutions theologically sound.
1. His Relevance Today
His teaching informed the Second Vatican Council’s chapter on
marriage and the family in GS no. 47-52, whose formulation was cast
* Emeritus Professor at the Alphonsian Academy
Profesor emérito en la Academia Alfonsiana
StMor 53/1 (2015) 61-82
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mainly in phenomenological and personalistic terms in order to
reach the contemporary world:
“The intimate relationship of life and love which constitutes the married state has been established by the creator and endowed by him
with its own proper laws: it is rooted in the contract of its partners,
that is, in their irrevocable personal consent. It is an institution confirmed by the divine law and receiving its stability, even in the eyes of
society, from the human act by which the partners mutually surrender themselves to each other: for the good of the partners, of the children, and of society this sacred bond no longer depends on human
decision alone. For God himself is the author of marriage and has endowed it with various benefits and various ends in view” (GS 48).
This chapter described the goods of marriage by referring to St.
Augustine, St. Thomas, and Pius XI’s encyclical Casti Connubii. The
Council Fathers could not agree on how to prioritise proles, fides and
sacramentum. Should generating new life or the couple’s mutual love
come first? St. Thomas showed that they could be ordered in different ways. He helped to break the impasse the Fathers encountered
when proclaiming the good news of Christian marriage in the modern world. “Finis secundum intentionem est primum in re, sed secundum consecutionem est ultimum. Et similiter proles se habet inter
matrimonii bona. Et ideo quodammodo est principalius, et quodammo non.” (Supp. Q. 49, a. 3, ad 1)
GS no. 47 remarked realistically that marriage is, “overshadowed
by polygamy, the plague of divorce, so called free love, and similar
blemishes; furthermore married love is too often dishonoured by
selfishness, hedonism, and unlawful contraceptive practices.” Further, “the economic, social, psychological and civic climate of today
has a severely disturbing effect on family life.” No wonder the “population explosion” was generating “anguish of conscience”.
The Middle Ages shared almost the same concerns. Thomas’ lengthy Commentary on Peter Lombard’s Sentences, Book IV, Distinctions XXVI to XLII preserved the substance of his theology of marriage
in detail. He asked: What brings about a marriage? Engagement sealed
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MARRIAGE IN THE THEOLOGY OF ST. THOMAS AQUINAS
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by a vow, mutual consent, sexual consummation, family accords regarding the dowry or other financial arrangements? Who speaks by
right for those contacting marriage: parents, guardians, or slave-owners? Thomas was aware of divergences in the Oriental and Latin wedding rites. Did veiling the couple with the priest’s blessing of the bride
constitute the sacrament? What of the scourge of fraud and clandestine
unions, of bigamy? What makes a marriage legal, binding union?
When is it sacramental? How is it the basis for social relationships, with
relatives by blood and affinity, and with the wider society? Do spiritual
relationships extend to the whole community? Thomas was acutely
aware of the practices corrupting marriage as an institution: polygamy,
repudiation, divorce as the legal separation of the couple from sexual relations and common life under the same roof. What determines legitimacy of birth, and how is illegitimacy to be rectified? Who possessed
the powers to do this? All these problems are still familiar to us today
in the changed context of an industrial, digital and globalised world.
Thomas’ treatise is no sociological survey in our sense. It witnessed
to a Christian society’s belief in marriage and family in his time. Modern readers marvel at how it resonates with the contemporary concerns that Pope Francis has asked the Synod of Bishops to address in
its two sessions in October 2014 and 2015. This essay reads Thomas
through a broad lens, in a wide perspective, in the spirit that the Pope
recommended to the Synod.
2. Background and Sources
St. Thomas had his roots sunk deep into the humus of 13th century culture. It challenged him to find a mental framework in which to
resolve its problems. The humus he had to sift through contained not
just problems but the resources for a new synthesis. These he discovered by examining their history and the Church’s response in tradition. The rock base was Sacred Scripture, especially the Genesis
creation narratives. Christ reconfirmed the Creator’s intention from
the beginning to establish an unbreakable covenant between man
and wife. “What God has joined together let no one separate” (Mk
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10:9). The key was “the great sacrament”, Ephes 5:32, the nuptials of
Christ and the Church. Patristic sources included St. Augustine, St.
Gregory the Great and St. Isidore of Seville. Isidore’s Etimologiae
were the bridge over which patristic wisdom passed to the Middle
Ages. Pope Nicholas I’s Resposta ad Bulgaros was crucial in forming
ecclesial practice regarding marriage.1
Thomas’ language, terms of reference and the enigmas begging
solution derive principally from authors in the previous 200 years.
Experts on the history of marriage in medieval theology, for example, Edward Scillebeeckx’s Marriage, Human Reality and Saving Mystery, George H. Joyce’s Christian Marriage. An Historical and Doctrinal Study, and Attilio Carpin’s Il sacramento del matrimonio nella teologia medievale acknowledge his genius for intellectual synthesis. Part
of the scholastic revival, his method was to divide a question under
dispute into articles. He confronted objections point by point to arrive at a judgement in the light of faith. There are long lists of objections in his Commentary on Peter Lombard’s Sentences. The
Summa Theologiae usually reduced these from three up to five. More
than ten objections is typical in his early work where he was striving
to dominate a whole field, to get an orientation and to organise his
thought systematically.
Although no lawyer by profession, he assimilated the results of the
Gregorian reform of canon law and the retrieval of Roman law based
on Justinian’s Codex. He transformed the framework he inherited
profoundly and inwardly. His immediate sources were three: Hugh
of St. Victor’s first scholastic tractate on marriage, Gratian’s compilation of Church law, and Peter Lombard’s compendium of patristic
texts. By clarifying Albert the Great’s thought Thomas put down the
foundations for a systematic exposition of the whole field.
An historical problem has dogged the study of his treatment of
marriage. Thomas died before he could write about it in the III Pars
1
See ATTILIO CARPIN, Il sacramento del matrimonio nella teologia medievale. Da
Isidoro di Siviglia a Tommaso D’Aquino, Edizioni Studio Domenicano, Bologna
1991.
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of his great Summa. This discouraged scholars from dedicating the
same confident attention to it as to the Eucharist. Lack of access to his
mature thought limited their efforts. By habit they interpret his earlier thought in relation to his definitive work, the Summa Theologiae.
After Thomas’ death his secretary Reginaldo di Pepino tried to remedy this situation by reconstructing his marriage text in line with his
mature theory of sacramentality. Reginaldo composed the Supplementum by reworking the Commentary on Peter Lombard’s Sentences.
Desiring to retain the richness and breadth of his master’s vision, he
reduced the number of formal titles and abbreviated some replies.
Not compelled to follow the Lombard’s diffuse order, his ground plan
was more logical. This effort, however, was but partially successful for
there is a striking difference between the Commentary and the Summa Theologiae. In the first Thomas wedged his reflections between the
analysis of the Lombard’s text and its exposition. In the Summa he
speaks in his own voice with complete originality.2
3. Sources for This Study
Often Thomas referred to marriage only implicitly e.g., the virtue
of moderation (ST II-II, Q. 141-170).3 The order of composition of
his texts helps build an impression of his conception of marriage and
the ambit in which it developed. The Commentary on the Lombard’s
Sentences (1252-56) is his first, longest and most comprehensive
statement, a fountainhead for reflections flowing in various directions. He never repeated this effort on marriage later in life. The
Summa contra Gentiles (1259-64) provides two brief sections, marriage as a natural institution (Bk. III. Ch. 122-127) and as a sacrament
2
J-P. TORRELL, St. Thomas Aquinas. Vol. 1: The Person and his Work, The
Catholic University of America Press, Washington, D. C. 1996, 36-45.
3 See JOSEF FUCHS, Die Sexualethik des Heiligen Thomas von Aquin, Verlag J.
P. Bachem, Köln 1949 illustrated how moral theology has historically distinguished between the overlapping fields of sexuality and marriage.
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(Bk. IV. Ch. 78). His later works are again commentaries. First, his
commentary on friendship as the basis of marriage in Bk. VIII of
Aristotle’s Nicomachean Ethics (1271-72). Second, his commentaries
of St. Paul’s epistles, especially I Corinthians 7 up to verse 13 where
the commentary ceases, and most importantly Ephesians 5, his last
statement (1270-72). His secretary composed the Supplementum
posthumously from the Lombard Commentary. Ironically the order
we expect in Thomas’ works has been reversed and it become the
obligatory reference for his comprehensive theology of marriage.
This essay will expound his thought bearing this sequence in mind.
Before examining the Supplementum the crucial question is: within
which framework did he elaborate his synthesis?
4. The Framework for Marriage in the ScG
ScG IV. 78 revealed how Thomas conceived marriage in strictly
social terms. The universal reality of death threatens the human race
and the Church both of whose future depends on reproduction.
Thomas never espoused the individualism predominant in contemporary culture that considers marriage exclusively as a sexual relationship. He conceived marriage in terms of humanity’s destiny.
More than any other institution it creates history so that social context enters its definition. The Church has to raise up sons and daughters of God from generation to generation until she reaches the
heavenly Kingdom.
Humanity has to reach various goals on the path to its last end.
These determine what is the nature of marriage. “Unde oportet quod
huius modi generatio a diversis dirigitur.” Since generation is necessary for humanity, it provides three perspectives that form a constant
framework in his thought. 1. “Inquantum igitur ordinatur ad bonum
naturae, quod est perpetuitas speciei, dirigitur in finem a natura inclinante in hanc finem: et sic dicitur esse naturae officium.” 2. Generation has a political aspect. “Inquantum vero ordinatur ad bonum
politicum, subiacet ordinationi civilis legis”. 3. The Church acting in
Christ assumes it into salvation history. “Inquantum igitur ordinatur
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ad bonum Ecclesiae, oportet quod subiacet regimini ecclesiastico.”
Thomas therefore describes marriage in ecclesiological terms. “Matrimonium igitur secundum quod consistit in coniunctione maris et
feminae intendentium prolem ad cultum Dei generare, est Ecclesiae
sacramentum.”
As with law in ST I-II, 90-108, Thomas views marriage from a
triple perspective: natural law; revealed law in Old Testament Decalogue or in the New Testament grace of Christ; and civil law. Marriage is a saving mystery, because “Sacramentum hoc magnum est”.
He interprets marriage as a social institution in both society and the
Church through the lens of saving history.
5. Marriage seen through a Wide Lens
The Supplementum Q. 41-68 embraces a bewilderingly wide range
of issues. It has three distinct but often overlapping sections. 1. The
nature of marriage as a natural institution and as a sacrament. 2. Social relationships as based in marriage. 3. The breakdown of these relationships as social realities and their healing by grace.
6. The Nature of Marriage, Human and Sacramental
The classic font for Thomas’ idea of marriage is Suppl. Q. 41 and
42. These present particular difficulties for modern interpreters.
Many never get beyond them, believing that they contain a complete
account of marriage in se. A strange division of work has crept into
their exegesis. Philosophers and civil lawyers have monopolised Q.
41, the “officium naturae” as reason’s explanation of marriage in society. They consigned the “sacramentum” to canon lawyers and theologians as specialists in the realm of faith. The rationalist separation
of faith/reason and Church/world is mistaken. It contradicts Thomas’
intention. If taken as complementary, however, they are like two
headlights projecting a 3D or depth image of their object. They illuminate the nature and sacramentality of marriage simultaneously, in
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synthesis but not in a superimposed way. His vision is contemplative.
Starting with the natural institution Thomas manifests how Christ
transformed it into an efficacious sacrament in salvation history.
Question 41 analyses the “officium naturae”. Thomas notes, quoting Aristotle, that the inclination to marry is stronger than to political life (Q. 41, a. 1, sed contra 2). He strongly identifies marriage
with human nature. What does “natural” mean in this context? Not
simply following a necessary blind instinct. It is the same as saying
that virtue is natural; it issues from free will expressed in deliberate
choice. The inclination to generation aims not just to bring a child
into existence by birth, but embraces the whole process of education,
bringing up offspring until they can stand on their own feet, masters
of action in a life of virtue. This requires that both parents cooperate
in the domestic community. The marital relationship needs to be
permanent and exclusive. “Et hoc modo matrimonium est naturale;
quia ratio naturalis ad ipsum inclinat dupliciter”, considered as a
genus or a species. Thomas avoids physicalism by taking marriage’s
biological and physiological aspects seriously along with its spiritual
aspirations.
Does natural law oblige a person to marry? (a. 2) No! is the answer. Since marriage serves the continuance of the human race, this
obligation falls on the species and not on the individual. The race’s
survival is not the sole end the species pursues. It must also provide
for the contemplative life, what we call culture or higher values. Total dedication to God in the contemplative life can justify a person
giving up the benefits of marriage.
Further, is marriage, as many authors then maintained, always sinful? The Manicheans held this heresy and the Cathars in Thomas’
time. “Supposito quod natura corporalis sit a Deo bona instituta, impossibile est dicere quod ea quae pertinent ad conservationem naturae corporalis, et ad quae natura inclinat, sint universaliter mala” (a.
3, in c). He concludes that it is utterly irrational to claim “quod actus quo procreatur proles sit universaliter illicitus, ut in eo medium
virtutis invenire non possit.” Only somebody out of their wits would
imagine a deity creating the body and the sexual act as evil. Thomas
roundly refuted this heresy, distanced himself from the moral rig-
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orism popular at the time. May the marital act, then, be meritorious?
(a. 4) Yes! if done from charity. Thomas described marriage as a way
of life based on virtue. Sexual union is a true actus humanus. The mutual respect with which husband and wife yield their bodies to each
other, “paying the debt” satisfies justice in a profoundly personal
manner. The human race’s continuance relies on this basic form of
justice in the community. If it degenerates into lust, what Thomas
called concupiscence, disordered passion or sheer desire, then the
virtues turn into vices and become causes of demerit and moral ruin.
Question 42 resolved the great two-century long debate in medieval theology: Is marriage truly a sacrament? Can the Ursakrament so
dear to the Fathers be reconciled with the medieval notion of a sacrament as efficacious? Thomas took his lead from revelation: “Sacramentum hoc magnum est,” Ephes. 5:32, meant for Thomas “sacrae
rei signum” (a. 1, sed contra 1 and 2). “Signum” indicates different realities; the grace communicated by the sacrament and the symbolic
mystery of Ephes. 5. This subtle distinction is truly distinctive of
Aquinas’ approach to marriage. “Unio Christi ad Ecclesiam non est
res contenuta in hoc sacramento, sed res significata non contenuta: et
talem rem nullum sacramentum efficit” (ad 1). He analysed the sacrament’s intrinsic structure. “Quia sacramenta tantum sunt actus exteriores apparentes; sed res et sacramentum est obligatio quae innascitur
viri ad mulierem ex talibus actibus; sed res ultima contenuta est effectus
huius sacramenti” (ad 5). In its earthly realisation this sacrament is a
“remedium peccati”, because it applies the fruits of Christ’s redemption Passion to the couple’s intimate expression of love.
Did God establish the sacrament before Adam’s fall (a. 2)? This axiom reveals how Thomas conceived natural law as historical. “Dicendum quod natura inclinat ad matrimonium intendens aloquod bonum, quod quidem variatur secundum diversos hominum status. Et
ideo oportet quod illum bonum diversimode in diversis statibus
huminum instuatur”. He identifies various ways of institutionalising
marriage: 1. Before Adam’s sin it was necessary to continue the human
race. 2. As a remedy for sin “tempore legis naturae”. 3. Under the
Mosaic law as an external prohibition, “secumdum autem determinationem personarum” (cf. Lev. 18: 6). 4. In the New Law “secundum
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quod raepresentat coniunctionis Christi et Ecclesiae”. He concludes
that marriage was instituted under natural, revealed and civil law.
The pivotal question was; does marriage confer grace (a. 3)? Yes! Because the capacity to confer grace defines a sacrament. Theologians
had three queries about this thesis. Was it a sign or only a symbol?
Did it differ from Old Testament marriage? Was it efficacious because
it removed or distanced a couple from sin? Would marriage be inescapably sinful without the sacrament? Others argued that marriage
“in Christ” “habet ut conferat gratiam adiuvantem ad illa operanda
quae in matrimonio requiruntur”. They convinced Thomas. Where
God provides a faculty to act, he gives the power to use it efficaciously. “Et sic ista gratia data est ultima res contenta in hoc sacramento”.
God’s grace uniting the couple “in Christ” is the hidden, ultimate or
eschatological reality (res tantum) contained in this sacrament. Lastly,
is intercourse necessary or integral to marriage? Marriage is essentially the bond uniting the couple and “carnalis commixtio est quaedam
operatio sive usus matrimonii.” (a. 4, in c). We can distinguish the two
but not radically separate them.
Thomas devoted great attention to the formal engagement in Q 43.
A problem arose in the evangelisation of Europe after the Barbarian
Invasions. A marriage deal was struck by exchanging the dowry, the
ring and other gifts. After these tribal ceremonies the couple sealed
the marriage by intercourse. Christian missionaries strove for centuries to replace these practices with consent. Their efforts profoundly transformed local customs and culture. Consent given in words and
symbolised by the giving of the right hand constituted a Roman law
marriage, a tradition still in force in the Church at present. Thomas
treated engagement as the promise of a future marriage. It could be
broken off a serious reason, e.g., entering religious life. The taking of
vows by one party released the other from their formal obligations.
How should we define marriage? (Q. 44) According to Gen 2: 24 it
joins husband and wife as one. This is possible only where the couple
share a common purpose. Two persons stand as the terms or extremes
of this relationship. They bring it into existence and truly cause it. “Et
ideo, cum per matrimonium aliqui ordinentur ad generationem et educationem prolis; et iterum ad unam vitam domesticam; constat quod
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in matrimonio est aliqua conjunction secundum quod dicitur maritus
et uxor” (a. 1, in c). Marriage is a single institution where the bond
joining husband and wife together has multiple aspects. We call it a
conjugal union joining the couple, a nuptial union from the wedding
ceremony, and matrimony from the word for mother.
Thomas found Hugh of St. Victor’s definition based on consent
adequate. “In matrimonio tres consideratur: scilicet causa ipsius, et
essentia eius et effectus” (a. 3). The cause is consent; its essence is the
bond; the effect is “vita communis in rebus domesticis”. Communication is the foundation on which man and wife build their mutual relationship. “Et quia omnis communicatio aliqua lege ordinatur, et
ideo ponitur ordinativum istius communicationis, sciliscet ius divinum et humanum”. Human and divine law set the criteria for the
couple to achieve the “good life”. Husband and wife form a particular type of friendship in order to fulfil the common aims of their
union (a. 3, ad 3).
Consent is the focal point in Thomas’ theory (Q. 45). It constitutes
the sacrament. He accepted St. John Chrysostom’s assertion, Matrimonium non fecit coitus, sed voluntas (a. 1. sed contra 1). As with the other sacraments it has both matter (the external consent) and form (the
inner bond uniting the couple). “Unde, cum in matrimonio sit
quaedam spiritualis coniunctio, inquantum matrimonium est sacramentum; et aliqua materialis, secundum quod est in officium naturae
et civilis vitae; oportet quod mediante materiali fiat spirituali virtute
divina”. God works through the words of consent to unite the couple
spiritually. “Unde, cum coniunctiones materialium contractuum fiant
per mutuum consensum, oportet quod hoc modo etiam fiat matrimonialis coniunctio” (a. 1. in c.). Therefore, consent is the efficient instrumental cause of marriage, with God as the principal cause (ad 1).
Marriage is not the consent itself but the resulting union that lets the
couple achieve the goods they seek. Consent is an actus humanus, a
truly human decision made with due deliberation and free will.
While we can describe marriage as a contract, law cannot exhaust
its spiritual values under the title of rights over a partner’s body. For
the contract to be valid consent has to be perceptible to the senses
through words or at least signs. A parent or guardian may speak for a
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person being married (a. 2, ad 1, 2 et 3). “Cause sacramentales significando efficient: unde hoc efficient quod significant” (a. 3, in c). The
words spoken must not confuse present consent with a future promise of marriage. As in other sacraments words spoken without the appropriate intention do not bring about the sacrament (a. 4). “Intentio
requiritur in omnibus sacramentis” (sed contra 2). Thomas cites Innocent III’s Decretal Sine consensus nequeunt cetera foedus perficere coniugale (sed conta 1).
Fraud or deceit can vitiate marital consent. An incoherent situation
results. Although such a marriage may not bind in conscience, an ecclesiastical tribunal may not be able to verify this. It judges evidence
only on external appearances. To prove fraud there needs to be evident signs thereof, and this cannot benefit a person in law. In view of
how law is enforced, Thomas says that a person may have to accept
excommunication for abandoning a lawful wife rather than violate
conscience. Otherwise, “expressio verborum sine interiori consensu
matrimonium non facit” (a. 4, in c).
Does consent given in secret make a valid marriage? Given that
consent causes the bond, “Ergo, sive fiat in publico sive in occulto,
matrimonium sequetur” (a. 5, sed contra 1). Thomas defends conscience while warning against fraudulent or insincere marriages.
“Proibentur autem clandestina matrimonia propter pericula quae inde
invenire solent” (ad 3). Clandestine marriage although valid was certainly unlawful. The Council of Trent solved this problem by imposing the canonical form for validity. The Middle Ages had high respect
for conscience as is clear in the reply to the question whether coitus
freely accepted after clandestine consent made a marriage. Thomas asserts, “de matrimonio possumus loqui dupliciter. Unum modum
quantum ad forum conscientiae”. If consent is only to intercourse then
no marriage results. If the pair really intend to marry then it is valid.
“Alio modo quantum ad iudicium Ecclesiae... in exteriori iudicio secundum ea quae foris patent iudicatur” (Q. 46, a. 2, in c). In the law in
force at Thomas’ time such a marriage was valid but in no way legal.
Consent to be valid has to be free, exclusive and permanent. “Vinculum matrimonii est perpetuum. Unde illud quod perpetuitati repugnant, matrimonium tollit” (Q. 47, a. 3, in c). Thomas distinguishes
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outer physical coercion from inner fear. Can they take away freedom
of consent? Does compulsory consent invalidate a marriage? Some
theologians held that although consent was forced, the marriage was
valid in conscience and in God’s sight, but not in the Church’s eyes.
Thomas argued instead that the Church should not presume a person
to have sinned until there is proof. A person would sin if he declared
he had consented when he had not. Thomas’ discretion assisted the
Church in judging such a humanly difficult and fallible event. “Unde
Ecclesia praesumit eum consensisse, sed iudicat consensum illum extortum non esse sufficientem ad faciendum matrimonium” (Q. 47, a.
3, in c). This might apply, for example, when a father compels a son
or daughter to marry against their will (a. 6).
What is the precise object of marital consent? (Q. 48) The discussion
whether Mary and Joseph had a real marriage, differences between
the schools of Bologna and Paris over what formally constituted marriage, and the idea of matrimonium ratum sed non consumatum lay behind this difficulty. Intercourse is certainly integral to marriage but is
it the object of marital consent as such? Thomas substantially agrees
with those “qui dixerunt quod consentire in matrimonium est consentire in carnalem copulam implicite, non explicite.” Marriage is not
essentially carnal intercourse but the bond uniting husband and wife:
intercourse is the proper act or effect of this union. ”Matrimonium...
non est essentialiter ipsa coniunctio carnalis, sed quaedam associatio
viri et uxoris in ordine ad carnalem copulam et alia quae ex consequenti ad virum et uxorem pertinent, secundum quod eis datis potestas in invicem respectu carnalis copulae” (Q. 48, a. 1, in c.). Nature orders them to each other as mutually contained in each other as the effect implicitly contains its cause.
Thomas’ shrewdness about what people are actually like comes out
in his understanding of why people marry. Often for quite base motives
seemingly, such as beauty, money or even to have a travelling companion. Can such a marriage be valid? These may be just “per accidens”
causes of a union that nevertheless realises, perhaps in an obscure manner, the “per se” goals of marriage (cf. a. 2, in c.). He calls for great discernment in dealing with people and maintains that it is right to seek
pleasure in marriage, the marital act being intrinsically good.
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Many objected to this on the ground that marital activity was just
a concession to avoid greater social harm. This line of reasoning went
back to the Church Fathers, especially Augustine, who appeared to
cast marriage in a very pessimistic light. It was justified as a concession to human weakness or concupiscence according to Paul in I Cor.
7. Did marriage function solely as a “remedium peccati” needed to
curb vice and avoid sin. This tradition weighed heavily on Thomas
and the Middle Ages. Thomas could not escape using its terms of reference while reshaping their meaning. The Fathers objected that the
marital act involved the loss of reason’s control while vehement passion overwhelmed the couple. Therefor marriage needed to add a
number of extrinsic goods in compensation. Thomas’s reply is eloquent and telling: “ista bona quae matrimonium honestant, sunt de
ratione matrimonii. Et ideo non indigent eis quasi exterioribus
quibusdam ad honestandum, sed quasi causantibus in ipso honestatem
quae ei secumdum se competit” (Q. 49, a. 1, ad 2).
He subscribed to Peter Lombard’s listing of the goods of marriage
as proles, fides, and sacramentum. Proles continue the human race as one
community, a fundamental good for all humanity. Fides is the mutual
fidelity and help husband and wife render each other in the domestic
community. Sacramentum means that the marriage bond is not only
permanent but is truly indissoluble (a. 2, ad 7), a sign of Christ’s union
with the Church (a. 2, ad 4). Thomas extended Augustine’s thought
on Ephesians here. The first two goods refer to the “officium naturae”, the third to the same but as assimilated into the mystery of salvation in Christ. In the order of grace the sacramentum has priority
because it communicates the grace that sanctifies marriage. In the
natural order the others enjoy priority because they render marriage
virtuous as a style of life. “Et sic habet actus quod sit bonus ex his quae
ipsum in medio ponunt. Et hoc faciunt in actu matrimonii fides et
proles” (a. 4, in c).
What of the shame that Augustine insisted was inevitably associated with marriage? It cannot count as guilty, or fault for which we bear
responsibility. “Turbitudo quae semper est in actu matrimoniali et
erubescentiam facit, est turbitudo poenae, et non culpae: quia de
quolibet defectu homo naturaliter erubescit” (ad 4). The matital act
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can be wholly without sin when it seeks this threefold good. Proles and
fides serve to rectify the act, to direct it by reason; the sacramentum
sanctifies and makes the married state holy (cf. a. 5, in c). Where,
however, pleasure excludes or undermines the bona honesta of marriage it becomes wrong because carried “off course” by concupiscence
as Paul taught in 1Cor 7.4
7. The Social Dimension
Thomas’ theology of marriage successfully influenced history because it was able to be incorporated into positive law. It could explained why certain institutions were necessary. His ideas provided a
guiding philosophy for state and Church alike. Lorenzo Cuciuffo has
made that claim regarding canon law.5 Thomas invoked the framework mentioned above to show how various types of law interact to
establish marriage as a social institution. “Matrimonium autem, inquantum est in officium naturae, statuitur lege naturae; inquantum est
sacramentum, statuitur iure divino; inquantum est in officium communitatis statuitur lege civili” (Q. 50. a. 1, ad 4).
Q 50 analysed the impediments to marriage in general against this
background. This is the only case of an “articulus unicus,” forming a
complete question in this tract. This usually indicated that Thomas
wanted to redesign theology’s grasp of a subject. He begins by distinguishing the essence of marriage from its solemnisation. Marriage is
peculiar among the sacraments in as far as it can be valid apart from
its liturgical celebration. Hence the importance of its human foundation which can be undermined in more ways than in other sacraments.
Humans cause this sacrament while God is the only cause in most
4
Space does not allow an examination of Thomas’ thought on concupiscence especially in his Commentary of St. Paul’s Epistles, in particular 1 Cor 7.
5 LORENZO CUCIUFFO, Contributi tomistici alla dottrina del matrimonio canonico, Edizioni Studio Domenicano, Bologna 1992, gives an analysis based on
Thomas’ text.
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others. While marriage involves not just clearly defined legal precepts
it also falls under more conditions regarding persons and circumstances than other sacraments.
Thomas reflected on what makes or frustrates the actus humanus
forming a marriage. What determines it? “Impedimenta quibus aliquod bonum per accidens impeditur, sunt infinita: sicut et omnes causae per accidens, Sed causae corrumpentes aliquod bonum per se, sunt
determinatae, sicut etiam causae constituentes: quia causae destructionis et et constructionis alicuius rei sunt oppositae vel eaedem contrario modo sumptae.” (Q. 50, ad 8).
He enumerated the particular impediments in Q. 51-61: error, the
state of slavery, religious vows and sacred orders, consanguinity, affinity, spiritual relationship, relationship by adoption, frigidity, madness
and other mental or physical conditions, disparity of cult, uxoricide
and solemn vows. Cuciuffo holds that canon law assimilated Thomas’
doctrine directly and without notable change in a way almost unique
in history. However, we should remember that Thomas provided a
theology of law pastorally sensitive to his historical situation. Bruno
Primetshofer points out an interesting case where this seems untrue.
He held that Thomas thought “impotentia coeundi” was not an impediment as such, but was only relevant when fraudulently concealed
from the partner before the wedding. Primetshofer held that Thomas
used theological reason to defend the bond in a way that the Church
has never followed.6
Retrieving the social dimension of marriage in Thomas’ conception is no easy task. It appears strongly in Contra Gentiles III. Ch. 122126. In Ch. 122 the negative emphasis is dialectically opposed to a
positive value. He begins by proving that simple fornication is sinful
according to divine law. Marriage by contrast is an institution of natural law. Ch. 123 shows that marriage should be indivisible, that nei-
6 Bruno Primetshofer, “Umfang und Grenzen der Unauflöslichkeit von Ehen,”
in THPQ 160 (2012) 284-290, especially page 286, note 6. In Quaestiones
Quodlibertales, II, Q. 9, a. 2 Thomas seems to contradict him. Did Primetshofer
confuse a case of simple incapacity with concealing that condition?
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ther spouse should abandon the other. That would ruin the family unit
and probably put the woman in danger of falling into the state of slavery. Ch. 124 contrasts animals’ with humans’ behaviour regarding sexual union, and concludes that marriage should be between one man
and one woman. Ch. 125 treats the impediment of consanguinity: law
should prohibit marriage between close relatives. Ch. 126 positively
appreciates sexual intercourse, asserting that it is not sinful within
marriage.
These chapters sharp focus on the physical-biological aspects of
sexuality can be quite daunting for a modern reader. Don S. Browning, however, has demonstrated that theology needs this information
to explain marriage’s socio-biological reality in a scientific age.7 He
notes the obvious prejudices in the biology Thomas learnt from Aristotle. Thomas was perceptive about the male tendency to wander and
seek multiple sexual partners, while a woman inclines to home-making. She needs certainty about the paternity of her children and stability in the marital relationship. A father seeks to continue himself
for posterity in his offspring. He sees in his children his own image.
Thomas’ contribution was that he able to assess these biological
drives and mechanisms ethically. One example will suffice. “Mulier
vero ad viri societatem assumitur propter necessitate generationis.
Cessante igitur fecunditate mulieris et tempore iuventutis, quo et
decor et fecunditas ei adsunt, eam dimittere possit postquam aetate
provecta fuerit, damnum inferet mulieri, contra naturalem aequitatem” (ScG III. Ch. 122.3). Against his age’s patriarchal mentality
Thomas acknowledge that women were equal to men as persons.
Browning has opened up a rich field of research in the social biology
and psychology of marriage and family. This field is calling out for in
depth investigation and exploration.
7
DON S. BROWNING ET AL., From Culture Wars to Common Ground. Religion
and the American Family Debate, Westminster John Knox Press, Louisville, Kentucky1997, especially 106-124.
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8. Two Later Commentaries
Toward the end of his life, probably while he was compiling the
moral part of the Summa Theologiae, Thomas composed two commentaries relevant to the study of marriage, on Aristotle’s Nicomachean Ethics and on St. Pauls Epistles. He treated marriage as a supernatural mystery because it communicates grace. What did he
think of human love, the reality most closely associated with marriage? It is uncanny how often throughout his career he cited Aristotle’s Ethics, Bk. 8. Ch. 12, to throw light on the “officium naturae”.
Aristotle dedicated Bk. 8 to demonstrate how friendship founds society. Persons communicate with others to form community. Friends
hold some good in common, whether the virtues they perceive in
others, or something useful or pleasurable keeps them together.
Every civil state and association, – traders, soldiers, or scholars (...) –
have its own forms of friendship. Aristotle keeps restricting this circle of friendship down until he reaches its origin. The widest horizon is that of the polis, then the groupings in it, traders, soldiers. Relatives and the individual family lead back to the father and his wife
as the basic unit.
Siblings form a group around their parents, surrounded by relatives. “Children are fond of a parent as being their originator.” Aristotle continues, “The friendship of man and woman also seems natural. For human beings naturally tend to form couples more than to
form cities, in as much as the household is antecedent to the city, and
more necessary, and reproduction is more widely shared with animals.”8 Children’s long education sets humans apart from other animals. In his Commentary Thomas maintains that the family home is
the foundation for social conviviality. “Societas autem domestica ad
quem pertinent coniuctio viri et uxoris, est prior quam societas civilis.
Pars enim est prior toto. Est enim magis necessaria, quia societas domestica ordinatur ad actus necessarios vitae, generationem et nutri-
8
See ARISTOTLE, Nicomachean Ethics, translated by Roger Crisp, Cambridge
University Press, 2000, at 158-160.
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tionem. Unde patet quod homo naturalius est animal coiugale quam
politicum.”9
Like Aristotle Thomas stresses how fundamental the domestic
economy is to social wellbeing. Friendship between man and woman
binds them together as man and wife in marriage. Thomas’ term for
“being in love” is “mutual amatio” (Suppl. Q. 47, a. 4, ad 1). It means
affection at all levels, physical, passionate, psychological and spiritual.
Its warmth spreads to the circle of the family, of relatives and friends,
and ultimately of the whole society. The family generates circles of
natural friendship around itself. Sadly, contemporary society has too
often badly compromised the institutions supporting marriage and
the family.
Marriage is fragile institution. The last part of his Commentary on
Lombard’s Sentences studies the social structures that corrupt marriage. He discussed (Suppl. Q. 62-68) the social practices of fornication, bigamy, polygamy, repudiation, divorce, and illegitimacy. We
would described them as “structures of sin”. In ST, I-II. 94, 6 Thomas
shows how bad custom like acid corrodes natural law. “But where sin
increased, grace abounded all the more,” says Paul (Rom 5:20). This
is the basic dynamic that Thomas had in mind. Christ cleansed humanity in Eph. 5 through his self-giving love for us that became
Thomas’ model of marital charity.
He paid special attention to Ephes 5:31-33, that focuses on “Sacramentum hoc magnum est.” Ephes 5: 31 cites Gen 2: 24. “Therefore a
man leaves his father and his mother and clings to his wife, and they
become one flesh.” Thomas understands this as the authoritative text
for interpreting the mystery of marital union. “Notandum hic est
quod in praedicta authoritate tripex coniunctio viri ad mulierem designator”. First, affection unites the couple: “quia est tantus affectus
utriusque, ut patres relinquant (...)” Second, their union “est per conversationem,” A man “clings to his wife” because they have decided to
share their life. Consent (conversatio) causes marriage. Third, inter-
9
In Decem Libros Ethicorum Aristotelis ad Nicomachum Expositio, A. N. Pirotta, (ed.), Marietti, Torino, 1834, Liber VIII, Lectio XII, (no 1720) 552.
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course seals this bond. “Tertia est per carnalem coniunctionem, ibi: Et
erunt duo in carne una, id est, in carnali opere.”10
Conclusion
Marital union points to a divine mystery. “Sacramentum hoc magnum est, idest, sacrae rei signum est, sc. coniunctionis Christi et ecclesiae.” It is necessary to recall why Thomas says, “Consequenter
exponit eum mystice.” The reality effected by the grace of marriage
(res tantum) is the indissolubility of marriage. This indissoluble unity of the human couple is a “sacrae rei signum,” indicating and pointing to the espousals of Christ and the Church. Thomas then interprets this is a way typical of the Church Fathers. Christ left his Father’s heavenly home, consenting to become man, and lovingly united with his spouse, the Church. “Christus (...) Relinquit (...), Patrem,
in quantum est missus in mundum et incarnates (...) Et adhaerebit
uxori suae, Ecclesiae.” Scripture is the source of the idea of the sacrament of marriage as efficacious grace, and of its symbolic or mystic
power to reflect the unity of Christ and the Church. Thomas discovered them distinguished yet inseparably united in Ephesians 5.
He made a breakthrough in understanding marriage as one of the
seven sacraments. We often forget that his sacramental theology has
to be taken in terms of its mystic meaning as in Paul. He also discovered in the Paul’s text the theology of “mystical marriage.” He
was aware of the insights developed by the great women mystics
down the centuries, by Hildergard of Bingen, Bridget of Sweden,
Theresa of Avila, Maria Crostarosa and so on. Living the sacrament
of marriage in Christ can never be separated from its mystical meaning. It is only from God’s point of view that we can properly appreciate what is contained in the sacrament. Cardinal Spidlik asserts that
to understand marriage in this sublime mystical sense we have to see
it from God’s point of view; the Father uniting this man and this
woman in Christ through the power of the Spirit.
10
These references are in lectio 10 in his Commentary of Ephesians 5.
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This is the strength of the insights of the Church Fathers from
which Thomas took his inspiration. “Sin dall’inizio l’unione dell’uomo e della donna, nel pensiero divino, si trova referita all’unione di
Cristo con la chiesa, che essa rappresenta e indica. Ma se si guarda le
cose dall’alto, dal vertice e non del basso, non è l’unione di Cristo e
della chiesa che deriva dalla creazione della copia umana, ma al contrario è la relazione uomo-donna all’interno del matrimonio che ha
nel nell’unione Cristo-chiesa il suo archetipo concreto e vivente, la
suprema ragione della sua esistenza.”11
This is the Eastern Church’s approach. St. Thomas introduced an
important distinction regarding Eph 5:2. “Unio Christi ad Ecclesiam
non est res contenuta in hoc sacramento, sed res significata non contenuta: et talem rem nullum sacramentum efficit” (Suppl Q. 42, a. 1,
ad 4). Christ’s mystical union with the Church embraces the seven
sacraments formulated by medieval theology. But it is only the couple’s consent given “in Christ” that effects their sacramental union.
This is where Thomas identifies the originality of the sacrament of
marriage as such.
11
See T. SPIDLIK, “Matrimonio,” in Nuovo Dizionario Patristico e di Antichità
Cristiane, Angelo di Bernadino (ed.), Marietti, Genova 1883, 3144.
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SUMMARIES
This article discusses St. Thomas Aquinas’ theology of marriage. The principle
font for this study is his Commentary of Peter Lombard’s Sentences. The tract
on marriage in the Supplementum was “written up” from it by Thomas’ secretary after his death. Ironically it has become the obligatory reference point for
his comprehensive theology of marriage. Other writings are the Summa contra
Gentiles, and his Commentaries on Aristotle’s Nicomachean Ethics, and on St.
Paul’s Epistles, especially 1Cor 7 and Eph 5. The later is probably his last statement on marriage. It is important because it shows that the sacrament of marriage is inseparable from the “mystical marriage” of Christ and the Church
which incorporates all the Baptised. For Thomas the ideas of sacrament and of
“mystical marriage” are individable.
***
Este artículo trata la teología del matrimonio de Santo Tomás de Aquino. La
fuente principal para este estudio es su Comentario a las Sentencias de Pedro
Lombardo. El tratado sobre el matrimonio en el Supplementum fue “redactado” por el secretario de Tomás después de su muerte. Por ironía de la fortuna
se ha convertido en la referencia obligatoria para su teología completa del matrimonio. Los otros escritos son la Summa contra Gentiles, y sus Comentarios
a la Ética Nicomáquea de Aristóteles, y a las Cartas de Pablo, en particular
1Cor 7 y Ef 5. Este último es probablemente su declaración sobre el matrimonio. Es importante porque muestra que el sacramento el matrimonio es inseparable del “matrimonio místico” de Cristo y de la Iglesia que incorpora a todos los bautizados. Para Tomás la idea de sacramento y de “matrimonio místico” son inseparables.
***
Questo articolo tratta la teologia del matrimonio di San Tommaso D’Aquino. La
principale fonte per questo studio è il suo Commento alle Sentenze di Pietro
Lombardo. Il trattato sul matrimonio nel Supplementum fu “redatto” dal segretario di Tommaso dopo la sua morte. Per ironia della sorte è divenuto il punto
di riferimento obbligatorio per la sua completa teologia del matrimonio. Gli altri
scritti sono la Summa contra Gentiles, e i suoi Commenti sull’Etica Nicomachea di Aristotele, e sulle Lettere di Paolo, in particolare 1Cor 7 e Ef 5. L’ultimo
è probabilmente la sua dichiarazione sul matrimonio. È importante perché mostra che il sacramento del matrimonio è inseparabile dal “matrimonio mistico”
di Cristo e la Chiesa che incorpora tutti i battezzati. Per Tommaso l’idea di sacramento e di “matrimonio mistico” sono inseparabili.
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THE CONTRIBUTION BY RELIGIONS
TO PEACEFUL COEXISTENCE IN SOCIETY
Martín Carbajo Núñez, OFM*
This paper is intended to illustrate the contribution that religions
can make to peaceful coexistence in society1. This is now more necessary than ever, because our globalized world is subject to severe
tensions. Good and evil have acquired global dimensions, placing in
our hands the ecological balance and our common future. Paraphrasing Lorenz’ famous expression, we can say that “the flap of a
butterfly’s wings in Brazil can set off a tornado in Texas”2.
The twentieth century has been “the bloodiest in human history”3
and nowadays the situation does not seem to be improving. According to the Heidelberg Institute for International Conflict Research4,
2013 has been the year with more wars and violent conflicts since the
end of the World War II, a number that goes on the rise since 2006.
Obviously, it is necessary to find a more stable foundation for peace.
Many authors assert the need for global ethics (e.g. Jonas) and
propose a more active role of religions in the public sphere, in order
* An invited Professor at the Alphonsian Academy
Profesor invitado en la Academia Alfonsiana
1
The original text corresponds to a conference pronounced at the 5th Symposium for Muslim-Christian Dialogue, organized by the Franciscan Family at
Istanbul (Turkey), 26-27 September 2014, on the subject: “Contributions of Religions to Peace”.
2 Edward Lorenz used this phrase to explain the Chaos theory, but it has also been used to express the perils of a very interdependent world. Cfr. R. C.
HILBORN, «Sea gulls, butterflies, and grasshoppers: a brief history of the butterfly effect in nonlinear dynamics», in American Journal of Physics 72/4 (2004)
425-427.
StMor 53/1 (2015) 83-101
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MARTÍN CARBAJO NÚÑEZ
to face the new challenges and to have a more meaningful life. The
wisdom of the great religious traditions can offer rational insights
and other decisive contributions to a new culture of peace. “The
world needs rebirth through spiritual and ethical values”5. Until now,
a contrary opinion has prevailed, and so religion and ethics have been
considered as some kind of personal emotional experience that
should be confined to the private domain.
I will start analyzing the secularization process that, in different
ways, has ruled religion and ethics out of the public forum (1st part).
This exclusion is nowadays contested by some authors, who propose
global ethics and interreligious dialogue as the most appropriate
ways of addressing current challenges (2nd). Then, I will look more
closely at the position of the Catholic Church at this regard (3rd),
paying a particular attention at the so called “Spirit of Assisi” (4th).
1. A Secular Age
The Canadian philosopher Charles Taylor, in his book “A secular
age”6, says that we live in an age characterized by the withdrawal of
religions from the public sphere. Faith has become only one option
among many; it is no longer axiomatic or an unquestionable pre-condition, as it used to be in pre-modern times.
Taylor analyzes the process of secularization initiated during the
Renaissance period which, nowadays, has resulted in an immanent
vision of reality, common to believers and non-believers. He identifies two major trends in today’s secular culture: Immanent humanism
and Scientism. The first one would be acceptable and has given way
3
B. V. BRADY, Essential Catholic social thought, Orbis, Maryknoll 2008, 239.
http://hiik.de/de/downloads/data/downloads_2013/ConflictBarometer
2013. pdf
5 K. SINGH, The contribution of Religions to the culture of peace. Final report,
Centre UNESCO de Catalunya, Barcelona 1995, 4.
6 C. TAYLOR, A Secular Age, Belknap Press, Cambridge MA 2007. On Taylor’s
position: ID., Dilemmas and connections. Selected Essays, Belknap, Cambridge 2014.
4
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to the ongoing secularization process, while Scientism is reductionist, utilitarian, closed to Transcendence and it would have started later, in the nineteenth century.
1.1. Immanent humanism: “etsi Deus non daretur”
According to Justus Lipsius (1547-1606) and Hugo Grotius
(1583-1645), the persecution of heretics and the European wars of
religion, which followed the onset of the Protestant Reformation,
would have demonstrated that faith could not be a reliable basis for
ensuring a peaceful cohabitation. Instead of it, they propose immanent humanism, which would be based on practical reason (etsi Deus
not daretur). They understand Natural Law not as something permanently inscribed in human nature (Aristotle, Catholic Tradition), but
as a changing notion which would be the result of a rational debate,
in which everybody can participate7. In fact, the deist’s philosophers
admit the existence of a distant creator, but exclude any explicit reference to him when organizing civil society and they speak of a disciplined charity, informed by reason.
The Peace of Westphalia (1648) marks the beginning of a new political order, based on the concept of national sovereignty. Every
State will rationally look for its own interest, without any regard for
religion or morality. In this way, religion and ethics remained confined to the private realm.
1.2. Scientism
In the nineteenth century, another line of secular culture gets momentum. Usually denominated Scientism, it enhances individualism8
7
G. BAUM, «The churches challenged by the Secularization of culture», in
Journal of Ecumenical Studies 46/3 (2011) 344.
8 “The dark side of individualism is a centering on the self, which both flattens
and narrows our lives, makes them poorer in meaning”. C. TAYLOR, The Ethics of
authenticity, Harvard Univ. Press, Cambridge MA 1991 (6th printing 1995), 4.
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and replaces ethical rationality by instrumental rationality 9. Values
are considered mere feelings; ethics is reduced to utilitarian calculation of maximum benefit. Knowledge will be deemed valid or justified only when its claims can be empirically verifiable using the
method of positive sciences. Any other truth claim will be underestimated as irrelevant or unacceptable.
“The real problem that confronts us today is reason’s blindness to the
entire nonmaterial dimension of reality”10. Reason has been reduced “to
what is calculable. [...] We have to be converted again to a broader concept of reason; we must relearn moral reason as something rational”11.
The Frankfurt School was very critical of this approach.
Horkheimer and Adorno12 even claimed that the Nazi Holocaust was
not just a return to the barbarism of old times, but rather a manifestation of the dark side of Modernity, which subordinates everything
to the interests of the dominant minority, even to the point of using
science and technology to manipulate and even eliminate people13.
2. Proposals to ensure peace
Despite secularism and Scientism, faith has not been abandoned
and today there is a growing assumption that religions should assume
a bigger role in the search for peaceful coexistence in society.
Taylor recognizes that we live in a secular age, but not in an atheistic one. Transcendence is still appealing to people; anyway, when
19
10
Cfr. C. TAYLOR, A Catholic Modernity?, The Univ. of Dayton 1996, 20-21.
J. RATZINGER., Values in a time of upheaval, Ignatius, San Francisco 2006,
66.
11
J. RATZINGER., Church, ecumenism, and politics: new endeavors in ecclesiology,
Ignatius, San Francisco 2008, 205.
12 Cfr. BENEDICT XVI, Encyclical letter «Spe Salvi», [= SS], 30-11-2007, n.
22 & 42-43, in Acta Apostolicae Sedis, [= AAS], 99 (2007) 985-1027.
13 G. BAUM, «The churches challenged...», cit., 345.
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looking for a sense of reality, the individual faces a broad religious,
moral and spiritual pluralism14. In this pluralistic social context, intercultural and interreligious dialogue becomes necessary in order to
meet the challenges of the global world.
In a famous dialogue with Ratzinger (Munich 2004), Habermas
recognized that natural reason is not sufficient to grasp the depth of
meaning of human existence and therefore it is necessary to encourage some dialectic interaction between philosophy and religion in
public life15.
“In the postsecular society, there is an increasing consensus that certain phases of the «modernization of the public consciousness» involve the assimilation and the reflexive transformation of both religious and secular mentalities. If both sides agree to understand the
secularization as a complementary learning process, then they will also have cognitive reasons to take seriously each other’s contributions
to controversial subjects in the public debate”16.
2.1. Global Ethics
The ethical proposals to give a human face to globalization17 can
be classified into two groups: those who lay inter-religious dialogue
as a foundation (Panikkar, Küng, Boff) and those who advocate for
14
C. TAYLOR, A Secular Age, cit., 505-535.
La secularización será entendida “como un proceso de aprendizaje recíproco entre el pensamiento laico heredero de la Ilustración y las tradiciones religiosas. Éstas pueden aportar un rico caudal de principios éticos que, al ser traducidos al lenguaje de la razón, fortalecen los lazos de solidaridad ciudadana sin los
que el Estado secularizado no puede existir”. J. RATZINGER – J. HABERMAS, Dialéctica de la secularización. Sobre la razón y la religión, Encuentro, Madrid 2006, 18.
16 J. RATZINGER – J. HABERMAS, The Dialectics of Secularization: On Reason and
Religion, Ignatius, San Francisco 2006, 47.
17 We have developed this topic on M. CARBAJO NÚÑEZ, Francisco de Asís y la
ética global, PPC, Madrid 2008. This book has been translated into Italian
(Padova 2011) and Portuguese (Braga 2009).
15
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global ethics. In this second group it is possible to distinguish between the authors who propose an ontological foundation for ethics
(Jonas, Jaspers, Henrich, Hösle) and those seeking a new anthropological and political formulation (Morin, Huber, Reuter, Lévinas)18.
For instance, Jonas defends that ethics must be deeply reformulated
to meet the new challenges19 and to prevent people from falling into
religious, nationalist or ethnic fundamentalism20.
2.2. Interreligious dialogue
Küng defends that interreligious dialogue is the best response to
the current daring challenges, because religions are the instances
more capable of appealing to man in all his dimensions: mind, heart,
spirit. Specifically, religions can help to find new foundations for political ethics, sharing their legacy of universal ethical principles and
values, such as the respect for life, mutual love, honesty and truth21.
Interreligious dialogue should address the most fundamental riddles of human condition, such as the meaning of life and death, suffering, happiness, our origin and destination. In fact, many people
approach religion looking for answers to these queries.
3. Religions and peace from a Catholic perspective
Dialogue is rooted in the very essence of God. Intra-Trinitarian
life is dialogical, a continuous flow of love between Father, Son and
18
R. MANCINI, Etiche della mondialità, Cittadella, Assisi 1996, 15-198.
H. JONAS, Das Prinzip Verantwortung. Versuch einer Ethik für die technologische Zivilisation, Suhrkamp, Frankfurt am Main 19845, 15.
20 On the ethical proposals to give a human face to the globalization process:
R. MANCINI, Etiche..., cit.; L. BOFF, Ethos mondiale. Alla ricerca di un’etica comune
nell’era della globalizzazione, Gruppo Abele, Torino 2000, 31-59.
21 H. KÜNG, Proyecto de una ética mundial, Trotta, Madrid 72006; ID., Una ética mundial para la economía y la política, Trotta, Madrid, 1999; ID., Reivindicación
de una ética mundial, Trotta, Madrid 2002.
19
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Spirit. As Pope Benedict XVI states: “Truth is lógos which creates diálogos, and hence communication and communion”22. Love looks for
the lover’s answer; the Logos seeks a partner to make dialogue possible.
God’s self-communication presupposes a personal recipient who
can respond in freedom. As a Father, He donates freedom to man; as
a husband He waits for an answer: “Listen to my voice, then I will be
your God”23. It is not a constriction, but an offer24.
3.1. Religion wars, an expression of immaturity
Through dialogue and forgiveness, it is possible to overcome tensions and misunderstandings, laying the foundations of a lasting
peaceful coexistence. There are different proposals of methods for
reaching good agreements. For instance, Fisher and Ury indicate
four principles: 1) Separate the people from the problem; 2) focus
on interests, not on positions; 3) Invent a variety of options for mutual gain; 4) insist on using objective criteria25. Saint Francis of Assisi adds another one: the need of forgiveness and reconciliation,
which he considers the key element to overcome conflicts in relationships26.
The Second Vatican Council has made dialogue a top priority, especially the ecumenical dialogue. The decree Unitatis Redintegratio is
devoted to it. Cardinal Kaspers suggests that all the official documents of the Second Vatican Council ought to be read in an ecu-
22
BENEDICT XVI, Encyclical letter «Caritas in Veritate», [= CV], 29-06-2009,
n. 4, in AAS 101 (2009) 641-709. “Charity is love received and given”. CV 5.
23 Jer 7, 23; cfr. Ex 6, 7.
24 “Nella creatura umana ha voluto crearsi un partner libero”. J. RATZINGER,
Il Dio vicino. L’eucaristia cuore della vita cristiana, San Paolo, Cinisello Balsamo
2003, 13.
25 R. FISHER – W. URY, Getting to Yes: negotiating agreement without giving in,
Penguin, New York 1983, 11.
26 Cfr. M. CARBAJO NÚÑEZ, Economia francescana. Una proposta per uscire dalla crisi, EDB, Bologna 2014, 67-70.
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menical perspective27. Paul VI considers dialogue to be an intrinsic
requirement of the Christological event28.
The ecumenical and interreligious dialogue, which in the past was
frequently reduced to a defensive strategy against communism and
atheism, acquired a fundamental importance at the Second Vatican
Council. We have to live as brothers, says the declaration Nostra Aetate, because we are all children of the same heavenly Father. In fact,
“we cannot truly call on God, the Father of all, if we refuse to treat
in a brotherly way any man” (NA 5). This kind of “attestations of the
close bond that exists between the relationship with God and the
ethics of love are recorded in all great religious traditions”29.
Pope Benedict XVI believes that religious wars have been the result of a stage of immaturity that is necessary to overcome.
“It could be objected that history has experienced the regrettable
phenomenon of religious wars. We know, however, that such demonstrations of violence cannot be attributed to religion as such but to
the cultural limitations with which it is lived and develops in time.
Yet, when the religious sense reaches maturity it gives rise to a perception in the believer that faith in God, Creator of the universe and
Father of all, must encourage relations of universal brotherhood
among human beings”30.
27
A. KASPER, Caminos de unidad. Perspectivas para el Ecumenismo, Cristiandad, Madrid 2008, 26. “Al comienzo de segundo período de sesiones, el Papa
declaró en un discurso inaugural de carácter programático que el ‘acercamiento’ ecuménico era uno de los objetivos y, por así decir, la necesidad espiritual
por la que se convocó el Concilio. Si nos ajustamos a esa afirmación, habría que
leer todos los documentos oficiales del Concilio desde una perspectiva ecuménica”. Ibid.
28 “Revelation [...] can likewise be looked upon as a dialogue. In the Incarnation and in the Gospel it is God’s Word that speaks to us”. PAUL VI, Encyclical letter «Ecclesiam suam», 6-08-1964, n. 70, in AAS 56 (1964) 609-659.
29 BENEDICT XVI, «Message to Bishop Domenico Sorrentino on the occasion of the 20th anniversary of the interreligious meeting of prayer for peace»
2-09-2006, in AAS 98 (2006) 749-754.
30 BENEDICT XVI, «Message to Bishop Domenico Sorrentino...», cit.
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This historical-evolutionary approach also applies to the Old Testament texts that present God fighting with his people and blessing
the extermination of enemies31. Anyway even there, God is always
experienced as the one who holds back destructive wrath, refrains
from violence and controls his strength32.
The divine pedagogy respects the historical dimension of man and
his gradual purification. The early covenant with Noah expresses already the divine desire to gather all the peoples of the earth into one
family.
“The Old Testament already expresses God’s love for all peoples
which, in the covenant that he established with Noah, he gathered in
one great embrace, symbolized by the “bow in the clouds” (Gn 9: 13,
14, 16), and which, according to the Prophets’ words, he intended to
gather once and for all into a single universal family”33.
This “universal plan of love culminates in the Paschal mystery”34.
Therefore it is not acceptable to use religious differences to justify violence. The saints have lived religion to the full, and it is them, not
the sinners, that show religion’s potentiality and value. One good example is St Francis of Assisi, considered by many as a universal
brother. Pope Francis notes that the authentic experience of religion
never leads to fundamentalism or syncretism: “Far from making us
inflexible, the security of faith sets us on a journey; it enables witness
and dialogue with all”35. We believe that we are all brothers, sons of
the same Father. This fraternity manifests “the unity and common
31 Cfr. Dt 20, 10-18; Gs 7; D. SORRENTINO, «Benedetto XVI e lo “Spirito di
Assisi”», in Convivium Assisiense 9/1 (2007) 97-99.
32 Cfr. Wis 16, 18.
33 Cfr. Is 2: 2ff.; 42: 6; 66: 18-21; Ger 4: 2; Ps 47[46]. BENEDICT XVI, «Message to Bishop Domenico Sorrentino...», cit.
34 BENEDICT XVI, «Message to Bishop Domenico Sorrentino...», cit.
35 FRANCIS, Encyclical letter «Lumen Fidei», 29-05-2013, n. 34, in AAS 195
(2013) 555-596.
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destiny of the nations” and is the anthropological and ethical foundation to peace36.
3.2. Nostra Aetate: interreligious and intercultural dialogue
The Second Vatican Council’s declaration Nostra Aetate 37 invites
all Christians to foster interreligious and intercultural dialogue without renouncing to their Christian identity. In addition, the Council
created the Secretariat for Non-Christians (1964), renamed by Pope
John Paul II to the current Pontifical Council for Interreligious Dialogue
(1988)38; it also erected the Secretariat for Dialogue with Non-Believers
(1965), later (1993) merged with the Pontifical Council for Culture.
“The Council promotes the meeting between the saving message of
the Gospel and the cultures of our time, often marked by disbelief or
religious indifference» (art. 1) and “the study of the problem of unbelief and religious indifference found in various forms in different
cultural milieus, inquiring into the causes and the consequences for
Christian faith” (art. 2)39.
The declaration Nostra Aetate acknowledges that, among religions,
there are points of contact, both internal and external, based on which
a respectful and constructive dialogue can be established. More
specifically, it calls for preserving and promoting “the good things,
spiritual and moral, as well as the socio-cultural values found among
these men“ (NA 2). Therefore it encourages a dialogical approach that
36
FRANCIS, «Message for the celebration of the World day of peace», 1-012014, n. 1, in L’Osservatore Romano (13-12-2013) 4-5.
37 SECOND VATICAN COUNCIL, Declaration «Nostra Aetate», [NA], 28-101965, in AAS 58 1966) 740-744.
38 JOHN PAUL II, Apostolic constitution «Pastor Bonus», 28-06-1888, in
AAS 80 (1988) 841-930. This Pontifical Council includes the Commission for Religious Relations with Muslims, instituted by Paul VI in 1974.
39 JOHN PAUL II, Apostolic letter given motu proprio «Inde a Pontificatus»,
25-3-1993, in AAS 85 (1993) 549-552.
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takes into account the specific identity of each religion and also that
of non-believers. At the basis of these affirmations, there is an optimistic and hopeful conviction that the origin and destiny of all men is
in God, the Lord of History. We are one family (universa familia humana, GS 24) that navigates in the same small boat. In God, everything finds its meaning and direction. The Church, “universal sacrament of salvation”40, has a key role in this.
This way of presenting dialogue manifests a very precise ecclesiology. The Catholic Church has the “task of promoting unity and
love among men, indeed among nations, she considers above all [...]
what men have in common and what draws them to fellowship” (NA
1). That means
“she regards with sincere reverence those ways of conduct and of life,
those precepts and teachings which, though differing in many aspects
from the ones she holds and sets forth, nonetheless often reflect a ray
of that Truth which enlightens all men“ (NA 2).
The basis for possible understanding become even wider when it
comes to dialogue with the monotheistic religions – Islam and Judaism – which share with Christians a common belief in father Abraham. Dialogue with them should not be reduced to the study of peripheral issues. The Second Vatican Council urged Christians and
Muslims “to promote together for the benefit of all mankind social
justice and moral welfare, as well as peace and freedom” (NA 3).
Benedict XVI says: “interreligious and intercultural dialogue between Christians and Muslims cannot be reduced to an optional ex-
40 “The Church is «the universal sacrament of salvation», simultaneously
manifesting and exercising the mystery of God’s love”. SECOND VATICAN
COUNCIL, Pastoral constitution «Gaudium et Spes», [= GS], 7-12-1965, n. 45,
in AAS 58 (1966) 1025-1120; cfr. ID, Dogmatic constitution «Lumen Gentium», [= LG], 21-11-1964, n. 48, in AAS 57 (1965) 5-71; “The Church is in
Christ like a sacrament or as a sign and instrument both of a very closely knit
union with God and of the unity of the whole human race”. LG 1; cfr. GS 42.
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tra. It is in fact a vital necessity, on which in large measure our future
depends”41.
Interreligious dialogue has been a constant concern of the postconciliar Magisterium, which has underlined that it “does not originate from tactical concerns or self-interest”42 and it does not contradict nor diminish the urgency of the mission:
“Inter-religious dialogue is a part of the Church’s evangelizing mission. Understood as a method and means of mutual knowledge and
enrichment, dialogue is not in opposition to the mission ad gentes; indeed, it has special links with that mission and is one of its expressions” (RM 55).
Significant documents have been “Dialogue and Mission”43 (1984)
and “Dialogue and Proclamation”44 (1991). This latter affirms:
“Christians who lack appreciation and respect for other believers and
their religious traditions are ill-prepared to proclaim the Gospel to
them” (DA 73c).
3.3. The Seeds of the Word (Semina Verbi)
The Church testifies that God the Father, the sole creator of
everything, wants all men to live as brothers: “One is the communi41
BENEDICT XVI, «Meeting with representatives of some Muslim communities», Cologne 20-08-2005, in Insegnamenti di Benedetto XVI, LEV, Vatican
City, [= InsB], vol. I (2005) 445-448, here 445.
42 Dialogue “is an activity with its own guiding principles, requirements and
dignity. It is demanded by deep respect for everything that has been brought
about in human beings by the Spirit who blows where he wills»”. JOHN PAUL II,
Encyclical letter «Redemptoris misio», [= RM ], 7-12-1990, n. 56, in AAS 83
(1991) 249-340.
43 SECRETARIAT FOR NON-CHRISTIANS, «The attitude of the Church toward
followers of other Religions: reflections an orientations on Dialogue and Mission», 10-06-1984, in AAS 76 (1984) 816-828.
44 PONTIFICAL COUNCIL FOR INTER-RELIGIOUS DIALOGUE, «Dialogue and
Proclamation», [= DA], 19-05-1991, in AAS 84 (1992) 414-446.
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ty of all peoples, one their origin [...]. One also is their final goal,
God” (NA 1). He has planted the Seeds of the Word in every human
being. Therefore, even when human beings lack an explicit reference
to the Christian God, it is not excluded that the Risen Lord be present in their hearts45.
“All men of good will in whose hearts grace works in an unseen way.
For, since Christ died for all men [...] we ought to believe that the
Holy Spirit in a manner known only to God offers to every man the
possibility of being associated with this paschal mystery. [... in fact] by
His incarnation the Son of God has united Himself in some fashion
with every man” (GS 22).
“The world is watered by the «seeds of the Word», which is necessary to discern, make to grow and mature”46. Christians are called
to establish a “sincere and patient dialogue” with all peoples of the
Earth in order to help them discover God’s presence47 and the treasures He has distributed among them (AG 11). Proclaiming the
Gospel, the missionary is also evangelized by those who hear him, for
in them he discovers the perennial newness of the omnipresent God.
Celano reports that Saint Francis of Assisi had that openness
which the Second Vatican Council requests for everybody:
“Once a brother asked why he so carefully gathered bits of writings,
even writings of pagans where the name of the Lord does not appear.
He replied: “Son, I do this because they have the letters which make
45
“God has bound salvation to the sacrament of Baptism, but he himself is
not bound by his sacraments“. Catechism of the Catholic Church, [= CCC], n. 1257,
Washington 2006.
46 P. G. CABRA, La vida religiosa en misión, Sal Terrae, Santander 1991, 81; E.
MELANDRI, «Dalla “colonizzazione” alla liberazione», in Adista 32 (2012) 30;
PAUL VI, Apostolic exhortation «Evangelii nuntiandi», [= EN], 8-12-1975, n.
80, in AAS 58 (1976) 5-76.
47 V. M. PEDROSA et al., ed., Nuevo diccionario de catequética, I, San Pablo, Madrid 1997, 52.
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the glorious name of the Lord God. And the good that is found there
does not belong to the pagans nor to any human being, but to God
alone ‘to whom belongs every good thing’ ”48.
Therefore, a restrictive interpretation of the axiom “extra Ecclesiam nulla salus” is unacceptable, and so is the opposite extreme: syncretism, which leaves aside the Incarnation and Paschal mysteries,
forgetting that they are central to the sole Economy of Salvation.
The omnipotent God is free to give his grace to all human beings
in Christ, the only universal Mediator, through the action of the
Holy Spirit and without necessarily linking it to the visible Church.
This assumption shows the importance of dialogue and cooperation
with non-believers:
“As believers, we also feel close to those who do not consider themselves part of any religious tradition, yet sincerely seek the truth,
goodness and beauty which we believe have their highest expression
and source in God. We consider them as precious allies in the commitment to defending human dignity, in building peaceful coexistence between peoples and in protecting creation”49.
4. The Spirit of Assisi
The “World day of prayer for peace”, convened by Pope John Paul
II in Assisi on October 27, 1986, has been considered a full and creative reception of Second Vatican Council declaration Nostra Aetate50.
48
THOMAS OF CELANO, «The life of Saint Francis. The first book», [= lCel],
n. 82 in R. J. ARMSTRONG – J. A. WAYNE HELLMANN – W. J. SHORT, ed., Francis of Assisi: Early Documents, vol. I: Francis the Saint, New City Press, New York
1999, 252.
49 FRANCIS, Apostolic exhortation «Evangelii Gaudium», [= EG], 24-112013, n. 257, LEV, Vatican City 2013.
50 L’incontro interreligioso ad Assisi fu “un’illustrazione visibile, una lezione
dei fatti, una catechesi a tutti intelligibile, di ciò che presuppone e significa l’im-
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The meeting symbolically showed that religions could play a key role
in laying the foundations of peaceful coexistence in the globalized
world51. A hundred and twenty four religious leaders participated: sixty two representing Christian churches and sixty two representing
other world religions. “They came together to pray but not to pray
together”, as it was explained by John Paul II to avoid any possible appearance of syncretism. At the same time, the Pope emphasized that
“the differences are a lesser important element in relation to the unity which, on the contrary, is radical, fundamental and determining”52.
This pioneering initiative gave rise to what has been called “The
Spirit of Assisi”, which promotes world peace through interfaith dialogue and prayer. As John Paul II stated: “every authentic prayer is
called forth by the Holy Spirit”53. The Assisi meeting was very effective in showing that peace is a priority objective for all religions, and
that “religion must be a herald of peace”54.
With the Assisi Meeting and other initiatives, John Paul II showed
that peace was at the center of his pastoral action and that religions
have to assume an important role in the search for peace, especially
after the fall of the Berlin Wall.
“Religion and peace go together: to wage war in the name of religion is
a blatant contradiction”. “The task before us therefore is to promote
pegno ecumenico e l’impegno per il dialogo interreligioso raccomandato e promosso dal Concilio Vaticano II”. JOHN PAUL II, «Christmas address to the Roman Curia», 22-12-1986, n. 3, in AAS 79 (1987) 1082-1090.
51 The Protestant pastor Dietrich Bonhoeffer, a martyr of Nazism, had already proposed a World assembly of the Christian Churches which would condemn the folly of war.
52 JOHN PAUL II, «Christmas address to the Roman Curia», 22-12-1986, cit.,
n. 3. “Se l’ordine dell’unità è quello che risale alla creazione e alla redenzione
ed è quindi, in questo senso, «divino», tali differenze e divergenze anche religiose risalgono piuttosto a un «fatto umano», e devono essere superate nel progresso verso l’attuazione del grandioso disegno di unità che presiede alla
creazione”. Ibid., 5.
53 JOHN PAUL II, «Christmas address to the Roman Curia», 22-12-1986, cit.
54 BENEDICT XVI, «Message to Bishop Domenico Sorrentino...», cit.
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a culture of dialogue. Individually and together, we must show how
religious belief inspires peace, encourages solidarity, promotes justice
and upholds liberty”55.
Some years later, assessing the importance of the interreligious
meeting in Assisi, Benedict XVI said:
“Among the features of the 1986 Meeting, it should be stressed that
this value of prayer in building peace was testified to by the representatives of different religious traditions, and this did not happen at a distance but in the context of a meeting. Consequently, the people of diverse religions who were praying could show through the language
of witness that prayer does not divide but unites and is a decisive element for an effective pedagogy of peace, hinged on friendship, reciprocal acceptance and dialogue between people of different cultures and religions”56.
5. The necessary change of mentality in the Spirit of Assisi
Inter-religious dialogue requires partners that hold fast to their
own beliefs and that are open for self-questioning. Looking for peace,
religious leaders and believers should address courageously such topics as violence, war and organized crime. Pope Francis has showed a
great determination about this. Speaking against the Mafia, he said:
“Those who follow this evil path in life, such as members of the mafia,
are not in communion with God: they are excommunicated!”57 The
strong reaction of people involved demonstrates the effectiveness of
Pope’s words.
55 JOHN
PAUL II, «Address to the religious representatives», 28-10-1999, n.
3, in Insegnamenti di Giovanni Paolo II, [= InsJP2], LEV, Vatican City, vol. 22/2
(1999) 651-655, here 653; cfr. ID., «Address to the Participants in the Sixth Assembly of the World Conference on Religion and Peace», 3-11-1994, 2, in InsJP2 17/2 (1994) 597-601, here 599.
56 BENEDICT XVI, «Message to Bishop Domenico Sorrentino...», cit.
57 FRANCIS, «Homily. Piana di Sibari (Calabria)», 21-06-2014.
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Unfortunately, organized crime and war are big business. In many
respects, global finance and industry are war-oriented; science is committed to developing weapons and Mass Media often present war and
violence as natural and inevitable58. It is necessary to change this way
of thinking and to overcome the negative anthropological view (homo
homini lupus 59) that excludes the possibility of an enduring peace. As
the preamble to UNESCO’s constitution says: “Since wars begin in
the minds of men, it is in the minds of men that the defenses of peace
must be constructed”60. We need a “mental disarmament” from greed,
hatred, prejudice... a healing that believers from different religions
consider to be a God’s gift. Only God can bring about real peace, and
for Christians, Jesus himself is our peace (Eph 2, 14).
Religion (re-ligare) is devoted to build community, namely human
bonds that unite and give life. Through personal encounter, forgiveness and trustful relationships, Religions lay the basis for peace in our
increasingly dis-integrated society, in which people are always more
connected but more alone.
Conclusion
In our individualistic society, family ties are becoming weaker and
the global is menacing the local. Mass media and Social networks convey only an illusion of community while actually responding to the
logic of consumerism. The absence of a direct human contact favors,
for example, exhibitionism and cyberbullying in Internet. The same
58
K. SINGH, The contribution of Religions..., cit., 3. “In order to contribute to
the creation of a culture of peace, UNESCO initiated a dialogue with the religious traditions and peace research centers during the 1992-1993 biennium”.
Ibid.
59 “Man is a wolf to [his fellow] man”. PLAUTO, Asinaria, atto II. Thomas of
Aquinas reflects a very different anthropological conception when he affirms:
“Homo homini naturaliter amicus“. S.Th II-II, q. 114, a. 1, ad. 2.
60 UNESCO, Constitution of the United Nations educational, scientific and cultural organization, London 1946.
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irresponsibility occurs in modern warfare that kills thousands of persons without looking them in the face, cleanly reduced to statistical
figurines on a computer screen. For the sake of material progress, the
economy promotes a war of interests in which humans are sacrificed
and nature is abused because, as Hobbes says: “your death is my life”61.
Contradicting this Darwinian view of society, the Catholic Church
defends that man, “by its very nature, stands completely in need of social life” (GS 12) and should always be “the beginning, the subject and
the goal of all social institutions” (GS 25). Besides, through the principle of subsidiarity, the Church enhances local communities and promotes relational goods over economic goods.
Religions have a long tradition of wisdom and commitment in addressing social issues. In fact, religious organizations are renowned
worldwide for their devotion to helping vulnerable people. Closeness
to one another favors a sense of personal responsibility and so contributes to charity and to peaceful coexistence.
Religions open humans to the contemplation of beauty in a way
that any kind of ideology or materialism would be unable to do. Our
failures and imperfections are not an obstacle to personal and social
growth, because Christ “turns everything to their good”62 and so
brings back beauty 63.
True religion fosters peace, harmony and reconciliation, restoring
the four major human relationships: with God, with other humans,
with oneself and with nature. Even death becomes a sister in Saint
Francis perception, because it opens for us the door to eternal life. At
that solemn moment, religion reveals, we will be examined on love.
61
“Mors tua vita mea“. HOBBES, De cive, 1, 12.
“Pulchritudo pulchrificativa universorum”. BONAVENTURE, «Sermones de
nativitate b. Mariae virginis», II (Opera omnia, IX 709a).
63 Rm 8, 28. “Look, I am making the whole of creation new”. Ap 21, 5. “Deformia facit pulchra, pulchra pulchriora et pulchriora pulcherrima”. «Hexaem»
I, 34 (Opere di San Bonaventura, VI/1 66-67).
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SUMMARIES
The challenges of the globalized world and the increasing number of violent
conflicts alert about the urgent need of finding new foundations to guarantee
a more peaceful coexistence in society. This paper presents some of the proposals already made, especially those which advocate for a more active role
of religion and ethics in the public domain. We live in a secular age, but religions continue to have an important role in society. The last section of the paper will focus on the indications of the Catholic Church about the search for
peace through ecumenical and interreligious dialogue, paying a particular attention to the so called “Spirit of Assisi”.
***
Los desafíos del mundo globalizado y el creciente número de conflictos violentos obligan a buscar bases más sólidas para garantizar la coexistencia pacífica en la sociedad. El artículo presenta algunas propuestas que se han realizado en este sentido, especialmente aquellas que abogan por una revalorización del papel de la religión y de la ética en el ámbito público. Vivimos en la
edad secular, pero las religiones siguen ejerciendo una notable influencia en la
sociedad y en la formación de las conciencias. En la segunda sección del artículo, se presenta la posición de la Iglesia católica sobre la búsqueda de la
paz a través del diálogo ecuménico e interreligioso, prestando una atención
especial al “Espíritu de Asís”.
***
Le sfide del mondo globalizzato e il numero crescente di conflitti violenti costringono a cercare basi più solide che possano garantire la coesistenza pacifica nella società. Questo saggio presenta alcune delle proposte già formulate, specie quelle che prospettano una rivalutazione del ruolo delle religioni e
dell’etica nell’ambito pubblico. Viviamo nell’età secolare, ma le religioni continuano ad avere una notevole influenza sulla società e sulle coscienze dei cittadini. Nella seconda sezione dell’articolo, si presenta la posizione della Chiesa cattolica sulla ricerca della pace attraverso il dialogo ecumenico e interreligioso, con particolare attenzione allo “Spirito di Assisi”.
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PATIENT’S AUTONOMY
AND INFORMED CONSENT
An end-of-life case study from Turkey
Antuan Ilgit, S.J.*
There were an estimated 14.1 million cancer cases around the
world in 2012 (the latest year available). Of these, 7.4 million cases
were men and 6.7 million were women. This number is expected to
increase to 24 million by 2035. A number of common cancers in developed countries are associated with reasonably high survival
(prostate, breast and colorectal cancers) whereas several common cancers with poorer prognoses (liver, stomach and esophageal cancers)
are more common in less developed regions, and, in Turkey, cancer is
the second leading cause of death, after cardiovascular diseases.1
Medicines and technological developments have made it possible
to achieve excellent results and to save the lives of many cancer patients, yet in most cases the goal of cancer treatment is simply to prolong the lives of patients. The methods most commonly used in cancer treatment are chemotherapy, radiotherapy and surgical methods.
* The author, a graduate of the Alphonsian Academy in 2011, holds an M.A. in
Health Care Ethics from Saint Joseph’s University, Philadelphia, Pennsylvania (USA)
and is currently S.T.D. candidate in Moral Theology at Boston College School of Theology and Ministry, Chestnut Hill, Massachusetts (USA).
El autor, graduado de la Accademia Alfonsiana en 2011, posee un Máster en Etica
Médica de la Universidad de Saint Joseph, Filadelfia, Pensilvania, EE.UU. y actualmente es Doctor (c) en Teología Moral (STD) en la escuela de Teología y Ministerio de
la universidad Boston College, Massachusetts, EE.UU.
1
WORLD CANCER RESEARCH FUND INTERNATIONAL (WCRF), “Cancer
Statistics: Worldwide,” accessed September 8, 2014, http://www.wcrf.org/cancer_statistics/world_cancer_statistics.php.
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ANTUAN ILGIT
Since the first two methods have toxic effects, and the latter compromises the integrity of the patient’s body, the patient’s informed
consent assumes great importance. Consequently, there arises a legal
and ethical responsibility to properly communicate to patients the
reality of their situation, their alternative treatment options, and the
risks and benefits of these methods.
Opinions differ as to whether one should disclose the patient’s actual situation and life expectancy, which depends primarily on social
and cultural factors. Specifically, doctors in Western countries, such
as the United States and much of Western Europe, tend to fully inform cancer patients, while those in Eastern Mediterranean countries tend to withhold vital medical information from their patients.
In Eastern Mediterranean countries, there are generally three different types of behavior regarding the communication of a cancer diagnosis: 1. Physicians do not even consider revealing the diagnosis to
their patients 2. Patients themselves do not want to be informed of
their condition 3. Family members do not allow physicians to communicate the diagnosis to cancer patients.2 In this sense, Turkey is in
an interesting position as a bridge between Europe and Asia, not only geographically, but also culturally. The close and strong relations
that constitute the traditional Turkish family mean that, even if a
cancer patient is fully competent, and desires to know his or her real
health situation, other family members, especially the men, tend to
withhold the diagnosis.3
According to some research, 80% of physicians and nurses think
that the cancer patient has the right to know his diagnosis, but only
60% of physicians and 5% of nurses communicate the diagnosis. In
research conducted by Abdurrahman Sayılır, MD, in 2008 in two different Turkish hospitals’ Oncology Services, only between 46% and
2
ALI MONTAZERI et al., “Disclosure of cancer diagnosis and quality of life in
cancer patients: should it be the same everywhere?” BMC Cancer 9/39 (2009),
accessed September 8, 2014, doi:10.1186/1471-2407-9-39.
3 HAKAN BOZCUK et al., “Does awareness of diagnosis make any difference
to quality of life? Determinants of emotional functioning in a group of cancer
patients in Turkey,” Support Care Cancer 10/1 (2002): 51-57, 56.
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56% of cancer patients knew their real diagnosis, and the majority of
these patients were young and highly educated. However, even among
these patients, 11% learned their diagnosis from family members,
rather than directly from their physicians.4 This attitude is justified by
the beliefs that if patients know that they have cancer they would worry about their imminent death, lose all hope and die quickly. However, the experience of Western nations shows that informing patients of
their cancer diagnosis does not necessarily have any adverse effects.5 It
appears that a large group of doctors in Turkey attribute a greater negative effect to fully informing patients than warranted.
Indeed, the research on this topic shows that this belief in the negative consequences of informing patients of their cancer diagnosis is
just a sort of “urban legend”; the disclosure of the truth does not worsen any dimension of the quality of life of patients in general, including their emotional well-being. In actuality, it is females with hepatic
impairment, having poor social skills and/or constipation that are at
the greatest risk of poor emotional functioning during treatment for
cancer. These patients may benefit from psychological screening.6
Failing to inform cancer patients of their diagnosis negatively impacts the relationship between physician and patient and consequently infringes on a patient’s autonomy. With regard to the autonomy of patients, the physician has a fundamental duty and responsibility to ensure patients’ rights to make decisions on their lives and
to furthermore ensure that these rights are protected. Moreover, one
of the most important ways to show and confirm this respect for patient autonomy is the informed consent that is a sine qua non of an authentic and well-realized relationship between physician and patient
ABDURRAHMAN SAYILIR, “Kanserli Hastalarda Tanıyı Bilmenin Yaşam Kalitesine Etkisi, Sağlık Çalışanlarında Bu Konudaki Eğilimler (Effects of awareness
of cancer diagnosis on quality of life and attitudes of health workers)” (Internal
Medicine diss., Istanbul University Cerrahpaşa Medical School, 2008) [Turkish].
5 MARCELLO TAMBURINI, “Dall’informazione alla comunicazione (From information to communication)”, in Il consenso informato (Informed Consent), ed.
AMEDEO SANTOSUOSSO (Milano: Raffaello Cortina, 1996), 58.
6 BOZCUK et al., “Awareness of diagnosis,” 56-57.
4
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based on trust. Any kind of medical activity that omits the use of informed consent, even if done for compelling reasons, is likely to be
ethically wrong and morally objectionable.
In the remainder of this paper, I will define the major characteristics of an adequate informed consent policy and will then describe
the present informed consent regulations in Turkey. I will conclude
by presenting an end-of-life case study from Turkey and will make
some ethical considerations. These considerations will focus primarily on the relationship between the doctor and the patient in relation to informed consent.
Informed consent
Commonly, informed consent denotes the usual method by which
patients express their medical preferences. When a patient is referred
to a doctor for a suspected health problem, the physician makes a diagnosis and indicates treatment by explaining the steps of treatment
to the patient, as well as the reason for the recommended treatment,
the possibility of alternative treatments and the benefits and drawbacks of all the options. In an ideal scenario, the patient understands
the information, evaluates the choices of treatment and expresses a
preference for one of the possibilities suggested by his physician.7 As
can be seen, the concept of informed consent is created by amalgamation of two terms, and the lack of either one of them can render
medical treatment illegal. Consequently, in the case of a medical procedure done without the consent of an informed patient, the procedure would also be illegal. However, it would be overly simplistic to
consider informed consent as a mere legal concept.8
7
See TOM L. BEAUCHAMP and JAMES F. CHILDRESS, Principles of Biomedical
Ethics. 6th ed. (New York, NY: Oxford University Press, 2009), 118-121; ALBERT
R. JONSEN et al., Clinical Ethics: A Practical Approach to Ethical Decisions in Clinical Medicine. 5th ed. (New York, NY: McGraw-Hill, 2002), 50-55.
8 JESSICA W. BERG et al., Informed Consent: Legal Theory and Clinical Practice.
nd
2 ed. (New York, NY: Oxford University Press, 2001), 11-12.
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In fact, informed consent requires a genuine dialogue between doctor and patient, and establishes a reciprocal relationship between them
based on truth.9 The relationship between the doctor and the patient
generally is expressed in either of two, divergent ways. The first way
stipulates that the physician has the responsibility to intervene in the
decisions of patients. In other words, it is a relationship that focuses on
the doctor, and is therefore called the “paternalistic,” “parental,” or
“priesthood” model. In this type of relationship, which finds its moral
basis in the principle that medical benefit ought to be prioritized over
a patient’s autonomy, the physician ensures that the patient receives all
the necessary medical interventions for his health and well-being.
Consequently, the patient only receives information on the diagnostic
and therapeutic interventions that the physician determines are best.
Such a model may be tolerated in emergency situations, but in all other “normal” situations would not be very acceptable.10
On the other hand, the second way, called by the authors the “informative,” “scientific,” “engineering” or “of user,” focuses on the patient by giving patients the opportunity to express themselves and to
build a relationship of openness and trust with their physicians. Undoubtedly, such a model requires a greater sharing by the physician
and a large array of decisions left to patients to decide. The physician
provides the patient with all the information related to her or his diagnosis, treatment, risks, and in a second step, executes the treatment
specified by the patient. The distinctive feature of this model is that
there is no place for the values of the physician, nor is there a place
for the doctor’s opinion of the values of his patients. What counts is
the detailed information provided by the physician, as well as the patient’s autonomy through which she or he decides on a course of
treatment.11
19
EZEKIEL J. EMANUEL and LINDA L. EMANUEL, “Four models of the physician-patient relationship,” JAMA 267/16 (1992), 2221-2226, 2221-2222.
10 ELIO SGRECCIA, Personalist Bioethics: Foundations and Applications (Philadelphia: The National Catholic Bioethics Center, 2012), 224; EMANUEL, E.J. and
EMANUEL, L.L. “Four models,” 2221.
11 Ibid., 225; EMANUEL, E.J. and EMANUEL, L.L. “Four models,” 2221.
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In order to obtain truly informed consent, there are three main
criteria sine qua non:
1. The physician should sufficiently inform the patient on whom
he will operate or otherwise treat.
2. The patient must have sufficient capacity in order to understand and decide on the operation and care proposed.
3. The consent or non-consent must be made freely and without
any coercion.12
For example, the American Medical Association’s (AMA) Code of
Medical Ethics recommends clarifying the following information for
patients, and the laws and jurisprudence of all 50 states recognize this
type of communication process, or a variation of it, as both an ethical duty and a legal obligation: The patient’s diagnosis, if known; the
nature and purpose of a proposed treatment or procedure; the risks
and benefits of a proposed treatment or procedure; alternatives (regardless of their cost or the extent to which the treatment options are
covered by health insurance); the risks and benefits of the alternative
treatment or procedure; and the risks and benefits of not receiving or
undergoing a treatment or procedure. In turn, the patient should
have an opportunity to ask questions to elicit a better understanding
of the treatment or procedure, so that he or she can make an informed decision to proceed or to refuse a particular course of medical intervention.13
Informed Consent in Turkey
Before presenting a case study from Turkey, it will be useful to say
a few words about the regulation of informed consent in Turkey. Ar-
12 JAMES
L. BERNAT, “Informed consent,” Muscle & Nerve 24/5 (2001), 614621, 614-615.
13 AMERICAN MEDICAL ASSOCIATION (AMA), “AMA’s Code of Medical
Ethics,” accessed September 10, 2014, http://www.ama-assn.org/ama/pub/physician-resources/medical-ethics/code-medical-ethics.page?
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ticle 17 of the Turkish Constitution regulates the right to life and
states that, except for the obligations and clinical cases prescribed in
the law, the integrity of the body is untouchable, and no one can be
the subject of scientific experiments without his consent. Furthermore, the Turkish Medical Association (TTB) also emphasizes the
above-mentioned recommendations of the AMA.
Article 26 of the ethical standards of medical profession states as
follows:
Physician illuminates his patient, on the patient’s health status and diagnosis, the proposed treatment method, the chances of success and
duration of treatment, the risks to the health of the patient, the possible side effects of the use of drugs, and the consequences of the disease, possible treatment options and the risks whether the patient
does not accept the recommended treatment.
In emergency situations, or when the patient is a minor or is turned
off, or is not able to decide is searched the permission of the legal
representative. If the physician thinks that the delegate’s decision is
taken in a bad faith, and such a decision threatens the patient’s life,
the physician should report the situation to judicial authorities. In
case this is not possible, the doctor tries to consult another colleague,
or just attempt to save his life. To intervene in emergency situations
at the discretion of the physician.
Diseases for which the treatment is mandatory by law due to their
risks for the health of the community, the treatment can do even if is
not taken the informed consent of the patient or his legal representative.14
In Article 14 of “The Regulation of Medical Deontology (Tıbbi
Deontoloji Tüzüğü)” of 1960, in addition to confirming the policies
restated above, also provides an interesting exception: situations
14
HÜSREV HATEMI and HANZADE DOĞAN, ed., Medikal Etik: Vaka Çözümlemeleri ve Yasal Uygulamalar (Medical Ethics: Case Analysis and Legal Practices) (Istanbul: Yüce, 2008), 331 [Turkish].
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where there is a risk of adversely affecting the moral status of the patient and a worsening of the clinical status of his illness. The same article also states that if the patient has not expressed otherwise, or if he
has not established a legal guardian, his family can be informed of the
patient’s prognosis.15 Another piece of national legislation entitled
“The Regulation of Patients Rights (Hasta Hakları Yönetmeliği)” of
1998 recognizes the right to refuse or stop treatment, requiring an additional informed consent about the consequences of such a choice.16
Therefore, as previously stated, since Turkey is a bridge between
Europe and Asia, and considers itself part of a democratic, secular
and juridical western culture, the regulations on informed consent
are not very different or distant from “Western” regulations, at least
in theory. In practice, however, it can be quite different. Now let us
analyze our case study taken from Turkey, then, in the light of the information presented so far, and with the help of ethical principles and
an ethical theory of our choosing, develop a clearer argument on informed consent.
Case study
Fatma is a 46 year-old Turkish woman, a housewife, married to a 48
year-old man who is addicted to alcohol. She has two adult children,
Ahmet, a 21 year-old son and Selma, a 19 year-old daughter. Fatma
is a Muslim; she loves life and considers it a precious gift of Allah. In
1987, Fatma had had a mastectomy as a result of breast cancer, and
after the operation, developed diabetes. Since the family had no access to the National Health System, they could not pay for medical
treatments such as chemotherapy and radiotherapy. However, they
could intermittently buy medicines for the diabetes.
In 1996, Fatma presented herself again to the hospital complaining
of a cough, bone pain and weight loss. The physician, touched by her
15
16
Ibid., 314.
Ibid., 115.
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situation, performed medical exams using the insurance documents
of her sister, who has a regular inscription to the National Health
System, and finally diagnosed Fatma with metastatic bone cancer.
The prognosis is terminal in about 3-5 years, whether or not she
takes chemotherapy and radiotherapy. The hospital is about 45 miles
from the house and the family has no means of transportation. Although she is completely competent and desires to know her real situation, the physician, on the demand of her son Ahmet, doesn’t inform Fatma of her actual condition, but talks only to Ahmet, who finally expresses his desire to begin the treatments and his availability
to accompany his mother to the hospital.
Ahmet informs his sister of the real situation their mother, and, as
suggested by the physician, informs Fatma that she has only post –
menopause osteoporosis! So begins a long process with chemotherapy and radiation therapy. All the persons who are close to Fatma
know her real situation except her, and Ahmet continues to make all
the decisions because he is a male and his father is completely absent
due to his alcoholism.
In the beginning, Fatma frequently express her desire to be healed so
she cooperates with the physicians and her children. But later in the
disease, she begins to have many problems, such as broken bones,
and she is no longer able to walk. She also has sores on her back, and
suffers from constipation, etc. The physicians decide to stop the
chemotherapy and prescribe morphine for the pain, and they also advise against hospitalization and suggest that she die at home. Ahmet,
after a long hesitation, accepts the situation. So Ahmet goes every
week to the hospital to get weekly morphine. When Fatma needs a
blood transfusion, Ahmet finds a donor, and finally a family member
who is a self-educated nurse makes a transfusion at home. Moreover,
the children cannot adjust the dose of morphine because they fear
that their mother would become dependent, and in the case of a long
agony, the morphine would not have the desired effect. These are the
physicians’ suggestions.
So in the midst of so much pain, Fatma no longer wants to live and
says so explicitly on many occasions. Although on many occasions
she had stated that she would never consider suicide even if in a des-
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perate situation, once, she does not take her medication for about 15
days, gathering them in a handkerchief, and eventually tries to commit suicide, leaving a letter to protect her children: “Dear Police Officer, I have committed suicide alone. Do not blame anybody. I wanted to die
because I was suffering a lot.” Fortunately, she fails in her suicide attempt.
Fatma always has full consciousness and eats and drinks without assistance. Ten days before her death, she becomes blind, and on the
insistence of neighbors, the children bring her to a private clinic
where she is operated on with a laser, without good results. After the
operation, she slowly loses consciousness, the children try to feed and
hydrate her with yogurt and ice until her last day. Finally, Fatma dies
at her home surrounded by her children and neighbors.
First, I would like to give some further information on End-ofLife Healthcare in Turkey to better orient us. As Oğuz says, for centuries, Turks preferred to die in their homes, embraced and cared for
by their loved ones. Because of immigration and urbanization, about
60% of deaths now occur in hospitals. The increasing number of
women who work has influenced this change, as most women are unable to care for their sick at home. Since there are no hospices in
Turkey, however, relatives often take care of persons who are old, disabled, or terminally ill. Home care services are very limited and private home care services are not covered by insurance. Consequently,
there is inadequate support for relatives who care for dying patients
at home. Although the National Health Service does not cover all
citizens, the state provides other ways to care for sick persons.17
Taken as a whole, the fundamental ethical issue of the case is the
deception of a cancer patient about her diagnosis and prognosis and
the disregard of her autonomy. The case has, however, numerous
other ethical problems. Even if I would like to put the emphasis on
the informed consent (in this case, failed) and the relationship be-
17
See N. YASEMIN OĞUZ et al. “End-of-Life Care in Turkey,” Cambridge
Quarterly of Healthcare Ethics 12/3 (2003), 279-284, 280-282.
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tween the physician and the patient, the final consideration should be
made by a broader perspective.
May the decision of a physician to withhold the diagnosis and
prognosis really be based on a belief that has no scientific foundation? By this I mean the belief that if the patient knows he has a tumor, he would worry about his imminent death, lose all hope and arrive quickly at death. How could physicians argue for their policy of
keeping silence? As I stated in the introduction, the majority of
physicians who keep silence about their patients’ poor diagnoses justify these omissions by saying that in this way they avoid hurting
them, and furthermore save them from an additional source of suffering and stress, because they are already severely affected by the
disease. They add also that the task of the physician is to act in the
best interests of the patient, and, on the basis of this principle, they
should avoid further damage. Others also mention cases of patients’
suicides, adding that a physician should never be jointly responsible
for such an act.
As we notice, all these considerations refer to so-called ethical
principles. For this reason, I would like to review them as a guide to
our case study. The principle of respect for the autonomy of the patient requires that health professionals meet the demands of the patient made freely and after being sufficiently informed. In the broadest sense, also, healthcare professionals should encourage and enable
the decision-making autonomy of the patient.18 In the principle of
beneficence and non-maleficence the duty of charity calls the medical staff to work for the good of the patient, to remove the evil that
has affected and, if possible, to prevent any future harm.19 The duty
of non-maleficence only prevents causing harm to the patient, in line
with the Hippocratic slogan: primum non nocere.20 Regarding the
principle of justice, this principle requires that we evaluate the im-
18
See TOM L. BEAUCHAMP and JAMES F. CHILDRESS, Principles of Biomedical
Ethics. 6th ed. (New York, NY: Oxford University Press, 2009), 103-105.
19 See ibid., 198-199.
20 See ibid., 149-155.
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pact and the social consequences of a clinical decision taken in the interests of a patient, and ensure that the advantages and disadvantages,
benefits and overall costs, would be equally distributed on the social
scale.21
There is also a principle called the principle of integrity of the
profession that is a right for the physicians or nurses, who demand to
be treated as autonomous persons and as good professionals. In other words, these professionals must be respected in their own moral
choices taken according to their consciences, judged by a standard of
conduct provided by the scientific and medical communities. The
physician, then, according to this principle, is not a simple executor
of patients’ or their family members’ requests, but a person who has
legitimate moral positions.22
Now, I believe that the physicians are often in a moral dilemma
concerning the duty to disclose or withhold the true diagnosis to the
patient. I believe also that the physician primarily has the duty to assist the patient, being available in the first place to serve the needs of
the patient, not necessarily his family. Applying the two general positions found in the relationship between the physician and the patient, which I have spoken about above, I would argue that both positions – one is paternalistic, denying the unfavorable truth to the patient and revealing it to family members, delegating exclusively to
them the task of talking to the patient; while the other enjoins telling
everything with diagnostic accuracy to the patient, without mediation, tact and empathy are rigid rules and as such, unsatisfactory. In
fact, I believe that the most appropriate mode of communication
should be considered on a case-by case-basis, taking into account that
two principles are in conflict: autonomy and non-maleficence.
The physician withholding a truth so important to Mrs. Fatma
prevents both the exercise of her freedom and the freedom to live her
21
See ibid., 240-244.
THE HASTINGS CENTER, Guidelines on the Termination of Life-Sustaining
Treatment and the Care of the Dying (Bloomington & Indianapolis: Indiana Univ.
Press, 1987), 8, 19-20.
22
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life in a way that she pleases; he definitely tramples her decisionmaking autonomy. Here, there is a clear conflict with the ethical
principle of the respect for the autonomy of the patient. Since in this
case, Mrs. Fatma wants to be informed about her real situation, I
would say that the physician has the duty to be loyal to Fatma and to
communicate the diagnostic and prognostic truth. But before that,
the physician should create all the conditions such as the availability
of time, communication skills, appropriate institutional spaces, and
an adequate relational mode, – that will establish between him and
the patient a dignified and authentic communication. In other words,
Mrs. Fatma, who wants to know about her condition, should be informed in a calm, balanced, and fair procedure, which she deems
most suitable for herself.
At this point, we can observe that the issue seems to have shifted
from “whether or not to say” to “how to say,” i.e. how to communicate truth in a dialogue conducted in accordance with procedures
adapted to the needs, style, and values of the patient. As I have presented above, according to The Regulation of Medical Deontology
in effect in Turkey, a physician can be silent in situations where there
is a risk of adversely affecting the moral status of the patient and
causing a deterioration of the clinical status of his or her illness.
Beauchamp and Childress call this “therapeutic privilege.”23 However, since this privilege is applicable only to cases of depressed, unstable or emotionally exhausted patients, it seems inapplicable to Mrs.
Fatma, as she initially did not have these symptoms.
Furthermore, the patient cannot be ignored. The patient has the
moral right to know, a right that a patient can exercise in the manner
he considers most reasonable. The patient may choose to not exercise this right directly, which is called the “right not to know,” by expressly delegating some of his power in the exercise of his interest.
This decision must be respected. In the case above, Fatma has not
had the chance to exercise this right because she has not been directly informed; indeed she has been misinformed.
23
BEAUCHAMP and CHILDRESS, Principles, 124.
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Mrs. Fatma demonstrates complete confidence in her child, unaware that her son betrays her trust, even if he does so in good faith.
Speaking of good faith, how can the physician be sure of the good
faith of a relative to whom he provides information on the health of
the patient? Is it not possible that the relative has a personal interest
in the death of the patient? Consequently, he could make a decision
that speeds up the patient’s death, such as in the case of inheritance,
of resentment, etc.
The physician needs to communicate the truth and not just inform. There is a difference between communicating and informing,
as communication is much more complex and humanly engaging
than to merely inform. Ideally, the patient requires from the health
professional something more; he asks him to be loyal to him, staying
at his side and taking care of him even in the difficult time when the
patient is faced with unexpected sad news. In fact, the information is
understood and believed only if it is given within a relationship of
trust. Establishing this type of relationship and then maintaining it in
the difficult time of disease is the real problem. Consequently, in the
case of Fatma, the physician ignores the patient, blocking the path
for this kind of relationship. In other words, the physician cannot
empathize with Mrs. Fatma.
Generally, empathy refers to an ability to perceive what the patient is experiencing; it is a necessary tool toward understanding the
expectations, fears, and preferences of the patient, in order to communicate with him properly and propose suitable clinical choices. In
fact, we could say that it is impossible in human relations as delicate
and profound as healthcare, to maintain emotional detachment and a
total indifference. Since empathy is inevitable, it should be practiced,
prepared and trained for, so as to transform it into a mature virtue.24
On the other hand, there are also risks of falling into unipathy or
unaffectivity. The first term means being drawn into the psychody-
24
See PAOLO M. CATTORINI, Bioetica: Metodo ed elementi di base per affrontare
problemi clinici (Bioethics: Method and basic elements to deal with clinical problems).
4th ed. (Milano: Elsevier, 2011), 35.
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namics of the experience of others, without the ability to differentiate and process these feelings. The second term, which can also be
defined as emotional indifference, or cynicism, implies avoiding any
human involvement and a focus on the performance of aseptic technique. This kind of behavior often hides a deep fear of relationship,
hinders communication and action, and in the long run, generates
errors and breakdowns. Therefore, we can conclude that there is no
alternative to good empathy, consciously exercised through ethical
and psychological training that considers as inevitable the errors and
troubles of a profession which is as humanly demanding as the clinical profession.25
The mere mention of cancer scares us. We therefore look for alternative language that masks the specter of the death that hovers
over the term. Consequently, cancer could become “neoplasia.”26 It
is argued that this would prevent a patient and his family from experiencing such a sharp and direct effect. However, the “post –
menopausal osteoporosis” does not kill anyone, yet a cancer with
metastases on bone does. Here, the problem is not masking the real
name of the disease, but telling a lie. Such an attitude is against all
morality and destroys the trust that should be the basis for any relationship between the physician and the patient. Consequently, here
the principle of the integrity of the profession is compromised. The
moral choices of the physician are very questionable, and are clearly
contrary to the standards considered valid by the scientific and medical communities.
Let us try to reason through the other possible explanations that
would have lead the physician to avoid a relationship with Fatma, and
their consequences. A first difficulty that could have prompted the
physician to communicate directly with Fatma may be the removal of
the death from contemporary culture. The culture of today, especially in the media, avoids naming death. There is ample space for
the spectacular death in movies, but the reality of death is suppressed.
25
26
See ibid., 36.
See ibid., 39.
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It is therefore clear how difficult it is for doctors to enter into a conversation concerning death to overcome this taboo.
A second reason may be the belief that once made aware of the situation, the patient may fall into a serious state of depression or, in extreme, cases may turn to suicide. But as I showed above, research
states the contrary. Mrs. Fatma is a Muslim believer, she considers
life as a gift from Allah and until the moment of despair caused by
her excruciating pain, she never contemplates suicide. She never
knew her real diagnosis, so until this moment she probably didn’t really consider death, but she hoped for a better quality of life, and to
be healed from the osteoporosis. But when she realized that her situation was worsening, she most likely began to have doubts, and in
desperation she committed an act that due to her religious beliefs she
would never do. Could this situation have been avoided?
I believe that, if the physician had built a relationship with Mrs.
Fatma, she would not have asked him to let her know the accurate
technical terms and biologically precise notions concerning her illness. She would have asked questions that are full of meaning for her
existence: “How will I live? Shall I stay at home, have sex with my
husband, and witness the marriage of my children? Doctor, what
awaits me? Will I be able to endure what I did? What do you advise
me to do? What can I still hope for?” In all these questions, the humanity of the doctor is called upon. Now, the physician is not always
ready, prepared or available for this contact, because he can feel a
personal fear about death and disease. As was the case above, the doctor will not meet Mrs. Fatma, and the request of her son, Ahmet, not
to disclose the truth becomes the doctor’s salvation.
Consistent with Kübler-Ross, the stages crossed by patients to
whom a poor diagnosis is given, can be summarized as follows: Denial and isolation, anger, bargaining, depression, acceptance, and
hope.27 I think that we can’t talk of real stages and that we can’t define them as universal. According to Buckman, in fact, human beings
27
See ELISABETH KÜBLER-ROSS, On Death and Dying (New York, NY: The
Macmillan Company, 1970), 34-138.
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experience different emotions at the same time, they react according
to their own personality, their own style and in the light of their past,
and in facing death, patients move little by little from the places of an
ordinary life to painfully mature awareness that death is going to
come, that is, a transition.28 As Mrs. Fatma has never known her true
diagnosis and relative prognosis, in a way she has not had the chance
to experience these steps regularly, even if in her uncertainty she was
not immune. She eventually realized that her death was imminent,
and gradually she lost her will to live.
Finally, we can add that the following concerns have enabled the
physician to avoid a relationship with the patient: the institutions
sometimes do not supply adequate space and time; the shortening of
the periods of a hospital stay makes it difficult for the specialist to establish the confidence sufficient to eliminate the risk of misunderstanding the sick; the fear of being accused; the fear of treatment failure; and the perception that their education has been lacking in
ethics, as well as the psychological ability to admit their ignorance or
the difficulty of expressing emotions.29
The physician, using the documents of another person, visits and
cares illegally for Mrs. Fatma, who does not have the right to health
care. It is very interesting that the physician, despite having avoided
a real patient- physician relationship, can risk his professional career
because he is moved by pity. How should we judge him morally? Admire him for his compassion and courage? Or condemn him for his
“dishonesty?” Here we meet problems that are connected to the ethical principle of justice. The fact that not all citizens have access to
the National Health Service is bad, but that does not justify the illegal treatment. How many patients can be treated illegally? How can
the medical activities of a physician who acts illegally be considered
reliable?
28
ROBERT BUCKMAN et al., I Don’t Know What to Say: How to Help and Support Someone Who is Dying (Boston, Toronto, London: Little, Brown and Company, 1989), 37-41.
29 See CATTORINI, Bioetica, 38.
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Now let’s take another step forward. The understanding, interpretation and comparison of principles takes place in the light of an
ethical theory, which justifies the meaning of special commands, and
puts them in a certain relationship and possibly in some order of priority. The advantage of the great ethical theories is to offer very general criteria, essential and universally comprehensible and sustainable, as well as logically consistent, to distinguish, in a systematic and
widespread way, good actions from bad ones.
The ethical theory that would fit better in this case study and in
whose light I conclude my considerations is proposed by Pellegrino
and Thomasma, who distance themselves from medical paternalism,
which as I have pointed out above, makes absolute a distorted view of
the principle of beneficence and ignores the principle of autonomy.30
Mrs. Fatma’s case is a perfect example of this distortion, where the
physician acts in a paternal way, purporting to act for the good of the
patient. According to these authors, it is necessary to update the Hippocratic oath, gaining a more complete vision of the principle of
beneficence, which can again be central if it is understood as the principle of beneficence in trust.31 When the patient asks for help, the
doctor responds by promising his commitment to the personal and
professional aims of protecting and promoting the welfare of the patient. However, this good does not coincide with the clinical indication in the strict sense, but rather with the overall good of the sick
person, which also includes clinical aspects.
On the other hand, if a physician is at the service of the integral good
of the person, it means that he also works for strengthening the autonomy of the patient. Correspondingly, only promoting and respecting
the decision-making autonomy of the patient may be said to promote
his real clinical good. In a final word, these authors dispute strongly the
separation between the principles of beneficence and autonomy.
30
See EDMUND D. PELLEGRINO and DAVID C. THOMASMA, For the Patient’s
Good: The Restoration of Beneficence in Health Care, (New York, NY: Oxford Univ.
Press, 1988), 6-10.
31 See ibid., 203-206.
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Conclusion
In the final analysis, Mrs. Fatma has lived for 49 years, and although
she has a problematic husband, she is mother of two children who love
her. Her prognosis gives her still 3-5 years of life that she can live. She
can spend that time with her children, while continuing her treatment.
Quality of life is a subjective concept, so she can and should decide
how and whether to continue with the chemo and radiotherapy. According to Pellegrino and Thomasma’s ethical theory, a physician who
must be at the service of the integral good of the patient should take
into consideration all of these elements of Mrs. Fatma’s life.
Collaboration with members of the family is certainly desirable, but
it should be in favor of the patient, not against her will or against her
own interests. Only in this way can the autonomy of Mrs. Fatma be really respected and action taken in her best interest. Otherwise, there
would be a big risk that leads to two unnecessary consequences: First,
the patient’s family, in the case study presented concerning Ahmet and
Selma, burden themselves greatly. Second, the patients become a subject of scruples of their family, as Mrs. Fatma, by the end of her life, is
fed, medicated, and even operated on futilely by her relatives.
All in all, the information presented according to the universally
accepted criteria, along with the subsequent consent given by the patient, enable the desired harmony between medical authority and the
autonomy of the patient, and outline the first duty of the physician in
the context of legitimate medical activities. Otherwise, the ideal relationship between the physician and patient could not be structured,
and a patient’s autonomy could not be respected. Moreover, the lack
of communication is placed on the same level as a professional or
technical defect, by integrating a state of culpable negligence, which
outlines not only the neglect of a duty but also a separate state of unlawfulness.
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SUMMARIES
The close and strong relations that constitute the traditional Turkish family
mean that, even if a cancer patient is fully competent, and desires to know his
or her real health situation, the family tends to hide it. Many doctors, for their
part, by respecting this familial tendency, and even giving priority to it, impede
an authentic relationship based on trust between themselves and patients, to
the detriment of patient autonomy. This attitude is justified by the belief that if
patients know that they have a tumor, they would worry about their imminent
death, lose all hope and die quickly. This article departs from this tendency,
and argues that informed consent is a key sine qua non to safeguard the autonomy of the patient and to establish an ideal relationship between the physician and the patient. Through observations made on a case study taken from
Turkey, this article concludes that medical information appropriately provided
according to universally accepted criteria and the subsequent consent given
by the patient establishes the desired harmony between medical authority and
the autonomy of the patient. Furthermore, the article outlines the first duty of
physicians in the context of legitimate medical activities.
***
Las estrechas y firmes relaciones que configuran a la familia Turca tradicional
implican que, aun cuando un paciente de cáncer poseyendo todas sus facultades y deseando conocer su real estado de salud, la familia tiende a ocultárselo. Muchos doctores, respetando esta tendencia e incluso dándole prioridad, dificultan una auténtica relación de confianza con sus pacientes, y dañan la autonomía de estos. Esta actitud se justifica bajo el supuesto que si los
pacientes saben que tienen un tumor, se inquietarán ante su inminente muerte, perderán toda esperanza y se acelerará su deceso. Este artículo toma distancia de esta tendencia, y argumenta que el consentimiento informado es un
elemento clave sine qua non para salvaguardar la autonomía del paciente y
establecer una adecuada relación médico-paciente. A través del análisis de
un caso de estudio de Turquía, este artículo concluye que la información médica – proporcionada oportunamente y de acuerdo a criterios universalmente
aceptados – y el consiguiente consentimiento dado por el paciente, establecen la deseada armonía entre la autoridad del médico y la autonomía del paciente. Además, el artículo profundiza en el primer deber de todo médico en
el contexto del ejercicio legítimo de su profesión.
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***
L’intensità e la prossimità che caratterizzano tradizionalmente le relazioni delle famiglie turche risultano spesso, anche nel caso di pazienti malati di cancro
completamente competenti e intenzionati a conoscere la propria situazione
medica, in un’attitudine della famiglia a non comunicare la verità della malattia al paziente. Molti medici non solo rispettano tale atteggiamento ma addirittura lo rinforzano, impedendo così l’instaurarsi di una relazione medico-paziente autentica e basata sulla fiducia, a discapito pertanto dell’autonomia del
paziente. Questo atteggiamento appare giustificato dalla credenza che i pazienti, una volta giunti a conoscere di avere il cancro, sono portati a spaventarsi per la morte imminente, perdendo così speranza e giungendo alla morte
in tempi minori. Questo articolo prende le distanze da tale comportamento, affermando che il consenso informato è una condizione sine qua non per tutelare l’autonomia del paziente e per stabilire una migliore relazione tra medico
e paziente. Attraverso l’osservazione di un caso studio situato in Turchia, questo articolo conclude che le informazioni mediche fornite in modo appropriato
secondo criteri universalmente riconosciuti e il conseguente consenso dato
dal paziente armonizzano l’autorità medica e l’autonomia del paziente. L’articolo, inoltre, delinea i doveri primari dei medici in un contesto di attività mediche legittime.
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GIOVANNI CHIMIRRI, Relativismo morale e teologia del bene. Il senso cristiano dell’etica (Filosofia cristiana oggi 1), Ed. Chirico, Napoli 2013, 144 p.
Con questo volume G. Chimirri continua il suo lavoro di indagine intorno ai valori e ai principi primi più alti dell’uomo che correnti di pensiero contemporaneo cercano di relegare di continuo ai margini di un serio dibattito a livello filosofico e morale. Ci troviamo di
fronte ad un testo che cerca di fondare un dibattitto che parte dalla
«ragione umana che desidera capire, che cerca cause, che vuole,
aprirsi al trascendente, che pone relazioni e insomma vuole mettere
un po’ d’ordine intorno ai principi primi della morale» (p. 9).
Le pagine del presente scritto già dal primo approccio risultano
un contribuito notevole, seppur con stile divulgativo, alla riflessione
teologica a partire da presupposti filosofici. L’A. per sviluppare la sua
riflessione intorno al relativismo morale e alla teologia del bene articola un percorso in sei capitoli. Fonda il suo discorso partendo dal
concetto antropologico della libertà (cap. 1). Infatti è a partire dalla
libertà che è possibile comprendere qual è il bene dell’uomo e “la sua
possibile fondazione religiosa”. In base alla corretta ermeneutica della libertà è possibile evitare il relativismo morale. «Se s’intende la libertà come qualcosa che permette all’uomo di credersi l’assoluto; se
s’intende la libertà come semplice arbitrio, o come capriccio individuale, piacere egoistico, scelta indifferente fra bene e male, l’umanità cadrà sempre più nel relativismo, con tutto quello che l’accompagna (agnosticismo, nichilismo, ateismo, ecc.)» (p. 13). Per evitare
questo rischio l’A. in modo corretto analizza varie posizioni di alcuni pensatori contemporanei come L. Pareyson, J.P. Sartre, W. Weischedel e J.L. Nancy. In modo puntuale l’A. mette in evidenza, nelle
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riflessioni dei pensatori su citati, luci ed ombre, argomentando una
riflessione antropologica della libertà fondata su presupposti cristiani del dato rivelato.
L’A. nel secondo capitolo focalizza la sua attenzione sulla “teologia
della libertà creata”. Essa costituisce l’essenza e il valore più alto dello spirito umano. La filosofia nichilista vorrebbe far credere che la libertà dell’uomo è assoluta. La libertà umana è invece una libertà creata, che responsabilmente e consapevolmente si decide per il bene, come risposta ad una chiamata di Dio. In questo orizzonte l’assoluto è
Dio come libertà suprema. A ragione Chimirri scrive che: «È vero,
come dicono gli esistenzialisti, che l’uomo si ritrova necessariamente
libero, ma è pur vero insieme che questa libertà non ha alcun senso e
alcun valore fuori dell’atto col quale l’uomo fa propria e realizza quella libertà, così da trasformare se stesso in un soggetto non più sottoposto
a nulla ed anzi liberissimo di rifiutare anche Colui che lo ha fatto libero e di rivolgersi dunque al male che non è altro che l’interruzione
di quel rapporto che ci vincola necessariamente e amorevolmente a Dio e al
prossimo» (p. 38).
La filosofia realistica e la teologica cristiana fanno da sfondo al terzo capitolo dove l’A. confuta l’idea dei valori relativi menzionati nel
capitolo precedente. A partire dal principio che l’essere non può non
essere e che il mondo è una creazione dell’Essere, Chimirri confuta il
nichilismo che riduce tutto a vuoto materialismo. A tal ragione scrive:
«Il relativismo si fonda sul presupposto generale che non esiste una
verità, ma molte, così che, anche sul piano etico, non esiste un bene riconoscibile da tutti ma solo molti beni parziali. [...] La tesi essenziale
del nichilismo pratico, è dunque questa: non essendoci più alcun essere-in-sé o bene-in-sé, rimangono e si danno solo parvenze di essere e fenomeni di bene per me, per te, per lui! Non ci sono più né norme e
né valori certi, confusi l’uno con l’altro, quando invece il valore è ideale, universale e oggettivo mentre la norma è l’interpretazione particolare del valore in questo o quel contesto storico-sociale. I principi morali sono pressoché stabili, mutevoli invece sono i precetti e le leggi
positive volte alla loro pratica attuazione» (p. 55). Il presupposto stesso del nichilismo – secondo il quale le motivazioni dell’agire morale e
politico sono esclusivamente del singolo e della sua autonomia – por-
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tano al falso mito della tolleranza intesa come «una razionalità scettica che tende a riguardare positivamente non tanto tutte le diverse convinzioni in gioco, ma soprattutto quelle che sono a loro volta relativizzabili e possono essere messe in discussione, laddove ad esempio le
convinzioni riguardanti la fede o la credenza assoluta in un valore, sono posizioni difficilmente scardinabili: danno molto fastidio e sono
giudicate come fanatismi dogmatici incompatibili col moderno relativismo» (p. 56).
Lo sforzo dell’A. per la fondazione religiosa del bene, trova nel
quarto capitolo un passo significativo. A partire dalla semplice domanda “se esistono ragioni di fondo nell’agire morale”, l’A. cerca di
mettere in dialogo l’etica e la religione. Questa domanda di fondo nasce dalla consapevolezza che in vari ambiti filosofici e culturali si cerca di affermare che nella religione non c’è più posto per la morale. La
morale, in quest’ottica, è frutto di scelte etiche e filosofiche. L’A., seguendo il pensiero di Auer, afferma che la teonomia della morale non
scalza l’autonomia della morale stessa. Di conseguenza Chimirri, rifacendosi al Botturi sostiene che «l’etica ha una sua autonomia, però
quest’autonomia non è assoluta quanto al suo fine (senso, fondamento) ultimo, che è poi un tutt’uno con l’Origine prima (Dio Creatore).
Autonomia non significa quindi la “semplice assenza di vincoli, condizioni, eventuali comandi superiori/esteriori”, esclusione a priori di
esseri superiori all’uomo, ma significa che il principio prossimo dell’obbligazione, la morale (come la libertà) l’ha in se stessa: “la ragione pratica non si limita a trasmettere una legge già scritta e formulata altrove, ma la istituisce nella sua formalità normativa, esprimendo in quest’atto la sua partecipazione metafisica al potere legislativo divino, cioè appunto la sua autonomia”» (p. 92).
Per fare il bene bisogna essere nel vero bene altrimenti si assolutizza ciò che bene non è, come la storia, le cose mondane, il progresso o gli affetti umani. Proprio il bene come espressione massima dell’amore è l’oggetto di ricerca del quinto capitolo. L’A. segnala da subito i limiti dell’amore umano affermando che «L’amore è sì un valore assoluto, la regola massima dell’uomo, ma insieme esso ha un
senso (ultimo) solo in riferimento a Dio; e, di più, anche con questo riferimento rimane ancora qualcosa di precario e limitato» (p. 112).
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L’uomo aprendosi al dono delle virtù teologali perfeziona il suo amore di cristiano il quale «è derivato totalmente dall’amore di Dio, e non
può essere separato da questi per nessun motivo: Dio è la fonte, l’ispirazione, la grazia, il fine di ogni azione morale e amorosa del credente» (p. 117). In questa prospettiva la morale cristiana rispetto a
quella laica non parlerà di giustizia bensì di carità cristiana. L’etica religiosa non vuole sottrarre nulla all’etica razionale o laicista ma per
mezzo della rivelazione aggiunge e perfeziona la ricerca della verità.
L’ultimo capitolo di questo piccolo volume affronta la questione
del laicismo. L’A. articola la sua riflessione a partire dalla libertà religiosa non sempre garantita lungo la storia e da molti sistemi politici.
Proprio la libertà religiosa ha permesso la nascita del laicismo, fino
ad arrivare al riduzionismo laicista degli Stati moderni. A tal proposito egli scrive: «Uno stato totalmente laico che si occupa solo di amministrazione del territorio, dove regna sovrana l’indifferenza, la tolleranza assoluta e l’equidistanza da ogni valore, è qualcosa d’inconcepibile e d’impotente che neppure le peggiori utopie politiche hanno mai vagheggiato» (p. 134).
Il testo di Chimirri appare da subito come stimolante e ricco per
le riflessioni che apporta. I capitoli centrali fanno riferimento a delle
pubblicazioni pregresse dello stesso autore come: Trattato filosofico
sulla libertà del 2007; Libertà dell’ateo e libertà del cristiano sempre del
2007; Teologia del nichilismo del 2012 e ad altri articoli apparsi tra il
2008 e il 2013. Il merito di questo testo è quello di saper condurre il
lettore alla conoscenza di tematiche filosofiche, antropologiche, teologiche e politiche con un linguaggio semplice. Nel nostro contesto
parlare di libertà ed amore spesso ingenera degli assoluti da cui è
esclusa la libertà creatrice di Dio che è capace di fornire unità al vivere umano. L’A. dimostra in modo chiaro che solo una libertà creata e non assoluta eviterà il rischio del relativismo etico. Il Dio amore
che crea l’uomo gli dona la libertà, l’intelligenza e la volontà per
comprendere la verità che rende liberi.
ALFONSO V. AMARANTE, C.SS.R.
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GERARDI RENZO, Le malattie dell’anima. Trattato sui vizi capitali,
Edizioni Dehoniane, Bologna 2014, 270 p.
Riguardo a virtù e vizi oggi si tende a credere che facciano parte
di un sentire “tradizionale” superato. È di questo parere l’autore del
volume, Renzo Gerardi (Professore Ordinario di Teologia morale
speciale nella Facoltà di Teologia della Pontifica Università Lateranense), il quale mette in evidenza che oggi poco si parla delle virtù, e
quando si fa è più che altro in riferimento a persone ritenute eroiche
e «fuori dal mondo». Le virtù sono viste come un limite alla possibilità di vivere la vita come meglio piace. Una tendenza opposta si registra in merito ai vizi, che sono tollerati se non addirittura lodati (p.
7). «A onor del vero, oggi c’è anche chi ritiene che i sette vizi capitali tradizionali – essendo ormai sorpassati e non avendo più alcuna rilevanza nella vita – debbano essere assolutamente aggiornati o sostituiti da un nuovo elenco di tabù contemporanei che colgano l’essenza della moralità moderna» (p. 7). Esiste tuttavia, un dato opposto,
ossia un rinnovato interesse all’argomento vizi capitali in teologia
morale e spirituale, filosofia, sociologia, letteratura, psicologia, arte,
cinema, antropologia culturale. Questo interesse però, per l’autore,
non è sempre stato epistemologicamente corretto (p. 8). Non si troverebbe una vera e propria denuncia dei vizi, specie in campo artistico e cinematografico, ma semplicemente una loro descrizione, talvolta ironica, se non proprio di adesione o compiacenza, che porta a
giustificare ciascun vizio come potenziamento di desideri legittimi
per l’uomo. Ad esempio la gola si giustificherebbe con la ricerca del
piacere, l’avarizia con la parsimonia, la superbia con l’amore di sé. A
motivare l’autore nello scrivere un trattato sui vizi capitali è la persuasione che essi siano “malattia dell’anima” che possono far derivare tutti gli altri peccati, e che conoscerli è importante per combatterli, vivere una vita buona in armonia con se stessi, con gli altri e con
Dio (p. 9). Il metodo con cui l’autore intende procedere non è esplicitamente indicato, ma sfogliando le pagine dell’indice appare chiaro
ed evidente il piano del volume. Al primo capitolo, in cui sono trattati i «Vizi e peccati capitali», seguono altri sette, ciascuno dedicato a
un vizio capitale. Ogni vizio è trattato in 8 punti. Il punto di parten-
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za per descrivere il vizio è: «Com’è», ossia come il vizio analizzato è
recepito nell’esperienza comune, in particolare nelle arti o in letteratura. Segue la trattazione su: “Cos’è” il vizio in tema. In questa sezione emerge l’essenza del peccato, la perversione di quelle che sono
tendenze donate all’uomo. Questo porta il Gerardi al passo successivo, ossia dimostrare in che cosa il vizio analizzato sia “peccato” per
poi dimostrare perché esso è «vizio capitale». Dalla letteratura, o ancora dalle arti sono tratti “esempi” del vizio, per poi passare al sesto
punto in cui attingendo dal ricco patrimonio della Sacra Scrittura e
dei Padri della Chiesa vengono declinate le «forme» in cui si può cadere nel vizio. Gli ultimi due punti analizzano le «conseguenze» e i
«rimedi». Coerentemente alla struttura di fondo appena descritta
l’autore compie delle scelte in merito alle fonti, ma quelle a cui si
ispira sono ampiamente indicate in nota, in un apparato critico ben
curato. Quanto alla bibliografia essa è fornita all’inizio di ogni capitolo per ogni tema trattato, e contiene rimandi sia a studi antichi che
recenti. Guardando più da vicino gli otto capitoli, è possibile evidenziare alcuni passaggi molto interessanti.
Il primo capitolo studia la differenza e il rapporto tra passioni, vizi e peccati, l’evoluzione storica del tema dei vizi capitali e i suoi modelli. Il settenario dei vizi risale a San Gregorio Magno (p. 42), mentre la definizione di capitali è per dire che da essi derivano tutti gli altri mali (p. 46). L’autore ha fiducia nelle possibilità dell’uomo, che
pur se cade nel peccato può rialzarsi. In ciascuno c’è il “germe divino” e la forza delle virtù che impegna a compiere il bene, allontana
dall’autodistruzione che il vizio comporta e orienta alla conoscenza e
all’amore di Dio (pp. 65-66).
Il secondo capitolo analizza la superbia. Il superbo è innamorato
della propria superiorità reale o presunta, per la quale si aspetta riconoscenza da tutti. È al primo posto nel settenario perché ogni peccato è frutto ed espressione di superbia (p. 78). Alla superbia è legata la
brama di potere e l’invidia, la vanagloria, la disobbedienza, l’ipocrisia, la discordia. La virtù laica che contrappone la superbia è l’autostima, ma il miglior antidoto è l’umiltà (p. 98).
Per ben comprendere l’avarizia, trattata al terzo capitolo, le si deve associare l’avidità, ossia la cupidigia che consiste nel bramare smo-
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datamente ciò che non si ha e nel desiderio di possedere sempre di
più. Il possesso dei beni non è un male in sé. Il peccato dell’avaro è
che possiede e trattiene per sé mentre gli uomini sono chiamati da
Dio ad essere buoni amministratori dei beni secondo la sua volontà.
«Noi siamo custodi e non possessori. Ricordarlo fa sempre bene. Veramente ricco non è colui che possiede molte cose, ma chi non ha bisogno di molte cose» (p. 131). Rimedi contro l’avarizia sono: la condivisione fraterna, la misericordia e la pietà.
Il quarto capitolo tratta della lussuria, che fa riferimento all’eccesso, all’esagerazione in quegli atti e comportamenti attinenti alla sessualità e al corpo. Lussurioso è colui che si scioglie nei piaceri, che ricerca il piacere perdendo il controllo di sé. La lussuria è legata all’istinto della riproduzione, quindi alla sessualità che è una realtà umana complessa, enigmatica, interessante. Ogni forma di lussuria è peccato, perverte il cuore, si serve del desiderio passionale per assoggettare a sé il corpo dell’altro. Sottrae alla signoria di Dio le relazioni
che segnano la sua vita (p. 142). Il rimedio alla lussuria consiste nella castità, che parte dal cuore integro che sa amare donandosi all’altro e investe il corpo come luogo di dialogo con l’altro. In aiuto alla
castità ci sono la prudenza e la temperanza e il dominio di sé.
L’invidia è ben conosciuta, descritta e beffeggiata anche dalla sapienza popolare, come attesta il Gerardi all’inizio del quinto capitolo. L’invidia è il guardare male l’altro, non vedendolo come persona
degna di rispetto, ma di cui volerne la sparizione e la distruzione.
Nella Bibbia l’invidioso per eccellenza è Satana. L’invidia è dolore interiore, diventa peccato quando la persona acconsente alla passione,
vizio allorché da origine ad atti intenzionali distruttivi dell’altro e di
se stessi (p. 171). Ciò che può distruggere l’invidia è l’amore gratuito di Dio, amore appassionato e senza limiti, l’unico che ha il potere
di rompere la logica delle passioni e la forza dei vizi capitali (p. 185).
Il Sesto capitolo è dedicato alla gola, vizio difficile da determinare.
È il desiderio disordinato di nutrirsi. Il goloso ha un rapporto scomposto e irrazionale con cibo e bevande. La passione peccaminosa non
è mangiare, lo è il modo di usare del nutrimento, quando: “il ventre
diventa Dio” (Fil 3, 19), quando si assolutizza il corpo perdendo la libertà (p. 206). Il vizio della gola si combatte rendendo grazie a Dio
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per il cibo di cui si dispone, curando l’aspetto della condivisione, affinando la virtù della temperanza, allenandosi nella pratica del digiuno
moderato o di forme di astensione e moderazione nel nutrirsi (p. 210).
Nel settimo capitolo appare evidente che l’ira è una passione complessa, malvagia e misteriosa. Si manifesta sul volto della persona, nel
ritmo delle parole, nel tono di voce, nei movimenti del corpo. I moti dell’ira possono scaturire da diverse cause. La collera è espressione
della nostra vulnerabilità, diventa peccato quando è ingiusta, vendicativa o smisurata, è vizio se è una costante nel rapporto con gli altri.
L’ira è vizio capitale, apre la porta a molti altri peccati, tra cui: indignazioni, bestemmie, insulti, urla, risse, percosse e addirittura omicidi. Per vicere l’ira bisogna andare alla sua radice e curare le virtù opposte: la pazienza e la dolcezza.
L’ottavo capitolo è dedicato all’accidia, che è incuria e indifferenza, scoraggiamento e disgusto. È il venir meno della gioia spirituale,
è male di vivere e non poche volte è principio di disperazione. «L’accidia morde con un morso indolore, ma il suo veleno è capace di
paralizzare l’anima nel suo slancio di perfezione verso Dio» (p. 242).
L’accidia è l’ingrediente che peggiora ogni vizio perché genera tedio
e ripugnanza. Il cuore dell’accidioso è gravemente malato, è ansioso,
appesantito, girovago, insensibile, spento. Il rimedio all’accidia è l’operosità.
Il volume si presenta coerente e accattivante, il che ne facilita sia
la lettura sia la memorizzazione dei concetti fondamentali. Il linguaggio è chiaro e puntuale. In un contesto come quello attuale è
fondamentale per la teologia, e in particolare per la teologia morale,
essere in dialogo con le altre scienze, il che rende condivisibile la
scelta dell’autore di partire dal dato esperienziale descritto attraverso
l’arte o la letteratura. Il continuo dialogo tra discipline come la filosofia, la storia, e la Scrittura, i Padri e il Magistero rendono la trattazione molto esaustiva e permettono di considerare ogni vizio capitale da angolature diverse. Questo punto di forza del volume fa sorgere un dubbio. L’autore dimostra lungo tutta la trattazione come i vizi capitali siano una perversione delle passioni che sono nell’uomo.
Dispiace che nell’economia del volume non abbia trovato molto spazio il riferimento a studi di psicologia o di sociologia. La tendenza
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odierna ad esaltare il vizio e a nascondere la virtù stravolge la verità
della persona creata da Dio e chiamata da lui ad amare e fare il bene
e ad evitare il male. Un trattato come il presente che pone un tema
così delicato come quello delle malattie dell’anima è un contributo
quanto mai prezioso e attuale. [Filomena Sacco].
FILOMENA SACCO
PHILIPPE NEMO, Esthétique de la liberté, PUF, Paris 2014, 196 p.
Professeur à ESCP Europe, Responsable des enseignements de
Sciences sociales et Humanités et Directeur du Centre de recherche
en Philosophie économique, Philippe Nemo est philosophe, spécialiste de l’histoire des idées morales et politiques.
Dans sa fable Le chien et Le loup, La Fontaine estime que le loup
est plus beau que le chien et sa vie plus brillante et plus prestigieuse.
Nemo se demande alors si le lien entre liberté et beauté est une vérité philosophique universelle et permanente. Aussi se pose-t-il des
questions sur les conséquences sociales et politiques d’un possible
lien indissociable entre ces deux réalités et sur la présence possible
d’un enjeu métaphysique dans l’alternative d’être chien ou loup (911). Il répond à cette problématique en organisant sa réflexion en
trois parties: Situation de la beauté et de la liberté dans une anthropologie
philosophique; Laideur de la servitude; Beauté de l’existence libre.
Dans la première partie, où il aborde les thèmes d’immanence et de
transcendance, Nemo répond à deux questions: beauté et liberté sontelles des réalités empiriques ou transcendantales? Sont-elles corrélées
entre elles, et avec le vrai et le bien? Par rapport à la première question, il reconnaît que la tradition idéaliste opte pour la deuxième hypothèse et celle naturaliste pour la première, à savoir que «la perception
de la beauté est un phénomène purement naturel, à la base physiologique», et la liberté «une notion empirique et toute relative». Par rapport à la deuxième question, Nemo soulève toute la problématique
provenant de la position selon laquelle les idéaux de l’esprit peuvent
être poursuivis indépendamment des uns des autres, aux dépens de
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certains d’entre eux, dans l’indifférence, le mépris ou le rejet délibéré
des autres. Pour lui, seule une convergence des idéaux de l’esprit et
leur complémentarité peuvent rendre compte de l’unité de l’esprit humain et de la possibilité d’une anthropologie philosophique. Seulement, cette convergence n’est percevable que si ces idéaux mêmes sont
envisagés comme des réalités transcendantes (13-17).
Nemo trouvera dans les traditions philosophique et biblique les
éléments de réflexion et de doctrine lui permettant de déterminer la
nature de la beauté et de la liberté. Dans la tradition naturaliste de la
philosophie antique, la liberté est perçue comme une réalité nécessaire au perfectionnement des êtres naturels et la beauté comme «un
éclat qui signale la perfection des êtres naturels». Cet idéal grec de la
beauté physique, que l’on retrouve chez Aristote, Homère, Platon,
Cicéron, Sénèque, Épictète, Marc Aurèle, avoisine la beauté morale.
En revanche, pour la tradition idéaliste, «la beauté est l’image sensible d’une réalité transcendante», alors que «la liberté sert à se délivrer de la prison du sensible». De la tradition biblique Nemo retient
l’idée selon laquelle la beauté n’appartient qu’à Dieu et interprète, en
référence à Mc 11, 23, la liberté du croyant comme capacité «“de
soulever les montagnes”» (17-48).
De son analyse des différentes conceptions de la beauté et de la liberté, Nemo conclut que celles de tradition philosophique sont axées
sur la forme et celles de tradition biblique sur l’infini. Il voit là une
rupture du cadre métaphysique grecque qu’il explique en évoquant la
doctrine d’Aristote sur l’individu et l’espèce, la notion de personne
humaine dans la civilisation romaine et les tentatives plotiniennes de
dépassement de la forme. Aussi pense-t-il avoir trouvé chez Grégoire
de Nysse, Saint Augustin, Denys l’Aréopagite, Thomas d’Aquin, Pic
de la Mirandole et dans la doctrine des transcendantaux certains traits
de l’anthropologie philosophique dont il a besoin pour analyser les sociétés humaines. D’après cette anthropologie, «les chemins de la
beauté ne seront ouverts qu’à un homme “inquiet”, ayant le sens du
mystère, désireux d’explorer toutes les formes sensibles de la nature et
de l’art, et de poursuivre le vrai et le bien autant que le beau». D’où
la nécessité de la liberté intérieure et de toute liberté permettant d’agir dans le monde pour le découvrir et y imprimer sa marque (48-84).
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Nemo poursuit auprès de Kant, Proust, Heidegger, Gadamer et
Castorialis sa quête d’une anthropologie philosophique qui tienne
compte tout à la fois de la liberté, du beau, du vrai et du bien, dont
il explique la transcendance et la convergence. «Chaque fois qu’un
être humain est témoin de l’apparition du bien, du vrai, du beau et
de la liberté dans le monde empirique, il touche un absolu», à savoir
Dieu, et ces idéaux «qui, logiquement, psychologiquement et socialement, sont disjoints et potentiellement en conflit, convergent en
cette transcendance même». Nemo soutient qu’il n’y a «pas de charité sans liberté, pas de vérité sans liberté, pas de beauté sans liberté» et que la liberté est liée par essence au bien, au vrai et au beau
(84-104).
Dans la deuxième partie, Nemo montre pourquoi la condition de
servitude va de pair avec la laideur et celle de liberté avec la beauté.
Il explique la consistance de la laideur respective des totalitarismes et
des socialismes, en référence à 1984 de George Orwell, Les origines
du totalitarisme d’Hannah Arendt et à La route de la servitude de Friedrich August Hayek. Une société vouée à la servitude se transforme
inévitablement en mouroir de la beauté. Tel est le cas du totalitarisme qui «exclut la liberté par définition, par philosophie et en pratique ». Le problème de l’enlaidissement de l’humain par les socialismes est abordé sous l’angle de la fiscalité, du fait qu’elle concerne
directement la propriété et la liberté des individus. Il y a trois
conceptions d’intérêt général: «assurer l’ordre public» ; financer, par
le prélèvement de l’impôt, «les biens et services collectifs utiles à
tous»; «réduire les inégalités sociales par la redistribution des richesses». Mais, pour Nemo, la troisième est économiquement erronée parce que «comme on dépense un capital qui ne sera pas reconstitué [...], on appauvrit à terme toute la société». Aussi est-elle
moralement erronée parce qu’il s’agit d’un vol: «l’argent qu’on
prend sans contrepartie aux contribuables est un argent qui leur appartient, et qui n’appartient pas à ceux qui le leur prennent». La fiscalité socialiste enlaidit ontologiquement et moralement l’homme
qui, dès lors, s’aliène et se déresponsabilise par manque de liberté et
d’indépendance en proportion de la part des affaires qu’on lui a
confisquées (105-136).
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Dans la troisième partie, Nemo montre, à partir de la phénoménologie du voyage, que la vie humaine est un voyage et a besoin d’une société de liberté. Il y a dans le monde trois modèles de sociétés:
traditionaliste, socialiste et démocrate libéral. Le premier respecte
l’ordre naturel déjà établi, quitte à sacrifier la liberté et l’esprit d’innovation; le second organise l’ordre social, tout en redoutant qu’il
soit menacé par la liberté individuelle; le troisième considère l’ordre
social comme une réalité spontanée et la liberté comme une valeur
principielle. Mais, pour Nemo, seul le troisième modèle conduit à la
beauté morale. À la lumière des doctrines morales des vertus, il explique dans quelle mesure les vertus naturelles (justice, véracité, libéralité, esprit de paix, tolérance, prudence, tempérance, orientation
positive des activités) et les vertus théologales bénéficient ou pâtissent chacune à sa façon de l’environnement des relations humaines
propre à une société de liberté (137-167).
En conclusion, Nemo soutient que pour jouir de la beauté il est
nécessaire de vivre dans une société de liberté, c’est-à-dire une société «où il est possible de poursuivre les idéaux de l’esprit », ou une société qui «permet de mener des vies dotées de sens ». Mais pour être signifiante, il faut que la vie reçoive une forme extraordinaire, originale, en tant que «fruit de la liberté du sujet et de l’histoire singulière qu’elle a engendrée», qu’elle «ait laissé une empreinte dans le
monde extérieur» et qu’elle «repose [...] sur des réalisations qui seraient qualifiées telles selon des critères publics de succès appliqués
honnêtement et correctement sur la base de toute l’information pertinente nécessaire». Telles sont, selon Barry, les trois conditions nécessaires pour une vie dotée de sens. Mais Nemo se démarque de la
dernière et estime, en s’inspirant de la Bible, que pour qu’une vie soit
signifiante «il faut et il suffit que Dieu la juge telle». Néanmoins, il
pense qu’«une histoire individuelle n’a de chances de plaire à Dieu
que si elle a contribué à l’histoire collective autant que l’ont permis
les potentialités et les chances de chacun». Telle est d’ailleurs l’exigence des idéaux à rechercher pour l’humanité entière et l’amélioration de l’état du monde (171-177).
Avec cet ouvrage, Nemo a su démontrer que beauté et liberté restent indissociables et que l’épanouissement du beau, du vrai et du
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bien est conditionné par la liberté, valeur morale, intellectuelle, politique et économique. Convaincu qu’une société est moralement
plus ou moins belle ou laide selon le degré de liberté qui y règne, il
condamne les totalitarismes et socialismes, à cause justement de leur
manque de considération pour les libertés humaines. La réflexion
philosophique de Nemo a cet avantage de montrer que le dialogue
entre philosophie et théologie reste possible et que les textes bibliques peuvent être une source de pensée même pour un philosophe
en quête de la vérité et du sens de l’existence humaine.
ARISTIDE GNADA, C.SS.R.
GABRIEL WITASZEK, La famiglia. L’istituzione divina fondata sul matrimonio. Dono divino e risposta umana (Saggi per il nostro tempo
24), Lateran University Press e Editiones Academiae Alfonsianae,
Città del Vaticano 2013, 204 p.
Ancora un altro libro sulla famiglia! Una tematica attuale e complessa quanto l’uomo, mai esaurita e mai abbastanza investigata nei
suoi risvolti umani e teologici. Il volume del redentorista polacco,
prof. G. Witaszek, inserito nella collana “Saggi per il nostro tempo”,
ed edito dalla Laterna University Press e dalla”Editiones Accademiae Alfonsiane”, si presenta come un accurato studio biblico sulla famiglia
“istituzione divina fondata sul matrimonio”, affrontato con la competenza di un biblista e la pastoralità di un moralista: questo taglio,
volutamente rimarcato, è annunciato nel sottotitolo dell’opera: “dono divino e risposta umana”, cifre interpretative che lasciano trapelare l’impostazione metodologica di tutto il lavoro.
Lo studio è articolato in tre parti, consta di una breve prefazione;
una ricca premessa, nella quale vengono enunciati i criteri della trattazione, inserita come sviluppo originale in un contesto più ampio di studi su tale argomento; lo studio vero e proprio e una sintesi che riassume le questioni principali presentate, offrendo le conclusioni alle quali l’autore è pervenuto, compendiata nell’affermazione: “Cristo morto
e risorto diviene modello di riferimento di ogni amore sponsale”.
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Gli ampi riferimenti bibliografici, indice di un continuo e sistematico aggiornamento scientifico, presenti nell’apparato critico, appositamente inserito nel corso dello studio, ci offrono un panorama
esaustivo della ricerca dell’autore e una preziosa bibliografia, aggiornata, su un tema vasto, e, nello stesso tempo ci presentano l’obbiettivo che il volume si prefigge: essere, nello stesso tempo, una summa il
più possibile esaustiva, valida per l’approfondimento e la formazione,
biblica, teologica e morale, e un’agile strumento pastorale, di facile
consultazione e di immediata utilità, aspetto favorito anche dalle concertate dimensioni della pubblicazione. Tre le principali fonti di riferimenti alle quali p. Gabriele attinge per la compilazione del suo libro: la Sacra Scrittura, il Magistero, l’antropologia cristiana, nella
fattispecie quella filosofica e teologica, riletta in prospettiva morale.
I principali studi sull’argomento e gli insegnamenti ufficiali del magistero, sono costantemente richiamati e vengono menzionati e puntualmente citati. L’integrazioni delle fonti è bene armonizzata con le
riflessioni e le aperture che vengono introdotte dall’autore, preoccupato di fornire risposte chiare e ben fondate, alle questioni poste dal
lettore medio, che dimostra di conoscere.
Il fondamento biblico del lavoro permette di ripercorrere i momenti salienti della Rivelazione vetero e neo testamentaria sul tema
del matrimonio e della famiglia, che come un filo rosso attraversa
tutte le parti del testo sacro. Riletti alla luce delle categorie di alleanza, antica e nuova, nonché della categoria di creazione, posta come argomento fondativo, matrimonio e famiglia sono le categorie che Dio
stesso ha scelto per rivelare le dinamiche del suo amore: “la Bibbia
offre un quadro teologico della famiglia, come dono, costruita su un
rapporto di amore relazionale”, scrive l’autore nella prefazione.
Degno di rilievo sembra il tema della donna, inserito nell’ambito del
discorso sulla creazione. L’autore, alla luce dei documenti del magistero e con il supporto di una rigorosa esegesi biblica, si sofferma su
aspetti, non sempre messi in rilievo, del ruolo della donna nel matrimonio e nell’ambito della famiglia, che si rivelano nodali per la sensibilità odierna e in consonanza con gli orientamenti della Chiesa: la
donna viene vista come compimento e aiuto degno dell’uomo: questa può
essere una chiave di lettura indicativa della linea perseguita. Altro nu-
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cleo tematico su cui si fanno sostanziose puntualizzazioni è l’aspetto
relazionale del matrimonio, studiato e riproposto come integrante
della rivelazione biblica e della riflessione morale. Le categorie di alterità, comunione e alterità responsabile completano il quadro di riferimento entro il quale si snoda il pensiero dell’autore, preoccupato di
adottare un linguaggio che rimanendo fedele ai contenuti biblico –
teologici sia capace di veicolarli alla sensibilità contemporanea.
Soprattutto nella presentazione delle categorie sponsali nell’Antico Testamento, viene ribadita la dimensione educativa di queste: il testo sacro sa raccontare con espressioni davvero poetiche (l’Autore si
sofferma sul Cantico dei Cantici come campione di questo genere
letterario) il legame profondo tra l’amore degli sposi e l’amore di
Dio, categorie che si vogliono rendere intelligibili, per sottolinearne
l’attualità e ribadirne la possibilità di essere riproposte nella catechesi, con un linguaggio accessibile e vicino alla formulazione originaria
delle fonti. Nuovo e appropriato risulta essere quanto riscontrato
nella letteratura sapienziale: questa manifesta un maggiore interesse
per la santità morale del matrimonio, aspetto ricorrente nel magistero papale e nella teologia spirituale del sacramento.
Con il nuovo testamento l’istituzione del matrimonio assume una
dignità maggiore, che raggiunge il suo apice nella elevazione a sacramento, segno dell’unione di Cristo con la sua Chiesa. Questo modello diventa esemplare per gli sposi cristiani, ed è posto a fondamento
teologico del loro amore.
Tra le conclusioni ci sembra degno di menzione il riferimento ecclesiologico entro il quale viene sviluppato il tema del matrimonio
come sacramento, il quale “non è un affare privato, ma rientra nelle
dimensioni della comunità ecclesiale e deve servire alla crescita della
Chiesa, ne è un inizio nella misura in cui sa creare rapporti di amore
e di fede tra tutti i suoi membri. Per questo motivo, l’edificazione di
ogni singola famiglia cristiana si colloca nel contesto della più grande famiglia della Chiesa, che la sostiene e la porta con sé, ne garantisce il senso e il futuro, il sì del Creatore (dalla sintesi).”
Lontano da moralismi di routine e scevro il più possibile da luoghi comuni, il volume in questione intende sottolineare la bellezza e
la profondità di tutti gli aspetti umani e rivelativi del matrimonio,
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soffermandosi sulle risorse di tale istituzione divina e umana. L’autore con le sue contenute riflessioni si propone di recuperare la bellezza originaria di quel rapporto interpersonale unico, disegnato dal
Creatore, per realizzare la piena valorizzazione dell’uomo e della
donna, rappresentato e realizzato dal matrimonio. Soffermandosi a
rileggere alcuni passaggi si può scorgere l’ottimismo e la positività
con i quali viene presentato il matrimonio, possibilità di felicità e di
piena realizzazione umana per coloro che lo scelgono, come via di felicità e di santificazione.
Il testo, oltre alle argomentazioni accennate, offre lungo il suo
dispiegarsi, anche considerazioni di carattere liturgico e sacramentale
che consentono di fare pertinenti applicazioni pastorali su quanto esposto. Un indice degli autori posto nella parte finale del libro facilita la consultazione di singole parti.
VINCENZO LA MENDOLA, C.SS.R.
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Presentazione del libro
DI PIETRO MARIA LUISA e FAGGIONI MAURIZIO PIETRO
BIOETICA E INFANZIA
Dalla teoria alla prassi
EDB, Bologna 2014
Relazioni tenute in occasione della presentazione del libro
Accademia Alfonsiana, 16 ottobre 2014
PRINCIPI DI BIOETICA PEDIATRICA
Giovanni Del Missier*
Rilettura storico-evolutiva dello status quaestionis
«Lattanti, bambini e adolescenti non sono adulti in miniatura!» è
il claim chiaro ed efficace di una recente campagna d’informazione
sociale promossa dall’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA) tesa a sensibilizzare l’opinione pubblica sull’uso corretto dei farmaci con questa speciale categoria di pazienti1. Se con ciò si afferma la peculiarità
della medicina e della farmacologia in ambito pediatrico, altrettanto
* Professore invitato presso l’Accademia Alfonsiana di Roma
1
Cfr. AIFA, Campagna di comunicazione “Farmaci e pediatria” (anno 2014), in
http://www.agenziafarmaco.gov.it/it/content/campagna-di-comunicazione-aifafarmaci-e-pediatria-anno-2014 (consultato il 15 ottobre 2014). Per tutto ciò che
segue siamo ampiamente debitori dell’ottimo studio: CÚNEO M.M., Limitación
del esfuerzo terapéutico en Terapia Intensiva neonatal. El caso de los extremadamente
prematuros, LUP-Editiones Academiae Alfonsianae, Città del Vaticano 2012.
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si può dire quando si affrontano le questioni bioetiche dell’infanzia e
dell’adolescenza, con particolare riferimento ai principi che fondano
il discorso etico in questo campo. Anzi nell’ambito dei tradizionali
principi della bioetica – quelli sistematizzati da Tom L. Beauchamp e
James F. Childress2 – la prerogativa singolare delle questioni pediatriche riguarda proprio l’impossibilità di applicare il caposaldo di
ogni riflessione bioetica contemporanea: il principio di autonomia. E in
un contesto culturale nel quale la libertà individuale e la capacità di
autodeterminazione appaiono come valori assoluti, questa risulta essere un problema capitale e di difficile soluzione3!
Per definizione, infatti, i minori sono caratterizzati dall’incapacità
di fornire un consenso informato autentico, libero e valido, anche
quando con il maturare dell’età progressivamente si sviluppa la loro
capacità di intendere e di volere. Le stesse raccomandazioni internazionali che sottolineano l’importanza di coinvolgere i piccoli pazienti nella comunicazione e nelle scelte terapeutiche che si trovano a
subire4 – per quanto è realmente possibile in conformità al loro grado di maturazione intellettuale ed emotiva –, sembrano poter generare ulteriori complicazioni. È il caso dei “minori maturi” quando il
loro parere risultasse ragionevole, ma difforme da quello dei sanitari
e/o dei legali rappresentanti, chiamando in causa ulteriori “decisori”
come i comitati di etica, il giudice tutelare e il tribunale dei minori,
2
BEAUCHAMP T.L., CHILDRESS J.F., Principles of Biomedical Ethics, Oxford
University Press, New York 20096.
3 Forse, potrebbe essere questo il motivo dell’esiguo numero di pubblicazioni in questo campo. Nel panorama italiano, oltre al testo che qui viene presentato, fanno lodevole eccezione: LO GIUDICE M., LEONE S., Bioetica in pediatria,
Tecniche nuove, Milano 2012; ID., Maxima debetur puero reverentia. Una bioetica
per la promozione dell’infanzia, Istituto Siciliano di Bioetica, Acireale (CT) 2002;
RUSSO G. (ED.), Bioetica della sessualità, della vita nascente e pediatrica, Elle Di Ci,
Leumann (TO) 1999.
4 Cfr. COUNCIL OF EUROPE, Convention for the Protection of Human Rights and
Dignity of the Human Being with regard to the Application of Biology and Medicine:
Convention on Human Rights and Biomedicine (Oviedo, 4 aprile 1997), art. 6, in
http://conventions.coe.int/Treaty/en/Treaties/Html/164.htm (consultato il 15
ottobre 2014)
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proponendo la situazione paradossale di un ragazzo difeso in opposizione ai genitori e al personale curante, con tutti gli strascichi immaginabili del caso carichi di incongruenze, tensioni e conflitti5.
Messo in scacco il principio primo dell’autonomia, era prevedibile (e si è puntualmente verificato) il tentativo di bilanciamento con un
ricorso massiccio al principio di giustizia al fine di assicurare scelte imparziali e uguali per tutti, quanto più oggettive possibile ed evidence
based. Il ragionamento tuzioristico in linea generale risulta plausibile
e suona più o meno così: se il soggetto non può dire la sua opinione,
almeno che non siano altri (genitori o personale sanitario) a imporgli
arbitrariamente le proprie preferenze soggettive! Alcuni fatti eclatanti opportunamente amplificati dai media hanno fatto il resto, fino a
richiedere e a ottenere l’intervento del legislatore per prevenire ogni
possibile abuso.
È il caso delle Baby Doe Rules varate negli USA per diretto intervento dell’amministrazione Reagan sull’onda dell’indignazione provocata dalla vicenda di una neonata con sindrome di Down e affetta
da atresia dell’esofago, che avrebbe potuto essere corretta chirurgicamente, se i genitori non si fossero opposti all’esecuzione dell’intervento, suscitando il ricorso giudiziario dei medici curanti che non
condividevano la scelta di astenersi. Le corti dello Stato dell’Indiana
diedero ragione ai genitori, mentre la Corte Suprema respinse il ricorso; intanto la neonata morì, suscitando aspre reazioni da parte
dell’opinione pubblica. Le indicazioni normative emanate successivamente al caso erano tese a scongiurare il ripetersi di situazioni simili
affermando con risolutezza il principio di non discriminazione nei confronti dei disabili: gli interventi medico-chirurgici efficaci a trattare
un’invalidità fisica erano da ritenersi obbligatori se la controindicazione era rappresentata da un deficit dello sviluppo rientrante nell’ambito caratteristico di quella patologia; l’omissione di interventi
clinicamente controindicati poteva essere decisa tenendo conto delle
5
Cfr. DELLINGER A.M., KUSZLER P.C., Infants, Public Policy and Legal Issues,
in POST S.G. (ED.), Encyclopedia of Bioethics, MacMillan Reference USA, New
York 20043, 1257-1264.
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effettive condizioni del paziente, solo per ragioni analoghe a quelle
applicabili a qualunque altro soggetto normodotato6.
La virtù della giustizia, però, non coincide con l’uniformità, perché “la volontà perpetua e costante di dare a ciascuno il suo” suppone la prudente determinazione di ciò che qui e ora costituisce il
“suo”. Nella pratica pediatrica, ancor più che nel resto della medicina, infatti, ogni paziente è portatore di una originalità e unicità delle
quali occorre tener conto sia in fase di diagnosi, sia in fase di cura,
con dosi di incertezza prognostica più elevate che negli adulti, a motivo delle minori capacità collaborative e della più ristretta casistica
disponibile7. Ci si è ben presto resi conto che la rigidità delle procedure imposte per legge rischiavano di annullare il legittimo discernimento dei clinici, non permettevano una adeguata considerazione
della sofferenza del paziente, impedivano ai genitori di esercitare i
propri diritti e spesso esitavano in procedure futili, impedendo così la
corretta applicazione del principio di beneficialità e giungendo, talvolta, a contraddire il principio di non maleficenza8.
Proprio per porre rimedio a questi gravi inconvenienti e incarnare i suddetti principi nelle situazioni dei pazienti pediatrici si è venuto affermando il criterio del miglior interesse del bambino (MIB –
patient’s best interest), attualmente considerato dall’American Academy
of Pediatrics (AAP) standard decisionale almeno fino ai 9 anni di età e
dal Royal College of Pediatrics and Child Health criterio fondamentale
6
Cfr. JONSEN A.R., The Birth of Bioethics, Oxford University Press, New York
1998, 249-252. L’impostazione della normativa ricalca la riflessione proposta da
RAMSEY P., Ethics at the Edges of Life: Medical and Legal Intersections, Yale University Press, New Haven 1978.
7 Il ragionamento clinico ha sempre un margine di incertezza perché riguarda le cose future (incerte per definizione) e la condizione singolare dell’individuo che differisce dalla generalità delle asserzioni scientifiche. La particolare
condizione del paziente pediatrico tende ad amplificare ulteriormente tali condizioni di indeterminatezza. Cfr. FUMAGALLI A., La decisione medica. Incertezza
scientifica e certezza morale, in Rivista di Teologia Morale 45 (2013) 529-540.
8 Cfr. KOPELMAN L.M., Are the 21-year-old Baby Doe Rules Misunderstood or
Mistaken?, in Pediatrics 115 (2005) 797-802.
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per la medicina pediatrica. Ad un attento esame, esso appare come un
tentativo di applicazione analogica dei principi con la particolarità
principale di orientare il ragionamento etico nella prospettiva del
soggetto, mettendo il bambino sempre al centro, per evitare di anteporre al suo gli eventuali interessi familiari e sociali, importanti ma
non decisivi. Ciò richiede un alto grado di empatia e di immedesimazione con il piccolo, possibili solo in un contesto di discernimento congiunto tra famiglia ed équipe curante, con il rischio sempre incombente che le sensibilità soggettive possano influenzare pesantemente le scelte9. Infatti, non va dimenticato che i medici possiedono
un ricco bagaglio di conoscenze, ma solitamente tendono a sottostimare gli effetti futuri dei loro interventi, con il rischio di cadere nell’over-treatment; i familiari angosciati ed emotivamente turbati non
sempre sono in grado di valutare le reali condizioni cliniche del figlio, vivendo spesso gli eventi in un clima sospeso di derealizzazione.
Conforta però constatare che le ricerche sul campo confermano
sia il ruolo positivo dei genitori come rappresentanti naturali del
MIB, in quanto solitamente perseguono con retta intenzione il miglior bene possibile per il proprio figlio ammalato, disposti anche a
grandi sacrifici (spetta eventualmente al medico provare il contrario
laddove riscontri atteggiamenti di negligenza o di abbandono), sia la
generale avversità dei medici verso la desistenza terapeutica (la loro
formazione solitamente li orienta a impegnarsi nello sforzo terapeutico, optando nei casi dubbi per il mantenimento della vita – in dubio
pro vita). Ciò è particolarmente prezioso per i moralisti di scuola alfonsiana, in quanto mette in evidenza da un lato l’importanza della
reciprocità delle coscienze: infatti, per individuare il bonum faciendum
e per realizzarlo concretamente si richiede un prolungato e attento
confronto dialogico; dall’altro lato la necessità di coltivare una fiducia di fondo e di concedere un credito positivo nei confronti della coscienza onestamente impegnata nell’opera del discernimento morale,
confidando che la sincera ricerca del Bene è sempre sostenuta dal-
9
Cfr. DI PIETRO M.L., FAGGIONI M.P., Bioetica e infanzia. Dalla teoria alla
prassi, EDB, Bologna 2014, 147-148.
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l’assistenza dello Spirito Santo, anche laddove non ci sia un riconoscimento esplicito di Dio10.
I nostri autori, tuttavia, pur riconoscendo al criterio del MIB la capacità di facilitare l’analisi di casi individuali, di richiamare il personale curante al proprio ruolo di garante del bene del piccolo paziente e di focalizzare su di lui l’attenzione etica, lamentano rilevanti carenze: semplicismo riduzionistico, meccanicismo pragmatico-utilitarista, incertezza e difficoltà applicativa. Essi giungono sino a dubitare della sua reale utilità e complessiva validità, auspicando un suo deciso superamento. Invitano così i lettori a ricercare modalità alternative per condurre la riflessione in pediatria11.
Nel prosieguo dell’intervento, pertanto, raccolgo questo suggerimento, procedendo nella direzione indicata, e cerco di rispondere a
due interrogativi: perché il criterio del MIB risulta così insoddisfacente? E come orientarsi nel tentativo di migliorarlo?
Osservazioni e prospettive
La tesi che propongo è che l’articolazione dei principi classici della bioetica è segnata in radice da rilevanti carenze di tipo materiale e
formale, e che queste sono all’origine dei problemi rilevati anche nell’uso del criterio del MIB. Esso rappresenta il tentativo più compiuto di applicare il paradigma principialista in ambito pediatrico, come
ho cerato di mostrare prima. Sinteticamente si deve affermare che:
a) sul versante materiale, i principi classici (autonomia, non maleficenza, beneficialità e giustizia) non sono gli unici che possono essere impiegati in bioetica e, anzi, possono essere integrati da altri per un maggior profitto nella riflessione;
b) sul versante formale il livello deontologico dei principi è assolutamente necessario, ma non è sufficiente per giungere a una
compiuta elaborazione etico-normativa, e pertanto deve essere
integrato “a monte” da un sistema di riferimento (b1), e “a valle” da strumenti applicativi di carattere teleologico (b2).
10
11
Cfr. Lumen gentium, n. 16; Gaudium et spes, n. 36.
Cfr. DI PIETRO M.L., FAGGIONI M.P., Bioetica e infanzia..., 61-66.
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Sul piano storico è noto che i principi della bioetica nordamericana vengono enunciati per la prima volta nel Belmont Report nel quale
si riferiscono al problema circoscritto della sperimentazione con soggetti umani12, e solo successivamente sono stati assunti come paradigma complessivo della bioetica, estendendoli a tutti gli altri campi
nei quali si realizza l’intervento tecnologico sulla vita umana. Ritengo che questo passaggio sia altamente problematico perché essi non
sono sufficienti a inquadrare tutta la varietà delle problematiche
bioetiche, che eccedono ampiamente quella di origine, mentre possono essere utilmente integrati da altri valori condivisi assunti come
riferimenti normativi generali (a).
È questo il caso della Dichiarazione di Barcellona (1998)13 nella quale all’autonomia vengono affiancati i principi di dignità, integrità e vulnerabilità, secondo una prospettiva differente, ma complementare a
quella nordamericana, ritenuta a ragione eccessivamente individualista. La cultura e il contesto sociale europeo, infatti, sono maggiormente propensi a concepire la persona e la sua libertà come naturalmente collocate all’interno di una fitta rete di relazioni umane che
devono essere improntate alla cura per gli altri, alla solidarietà e alla
responsabilità reciproca.
La vulnerabilità è il vero elemento di novità dell’apporto continentale alla bioetica: sulla sua importanza si è concentrato un accordo unanime e ha assunto una certa priorità rispetto agli altri principi. Essa
sottolinea la finitudine della condizione umana, continuamente esposta a fattori interni ed esterni che la minacciano e la rendono fragile sul
piano ontologico, somatico, psicologico, sociale, culturale, spirituale...
proprio per questo si fa appello ad altri per ricevere protezione e pre-
12
THE NATIONAL COMMISSION FOR THE PROTECTION OF HUMAN SUBJECTS
BIOMEDICAL AND BEHAVIORAL RESEARCH, Ethical Principles and Guidelines for
the Protection of Human Subjects of Research (18 aprile 1979), in http://www.hhs.
gov/ohrp/humansubjects/guidance/belmont.html (consultato il 13 ottobre
2014).
13 Cfr. RENDTORFF J.D., KEMP P., Basic Ethical Principles in European Bioethics
and Biolaw, 2 voll., Centre for Ethics and Law – Institut Borja de Bioètica, Copenhagen – Barcelona 2000.
OF
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sa in carico, comprensione ed empatia14. Inoltre, permette di considerare anche la condizione dei caregivers che, facendosi carico delle fragilità altrui, risultano a loro volta esposti a condizioni di vulnerabilità e
perciò richiedono particolari attenzioni e protezioni sociali15.
Possono così venir denunciati i limiti di una bioetica potenzialmente escludente e troppo facilmente incline a sottomettersi alla
«cultura dello scarto»16, a motivo dell’enfatizzazione unilaterale dell’autonomia del soggetto agente, sottovalutando invece il valore dell’intersoggettività17. Ciò conduce a un profondo ripensamento di
quella diffusa concezione dell’individuo umano come completamente
indipendente e pienamente cooperativo sulla base esclusiva di accordi
strategici, per i quali i limiti e le disabilità sono pensate come “casi eccezionali e fuori dalla media”. Al contrario, il principio di vulnerabilità
aiuta ad assumere una prospettiva che pensa fin da subito l’essere
umano come prezioso proprio perché esposto alla possibilità di essere ferito (vulnerari), e perciò degno di protezione all’interno di relazioni non-cooperative e asimmetriche, cioè estranee a logiche meramente contrattuali e utilitaristiche. Insomma: un pressante invito a riconsiderare con realismo la condizione umana come essenzialmente
connotata dall’interdipendenza, superando l’illusione dell’autosufficienza e del ricorso alla tecnologia come risposta totalizzante per ogni
problema esistenziale18. E questo mi sembra particolarmente importante in ambito pediatrico!
14
Cfr. TORRALBA ROSELLÓ F., La cura di sé. Prospettiva etica, in SANDRIN L.,
CALDUCH-BENAGES N., TORRALBA ROSELLÓ F., Aver cura di sé. Per aiutare senza burnout, EDB, Bologna 2009, 61-80.
15 Cfr. KITTAY E.F., La cura dell’amore. Donne, uguaglianza, dipendenza, Vita e
Pensiero, Milano 2010.
16 Evangelii gaudium, n. 53.
17 Cfr. REICH W.T., Vulnerabilità, in RUSSO G. (ED.), Enciclopedia di bioetica e
sessuologia, Elle Di Ci, Leumann (TO) 2004, 1817-1823.
18 «L’uomo è un essere finito, limitato e dipendente, e in questa sua finitudine e limitatezza egli dipende da altri uomini, quindi anche dalla condivisione, e
non tutti i problemi della condivisione esistenti tra gli uomini possono essere risolti dalla grande avanzata del progresso tecnico» MIETH D., Cosa vogliamo potere? Etica nell’epoca della biotecnica, Queriniana, Brescia 2003, 535.
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Veniamo ora alle questioni formali (b). Tutti i principi della bioetica, anche quelli che si possono aggiungere alla sistematizzazione
“classica”, proprio a motivo del loro carattere generale, se lasciati a
se stessi mantengono un ampio margine di equivocità tanto nella determinazione del contenuto, quanto nella possibilità di articolare tra
loro un ordine di priorità. Necessitano, pertanto, di un sistema architettonico che ne regoli il funzionamento e sia in grado di comporre gli eventuali conflitti che possono insorgere tra di essi almeno
in fase di applicazione concreta (b1). Un simile riferimento si colloca a un livello che Diego Gracia definisce «protomorale», ovvero ontologico e formale, come struttura portante dell’agire e dell’elaborazione dei giudizi morali; come fondamento ultimo di ogni obbligazione perché lega l’essere umano alla dimensione più profonda della
sua stessa realtà, percepita come Bene promettente, ricco di possibilità delle quali è indispensabile appropriarsi in vista della propria realizzazione, perfezione e felicità19.
Esso coincide con l’essere umano vivente stesso; la persona non intesa in termini funzionalistici attualistici, ma sostanziali; il soggetto
morale sempre in relazione con altri soggetti a lui simili e – nella visione cristiana – in relazione costitutiva con Dio, creato e redento in
Cristo, vivificato dalla Spirito Santo. Una simile cornice antropologica deontica (cioè normativa in senso forte) risulta imprescindibile se si
vuole giungere a una determinazione sostantiva dei principi e a un loro efficace impiego20. In ultima analisi, essi si reggono e si comprendono solo a partire dal presupposto che l’essere umano esprime una
differenza ontologica rispetto a ogni altro essere vivente e che ogni
singolo individuo è portatore di un’eccellenza assiologica intrinseca,
precedente a ogni possibile attribuzione esterna di valore, magari basata su qualità accidentali. Solo nell’orizzonte di un’antropologia non
riduzionista centrata sulla persona sarà possibile rendere effettivo il ri-
19
Cfr. GRACIA D., Fondamenti di bioetica. Sviluppo storico e metodo, San Paolo,
Cinisello Balsamo (MI) 1993, 571-585.
20 Cfr. VIDAL M., La proposta morale di Giovanni Paolo II. Commento teologicomorale all’enciclica Veritatis Splendor, Bologna 1994, 114.
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spetto che esige ogni essere umano, assicurando una protezione egualitaria a tutti gli individui basata sul riconoscimento che nessuna circostanza può ridurre la dignità umana e che non esiste paziente la cui
esistenza non debba essere accolta, rispettata e protetta. In modo
troppo semplicistico, questa prospettiva viene solitamente chiamata
della “sacralità della vita”21, ma per liberarla da ogni possibile equivoco biologista e confessionale, andrebbe forse meglio identificata con
l’intangibilità e il rispetto incondizionato dell’essere umano vivente
concreto, del quale la vita è certamente un bene fondamentale da tutelare, ma non assoluto ed esclusivo; un valore ultimo estremamente
prezioso, un bene speciale non disponibile al modo di tutti gli altri beni umani, ma non un bene supremo, tale cioè da dover essere conservato a tutti i costi e in ogni circostanza22.
Definita così sinteticamente la cornice di riferimento dei principi,
occorre ancora riflettere su ciò che sta “a valle” degli stessi (b2), ovvero la necessità di metterli a confronto con la realtà e l’esperienza
concreta, che è la sostanza della vita morale! È con ciò che l’etica si
configura come sapere pratico (concreto, temporale e probabile) e
non semplicemente teorico (ideale, atemporale e necessario). Essa
tratta delle azioni umane che sono contingenti e «più si scende a deduzioni particolari, più si incontrano eccezioni»23: pertanto non deve meravigliare che nel giudizio particolare si dia una molteplicità di
soluzioni possibili.
Proprio a questo livello la bioetica deve assumere il coraggio di
passare dalla teoria alla prassi – come suggerisce il sottotitolo del libro –, consapevole che questa operazione non è una semplice applicazione deduttiva dei principi more geometrico, ma un’opera di discer-
21
Cfr. REQUENA P., La sacralità della vita. Serve ancora per la bioetica?, Rubbettino, Soveria Mannelli (CZ) 2013.
22 Cfr. Donum vitae, Introduzione, n. 4; PIO XII, discurso Sobre tres cuestiones
de moral médica relacionadas con la reanimación (24 de noviembre de 1957), in
http://www.vatican.va/holy_father/pius_xii/speeches/1957/documents/hf_pxii_spe_19571124_rianimazione_sp.html (consultato il 15 ottobre 2014);
23 TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologiae, I-II, q. 94, a. 4, resp. Cfr. anche
ARISTOTELE, Etica Nicomachea, VI, 5, Laterza, Roma-Bari 20033, 231-233.
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nimento sapienziale tesa a inverare il piano astratto e deontologico
nel vissuto concreto.
A tal fine si devono valutare adeguatamente le circostanze che
possono modificare la qualità morale di un’azione24; si devono prendere in considerazione le conseguenze per farsi carico responsabilmente anche degli esiti a lungo termine; si devono porre legittimi
giudizi di qualità e di proporzione intorno alle tecniche da impiegare (costi/benefici), ai risultati ragionevolmente prevedibili (rischi/benefici), allo stato dell’arte medica (utile/futile), alle opinioni di chi è
investito della responsabilità della scelta, normalmente i genitori25,
sostenuti dall’équipe curante (ordinario/straordinario).
Sebbene difficile e non privo di rischi, introdurre simili valutazioni a questo punto del ragionamento morale è del tutto legittimo e,
anzi, necessario, senza per ciò scivolare nel consequenzialismo relativista o nell’etica della situazione, a meno di non invadere surrettiziamente il piano deontologico, ovvero utilizzando qualità e proporzione in modo escludente come giudizi di valore sul soggetto o come indici di umanità. In tal modo, però, si produrrebbe una grave rottura
concettuale nel quadro generale delineato in precedenza. La tradizione cattolica, almeno negli ultimi cinque secoli, ha costantemente
impiegato considerazioni di tipo teleologico per valutare l’adeguatezza morale degli interventi terapeutici sui pazienti e per definire il
loro grado di obbligatorietà26, accettando che in determinate situazioni anche alcuni interventi salvavita possano essere omessi senza
colpa e generare per casi analoghi legittimi comportamenti diffor-
24
Cfr. TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologiae, I-II, q. 18, a. 3.
Cfr. Catechismus Catholicae Ecclesiae, n. 2278.
26 Cfr. CALIPARI M., Curarsi e farsi curare: tra abbandono del paziente e accanimento terapeutico. Etica dell’uso dei mezzi terapeutici e di sostegno vitale, San Paolo,
Cinisello Balsamo (MI) 2006. Anche i principi tradizionali del duplice effetto, di
totalità e di cooperazione possono essere intesi come strumenti euristici, metodi di indagine logica destinati a guidare la conoscenza in situazioni intricate per
giungere alla certezza sufficiente per poter agire, rimanendo fedeli alla norma
(senza disautorarla), ma risultando contemporaneamente creativi rispetto alla situazione, cioè cogliendone e rispettandone l’unicità.
25
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mi27. A meno di queste valutazioni si corre il rischio di cadere nel vitalismo o nel tecnicismo senza limiti, entrambi ritenuti irragionevoli
dal Magistero recente28. Pertanto, gli esperti di bioetica non possono
limitarsi a un’anodina esposizione di principi generali, ma come nel
passato, anche oggi, devono impegnarsi in una ricerca più approfondita e finalizzata alla concretezza della vita, giungendo a proporre criteri affidabili per l’identificazione delle condotte cliniche certamente
obbligatorie e di quelle facoltative, mettendo all’opera la facoltà conoscitiva che è loro propria: la gnome. Essa è la capacità di discernere
correttamente il bene nelle situazioni inedite o difficili, per le quali si
richiede una più elevata capacità di giudizio e una perspicacia particolare, che permette di orientarsi in modo prudente anche nei casi di
frontiera, ovvero quelli non contemplati dalle norme comuni29.
È quanto i nostri Autori hanno cercato di fare a partire dalla loro
duplice competenza medica ed etica, offrendoci un’ampia rassegna di
casi paradigmatici a sostegno di un discernimento morale in situazione30. Sono certo che il loro volume aiuterà i professionisti a orien-
27
Cfr. GRACIA D., Limitación del esfuerzo terapéutico: lo que nos enseña la historia, in DE LA TORRE J. (Ed.), La limitación del esfuerzo terapéutico, Comillas, Madrid 2006, 49-72.
28 Cfr. CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, dichiarazione Iura
et bona (5 maggio 1980) sull’eutanasia, in Enchiridion Vaticanum, vol. 7, EDB,
Bologna 1982, nn. 367-371; PONTIFICIO CONSIGLIO COR UNUM, documento
Dans la cadre (27 giugno 1981) su alcune questioni etiche relative ai malati gravi e ai morenti, n. 2.4.3, ivi, nn. 1250-1251.
29 «Unde et in speculativis una est dialectica inquisitiva de omnibus, scientiae autem demonstrativae, quae sunt iudicativae, sunt diversae de diversis. Distinguuntur
autem synesis et gnome secundum diversas regulas quibus iudicatur, nam synesis est iudicativa de agendis secundum communem legem; gnome autem secundum ipsam rationem naturalem, in his in quibus deficit lex communis; sicut plenius infra patebit» Summa Theologiae, I-II, q. 57, a. 6, ad 3um. Cfr. anche II-II, q. 48, a. 1, ad 3um; q. 51,
a. 4, ad 3um.
30 Oltre alle condotte paradigmatiche, si utilizzano criteri valutativi, tra i
quali in pediatria risulta essere molto usato quello del “potenziale relazionale”,
in origine formulato da: MCCORMICK R.A., How Brave a New World? Dilemmas
in Bioethics, Georgetown University Press, Washington 1981, 339-361; 393-411.
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tarsi meglio nel campo affascinante della bioetica dell’infanzia, ma
stimolerà soprattutto noi teologi moralisti a sviluppare ancora più in
profondità il nostro studio perché in ogni situazione, anche intricata
e drammatica, sia possibile riconoscere e scegliere il Bene. Così avremo contribuito a far progredire verso la pienezza la comune umanità di tutti gli attori coinvolti: prima di tutto la fragile umanità dei piccoli pazienti, ma anche quella dei genitori e del personale curante.
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PRUDENZA MEDICA E CASISTICA
Alcune considerazioni a proposito del libro
“Bioetica e infanzia. Dalla teoria alla prassi”
Pablo Requena Meana*
È stato da poco pubblicato un testo a cura dei professori Di Pietro e Faggioni su questioni bioetiche relative all’infanzia1. Si tratta di
uno scritto notevole almeno per due ragioni: l’audacia degli autori
nella scelta dei temi e la modalità di presentazione. Da tempo, in
bioetica, sono divenuti classici alcuni temi che riguardano in modo
particolare i “piccoli” pazienti. Paradigmatici sono il caso delle trasfusioni di sangue a figli di testimoni di Geova, il modo di trattare il
neonato anencefalico o le complicate questioni che pone alla medicina e all’etica la gestione dei grandi prematuri. Temi certamente difficili da trattare per la grande quantità di aspetti, circostanze e angolature diverse che rendono impossibile in molti casi l’applicazione di
una semplice regola morale. Oltre a questi temi specifici, Di Pietro e
Faggioni si soffermano anche su altri aspetti tra cui la donazione di
midollo osseo da un minorenne, la sordità profonda e l’impianto cocleare, la chirurgia estetica nei bambini con la Sindrome di Down, la
tracheostomia per i pazienti con atrofia musculo-spinale (SMA), la
crioconservazione di tessuto ovarico e testicolare, l’uso del placebo in
età pediatrica o il trapianto di vescica2. In alcuni casi la bibliografia di
riferimento è abbondantissima, mentre in altri è quasi inesistente.
Questo ha obbligato gli autori a un lavoro di sintesi ed equilibrio che
hanno saputo portare a termine con grande perizia.
* Professore associato di Teologia Morale e Bioetica presso la Pontificia Università della Santa Croce di Roma
1
M. L. DI PIETRO; M. P. FAGGIONI, Bioetica e infanzia. Dalla teoria alla prassi, EDB, Bologna 2014.
2 Sono 23 i temi trattati, distribuiti in sette parti: 1) Il miglior interesse del
bambino; 2) Le patologie malformative; 3) Qualità della vita e diritto alle cure;
4) Sessualità e fertilità; 5) La patologia psichiatrica; 6) Terapie sperimentali e
sperimentazione clinica; 7) La medicina preventiva.
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Ma non è tanto il contenuto del libro ciò che più ci sorprende e
ammira, quanto il modo in cui i temi vengono trattati, giacché seguono una metodologia vicina a quella dei vecchi trattati di casistica,
che ha caratterizzato per più di un secolo la Teologia Morale, e che
poi sono stati abbandonati quasi totalmente per non aver saputo superare un momento di crisi. Infatti, nel libro “Bioetica e infanzia”
ogni tema è presentato a partire da un caso reale, alla cui descrizione
segue una sintesi delle questioni cliniche necessarie per comprenderne la problematicità etica, per poi passare alla loro analisi (e, quando
opportuno, vengono affrontate anche da un punto di vista giuridico),
concludendo con alcune indicazioni operative.
Il testo di Di Pietro e Faggioni ci offre l’occasione di tornare a
parlare del metodo casistico in morale, e anche di uno degli elementi chiave della buona casistica, che è la virtù della prudenza. In queste pagine vorrei offrire qualche spunto che possa servire alla riabilitazione del metodo casistico per la bioetica. La tesi fondamentale è
che questo metodo possa essere valido e di grande aiuto a condizione che sia supportato da un concetto forte di prudenza; da una prudenza che poggi sulle virtù morali del soggetto, e che pertanto sia
collegata con il desiderio di ricercare il bene in ogni situazione.
La casistica in Teologia Morale e in Bioetica
Oggigiorno è abituale usare il termine “casistica” in senso negativo per indicare un modo complicato e spesso confuso, se non arbitrario, di affrontare certe questioni morali. Si invita a non “fare casistica”, a non “cadere nella casistica”, a non “tornare alla vecchia casistica”. Il senso dell’indicazione è chiaro e, nella maggioranza dei casi, il consiglio è adeguato. Il problema è che qui si usa il termine “casistica” per indicare un tipo particolare di casistica, una casistica degenerata, che si era messa al servizio di una morale lassista che attraverso questo metodo arrivava a giustificare alcuni comportamenti
chiaramente immorali3. Ma non tutta la casistica appartiene a questo
3
In quella che viene considerata la critica più radicale e ironica alla casistica,
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genere. Non tutta la casistica ha seguito la scorciatoia della facile giustificazione morale di certi comportamenti. Inoltre, bisogna riconoscere che dopo la metà del XVII secolo, in cui finisce l’epoca d’oro di
questo sistema morale, la teologia ha continuato ad usare senza farne
menzione la metodologia casistica sia per insegnare morale che per
tentar di risolvere nuovi casi per i quali non c’era una indicazione
normativa chiara.
Un testo di riferimento su questo tema è sicuramente il libro di
Jonsen e Toulmin, «The abuse of casuistry», in cui – seguendo parole di Kenneth Kirk – si spiega che “l’abuso” non si riferisce a tutta la
casistica, ma a una parte di essa4. La tesi del libro è che la casistica
“storicamente suppone un cammino completo per pensare ai problemi morali, e che la sua cattiva fama procede dall’abuso del suo metodo”5. In tempi recenti l’uso dei casi è riemerso in modo particolare in
due settori dell’etica: le questioni morali relative all’economia e l’ambito della bioetica.
Su questo ultimo aspetto il testo di riferimento è proprio quello
che Jonsen scrisse assieme a Siegler e Winslade nel 1982, giunto or-
quella di B. Pascal ne “Le Provinciali” (1656), tra molti altri casi si menziona
quello dell’uso della legittima difesa (e di uccidere una persona) per evitare uno
schiaffo o una bastonata. Pascal qui fa riferimento all’argomentazione offerta da
Juan Azor, che considera questa tesi probabile. Secondo quest’ultimo l’onore è
più importante delle ricchezze: se la conservazione di queste può giustificare la
legittima difesa, più probabilmente lo può fare la difesa del proprio onore (cfr. B.
PASCAL, Le Provinciali, Enaudi, Torino 2008, 155).
4 A. R. JONSEN; S. E. TOULMIN, The abuse of casuistry: a history of moral reasoning, University of California Press, Berkeley; Los Angeles; London 1988. La
frase di Kirk è contenuta nel suo testo pubblicato per la prima volta nel 1927:
K. E. KIRK, Conscience and its problems: an introduction to casuistry, Westminster
John Knox Press, Louisville 1999.
5 A. R. JONSEN, The abuse of casuistry, 239. Non tutti concordano con la presentazione offerta da questi autori, ma è sicuramente il testo più citato nella bibliografia recente sull’argomento. Tolminson, ad esempio, parla di “reinterpretazione ironica” della casistica tradizionale: cfr. T. TOLMINSON, «Casuistry in
medical ethics: rehabilitated, or repeat offender?», in Theor Med 15/1 (1994),
5-20.
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mai alla settima edizione: «Clinical ethics»6. Questo libro si propone
come un’alternativa alla bioetica dei principi di Beauchamp e Childress, assunta a modello canonico della bioetica clinica7. I due modelli, che in un certo senso possono considerarsi complementari, offrono elementi utili per l’analisi e la risoluzione delle questioni etiche
che emergono in ambito clinico, ma anche dei punti problematici in
rapporto al contenuto dei principi e dei casi paradigmatici, e della
fondazione dei modelli8.
Soffermiamoci ora sul modello casistico offerto da Jonsen per la
bioetica. Ci serviamo di un articolo pubblicato nel 1991: «Casuistry
as methodology in clinical ethics»9. In questo scritto offre una presentazione teorica sintetica del modello che viene impiegato in «Clinical ethics», le cui radici concettuali possono trovarsi nel già men-
6
A. JONSEN; M. SIEGLER; W. WINSLADE, Clinical ethics: a practical approach to
ethical decisions in clinical medicine, 7th edition, McGraw-Hill Medical, New York
2010. Altre proposte che seguono l’uso dei casi per l’etica medica possono
trovarsi in: B. A. BRODY, Life and death decision making, Oxford University Press,
New York 1988; C. STRONG, Justification in ethics, in B. A. BRODY (ed.), Moral
theory and moral judgments in medical ethics, Kluwer Academic, Dorderecht 1988,
193-211. Un breve riassunto di queste proposte viene offerto da M. G.
KUCZEWSKI, Casuistry, in R. CHADWICK (ed.), Encyclopedia of Applied Ethics, Academic Press, San Diego 1988, vol. I, 423-432.
7 T. L. BEAUCHAMP; J. F. CHILDRESS, Principles of biomedical ethics, 7th edition,
Oxford University Press, New York 2013. Dall’apparizione di questo testo ci sono state voci critiche sul metodo e la sua validità operativa: D. CLOUSER; B.
GERT, «A critique of principlism», in J Med Philos 15/2 (1990), 219-36. Edizione dopo edizione gli autori hanno tentato di affrontare e superare i limiti che
venivano segnalati alla loro proposta, in un modo che non ha convinto tutti. In
ogni caso, la proposta bioetica fondata su questi quattro principi è prevalente
non soltanto nell’ambito anglossassone dove è nata, ma anche in altri contesti:
cfr. il voluminoso testo R. GILLON, Principles of health care ethics, John Wiley &
Sons, Chichester 1994.
8 Per una presentazione critica sia del principialismo che della casistica applicata all’ambito bioetico mi permetto di rimandare alla monografia P. REQUENA MEANA, Modelos de bioética clínica: presentacion critica del principialismo y la casuistica, EDUSC, Roma 2005 (www.eticaepolitica.net/bioetica/TesRequena.pdf).
9 Theor Med 12/4 (1991), 295-307.
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zionato «The abuse of casuistry». Jonsen afferma che “i casi sono la
moneta dell’etica medica”, per presentare poi le tre categorie attorno alle quali gira l’analisi morale: la morfologia, la tassonomia e la cinetica; termini che prende rispettivamente dalla biologia, dalla retorica e dalla fisica.
La morfologia corrisponde alla presentazione dettagliata del caso,
che include tutte quelle caratteristiche che in qualche modo lo configurano e lo differenziano da altri casi. La morfologia viene costituita da due elementi propri della casistica classica: le circostanze e le
massime, che ci offrono rispettivamente l’informazione necessaria sul
caso in studio e gli elementi di moralità rilevanti. Anche se Jonsen
non offre una definizione di circostanza, non è difficile capire in quale senso usa il termine. Lo stesso autore menziona di frequente Aristotele e Cicerone quando parla di questa categoria. Il concetto non
è ridotto al suo senso etimologico (“quello che si trova attorno”) perché, come lui stesso scrive, le circostanze “sono importanti quanto i
principi per l’analisi morale”10. Tutti gli elementi di moralità di un
caso sarebbero in rapporto a una o a un’altra circostanza. Le massime invece sono quelle sentenze morali generali che offrono le basi
per la valutazione morale dell’azione in un contesto o caso determinato. Nella casistica classica queste massime corrispondono ai comandamenti del Decalogo o a detti morali universalmente accettati.
Jonsen preferisce parlare di massime e non di principi, perché nel caso concreto devono prendere la forma di una norma specifica modellata sulle caratteristiche della situazione particolare.
La morfologia però non si esaurisce con queste indicazioni giacché, assieme a quella struttura morale delineata da circostanze e massime, troviamo ciò che Jonsen denomina la “substruttura” costituita
dalle sfaccettature o topici, propri di ogni ambito morale particolare11.
10
A. JONSEN, «Morally appreciated circumstances: a theoretical problem for
casuistry», in L. W. SUMNER, e J. BOYLE, (eds.), Philosophical perspectives on
bioethics, University of Toronto Press, Toronto 1996, 41.
11 Dal greco (“tópoi”): la parola inglese che usa è topics. «These [topics] are
the forms of argument suited to persuasive discourse either in general or in a
particular enterprise. Persuasive discourse in general will always use arguments
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Per quello relativo all’etica clinica, ne menziona quattro (che hanno
un grande parallelismo con i quattro principi della bioetica di Beauchamp e Childress): le indicazioni mediche, le preferenze del paziente, la qualità di vita e i fattori socio-econonomici. Attorno a questi
quattro topici viene costruita la proposta del libro «Clinical ethics», i
cui quattro capitoli corrispondono appunto alla presentazione di questi elementi morali.
Dopo lo studio della morfologia si passa alla seconda fase dell’analisi morale: la tassonomia dei casi12. Essa consiste nell’identificazione di altri casi simili a quello in studio, ordinati a seconda della
certezza della loro valutazione morale: in primo luogo compaiono
quelli che hanno un giudizio morale chiaramente negativo (o positivo), e poi di seguito gli altri in cui c’è un dubbio maggiore. I casi che
occupano i primi posti vengono denominati “paradigmi” e la loro valutazione risulta evidente per la gran maggioranza delle persone. La
costruzione della tassonomia implica l’uso dell’analogia, un altro elemento importante della casistica classica, che permette di comparare
i casi in rapporto alla loro caratterizzazione etica. Da questo confronto non deriva una conclusione precisa, come quella propria delle scienze esatte, ma una approssimazione.
Il terzo momento è quello della cinetica. Per spiegare il concetto
Jonsen usa l’esempio della palla da biliardo che ne colpisce un’altra
ferma sul tappeto e la fa muovere. La cinetica indica la distanza tra la
valutazione morale del caso paradigmatico e quella del nuovo caso in
studio: distanza dovuta alla diversità di circostanze tra l’uno e l’altro.
Questo momento vuole segnalare che, anche se le massime sono valide come guida di buona condotta, sono le circostanze quelle che
configurano le condizioni reali della vita su cui deve poggiare il giu-
of a certain sort, invariant in themselves, regardless of what the circumstances
are»: A. R. JONSEN, «Casuistry: an alternative or complement to principles?»,
in Kennedy Inst Ethics J 5 (1995), 242.
12 Il termine procede dal greco (“taxis”), che indicava l’ordine in cui i soldati erano distribuiti per il combatimento: i più forti occupavano i primi posti,
mentre i deboli rimanevano indietro: cfr. A. R. JONSEN, «Casuistry as methodology», 301.
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dizio etico. Questa valutazione è opera della prudenza, intesa in senso aristotelico (come phronesis). Non è quindi un’operazione automatica, non si tratta semplicemente di applicare delle regoli morali al
caso concreto, come se fosse un esercizio di calcolo numerico. Non è
tanto un processo deduttivo dai principi, quanto ciò che viene chiamato esperienza riflessiva. In fondo, per Jonsen si tratta di misurare
il peso morale che hanno le diverse circostanze nel caso concreto. È
qualcosa di simile alla “metafora del peso” del principialismo, ma in
questo caso quello che si pondera non sono i principi ma le circostanze13. La prudenza sarebbe anche deputata a scoprire valide eccezioni alla norma morale secondo le circostanze del caso.
La prudenza (medica) in bioetica
Attraverso l’opera di Jonsen siamo giunti all’importanza della prudenza per la casistica classica e per l’approccio casistico che oggi si offre in bioetica. Ci sono altri autori che senza utilizzare il metodo casistico sottolineano lo stesso il ruolo importante della prudenza per
la bioetica. Tra questi spicca sicuramente Edmund E. Pellegrino che,
assieme a David C. Thomasma, propone un’etica della virtù per
l’ambito medico14. In un articolo-intervista del 2010, Pellegrino sosteneva che la medicina avrà sempre bisogno della prudenza (della
phronesis aristotelica), perché sempre dovrà confrontarsi con situazioni di incertezza nella valutazione delle diverse situazioni15.
13
La “metafora del peso” viene usata da Beauchamp e Childress assieme alla specificazione dei principi, per la risoluzione dei conflitti che compaiono tra
essi nella soluzione dei casi. Per una presentazione critica di queste categorie: P.
REQUENA MEANA, Modelos de bioética clínica, 157-166.
14 E. D. PELLEGRINO; D. C. THOMASMA, The virtues in medical practice, Oxford University Press, New York 1993; E. D. PELLEGRINO; D. G. MILLER; D.
C. THOMASMA, The Christian virtues in medical practice, Georgetown University
Press, Washington (DC) 1996.
15 “We come back to fact of the virtues, and ultimately to prudence, or to use
the terminology of Aristotle – phronesis. We cannot get away from prudence, unless we somehow and someday get to the point of being able to predict every as-
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Tuttavia, a mio avviso, non ci sono ancora proposte bioetiche incentrate sulla prudenza. Per una scelta di questo tipo molti sarebbero i temi da approfondire. Nell’ultima parte di questo scritto vorrei ricordarne due, uno teorico e un altro pratico. Il primo è la caratterizzazione della prudenza in quanto virtù, l’altro è il suo ruolo
particolare nell’aiutare a prendere buone decisioni in rapporto all’inizio e/o alla sospensione delle terapie. La prima questione si potrebbe enunciare così: la descrizione che fa Jonsen della prudenza
corrisponde veramente alla phronesis aristotelica? La seconda in
questo modo: quale rapporto c’è tra la prudenza e le distinzioni tradizionali in ambito morale sui mezzi ordinari e mezzi straordinari
di cura?
Abbiamo visto come Jonsen sia uno degli autori che più ha contribuito al recupero della prudenza nell’ambito dell’etica medica. In
questo tentativo egli si lamenta che molte volte questa virtù è presentata in modo molto vago16, ricorrendo peraltro al concetto classico aristotelico della virtù. Ma il suo concetto di prudenza si caratterizza veramente come la phronesis greca? Blinton risponde a questa
domanda in modo negativo. In un lavoro in cui studia diverse proposte attuali per la bioetica clinica, critica senza mezzi termini la paternità aristotelica della prudenza impiegata da Jonsen. Sostiene che,
pur trattando di cose particolari e della scelta dei mezzi per arrivare
a un certo fine, la phronesis aristotelica è molto più del semplice giudizio clinico in quanto giudizio tecnico. E, citando Gadamer, aggiunge che la prudenza in Aristotele è una disposizione verso il fine
morale a cui tende la persona che agisce17.
pect of intention and action. Maybe neuroethics (...) will afford science the
means to do this at some point in the future, but I doubt it”: J. GIORNADO,
«Foni phronimos – An interview with Edmund D. Pellegrino», in Philos Ethics
Humanit Med 16/5 (2010), 4.
16 Cfr. ad esempio, A. R. JONSEN, «Moraly appreciated circumstances: a theoretical problem for casuistry», in L. W. SUMNER, J. BOYLE (eds), Philosophical
perspectives on Bioethics, 47-48.
17 M. J. BLINTON, The ethics of clinical ethics consultation: on the way to clinical
philosophy, UMI Dissertation Service, Ann Arbor 1993, 181-182. Anche se la
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Questo è un punto di importanza radicale, giacché tocca la connessione tra la conoscenza teorica (dei principi morali o delle massime) e le disposizioni intenzionali della persona. La prima è necessaria per guidare il giudizio pratico, ma se mancano le seconde il
soggetto potrà facilmente scivolare verso decisioni meno impegnative, condizionate non poche volte dall’egoismo, dalla pigrizia, dalla vanità... Queste decisioni verranno poi giustificate facendo riferimento a uno dei principi (autonomia, non maleficenza, beneficialità, giustizia), ma rimarranno staccate dal bene complessivo della
persona. Detto in un altro modo, se la prudenza viene ridotta a un
calcolo dei mezzi, più o meno sofisticato ma senza collegamento
con le virtù morali, allora non è garantita la bontà morale del suo
giudizio. Questa però non è certamente la phronesis aristotelica, né
quella sviluppata in base ad essa da autori come Agostino o Tommaso d’Aquino18.
In questo problema sembrano incorrere a livello pratico sia il
principialismo che la casistica (Jonsen) come modelli per la bioetica
clinica. Entrambi parlano di virtù, e soprattutto di prudenza nel caso di Jonsen. Si tratta però di virtù intese in modo quasi ornamentale (soprattutto nel caso del principialismo), che non hanno un
ruolo centrale nella determinazione delle migliori vie di azione.
Serve pertanto una riflessione per la bioetica che, tenendo presenti
i principi e le norme morali, sia in grado di articolarli con un con-
conclusione di Blinton sembra giusta, bisogna riconoscere che nel panorama
contemporaneo – soprattutto per la bioetica – Jonsen è uno degli autori che più
ha lavorato per ridare alla prudenza l’importanza dovuta, e superare una certa
visione negativa che aveva acquistato nella Modernità.
18 Per una presentazione di questo concetto (forte) di prudenza, con riferimenti bibliografici per l’approfondimento, si può consultare A. RODRÍGUEZ LUÑO, Scelti in Cristo per essere santi. III Morale Speciale, EDUSC, Roma 2008, 2345. Forse è stato proprio questo problema di presentare una “prudenza” staccata dalle virtù morali, e pertanto dal bene globale della persona, una delle cause
dell’abuso della casistica e della sua deriva lassista. Effettivamente quando non è
il bene della persona ciò che si cerca, allora il ragionamento morale serve soltanto a giustificare alcuni comportamenti, anche se – come si vede in alcuni autori dell’ultima casistica – sono chiaramente immorali.
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cetto adeguato di virtù, che consideri il dinamismo intenzionale della persona19.
Consapevoli della sinteticità con cui abbiamo trattato la nostra tematica per ragioni di spazio, passiamo ora alla seconda questione relativa al ruolo della prudenza nella distinzione tra mezzi ordinari e
straordinari di cura. Useremo come testi di base quelli di Cronin e
Calipari20. Il binomio ordinario/straordinario si usa in Teologia Morale fin dai tempi della Scuola di Salamanca, e si tratta sicuramente di
una adeguata distinzione formale tra quei mezzi che si devono applicare, che sono moralmente obbligatori perché considerati ordinari; e
quelli che si dicono straordinari, e pertanto opzionali, non obbligatori. Sappiamo che nella considerazione di un mezzo come ordinario,
o straordinario, entrano in gioco molti elementi, alcuni di natura oggettiva (come il tipo di malattia, la probabilità della guarigione, la difficoltà di reperire i mezzi, il costo economico, ecc.), altri di natura
soggettiva (come la percezione che il paziente ha del mezzo, la paura e l’ansietà che gli provoca, le forze morali con cui può far fronte
agli effetti negativi della cura, ecc.). Questo fa sì che non sia possibile offrire un elenco di mezzi ordinari e un altro di mezzi straordinari, perché la valutazione va fatta per ogni singolo caso21. Tuttavia,
19
Una proposta recente per il recupero del concetto di virtù e di prudenza
nel senso appena esposto in ambito clinico si trova in N. COMORETTO, «Un’introduzione all’esercizio delle virtù etiche nella professione medica», Med Mor
64/3 (2014), 405-447.
20 D. A. CRONIN, Ordinary and extraordinary means of conserving life, The National Catholic Bioethics Center, Philadelphia 2011 (si tratta dell’edizione commemorativa dei 50 anni della prima pubblicazione del testo); M. CALIPARI, Curarsi e farsi curare: tra abbandono del paziente e accanimento terapeutico: etica dell’uso dei mezzi terapeutici e di sostegno vitale, San Paolo, Cinisello Balsamo 2006. Un
riassunto della dottrina e di alcune interpretazioni inadeguate nell’etica medica
contemporanea si trova in P. TABOADA, Mezzi ordinari e straordinari di conservazione della vita: l’insegnamento della tradizione morale, in PONTIFICIA ACCADEMIA
PER LA VITA, Accanto al malato inguaribile e al morente: orientamenti etici ed operativi, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2009, 116-138.
21 Questo non esclude che alcuni mezzi in alcune situazioni specifiche si possano considerare “in linea di massima” ordinari o straordinari. Un esempio è
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poiché per alcuni anni ci fu la tendenza a considerarli in questo modo, la Dichiarazione sull’eutanasia (Iura et bona) della Congregazione
per la Dottrina della Fede del 1980, ricordando la dottrina classica
per cui i mezzi straordinari non sono obbligatori, aggiunge: “Oggi
però tale risposta, sempre valida in linea di principio, può forse sembrare meno chiara, sia per l’imprecisione del termine che per i rapidi progressi della terapia. Perciò alcuni preferiscono parlare di mezzi “proporzionati” e “sproporzionati”. In ogni caso, si potranno valutare bene i mezzi mettendo a confronto il tipo di terapia, il grado di
difficoltà e di rischio che comporta, le spese necessarie e le possibilità di applicazione, con il risultato che ci si può aspettare, tenuto conto delle condizioni dell’ammalato e delle sue forze fisiche e morali”22.
Dopo la pubblicazione di questo scritto si sono utilizzati i due binomi (ordinario/straordinario e proporzionato/sproporzionato), con un
contenuto non sempre chiaro. A volte si presentano come sinonimi,
altre volte si indicano differenze tra i termini.
Calipari, che dopo Cronin è quello che ha studiato più approfonditamente le categorie di ordinario/straordinario nella tradizione
morale, alla fine della sua monografia propone un metodo per la valutazione dei casi in tre fasi, che si avvale delle quattro categorie appena menzionate. La prima fase è quella che valuta la “proporzionalità” ed è caratterizzata dalla considerazione dei fattori tecnico-medici che si prestano ad una valutazione oggettiva. Nella seconda fase,
valutazione della “ordinarietà”, vengono considerati maggiormente
gli aspetti soggettivi (sia dell’intervento medico che quelli in rapporto alla soggettività del malato). La terza fase di sintesi classificatoria
offre un quadro che considera tutte le possibili combinazioni: a) mezzi proporzionati e ordinari; b) mezzi proporzionati e straordinari; c)
mezzi sproporzionati e ordinari; d) mezzi sproporzionati e straordiquello dell’uso della nutrizione e idratazione assistita per i pazienti in stato vegetativo, che viene detta ordinaria e pertanto obbligatoria: cfr. CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Risposte a quesiti della Conferenza Episcopale
Statunitense circa l’alimentazione e l’idratazione artificiali (1.08.2007).
22 http://www.vatican.va/roman_curia/congregations/cfaith/documents/rc_
con_cfaith_doc_19800505_eutanasia_it.html (consultato: 24.10.2014).
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nari. Poi Calipari suggerisce ciò che chiama il giudizio di “adeguatezza etica” circa l’uso di un mezzo di conservazione della vita. Questo giudizio vede i mezzi proporzionati come mezzi leciti, che potrebbero essere obbligatori (se considerati ordinari) oppure opzionali (se considerati straordinari). Invece per quello che riguarda i mezzi che si considerano sproporzionati nella prima fase dell’analisi, sostiene che, in linea di principio, devono considerarsi illeciti. Ad ogni
modo, in alcune circostanze, potrebbero essere leciti, se sono l’unico
modo che ha il paziente per adempiere doveri morali gravi23.
Anche se la proposta di Calipari è perfettamente legittima, personalmente ritengo che nella configurazione dei due binomi ci siano
elementi oggettivi ed elementi soggettivi. Questo mi sembra esprima
più fedelmente l’uso che dei termini ordinario/straordinario ha fatto
la tradizione morale durante la sua lunga storia (per quello che riguarda la coppia proporzionato/sproporzionato c’è una riflessione
molto più ridotta). Ciò non toglie che si possano separare per lo studio del caso concreto gli elementi oggettivi da quelli soggettivi.
Per quanto riguarda la considerazione di un mezzo come sproporzionato, penso che sia preferibile sostenere che quel mezzo è sempre illecito. La ragione sta nel fatto che ogni giudizio di proporzionalità si riferisce a una situazione specifica. Pertanto, se in quella circostanza c’è un elemento morale importante che giustifica il prolungamento di una certa terapia, che forse in altre circostanze sarebbe
troppo gravosa, quella circostanza farà sì che il mezzo sia considerato proporzionato (anche se molto straordinario). Dire che un mezzo
è sproporzionato significa dire che non c’è proporzione tra vantaggi
e svantaggi. È un altro modo di dire che quel mezzo non sarebbe ragionevole in quelle circostanze. Ma se è così, non ci sarebbe spazio
per una sua giustificazione e quindi nemmeno per le eccezioni. Un
esempio classico nei testi di bioetica è quello di non sospendere una
terapia intensiva aggressiva su un paziente terminale per permettere
al figlio di arrivare da un paese lontano prima della morte. Alcuni dicono che in quella situazione il mezzo è sproporzionato, ma si giu-
23
Cfr. M. CALIPARI, Curarsi e farsi curare, 151-166.
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stifica per un motivo importante. Questo caso però mi sembra che si
possa spiegare in modo più coerente dicendo che la circostanza dell’attesa del figlio configura il mezzo come proporzionato: c’è una
proporzione tra l’aggressività del mezzo e la possibilità di poter salutare il figlio prima di morire. È ragionevole e quindi proporzionato.
Forse in assenza di quella circostanza non lo sarebbe. Ma qui si vede
chiaramente come i giudizi di proporzionalità, che appartengono alla prudenza, sono giudizi singolari.
Un ultimo punto che vorrei menzionare è quello che si potrebbe
denominare lo “spazio della prudenza”. Bisogna capire bene ciò che si
intende. Da quanto detto fin qui dovrebbe essere chiaro che ogni giudizio in questo ambito è un giudizio di prudenza. Ma la prudenza gioca un ruolo particolare nella decisione da prendere quando un mezzo
viene considerato straordinario. In non pochi testi di bioetica sembra
che tra l’eutanasia per omissione (il fare troppo poco) e l’ostinazione
terapeutica (il fare troppo) ci sia appena una linea sottile. Eppure, in
molti casi c’è uno spazio non piccolo per la decisione prudente. Decisione che può essere moralmente buona sia che si scelga di iniziare (o
continuare) una terapia, sia che si scelga di non iniziarla (o di interromperla). Toccherà alla prudenza, assistita come abbiamo visto dalle
virtù morali, trovare la migliore opzione in ogni circostanza. Un
esempio per aiutare a capire può essere quello dell’uso della assistenza ventilatoria invasiva nei pazienti di sclerosi laterale amiotrofica.
Questa malattia neurodegenerativa porta alla paralisi della muscolatura del paziente, che prima o poi coinvolge i muscoli respiratori, rendendo necessaria l’assistenza respiratoria. All’inizio può essere sufficiente una assistenza ventilatoria non invasiva, ma in molti casi questa
non basta e si pone la questione della tracheostomia per assicurare un
ricambio gassoso adeguato. Per la gran maggioranza dei pazienti questa possibilità rappresenterà una buona scelta. Ma ci potrebbero essere altri pazienti che possano considerare questo mezzo di sostegno vitale troppo gravoso, ed essendosi ormai preparati alla morte, preferiscono non iniziarlo o interromperlo. Certamente non si tratta di una
scelta facile e di un giudizio scontato, in cui è sufficiente l’applicazione di un principio. In questo caso, come in tanti altri, c’è quello spazio della prudenza che apre la possibilità a molte buone decisioni.
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In questo breve testo abbiamo offerto alcuni spunti sul metodo casistico, e in particolare sulla prudenza, che certamente meriterebbero
altro spazio perché aprono diverse questioni per la riflessione morale.
Penso comunque che possano servire per stimolare un dialogo nell’ambito della bioetica e della teologia morale. Ringrazio quindi gli
autori del testo “Bioetica e infanzia” con cui abbiamo iniziato queste
pagine per essere stati l’occasione prossima di queste considerazioni.
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“LA VOCAZIONE ALLA SANTITÀ”
Prospettive nel 50° della Lumen gentium
Studi in onore di Terence G. Kennedy
Editrice Rogate, Roma 2014
A cura di GIUSEPPE DE VIRGILIO
Relazione tenuta in occasione della presentazione del libro
Accademia Alfonsiana, 20 novembre 2014
LA UNIVERSALE VOCAZIONE ALLA SANTITÀ NELLA CHIESA
A cinquant’anni da “Lumen gentium”
Dario Vitali*
Anche nel quadro delle tante celebrazioni sul Vaticano II, non trova la dovuta attenzione il tema della universale vocazione alla santità.
D’altronde, in questi cinquant’anni dalla chiusura del concilio, il capitolo V della costituzione sulla Chiesa è stato trattato marginalmente
nei commentari e passato pressoché sotto silenzio nel complesso e frastagliato dibattito sull’eredità del Vaticano II. Basta, per rendersene
conto, verificare i contributi sull’argomento: nella Bibliographie du concile Vatican II 1, su 856 tra opere e articoli, i titoli sulla universale vocazione alla santità non raggiungono la doppia cifra2! Contro questa
linea di tendenza si muove il volume a cura di G. de Virgilio, «La vo-
* Professore ordinario di Ecclesiologia (PUG)
1
Cfr. Ph. J. Roy, Bibliographie du Concile Vatican II, LEV, Città del Vaticano
2012, 182-262.
2 Tra questi, un contributo di B. Häring, «Holiness in the Church», in J. H.
Miller (ed.), Vatican II. An Interfaith Appraisal (University Notre Dame – Ind.,
International theological conferences: March 22-26, 1966), University of Notre
Dame Press, 1966, 250-258.
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cazione alla santità»3, che riscatta il tema dall’oblio, offrendo una ricca
riflessione sul capitolo V di Lumen gentium dal punto di vista dell’ermeneutica e della recezione, e inquadrandolo nel contesto più ampio
della tradizione teologica e dell’attuale vissuto ecclesiale. In particolare, il contributo di W. Henn offre un’ampia analisi del testo4. Inutile
ripetere quanto già espresso con chiarezza e competenza. Per parte
mia, vorrei focalizzarmi piuttosto sulla redazione tormentata del testo,
che offre indicazioni interessanti per capire i motivi della fatica a recepire uno dei passaggi di maggior novità del concilio Vaticano II.
Il primo schema de Ecclesia
Il tema della santità già compare nel primo schema de Ecclesia. Il capitolo V, infatti, trattava degli stati di perfezione nella Chiesa (De statibus evangelicae acquirendae perfectionis), in tre paragrafi, che mettevano a tema i consigli evangelici (n. 17), il valore degli stati di perfezione (n. 18) e la loro posizione nella Chiesa (n. 19)5. L’idea che domina il capitolo è l’eccellenza dello stato religioso nella Chiesa. Il testo ricollega i consigli evangelici all’intenzione esplicita di Cristo, il
quale avrebbe invitato chi volesse seguirlo più da vicino a imitarlo
nella povertà (citando Mt 19, 21; Mc 10, 21; Lc 18, 22), nella castità
(Mt 19, 11-12) e nell’obbedienza al Padre (Gv 6, 38; Fil 2, 8). Questi
consigli, raccomandati anche dagli Apostoli e dai Padri della Chiesa,
sono stati abbracciati nelle diverse epoche del cristianesimo da uomi-
3
G. De Virgilio (cur.), «La vocazione alla santità». Prospettive teologico-morali
nel cinquantesimo della Lumen gentium. Scritti in onore di Terence G. Kennedy,
CSsR, Rogate, Roma 2014.
4 «La “vocazione alla santità”: origine e sviluppo del tema teologico nella Lumen Gentium, cap. V», in G. De Virgilio (cur.), «La vocazione alla santità», 3550. Ringrazio l’amico e collega per la bontà di citare anche il mio commento alla costituzione: D. Vitali, Lumen gentium. Storia. Commento. Recezione, Studium,
Roma 2012.
5 Caput V: De statibus evangelicae acquirendae perfectionis: n. 17: De consiliis evangelicis; n. 18: De momento statuum perfectionis in Ecclesia; n. 19: De
positione statuum perfectionis in Ecclesia: Acta Synodalia, I/IV, 34-37.
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ni e donne che hanno manifestato con la loro vita «la nota della santità, di cui il Divino Fondatore volle adornata la sua Chiesa»6. «Il
santo Sinodo – è la formula solenne che chiude il paragrafo – insegna
che i consigli evangelici e il loro esercizio sono di origine divina, ne
raccomanda fortemente l’osservanza e li pone tra gli elementi costitutivi della nota della santità della Chiesa»7.
Sulla base di tali presupposti, il secondo paragrafo descrive come
l’imitazione di Cristo si sia tradotta lungo la storia in tante forme di
vita, dedicate alla preghiera e alla contemplazione, o al lavoro apostolico, o alle opere di misericordia spirituale e corporale, che hanno
reso la vita religiosa paragonabile a un albero dai tanti rami. D’altronde, la via dei consigli evangelici, per il fatto di essere ordinata alla perfezione della carità verso Dio e verso il prossimo, non è separata dal corpo della Chiesa, ma partecipa della sua stessa missione e
prolunga tra i fratelli la presenza di Cristo che prega sul monte, o che
predica alle folle, o che sana gli affaticati e gli stanchi, o che converte i peccatori, o che fa del bene a tutti.
Il terzo paragrafo precisa la posizione dei religiosi nella Chiesa, mostrando come la gerarchia, a cui spetta il discernimento sui religiosi,
abbia agito per promuoverli come «portio electa del corpo mistico di
Cristo»8. «Lo stato di perfezione – dichiara lo schema – non è qualcosa di intermedio tra la condizione clericale e quella laicale»: la sua specificità consiste nella conformità a Cristo e nell’«assimilazione alla sua
Chiesa santa, che è una società non solo umana, ma anche divina»9.
Come si vede, la sottolineatura del posto e dell’importanza della
vita religiosa nella Chiesa è forte. Il linguaggio riflette una concezione di netta superiorità dei religiosi, come portio electa, dedita alla santità come specifico del loro stato di vita. Tornano subito alla mente le
parole di Graziano che, nel XII secolo, distingueva il corpo ecclesiale in due livelli: quello dei clerici (ma la figura era quella dei monaci),
6
Schema de Ecclesia, V, 17: Acta Synodalia, I/IV, 35.
Schema de Ecclesia, V, 17: Acta Synodalia, I/IV, 35.
8 Schema de Ecclesia, V, 19: Acta Synodalia, I/IV, 36.
9 Schema de Ecclesia, V, 18: Acta Synodalia, I/IV, 36.
7
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dediti alla preghiera e alla contemplazione e lontani dagli strepiti del
mondo, e quello dei laici, i quali, coinvolti nelle cose del mondo, possono al massimo pretendere di salvarsi l’anima10.
Lo schema Philips
Lo schema de Ecclesia fu portato all’esame dell’aula nell’ultima settimana della prima sessione (1-7 dicembre 1962). Gli interventi in
aula si erano concentrati sullo schema in genere (che, di fatto, era stato ritirato11), senza prendere in considerazione il capitolo sugli stati
di perfezione. Alla Segreteria del concilio pervennero tante animadversiones dei Padri, e non poche proposte alternative di schema de Ecclesia12, che portarono al rifacimento del testo. Dopo un lavoro intenso della Commissione teologica durante la prima intersessione, i
Padri ricevettero, in apertura del secondo periodo conciliare, un
nuovo schema, il cosiddetto schema Philips, dal nome del perito, mons.
Gérard Philips, eletto nel frattempo co-segretario della Commissione teologica, il quale coordinò i lavori di stesura del testo.
Il nuovo schema riarticolava i capitoli del primo de Ecclesia in un
proemio (n. 1) e quattro capitoli: il I, di carattere generale, sul mistero della Chiesa (nn. 2-10), il II, sulla costituzione gerarchica della
Chiesa, in particolare l’episcopato (nn. 11-21); il III, sul Popolo di
10
Si tratta della famosa sentenza di Graziano, il grande maestro di diritto del
XII secolo, contenuta nella Concordia discordantium canonum, o Decretum Gratiani, secunda pars, causa XII, quaestio I, c. VII, in Corpus Iuris Canonici: Decretum
Gratiani, Lipsiae 1879, 678. Va detto che il testo regola il diritto di successione,
nel quadro di un nuovo diritto patrimoniale, che salvaguardava i beni della
Chiesa, impedendo ai chierici di alienare a favore di terzi il patrimonio ecclesiastico. Ma l’uso che ne è stato fatto in seguito prescinde dall’ambito amministrativo, per distinguere invece due differenti stati nella Chiesa, a tutto favore di
quello clericale, posto in una condizione di superiorità sui laici.
11 Cfr. l’intervento del card. Ottaviani in aula nella XXXI congregazione (1 dicembre 1962), il giorno stesso in cui iniziava la discussione sullo schema de Ecclesia.
12 I tanti schemi alternativi sono stati raccolti in Gil Hellín, Concilii Vaticani
II synopsis. Constitutio dogmatica de Ecclesia Lumen Gentium, Città del Vaticano
1995, 679-867.
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Dio, in particolare i laici (nn. 22-27); il IV, che riprendeva il tema degli stati di perfezione, riletti nella prospettiva della vocazione alla santità nella Chiesa (nn. 28-36)13. Pur ripetendo i contenuti del primo
schema, l’ultimo capitolo introduceva un forte elemento di novità, premettendo al testo sugli stati di perfezione alcuni paragrafi sulla chiamata di tutti i battezzati alla santità. Nel proemio al capitolo (n. 28) si
affermava con forza che «nel mistero della Chiesa, annunziato solennemente al mondo intero dal concilio, tutti, sia che appartengano alla gerarchia, sia che da essi siano guidati, sono chiamati alla santità»14.
Il paragrafo successivo (n. 29) tematizzava esplicitamente la vocazione
universale alla santità, rivolta a tutti e a ciascun battezzato, a qualsiasi
condizione o stato di vita o ordine appartengano. La radice della chiamata alla santità sta dunque nel battesimo, non in una speciale chiamata: il n. 30, conseguentemente, illustra l’esercizio multiforme dell’unica santità. Il paragrafo applica a vescovi, presbiteri e laici, in particolare ai coniugi cristiani, il principio della universale chiamata alla
santità. Questo fatto spiega lo spostamento di accento dai consigli
evangelici al precetto della carità verso Dio e verso il prossimo come
forma e fine della santità (n. 31). Solo a seguire si parla della prassi dei
consigli evangelici come stato di vita sancito dalla Chiesa (n. 32), sfumando le affermazioni del primo schema, e si ripete il discorso sul posto degli stati di perfezione nella Chiesa.
Se, da un lato, la parte sugli stati di perfezione portò molti Padri
a dichiarare insufficiente e troppo moralistica l’idea di santità proposta nel capitolo, richiedendo una formulazione più biblica e teologica (in chiave soprattutto trinitaria ed escatologica)15, dall’altro spinse
a evidenziare come il luogo proprio del discorso sulla universale vocazione alla santità non fosse questo, ma il capitolo I sul mistero della Chiesa o il capitolo II sul Popolo di Dio16.
13
Schema constitutionis dogmaticae de Ecclesia, in Acta Synodalia, II/I, 215-281.
Schema constitutionis dogmaticae de Ecclesia, n. 28: in Acta Synodalia, II/I, 269.
15 Cfr., ad esempio, l’intervento del card. Döpfner, a nome di 79 Padri: Acta
Synodalia, II/III, 603-616.
16 Cfr. soprattutto la richiesta di 679 Padri: Acta Synodalia, II/IV, 355-359.
14
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Il testo definitivo
Sulla base delle diverse richieste dei Padri, si profilavano alla Commissione teologica due opzioni17: 1) creare un capitolo autonomo sui
religiosi da collocare subito dopo quello sui laici, inserendo i paragrafi sulla universale vocazione alla santità nel capitolo I o nel capitolo II;
2) lasciare il testo com’era, dividendolo al più in due sezioni, dedicate
rispettivamente alla universale vocazione alla santità e ai religiosi.
Così formulata, la questione sembra circoscritta al fatto di includere o meno il tema della universale vocazione alla santità in un capitolo specifico sui religiosi. In realtà, l’elemento di novità stava nell’affermazione sulla universale vocazione alla santità, che rompeva finalmente il cliché della santità come finalità dello stato religioso. Come la
creazione del capitolo II, con l’affermazione della radicale uguaglianza di tutti i membri della Chiesa, aveva messo fine al sistema piramidale, che distingueva la Chiesa in due corpi, la Ecclesia docens e la Ecclesia discens, così la scelta di inserire il tema della universale vocazione alla santità nel capitolo II avrebbe comportato il superamento dell’idea plurisecolare che la santità era un’esclusiva dei religiosi.
Per dirimere la questione fu costituita una sottocommissione ad
hoc 18, composta da membri e periti delle commissioni de fide e de religiosis. La discussione si arenò per l’intransigenza dei membri della
commissione de religiosis, i quali evidentemente temevano che il trasferimento dei paragrafi sulla universale vocazione alla santità nei
primi capitoli implicasse il rischio di una cancellazione del capitolo
sui religiosi. La soluzione di compromesso fu la divisione del capitolo non in due parti, ma in due capitoli distinti: il V sulla universale
vocazione alla santità; il VI sui religiosi. Le tracce dell’intervento redazionale sono evidentissime, perché il capitolo V è composto di so17
Le diverse posizioni sono esposte nella Relatio adiuncta: de problemate ordinationis materiae, in Acta Synodalia, III/I, 329-333.
18 Membri che provenivano dalla Commissione de fide: Browne, Charue, Šeper, Gut, Fernandez; dalla commissione de Religiosis: Compagnone, Sipovic, Stein,
Kleiner, Sépinski; periti: Abellan, Beniamino della SS. Trinità, Boyer, Gambari,
Gagnebet, Labourdette, Lio, Philipon, Rahner, Tascon, Thils, Verardo.
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li quattro paragrafi (nn. 39-42), con una introduzione ma senza una
conclusione, mentre il capitolo VI, che ha una conclusione ma non
un’introduzione, è composto degli altri cinque paragrafi (nn. 43-47).
Il vantaggio della scelta sta nel fatto di evidenziare il principio della universale vocazione alla santità: tutti, a qualsiasi stato appartengano, sono chiamati alla sequela di Cristo e manifestano con la loro vita santa la santità stessa della Chiesa. Il tema è peraltro ricollegato
esplicitamente al capitolo II: «Provvisti di tali e tanti mezzi di salvezza – si dice in chiusa del n. 11 sull’esercizio del sacerdozio comune
nei sacramenti – tutti i battezzati [christifideles], di qualsiasi condizione o stato, sono chiamati da Dio, ciascuno per la sua via, a quella perfezione di santità, di cui è perfetto il Padre stesso». Ma il legame con
il capitolo V, peraltro solo implicito, non è tale da imporre quei temi
come propri del capitolo II: così collocato, il capitolo assomiglia un
po’ a un masso erratico, troppo staccato dal disegno dell’ecclesiologia conciliare che emerge nei primi due capitoli della costituzione.
Conclusione
Stando così le cose, non sorprende il silenzio sul tema della universale vocazione alla santità, purtroppo avvertito come una digressione, bella ma irrilevante, di teologia spirituale. Ma la conseguenza
più grave di questa scelta redazionale è che la riflessione sul Popolo
di Dio è stata privata di un elemento decisivo per il profilo di Chiesa disegnato da Lumen gentium. Per rendersene conto, basta pensare
al dibattito sull’ecclesiologia del concilio, che ha opposto per vent’anni Chiesa-mistero e Chiesa-Popolo di Dio. Una caratterizzazione del Popolo di Dio nella logica della universale vocazione alla santità avrebbe costituito un argine contro ogni deriva ideologica che di
fatto ha inquinato il processo di recezione post-conciliare. Nel momento in cui, con papa Francesco, si è riavviata la riflessione sul Popolo di Dio19, è urgente riprendere il discorso sulla universale vocazione alla santità.
19
Cfr. FRANCESCO, Esortazione apostolica «Evangelii gaudium», nn. 111-134.
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FEDELI ALLA CHENOSI DEL REDENTORE
Scritti in onore di Sabatino Majorano
EDB, BOLOGNA 2014
A cura di ALFONSO V. AMARANTE
Relazioni tenute in occasione della presentazione del libro
Accademia Alfonsiana, 17 dicembre 2014
LA CHENOSI DEL CRISTO
COME PARADIGMA DELLA PROPOSTA MORALE
Nicola Ciola*
Il titolo dell’intervento che mi è stato affidato comprende due
termini di rapporto, da una parte la kenosi del Cristo e dall’altra la sua
relazione con la teologia morale. Per quanto riguarda il mio campo di
ricerca non ho avuto difficoltà ad accettare di svolgere il tema contenuto nella prima parte del titolo e invece ho accolto come sfida, il
riflettere sulla seconda parte della formulazione propostami e soprattutto sull’intreccio dei due dati, cioè la proposta morale come
espressione del principio staurologico-agapico che la anima dal di
dentro. Mi sono mosso con molto timore e tremore, oggi infatti le
specializzazioni sono così marcate che quando si riflette su campi diversi dai propri si ha sempre paura di dire cose scontate, se non banali. Devo dire però che ho accettato volentieri la provocazione, per
onorare Padre Sabatino Majorano che – da quanto ho potuto constatare – di sfide ardue, e non solo nel campo della interdisciplinarietà, ne ha accettate parecchie lungo il suo percorso scientifico, accademico e umano.
* Professore Ordinario della Pontificia Università Lateranense e Decano della facoltà di Sacra Teologia.
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Man mano che leggevo il bel volume miscellaneo (soprattutto i
contributi che maggiormente hanno illustrato più direttamente il
pensiero e l’opera del Prof. Majorano) mi sono reso conto che esiste
un impressionante rapporto speculare tra “kenosi del Cristo e teologia morale” in sant’Alfonso de Liguori (penso soprattutto a Pratica di
amare Gesù Cristo) e la proposta contemporanea di una teologia morale rinnovata alla luce del Vaticano II. Non si tratta di riversare un
tema dogmatico (quello della kenosi) sull’agire morale; la morale cristiana risulterebbe in questo caso un derivato della cristologia dogmatica, senza un suo contenuto specifico e il lato umano della teologia morale verrebbe sminuito1. La genialità propria di s. Alfonso nel
saper correlare spiritualità, dogmatica, riflessione morale e sensibilità pastorale così come per es. è successo nella Pratica di amare Gesù
Cristo, è quanto di più necessario, nella riflessione morale di oggi,
possa riconoscersi. Il contributo alfonsiano fa da interfaccia allo sviluppo della teologia morale, così come è scaturito da Optatam Totius
16 in poi.
Ma quali sono le ragioni intrinseche che hanno consentito di intravedere nella kenosi del Cristo un principio architettonico per ripensare oggi la proposta morale? Esse si trovano tutte presenti nell’itinerario intellettuale e spirituale di Padre Sabatino Majorano il
quale, senza ombra di dubbio, ha fatto del principio della incarnazione, e perciò della kenosi, l’anima della proposta morale. Dico principio
dell’incarnazione e della kenosi, perché soprattutto oggi è impossibile
scindere i due dati.
L’incarnazione è già mistero di kenosi e quest’ultima, la kenosi,
traduce in profondità l’evento dell’Incarnato. Uso questo termine Incarnato, più che ‘incarnazione’, seguendo l’ammonimento di Dietrich
Bonhoeffer il quale aveva ben intuito, fin da giovane, che parlare di
incarnazione può trascinarci, se non stiamo attenti, nello schema formale-concettuale di coloro che, così facendo, lo distaccavano dal far-
1
Cf. T. KENNEDY, La pratica della carità come «viva memoria». Concetti chiave
dell’insegnamento di Sabatino Majorano, in Fedeli alla kenosi del Redentore. Scritti in
onore di Sabatino Majorano, a cura di A. V. AMARANTE, EDB, Bologna 2014, 81.
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si concreto di quella storia2. Sant’Alfonso non era sicuramente tra
questi, egli infatti con il suo genio tutto ‘napoletano’, riuscì a rendere palpabile il mistero dell’Incarnato in un modo così storico e concreto, tanto da renderlo amabile soprattutto nella pietà popolare che
è sempre la cartina di tornasole del credere e la premessa anche per
una fruttuosa riflessione teologica.
Ma restando al tema propostomi e alla sua connessione interna
(kenosi di Cristo e proposta morale), cercherò di parlarne non in
astratto, ma nel suo riferimento alla ricerca che ha accompagnato Padre Majorano. Mi sembra, a tal proposito, che si possano individuare quattro passaggi dell’itinerario che hanno caratterizzato la ricerca
del nostro festeggiato.
1. Nel solco del rinnovamento della teologia morale del Vaticano II
La kenosi di Cristo può essere motivo di una proposta morale in
un quadro paradigmatico diverso dal passato. È stata la svolta epocale del Concilio Vaticano II che ha sancito un nuovo modo di pensare
la teologia morale. La sobria ma profonda indicazione di Optatam totius 16: “Si ponga speciale cura nel perfezionare la teologia morale in
modo che la sua esposizione scientifica, maggiormente fondata sulla
Sacra Scrittura, illustri l’altezza della vocazione dei fedeli in Cristo e
il loro obbligo di portare frutto nella carità per la vita del mondo” è
stata principio di molte cose che si possono riassumere con un’affermazione, che resterebbe scontata se non ci si cimentasse in una analisi (che qui non possiamo certo fare) dai caratteri multiformi, e cioè
la centralità dell’opzione per il cristocentrismo.
Infatti, come ancora ammoniva OT 16 poche righe sopra, soltanto “per mezzo di un contatto più vivo col mistero di Cristo e con la
2
Alludo alle Lezioni di cristologia tenute all’Università di Berlino dal giovane
docente D. Bonhoeffer. La distinzione in questione tra ‘Incarnazione’ e ‘Incarnato’ si trova nel testo ricostruito dagli appunti degli studenti: D. BONHOEFFER,
Cristologia, Postfazione di E. BETHGE e O. DUDZUS, Queriniana, Brescia 1984,
92-93.
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storia della salvezza” è stato possibile rinnovare le discipline teologiche, tra cui appunto la morale.
Padre Majorano, forte dell’insegnamento dei suoi maestri, in particolare P. Bernard Häring e P. Domenico Capone, ha percorso questa strada maestra fissando la sua ricerca e la sua docenza sulla sicura
convinzione che andava superata la separazione tra morale (inteso come obbligo) e spirituale (inteso come consiglio). Se dunque l’oggetto
della teologia morale è «l’altezza della vocazione dei fedeli in Cristo»
che si concretizza in una carità che spinge a fruttificare per la vita del
mondo (cf. Optatam totius, 16), lo sviluppo dell’indicazione conciliare non può che andare nella direzione di una relazione più diretta tra
morale e spiritualità. Padre Majorano in questo ha dato un contributo originale dal punto di vista scientifico, già dalla sua tesi dottorale
su Maria Celeste Crostarosa3. In anni recenti si segnala un suo contributo in proposito (cioè sul rapporto tra morale e spiritualità) in un
Convegno internazionale tenutosi presso la Facoltà di Teologia della
Università Lateranense che suscitò vivo interesse4. Egli riusciva a saldare insieme due ambiti che si trovavano distanti fino a qualche decennio fa, quasi che la morale potesse rappresentare il ‘minimale’ richiesto per la via di perfezione per un cristiano e la spiritualità fosse
di un’altra pasta, quasi un superadditum ornamentale. Majorano con
decisione affermava in quella circostanza che «l’apertura alla spiritualità è indispensabile alla teologia morale anche per ridare alla carità il ruolo fondamentale che le compete»5.
Evidentemente questo nuovo impianto strutturale è stato possibile perché alla base vi era l’assunzione, come punto di partenza, dell’esperienza morale e più concretamente l’esperienza morale vissuta dalla comunità cristiana. Questo non significava certo disistima nei riguardi dell’urgenza, oggi più pressante, per la fondazione e la preci-
3
S. MAJORANO, L’imitazione per la memoria del Salvatore. Il messaggio spirituale di suor Maria Celeste Crostarosa (1696-1775), Collegium S. Alfonsi, Roma 1978.
4 S. MAJORANO, La teologia morale in prospettiva di spiritualità, in Lateranum,
77 (2011), 135-155.
5 MAJORANO, La teologia morale in prospettiva di spiritualità, 146.
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sazione delle norme etiche, bensì discernimento e ascolto per quel
‘sentire’ del popolo di Dio che, quando è interpretato come ‘sensus
fidelium’ riesce a far percepire significati più profondi che non sempre l’argomentazione riesce a veicolare. Partire dall’esperienza non
significa cadere in un approccio puramente fenomenologico che trasforma in principio il dato di fatto dominante. Tanto meno vuol dire
cedere al relativismo. Del resto il riferimento alle norme costituisce
solo una parte, anche se importante, della vita morale e dunque la loro trattazione ha bisogno di una corretta collocazione nell’insieme
della teologia morale.
Padre Majorano ha perseguito con tenacia questa strada convinto
che andava evoluta un’epistemologia specificamente teologica che assumesse il mistero del Cristo come fondamento per leggere continuativamente la storia come storia di salvezza. Questa scelta per la
teologicità di tutto il discorso non voleva dire rinunzia alle esigenze di
scientificità proprie della riflessione etica. Si trattava invece di dar loro una ulteriore specificazione e apertura che le rendesse capaci di restare effettivamente ministeriali nei riguardi del proprio oggetto. È
un procedere teologico che non rinunzia mai alla sintesi delle istanze del dialogo con quelle dell’annunzio e declina la correttezza morale sempre come testimonianza, vale a dire: coerenza con i valori e loro concretizzazione significativa.
L’opzione cristocentrica della teologia morale, rinnovata dal Vaticano II, ha avuto conseguenze benefiche incalcolabili. Infatti, se si
scende più nel particolare, si noteranno alcuni dati che provo ad elencare in successione:
a) laddove il mistero del Cristo è vissuto e interpretato come la
sua attuale presenza da Risorto nella storia mediante lo Spirito, occorre allora su una tale presenza fondare e riportare tutta l’imperatività morale;
b) questa, cioè l’imperatività morale, esige fede che legge la storia
fino a incontrare la presenza del Risorto che dà senso a tutto il
nostro operare; carità che, grata del dono di novità, vi risponde con operosità solidale; speranza che, retta dalla luce della
croce, sa farsi carico delle esigenze di liberazione e di graduale costruzione della pienezza;
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c) ancora: l’opzione cristocentrica della teologia morale, rinnovata dal Vaticano II, porta alla luce una vera e propria ontologia
cristica, vista però in senso dinamico, e cioè si viene ad evidenziare come il battesimo realizza in ognuno di noi quella presenza cristica, con la conseguente dinamica sacramentale in cui
tutta la nostra vita viene inserita. Evidentemente qui si ritrovano dimensioni che un tempo erano piuttosto lontane e che
oggi sono considerate in modo più sinergico. Qui il rapporto
tra cristologia, antropologia teologica, morale e spiritualità
viene istruito in modo complementare, pur rispettando le dovute distinzioni.
d) da ultimo, ma non certo per importanza, l’opzione cristocentrica esalta la dimensione ecclesiale dell’esperienza morale e della sua riflessività. Essa si pone allora come fondamentale, al
punto tale che il «costruire la chiesa» deve essere proposto come criterio imprescindibile per tutto il discernimento cristiano (cf. 1Cor 8-10).
2. La non debole analogia (per il nostro tema) tra la ‘morale
alfonsiana’ e la teologia morale che si ispira al Vaticano II
Se mi sono un po’ attardato sul primo punto, quello del rinnovamento della teologia morale voluto dal Vaticano II, è perché lì, in un
certo senso, è precontenuto tutto il resto. E devo dire che, man mano andavo leggendo la miscellanea in onore di Majorano e dopo aver
riletto alcuni suoi scritti, mi sono accorto che esiste una sintonia particolare tra la proposta morale di sant’Alfonso soprattutto Pratica di
amare Gesù Cristo (lo dico sommessamente perché non sono certo un
esperto in materia) e quella del Vaticano II. Padre Sabatino in modo
davvero originale ha evidenziato questo legame e, se ho capito bene,
ne ha fatto il principio ispiratore di tutto il suo percorso. Alla base
della proposta morale di sant’Alfonso, mi sembra vi sia un’intuizione
che si ritrova nella metodologia propria del Vaticano II, e che oggi
possiamo chiamare così: l’esigenza di circolarità tra teologia morale e
teologia pastorale. Questo per noi oggi significa avere come punto di
riferimento la pastoralità del Cristo segnata profondamente dalla ke-
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nosi dell’incarnazione e della croce. S. Alfonso, ha cercato sempre di
lasciarsi guidare da queste grandi intuizioni, assumendo la “fragilità”
dei poveri e degli emarginati come “luogo teologico”. In lui il destinatario non ha condizionato la verità, bensì la situazione più alta per
scoprire, contemplare, mettere in pratica la verità. Vorrei brevemente far vedere come Majorano è stato capace di evidenziare il legame
tra la morale alfonsiana e la morale post-conciliare traducendo nel
linguaggio contemporaneo la Pratica di amare Gesù Cristo. In quel testo davvero la kenosi del Cristo si fa paradigma della proposta morale, così come noi oggi sentiamo il bisogno di guardare alla croce di
Gesù e perciò al suo amore senza limiti per trovare la strada del nostro vivere e del nostro amare.
Chi legge la Pratica di amare Gesù Cristo di sant’Alfonso de Liguori si accorge, fin dalle prime pagine, della decisa opzione agapica nell’interpretare la kenosi del Cristo. Qui, a mio avviso, sta la grande
novità e sconcertante attualità del Dottore della chiesa, patrono dei
confessori e dei moralisti. Infatti il suo linguaggio e le sue idee risuonavano in un contesto ben differente dove prevaleva una visione
forzatamente sacrificalista nell’interpretare la kenosi del Cristo. Ci
sono voluti secoli per vincere questa mentalità (e, per certi versi, essa non è ancora del tutto superata!). La dichiarazione programmatica di s. Alfonso sta alla base di un modo rinnovato di intendere le cose. Egli richiamandosi a san Paolo (“L’amore di Dio ci spinge”: 2Cor
5, 14) afferma che l’Apostolo volle dire che «non tanto ciò che ha patito Gesù Cristo, quanto l’amore che ci ha dimostrato nel patire per
noi, ci obbliga e quasi ci costringe ad amarlo»6. In un linguaggio dove la dottrina si incrocia con la devozione e il linguaggio settecentesco con una solida proposta teologico-morale, s. Alfonso insiste sempre sul senso agapico della kenosi di Gesù Cristo, il quale «molto più
amò che non patì. O amore divino quanto fosti maggiore di quel che
comparisti! Comparisti grande di fuori, perché tante piaghe e lividure ci predicano un grande amore, ma non dicono tutta la sua gran-
6
ALFONSO DE LIGUORI, Pratica di amar Gesù Cristo, Ed. Bettinelli, Verona
19952, cap. I, n. 8, p. 14-15.
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dezza: ma fu più di dentro di quel che compaia di fuori. Questo fu
una scintilla che scaturì da quel grande oceano d’immenso amore»7;
e, appoggiandosi a s. Agostino, Alfonso affermava che «vale più una
lagrima sparsa per la memoria della Passione, che il digiuno a pane
ed acqua ogni settimana»8.
Mentre il contesto della catechesi e della predicazione del ‘700
era incentrata sulla paura per la dannazione eterna, l’accettazione
paziente per la propria condizione sociale come ineluttabile, ben altra era l’impostazione di s. Alfonso che, del resto, sceglieva i più abbandonati delle più remote terre della sua regione. Egli intendeva
ricondurre tutto all’amore misericodioso che appare nella kenosi
del Cristo. Fin dal cap. I della Pratica di amare Gesù Cristo, il santo
napoletano – appoggiandosi magari a spiriti illuminati come s.
Francesco di Sales – vede il vertice della perfezione non in una vita
austera, neppure nelle preghiere e nella frequenza ai sacramenti o
nelle elemosine, perché «la perfezione sta nell’amare Dio di tutto
cuore»9.
P. Majorano ha lavorato molto per presentare, quasi come un interfaccia, la teologia di s. Alfonso con la proposta morale odierna. È
per questo che senza esitazione ho evocato la figura della ‘non debole analogia’ (che è un adagio contenuto nella Lumen Gentium a proposito del rapporto Cristo-Chiesa) tra la ‘morale alfonsiana’ e la teologia morale che si ispira al Vaticano II. Majorano è precisamente su
questa linea lo ha fatto in un duplice modo, anzitutto scavando nei testi fondativi e seguendo poi un’altra pista quella della mediazione verso la situazione contestuale odierna. Sul lavoro di scavo della spiritualità alfonsiana che genera la teologia del santo, non mi permetto
certo di entrare, sul lavoro di mediazione vorrei invece dire qualche
piccola cosa. Mi richiamo, su questo punto ad un breve libretto del
Nostro (perché talvolta in scritti, cosiddetti minori, si dice il meglio
di se stessi). Si tratta di un testo firmato insieme al prof. A. V. Ama-
7
ALFONSO DE LIGUORI, Pratica, cap. I, n.. 15, p. 20.
ALFONSO DE LIGUORI, Pratica, cap. I, n. 21, p. 24.
9 ALFONSO DE LIGUORI, Pratica, cap. I, n. 1, p. 9.
8
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rante: Se non avessi la carità10, dove il passaggio da s. Alfonso alla proposta morale odierna è talvolta impercettibile, ma altrettanto reale e
ne esce una concezione davvero profonda. Dinanzi al peccato dell’uomo che rompe la comunione con Dio, ecco un’invenzione meravigliosa dell’amore ancora più grande: Dio ci dona il suo Figlio. La
croce del Crocifisso testimonia la radicalità dell’amore nell’incontro
libero per la nostra salvezza. «Il crocifisso è un libro aperto dove contemplare l’amore di Dio per l’umanità»11. Tra i mezzi che conducono alla perfezione, la meditazione del Crocifisso è prioritaria per
giungere al vero amore.
Le prospettive della visione agapica di s. Alfonso sono diventate
proposta morale, infatti anche per noi oggi la kenosi misericordiosa
del Cristo si svela come una “salutare medicina”, senza perdere la sua
imperatività. Si tratta di una imperatività – e qui sta la novità della
proposta alfonsiana ripresa da Majorano – che non è riconducibile ad
una imperatività giuridica: bensì quella di un itinerario di crescita e
di guarigione.
La ‘non-debole analogia’ tra la ‘morale alfonsiana’ e la teologia
morale che si ispira al Vaticano II, e alla quale p. Majorano ha lavorato, si può riscontrare soprattutto a livello metodologico quando
vengono tenuti presenti alcuni principi imprescindibili. Proprio nello stile di s. Alfonso occorre elaborare la teologia in costante rapporto circolare con la prassi pastorale, considerandola come punto di
partenza e contemporaneamente come luogo di verifica. La pastorale, come allora in s. Alfonso, indica le problematiche su cui portare
maggiormente lo sforzo di ricerca e di riflessione. Come per il santo
napoletano va sviluppato un ascolto sincero della realtà, superando
ogni tentazione di approccio moralistico e lasciandosi guidare dalla
certezza della presenza dello Spirito. Anche lo stile comunicativo e
testimoniale sarà quello di elaborazione di una proposta morale che
arrivi salvificamente nella concretezza della vita. A questo proposito,
10
S. MAJORANO – A. V. AMARANTE, Se non avessi la carità, Ed. San Gerardo,
Materdomini (AV) 2006.
11 MAJORANO – AMARANTE, Se non avessi la carità, 21.
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oltre alla cura del linguaggio e delle prospettive perché siano realmente significative, non bisognerà mai dare per scontati i valori che
sono alla base dell’elaborazione delle norme, proprio perché spesso
la crisi riguarda i valori, oggi più che mai manipolati sempre più in
modo consumistico da parte dei ‘media’.
3. Primato della coscienza nella “sequela Christi”
e dimensione pneumatologica della vita cristiana
E siamo così ad evidenziare il terzo passaggio dell’itinerario del p.
Majorano. Ciò che cercherò di mettere in luce non è tanto, o solo,
quanto per lui sia stata importante la ricerca sul ‘primato della coscienza’ sullo sfondo del rinnovamento del Vaticano II. Si dovrebbe
qui ripercorrere il tragitto che lo ha condotto alla elaborazione del
testo del 1994: La coscienza. Per una lettura cristiana12 o ci si potrebbe rifare al succoso volumetto La vita nuova in Cristo. Per una catechesi su l’impegno morale del cristiano13. Si vuole invece mostrare sinteticamente il rapporto tra il tema della coscienza morale e la kenosi
del Cristo.
Già il suo modo di trattare il tema della coscienza rivela la predisposizione, quasi ‘connaturale’, a vedere come la kenosi misericordiosa del Cristo sia il motivo interiore della crescita e maturazione
della coscienza. Majorano concepisce la coscienza come ‘mistero’, di
qui la necessità di un approfondimento teologico che ne evidenzi la
sua essenza: essa è presenza e con-testimonianza dello Spirito (Rm
8). Solo così è possibile coglierne adeguatamente la consistenza ontologica e antropologica, unitamente alla storicità della sua maturazione, superando gli approcci individualistici e aprendo alla reciprocità e all’ecclesialità. Majorano non si è mai stancato di ribadire che
la coscienza dice persona, essere, reciprocità, comunione, totalità, storia.
Ad un certo punto egli presenta la coscienza come «consapevolezzatestimonianza della verità del nostro essere: una verità di figli, di
12
13
San Paolo, Cinisello Balsamo 1994.
EDB, Bologna 1990.
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amore, che supera ogni schiavitù ed ogni paura; una verità che non
si arrende di fronte a qualsiasi difficoltà, perché sorretta dalla forza
dello Spirito del Risorto»14. Egli considera poi il rapporto tra il ‘mistero della coscienza’ e l’‘opzione fondamentale’ e il ruolo che essa
è chiamata a svolgere in tutta la vita. Ora, la domanda può diventare la seguente: come viene a plasmarsi la crescita della coscienza?
Quali sono le motivazioni di fondo che stanno sotto ogni opzione vista come “il sì fondamentale al disegno del Padre: un sì che assume
il respiro dello stesso disegno e lo rende partecipe della salvezza-comunione?”15. La risposta non si fa attendere: è la kenosi misericordiosa di Dio che si manifesta nel Crocifisso per amore e si incarna
nella nostra debolezza, il fondamento della proposta morale. Qui si
nota una profonda attualità del pensiero di s. Alfonso, che Majorano valorizza al massimo nel contesto della riflessione teologica contemporanea.
La coscienza viene allora intesa come “memoria dell’amore”. Come per s. Alfonso l’imperativo morale è l’urgenza di amore che scaturisce dalla memoria dell’amore misericordioso di Dio in Cristo,
così la proposta morale contemporanea deve cercare il fondamento
delle norme morali rifacendosi a quell’urgenza di amore che lo Spirito fa risuonare nel nostro cuore. La coscienza che vive nella memoria dell’amore sarà capace di mettere in relazione la legge interiore dello Spirito con i precetti esteriori. La coscienza diventa “regola formale” nel senso che la legge diventa vincolante nella coscienza che si era messa in ascolto, la coscienza diventa il punto di
incontro tra verità e libertà. Sembra esservi un filo rosso che collega il pensiero di s. Alfonso riguardo alla priorità dell’uomo libero e
la considerazione della legge cui è stato vincolato16 e la prospettiva
contemporanea che cerca di trovare la motivazione più profonda
14
La vita nuova in Cristo. Per una catechesi su l’impegno morale del cristiano, 30.
La vita nuova in Cristo, 30.
16 ALFONSO DE LIGUORI, Theologia moralis, cap III, n. 75, p. 50: “prioritate rationis da Dio è stato considerato prima l’uomo come libero e poi è stata considerata la legge con cui doveva essere vincolato”.
15
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nella norma morale: cioè la kenosi misericordiosa. P. Majorano ha
espresso e affinato una prospettiva già presente nella sua ricerca in
occasione della prolusione tenuta all’Accademia Alfonsiana per l’inaugurazione dell’anno accademico 2014-2015. Vale la pena riportare questo passaggio significativo: «La coscienza deve potere e sapere cogliere nella norma morale la misericordia che non rinchiude
nella fragilità, ma la apre e la proietta in un cammino di guarigione.
Credo che sia importante che la proposta morale abbia sempre presente questa sua strutturazione misericordiosa. La sua imperatività
non è riconducibile alla imperatività giuridica: è imperatività di
cammino, di guarigione, di crescita»17.
Va da sé che questa impostazione, la quale mette al centro la kenosi misericordiosa, si coniuga con un altro tema tanto caro a P. Majorano, cioè quello della formazione della coscienza. Egli ne ha trattato
in molteplici scritti, mettendo al centro la dimensione pedagogica e
la gradualità della vita morale. Quella della formazione della coscienza è una vera e propria diaconia ecclesiale che guarda allo Spirito
Santo come a Colui che plasma la nostra vita in Cristo. Questa fondamentale dimensione pneumatologica della vita cristiana e conseguentemente della teologia morale, aiuta a ripensare in questa prospettiva sia le categorie morali e la loro articolazione, sia la modalità
di portare la proposta alle coscienze. Si riscontra qui una profonda
sintonia con l’insegnamento di papa Francesco nella Evangelii gaudium: «Senza sminuire il valore dell’ideale evangelico, bisogna accompagnare con misericordia e pazienza le possibili tappe di crescita
delle persone che si vanno costruendo giorno per giorno. ... Un piccolo passo, in mezzo ai grandi limiti umani, può essere più gradito a
Dio della vita esteriormente corretta di chi trascorre i suoi giorni
senza fronteggiare importanti difficoltà»18.
17
S. MAJORANO, Misericordia e teologia morale: il contributo della visione alfonsiana, in Accademia Alfonsiana Inaugurazione anno accademico 2014-2015, A. S.
Wodka (ed.), Edacalf, Roma 2015, 58.
18 FRANCESCO, Esortazione apostolica Evangelii gaudium, EDB, Bologna, 2013,
n. 44.
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4. Le opzioni epistemologiche:
‘pastoralità’ della teologia morale e attenzione alla storia
E veniamo, in ultimo, ad un quarto passaggio che, a mio modo di
vedere, ha caratterizzato il percorso di P. Majorano. Esso di fatto si
trova alla base di tutto e si riferisce, per molti versi, anche alla collocazione del suo discorso nel rinnovamento della morale voluta dal
Vaticano II. Ci si domanda: ma quali sono i presupposti di base, le
opzioni di carattere metodologico che delineano l’epistemologia che
tutto ispira? Certo se ne dovrebbe parlare all’inizio, ma nel percorso
di una persona che si butta nell’agone, essi si riscontrano quando si è
molto avanti nella ricerca e poi..., spesso e volentieri, è più un problema al di fuori del soggetto interessato, il quale, se interrogato sul
metodo perseguito, non se ne avvede direttamente... Quanto qui sto
per dire doveva forse essere presentato all’inizio, ma ritengo che ora
emerga ancora meglio. Direi che la pastoralità e la storicità sono i presupposti epistemologici della riflessione di Majorano e la kenosi misericordiosa il suo impianto strutturale.
Il Nostro ha fatto propria, nello studio sul procedere della teologia morale, l’istanza storico-ermeneutica in perfetta linea con la prospettiva della Gaudium et spes, non solo prendendo sul serio la “Nota
introduttiva”, ma tutto lo spirito del documento. Alla luce di esso si
può rapportare fruttuosamente il vissuto con i principi e le norme; attraverso questa via, più concretamente, si eviteranno per la proposta
etica i rischi contrapposti dell’ideologia, che pretende di sovrapporsi
alla vita, e quelli dei diversi sociologismi che si riducono alla semplice legittimazione dei dati di fatto. La sensibilità storica e pastorale
rende possibile un’affermazione della trascendenza della verità etica,
senza farle perdere il rapporto con il vissuto quotidiano. Il riconoscimento della storicità delle formulazioni etiche non sfoca in relativizzazione della stessa verità in esse contenuta. Come è successo che il
Logos si facesse kenosi, così è possibile l’incarnazione dei valori nei
diversi contesti, assicurando loro significatività e incisività. Il rapporto tra Verità e storia, stimola a un “sì” alla verità come costante ricerca, senza però perdere le ricchezze del passato, ma dando loro ulteriore profondità e apertura. Quando si mette a fuoco la gradualità del
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procedere storico-ermeneutico non arretra il pungolo della verità
fondativa. Majorano ha sempre vigilato perché, in questa opera di
mediazione, il rapporto con le fonti e l’uso degli strumenti propriamente teologici fossero sempre ermeneuticamente corretti, scartando prontamente ogni tentazione sia fondamentalista che riduttivista.
È per questo che egli è sempre stato sensibile ad altri temi come il
rapporto tra teologia morale e catechesi, tra spiritualità e morale (come si è detto sopra), pur nel rispetto della specificità di ogni disciplina. Ma su tutto ha prevalso la scelta più importante: la necessità della “memoria storica” preoccupata di approfondire e riproporre le
grandi intuizioni alfonsiane per una teologia morale fedele alla kenosi misericordiosa del Cristo e cioè alla “copiosa redemptio”.
Vorrei concludere con un passaggio del festeggiato, contenuto nel
saggio di cui accennavo sopra (“La teologia morale in prospettiva di
spiritualità”). Esso alla luce del dibattito odierno nella chiesa con
l’impulso dato da papa Francesco, mi sembra di sconcertante attualità: «Scaturendo dalla misericordia, che affranca e rinnova, la responsabilità appare possibilità di libertà e di novità, nonostante le
nostre inadeguatezze e rifiuti. Il rapporto con la concretezza della
storia, le sue esigenze e anche i suoi limiti, assume il respiro della
speranza: il credente non perde mai di vista la tensione verso la perfezione del Padre celeste (cf. Mt 5, 48), ma la vive con la fiducia di
chi sa che, alla fine dei tempi, il Signore gli chiederà se si è impegnato a cogliere il suo incessante venire nella storia, anche se in modo e momenti a volte inattesi (cf. Mt 25, 1-13); se ha avuto fiducia facendo fruttificare i doni ricevuti, quali che essi siano stati (cf. Mt 25,
14-30); se si è lascito interpellare e ha risposto ai bisogni degli altri
(cf. Mt 25, 31-46)»19.
Per tutti questi e molti altri motivi gli va la riconoscenza di studenti, colleghi e amici e anche mia personale e dei miei colleghi, in
virtù del rapporto istituzionale dell’incorporazione dell’Accademia
Alfonsiana alla Facoltà di Teologia della Pontificia Università Lateranense.
19
MAJORANO, La teologia morale in prospettiva di spiritualità, 145.
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TEOLOGIA MORALE COME ESERCIZIO DI MEMORIA
E ANNUNCIO DI SPERANZA
Vincenzo Viva*
Il primo maggio 2014 il prof. Sabatino Majorano ha compiuto settant’anni. Per l’occasione Alfonso Vincenzo Amarante ha preso la lodevole iniziativa di pubblicare una miscellanea di testi in suo onore,
facendosi interprete dei sentimenti di gratitudine di molti ex-alunni
del P. Majorano e di tanti colleghi della comunità scientifica che lo
hanno conosciuto come un vero maestro di teologia morale e continuano ad apprezzarlo.
Difficilmente il sentimento di riconoscenza per P. Majorano può
essere racchiuso nelle pagine di un libro, ma questa pubblicazione
può almeno idealmente esprimere la diffusa ammirazione per la sua
lunga attività di docenza, di ricerca e di divulgazione. Il suo magistero, specialmente nell’Accademia Alfonsiana, è come un seme piantato nella fatica di un lungo cammino e che oggi porta i suoi frutti in
ogni continente, in contesti e ambienti anche molto lontani per cultura o geografia. I suoi numerosi ex-alunni sanno fare grata memoria di questo insegnamento, sviluppando le intuizioni, le idee, i modi di pensare e la gentile modalità di porgere del loro maestro. Il volume aiuta in questo senso a prendere coscienza di una tradizione di
ricerca e di insegnamento che si è coltivata in questi decenni all’Accademia Alfonsiana, di cui il prof. Majorano è un insigne promotore
e rappresentante.
Già nella scelta del titolo di questa Festschrift risuona la missione a
cui P. Majorano si è dedicato con tanto frutto: sviluppare una teologia morale che sia veramente teologia, coltivata nello spirito di santo
Alfonso e fedele alle istanze del concilio Vaticano II, impostata alla
luce del mistero di Cristo dal quale tutto è creato e redento; oppure
per usare lo stesso vocabolario del P. Majorano, una teologia morale
che sia espressione della copiosa redemptio, amica dell’uomo di ogni
* Professore invitato presso l’Accademia Alfonsiana di Roma
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tempo e specialmente dalla parte degli ultimi, in diaconia sincera al
popolo di Dio e in dialogo fiducioso con le altre scienze e il mondo
che ci circonda.
La miscellanea è quindi un omaggio per un maestro, un compagno
di viaggio e un fratello che ha sviluppato la sua ricerca in svariati campi, quali la teologia, la storia, la spiritualità e la pastorale. Tutti ambiti che emergono anche nei diversi contributi che sono stati scritti da
tre gruppi di autori: alcuni docenti dell’Accademia Alfonsiana (Bruno
Hidber, Francisco Lage, Terence Kennedy), altri docenti che hanno
condiviso la ricerca e l’insegnamento (Donatella Abignente, Francesco Asti, Martín Carbajo, Angelomichele De Spirito, Cataldo Zuccaro) e alcuni ex-studenti che hanno conseguito il dottorato sotto la sua
guida (Carla Corbella, Bernardino Giordano, Angelo Panzetta, Michele Perchinunno). In questa presentazione proviamo a leggerli alla
luce delle seguenti due prospettive che ci sembrano bene riassumere
il profilo della proposta morale di Sabatino Majorano.
1. Teologia morale come esercizio di memoria
Il tema della memoria, anzi della «memoria viva», è ricorrente e fondamentale nel pensiero e nel linguaggio di Majorano. Esso appare già
nel titolo della sua tesi dottorale1, che come spesso accade per le tesi
dottorali diventa una chiave di lettura per i successivi sviluppi di un
pensiero.
La teologia morale nasce da un’esperienza e dalla memoria dell’amore sanante di Cristo, il Redentore. Nel volume, Francisco Lage2 illustra il tema della memoria nella sacra Scrittura, ricordando come essa ha un potere generativo che si esprime anche nella dinamica cele1
Cf. S. MAJORANo, L’imitazione per la memoria del Salvatore. Il messaggio spirituale di suor Maria Celeste Crostarosa (1696-1755), [Bibliotheca Historica CSSR
7], Collegium S. Alfonsi, Roma 1978. Trad. francese, Anne Sigier, Québec 1987;
trad. tedesca, Eigenverlag der Redemptoristinnen, Ried im Innkreis 2001.
2 Cf. F. LAGE, «La viva memoria nella sacra Scrittura», in A.V. AMARANTE (ed.), Fedeli alla chenosi del Redentore. Scritti in onore di Sabatino Majorano,
EDB, Bologna 2014, 43-54.
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brativa della liturgia: la memoria dirige l’agire sia di Dio che del suo
popolo; racconta la relazione tra i diversi soggetti che appaiono nella
Scrittura; forma l’identità di Israele anche nel suo travagliato costituirsi come nazione fino ai nostri giorni. Il ricordare appartiene a Dio
stesso, ma anche al credente/popolo che attraverso la memoria interpreta e si appropria in modo originale del suo passato. Appoggiandosi
ai dati della moderna psicologia, Lage illustra come anche nel vocabolario biblico la memoria non è un fatto puramente cognitivo, ma
anzitutto affettivo e delle emozioni.
Anche Bruno Hidber3 si muove a livello biblico, offrendo una stimolante interpretazione del testo pasquale di Gv 20, 19-23: è il brano
del primo incontro del Risorto con i discepoli nel giorno stesso della
risurrezione quando si fece sera. La «copiosa redemptio», la cui memoria plasma e fa crescere la teologia morale, è evento sanante di riconciliazione. La riconciliazione pasquale è commentata da Hidber nelle
parole, nei segni e nei gesti del Cristo risorto in quella precisa circostanza. Il dono eccelso dell’amore di Dio dà origine e identità alla fede cristiana. Ai discepoli il Cristo risorto dà il mandato della missione
che si cristallizza nella remissione dei peccati e nell’estendere la riconciliazione oltre tutti i confini.
Un esercizio di memoria storica invece è fatto nel volume da Angelomichele De Spirito4. Con il rigore delle storico che scruta le fonti al di là delle immagini romanzate che popolano talvolta il ricordo di
sant’Alfonso de’ Liguori, De Spirito si interroga se è appropriata l’espressione di «rivoluzione copernicana» a proposito di alcuni aspetti
della dottrina alfonsiana, specialmente a proposito della concezione
del sacramento della penitenza. Mettendo a confronto Alfonso de’ Liguori con altri autori del suo tempo e precise fonti storiche, l’autore
suggerisce di rivedere alcuni giudizi e luoghi comuni che riguardano
proprio questa tematica.
3
Cf. B. HIDBER, «La riconciliazione, il dono eccelso dell’amore di Dio»,
ibid., 55-67.
4 Cf. A. DE SPIRITO, «Sant’Alfonso e la ‘rivoluzione copernicana’ della morale e della pietà cristiana», ibid., 13-42.
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Nel mare travagliato della storia della teologia morale naviga con
competenza anche Angelo Panzetta5, attualmente Preside della Facoltà Teologica Pugliese. La sua ricerca si concentra sul moralista Raymond Bonal (1600-1653), prete francese della prima metà del XVII
secolo e autore di un poderoso manuale. In particolare esamina criticamente la figura del ‘buon confessore’ che Bonal presenta ai suoi lettori. La tensione pratico-educativa di chi fa teologia morale e intende
la propria scienza come legata alla prassi del confessionale, quindi a
stretto contatto con il servizio alle coscienze e alla santificazione delle
persone in ogni stato e situazione di vita – come sottolineato da Panzetta –, può essere letto anche come un omaggio a P. Majorano, che
non solo nell’insegnamento, ma anche in innumerevoli incontri con il
clero e nelle diocesi, ha sempre promosso l’esercizio del confessare
non come semplice applicazione di un “ricettario” morale, ma come continuazione della chenosi misericordiosa del Redentore, come dialogo
salvifico in cui la memoria del dono diventa promessa di vita nuova.
Dietro alla parola e al pensiero di P. Majorano, si percepisce il suo
essere sacerdote a contatto con le coscienze e la sua spiritualità cristocentrica e pneumatologica. D’altronde la teologia morale non si può
fare senza un coinvolgimento vero e radicale della propria vita e interiorità, anche se queste non vengono esibite sulla cattedra o in pubblico. L’unitarietà di teologia, spiritualità e pastorale, che gli scritti di
Majorano ripetutamente richiamano, risuona anche nei contributi di
Francesco Asti6 e Michele Perchinunno7 che sottolineano rispettivamente la dinamica dell’unione a Cristo nell’esperienza del pellegrinaggio e il significato che ha il mistero della Vergine Maria nel pensare la teologia morale.
Unità di dogma, morale, spiritualità e pastorale è anche il filo conduttore dello splendido contributo di Terence Kennedy. Con un’an5
Cf. A. PANZETTA, «Il buon confessore in Raymond Bonal (1600-1653)»,
ibid., 191-204.
6 Cf. F. ASTI, «Pellegrini della Gerusalemme celeste. L’esperienza mistica
cristiana come preludio della vita eterna», ibid., 113-128.
7 Cf. M. PERCHINUNNO, «La Vergine Maria nella teologia morale. Commento al n. 60 della Lettera La madre del Signore della PAMI», ibid., 205-217.
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notazione biografica, piena di gratitudine, Kennedy ricorda come
proprio attraverso la guida di Majorano egli imparò come la teologia
cresce a partire dall’esperienza pastorale: «Majorano ha riconosciuto due
temi che sono importanti per la teologia odierna: in primo luogo, l’importanza della Pratica come punto nodale dove la teologia morale deve arrivare
in modo da essere efficace e capace di formare la vita della gente; in secondo
luogo, il fatto che l’ascetica, la dogmatica e la teologia morale debbano unirsi in forma di sintesi teologica in modo che le persone possano veramente capirla e metterla in pratica»8.
2. Teologia morale come annuncio di speranza
Se nello spirito di Alfonso il centro della teologia morale è il Cristo Redentore e la memoria del suo amore, la sua proposta non può
che essere annuncio di speranza e anticipo di fiducia, specialmente come condivisione delle fatiche degli ultimi e tensione all’evangelizzazione di tutti. Per Majorano si tratta allora di privilegiare un’ermeneutica della speranza nella lettura dei segni dei tempi, evitando le letture
pessimistiche o moralistiche proprie dei “profeti di sventura” (san
Giovanni XXIII).
Cataldo Zuccaro9 trova nel magistrale discorso di Paolo VI per la
chiusura del Concilio alcune interessanti attenzioni epistemologiche
per una morale che non si sottrae al dialogo con un modo pluralista.
Certamente oggi i tempi sono meno ottimistici di quelli del Concilio, ma anche oggi la domanda sull’uomo si presenta in nuove vesti e
prima o poi incrocia sempre la domanda su Dio, interpellando la teologia. Questa, secondo Zuccaro, è una grande opportunità per l’evangelizzazione e la proposta etico-teologica. Il credente e la teologia devono evitare le due tentazioni di fronte al pluralismo del nostro
mondo: quella di concepire la propria identità senza relazione, cioè in
8
T. KENNEDY, «La pratica della carità come ‘viva memoria’. Concetti chiave dell’insegnamento di Sabatino Majorano», ibid., 78.
9 Cf. C. ZUCCARO, «Paolo VI lettore del concilio Vaticano II. Per un nuovo
umanesimo e una nuova evangelizzazione», ibid., 145-157.
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modo autoreferenziale e solo difensiva, e quella di concepire il dialogo col mondo come una relazione senza identità, con la liquefazione di
sé nella pluralità delle opinioni solo per farsi accettare e alla fine risultare irrilevanti. La via tracciata da Paolo VI, l’intreccio tra teologia,
ecclesiologia e antropologia, rimane quindi valida. Il superamento
delle due tentazioni si esprime in una duplice fedeltà: fedeltà all’uomo concreto, alla storia che il discepolo vive, ma anche fedeltà al Cristo Risorto che conferisce alla comunità credente la missione di evangelizzare senza vergogna.
Riferendosi a Papa Francesco e al movimento positivo che egli ha
immesso nella vita della Chiesa e nel pensare la teologia, Donatella
Abignente10 reclama con convinzione l’urgenza di sviluppare una teologia della coscienza che sia capace di curare le ferite degli uomini e mettersi credibilmente accanto alle persone concrete con vicinanza e
prossimità. Una teologia della coscienza che non parte dalle idee astratte, ma dalla persona e dalla fiducia. L’accento messo sul tema del discernimento e della formazione è molto da apprezzare nel contributo
di Abignente: la stessa prospettiva pedagogica è frequente nell’opera
di Sabatino Majorano.
L’istanza della formazione della coscienza, specialmente in un
tempo in cui le manipolazioni sono frequenti, è anche presente nello
studio di Carla Corbella11. L’autrice si confronta con il transumanesimo che si pone come un movimento di idee e cultura che ricerca una
condizione umana senza limite. Grazie alla combinazione di ricerca
scientifica e applicazione tecnologica, specialmente nell’ambito della
medicina e recentemente sempre più nelle neuroscienze applicate, si
arriva ad esasperare la dinamica del continuo upgrade e update. Difronte alle evidenti criticità etiche, Corbella suggerisce di promuovere la riappropriazione responsabile del senso della vita umana e una
riconciliazione con il limite, visto come occasione di gratitudine e occasione di crescita.
10
Cf. D. ABIGNENTE, «Fiducia nella coscienza», ibid., 85-112.
Cf. C. CORBELLA, «Interpretare la vita nella cultura moderna tra antropologia ed etica. Studio in onore di p. Sabatino Majorano», ibid., 161-173.
11
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Martín Carbajo Núñez12 inquadra invece la questione della manipolazione della coscienza nei recenti sviluppi dei codici deontologici
del giornalismo europeo, annotando come l’obiettivo principale della
clausola di coscienza non è dare privilegi al giornalista, ma tutelare
piuttosto la società che ha bisogno della libertà di espressione e deve
proteggersi sempre più (specialmente nelle società occidentali) non
tanto dai condizionamenti dell’autorità pubblica, quanto dalle pressioni, più o meno evidenti, del potere economico.
Nel vivo dell’attuale dibattito attorno al Sinodo dei Vescovi sulla
famiglia si situa infine il contributo di Bernardino Giordano13. L’autore mette il dito in una ferita aperta della vita ecclesiale: la pastorale
dei fidanzati e il loro modo di avvicinarsi alla celebrazione del sacramento
delle nozze. Come formare la coscienza e annunciare la proposta morale? Il matrimonio ha bisogno di essere compreso come sacramento
per la missione e colto nella sua realtà propriamente teologica, afferma l’autore. È chiamata in questione anche la teologia che non può
essere solo frutto di un «ragionare a tavolino», ma di un accompagnamento dell’esperienza dei nubendi dal suo interno.
Per usare un’immagine cara a Sabatino Majorano si potrebbe dire
che annunciare la proposta morale in termini di speranza vuol dire
farsi compagni di cammino, come il Cristo sulla strada di Emmaus (cf.
Lc 24, 18-35): porsi anzitutto in ascolto, leggere la storia anche se fatta di conflitti, difficoltà e miserie con una prospettiva di fiducia, superando la trappola della paura, della resa, del dire “si è pensato e fatto
sempre così”. Occorre dire grazie al prof. Amarante per l’iniziativa di
questa pubblicazione, per la curatela e la bibliografia completa degli
scritti a carattere scientifico di Majorano, che è molto utile ai fini dello studio e della conoscenza della sua ricca produzione. Ma dobbiamo
dire grazie soprattutto al festeggiato, il nostro caro maestro, padre,
confratello Sabatino Majorano, che per molti di noi si è fatto compa-
12
Cf. M. CARBAJO NÚÑEZ, «L’attenzione alla soggettività e l’appello alla coscienza nei codici deontologici del giornalismo europeo», ibid., 129-143.
13 Cf. B. GIORDANO, «Identità e missione del sacramento delle nozze a partire dal Rito del matrimonio. Una lettura pastorale», ibid., 175-189.
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gno di cammino, come Gesù sulla strada di Emmaus, e ci ha trasmesso la passione per una teologia morale che fa vibrare il cuore e vedere
nuovi orizzonti.
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CLAUDIO BERTERO
PERSONA E COMUNIONE
LA PROSPETTIVA DI JOSEPH RATZINGER
(Corona lateranensis)
Lateran University Press, Città del Vaticano 2014
Relazione tenuta in occasione della presentazione del libro
Accademia Alfonsiana, 23 gennaio 2015
RELAZIONE
Gerhard Card. Müller*
Cari amici,
sono grato per l’invito rivoltomi a presentare il volume di Claudio
Bertero, Persona e comunione. La prospettiva di Joseph Ratzinger, pubblicato dalla Lateran University Press. Ho pensato di offrire alcune riflessioni su: 1. Persona, natura e relazione nell’approccio metafisico
classico; 2. L’orizzonte trascendentale di ogni possibile concezione antropologica; 3. L’originalità di Joseph Ratzinger; 4. Per giungere poi
alla considerazione come tale del volume di Claudio Bertero.
Persona, natura e relazione nell’approccio metafisico classico
In san Tommaso d’Aquino la relazione è il concetto chiave della
dottrina trinitaria. Ciò segna un decisivo passo in avanti rispetto ad
Aristotele. Nella logica e nella gnoseologia aristotelica infatti esistono
solo relazioni predicamentali, perché la categoria della relazione fa
parte degli accidenti: ad esempio, il rapporto di un bambino con i suoi
genitori è solo una determinazione predicamentale, che viene detta di
un soggetto; l’essenza del figlio è la sua umanità e non la relazione con
* Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede
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i suoi genitori. Nel campo della creazione la sostanza non può essere
completamente identica con una relazione predicamentale. Ciò eliminerebbe l’autonomia della creatura e, nel caso dell’uomo, distruggerebbe in fondo la sua personalità, o perlomeno la ridurrebbe alla dimensione empirico-psicologica della comunità nella comunicazione
umana ed escluderebbe di conseguenza che l’ipostasi fondata nell’atto della creazione sia il presupposto metafisico dell’attuazione storica,
comunitaria e dialogica della personalità umana.
Secondo Tommaso bisogna ritenere che in Dio si dia una relazione
sussistente. Solo in Dio una relazione può esistere puramente come tale e costituire così l’unico fondamento costitutivo di una persona divina. Solo perché il Padre, il Figlio e lo Spirito sussistono in relazione l’uno con l’altro nell’unica realtà sostanziale di Dio, possono essere concepiti, proprio grazie a questa contrapposizione, come ipostasi
o persone distinte fra di loro. Nell’uomo gli atti fondamentali della
conoscenza e della volontà hanno solo una relazione accidentale con
la sostanza umana. Invece in Dio, che attua la sua essenza eterna generando il Figlio-immagine e volendo e amando, le relazioni contrapposte sono indicate come le tre persone divine. L’essenza di una persona trinitaria va perciò concepita come una relazione sussistente. La
relazionalità reciproca costituisce la distinzione delle persone, e l’unità dell’essenza consiste precisamente nella relazionalità delle persone.
Il vantaggio di queste riflessioni sta nel fatto che il concetto di persona non viene subito usato in modo assoluto, per poi essere faticosamente differenziato con il concetto di relazione. Non ci sono per così dire tre persone una di fronte all’altra, che poi vanno secondariamente pensate come costituenti un’unità, bensì la persona è già in partenza connotata dalla relazione sussistente. La sussistenza e la relazionalità sono i due momenti reciprocamente costituentisi, che formano
in ultima analisi l’essenza della persona divina.
L’orizzonte trascendentale di ogni possibile
concezione antropologica
I concetti di ipostasi (sussistenza, persona) e natura sono il risultato della riflessione sul contenuto della rivelazione preventivamente
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accolto mediante la fede. Particolare attenzione merita l’uso analogo e
non univoco del termine persona nel dogma trinitario e cristologico e
nell’antropologia teologica. Il termine natura indica il «che cosa»
(principium quo), cioè il modo di partecipazione di un ente all’essere,
da cui sono astratti i concetti universali (ad esempio albero, uomo).
Poiché l’esistenza di Dio è identica alla sua natura divina, il termine
«Dio» non può essere un concetto universale, il cui contenuto può essere realizzato in portatori individuali diversi. «Dio» indica piuttosto
l’unicità e la non divisibilità della realtà essenziale della potenza, che
si dà a conoscere come origine e fine nella creazione e nella redenzione. La persona indica invece la realtà irriducibile e non comunicabile,
cioè non scambiabile, di una simile natura esistente nel suo portatore.
Il concetto di persona ha subito un cambiamento essenziale nella
filosofia dell’evo moderno. Di qui derivano molti fraintendimenti anche circa la dottrina classica della Trinità. L’antropologia di René Descartes, secondo la quale l’uomo è composto di una sostanza spirituale e di una sostanza materiale, portò a ridurre il concetto (antropologico) di persona alla coscienza quale si riscontra in una natura sensibile. Successivamente, sotto l’influsso dell’empirismo, l’auto-esperienza dell’Io empirico-psicologico è stata identificata con la natura e
con la somma delle sue diverse disposizioni materiali. Trasponendo un
simile concetto di persona a Dio, avremmo la sostanza spirituale assoluta di Dio, che possiede la sua essenza in tre centri coscienti.
Ogni comprensione antropologica si qualifica in senso trascendentale. L’uomo è un essere storicamente condizionato, con esperienze di
fondo e concezioni di fondo opposte e contrastanti. Esistono così, ad
esempio, la concezione idealistica dell’uomo come di uno spirito confinato nella materia, o la riduzione materialistico-evoluzionistica dell’uomo a un semplice essere naturale. Ma se ci limitiamo a considerare e analizzare soltanto i fenomeni non arriviamo mai a far definitivamente luce sull’origine e sulla destinazione dell’uomo. Che cosa l’uomo è, risulta chiaro solo se riflettiamo sulla sua relazione con un’origine trascendente e con un fine che supera il mondo. L’uomo è l’essere vivente che, mediante il suo spirito, è orientato a un fondamento
che non è oggettivabile, che è all’origine dell’esistenza del mondo empirico, di cui anche l’uomo fa parte. Si potrà anche dire che la tra-
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scendenza è un abisso vuoto, ma non si può negare l’orientamento
trascendentale dell’uomo dato con lo spirito. E le domande che di qui
scaturiscono non possono essere liquidate come prive di senso, come
fa il positivismo. Alla base della fede cristiana sta l’esperienza che questo mistero assoluto e santo, imposto al pensiero, si è reso accessibile
nel Dio d’Israele e Padre di Gesù Cristo come la risposta alla domanda di chi l’uomo sia (cfr. Gaudium et spes, n. 22).
L’originalità di Joseph Ratzinger
Joseph Ratzinger, nel corso della sua lunga attività accademica come professore di Teologia fondamentale e di Dogmatica, autonomamente ha elaborato un’opera teologica che lo pone senz’altro tra i più
significativi studiosi del ventesimo e ventunesimo secolo. Da più di
cinquant’anni al nome di Joseph Ratzinger si ricollega un’originale visione d’insieme della teologia sistematica. I suoi scritti uniscono le cognizioni scientifiche della teologia all’immagine di una fede viva e vissuta. Come scienza che ha la sua genuina collocazione all’interno della Chiesa, la teologia ci mostra la vocazione particolare dell’uomo in
quanto creatura e immagine di Dio. Nella sua attività scientifica, Joseph Ratzinger ha sempre potuto attingere alla sua mirabile conoscenza della storia della teologia e dei dogmi, trasmessa in maniera illuminante mettendo in risalto la visione divina dell’uomo su cui tutto
si fonda. Essa diviene accessibile a molti attraverso un inconfondibile
repertorio lessicale e linguistico, per cui tematiche complesse non
vengono assoggettate ad una complicata riflessione tecnica – e quindi
sottratte alla comprensione media comune – bensì rese trasparenti
nella loro intima linearità. Al centro di tutto è la volontà divina di parlare a ogni uomo e la Sua parola che diventa la luce che illumina ogni
uomo (cfr. Gv 1, 9).
Nel lungo percorso dalla fine dell’antichità fino ai nostri giorni,
nessun vescovo e teologo ha lasciato sulla fede, la teologia e la questione dell’essenza della Chiesa, un’impronta altrettanto durevole di quella impressa da sant’Agostino. Egli si dedica ai problemi della fede con
l’atteggiamento fervido e fiducioso dell’uomo che è consapevole di Dio
e della salvezza che, in Gesù Cristo, gli viene dispensata. La grazia di-
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vina permette all’uomo di comprendere la fede non come mero costrutto teorico, bensì come un incontro con il Dio vivente, che ha luogo nel cuore di ogni uomo. Poiché l’uomo è persona in relazione, il cristianesimo è sostanzialmente ed essenzialmente una relazione tra persona e persona, e non tra persona e idea o legge morale, o spirito oggettivo di diritto, o scienza, religione cultura e filosofia. La fede è il
rapporto dell’uomo con Gesù e, tramite lui, con Dio e, in ciò, anche
comunione di vita con Dio e comunione di vita con tutti quelli che gli
appartengono nella Chiesa, in quanto comunione di fede, di speranza
e di amore. La mia personalità si sviluppa in rapporto alla persona di
mia madre, di mio padre, ai miei fratelli, amici e maestri, e non all’idea
di genitorialità, al piano funzionale d’insegnamento, alle strutture del
sistema educativo o al sistema accademico-universitario. La relazione
tra le persone è sempre preminente rispetto alla sfera materiale e agli
elementi fattuali, onde evitare che l’uomo «perda la propria anima».
Nella sua intensa disamina della teologia di sant’Agostino, Joseph
Ratzinger ha colto, tra gli altri fondamentali e interconnessi aspetti, la
complessa dimensione dell’approccio eucaristico dell’ecclesiologia riguardo alla Chiesa come istituto visibile: «Non c’è una dottrina dell’eucaristia e una dottrina della Chiesa, ma esse sono entrambe la medesima cosa. La Chiesa nasce e perdura in grazia del fatto che il Signore si comunica agli uomini, entra in comunione con loro e in tal
modo li mette in comunione reciproca. La Chiesa è il comunicare di
Dio con noi, che al contempo crea la vera comunicazione fra gli uomini. Perciò la Chiesa si costituisce sempre intorno ad un altare». Il
rapporto con Gesù è un rapporto di riconoscimento della sua persona nel segno dell’amore; amore non inteso ovviamente come un mero sentimento a lato del confronto razionale con le fonti storiche attestanti l’Evento di cui è origine. Qui amore significa accettare qualcun altro senza riserve e sperimentare al contempo che l’altro riconosce e accetta in maniera perfetta chi lo ama senza riserve. Gesù non è
solo exemplum, è anzitutto donum. Noi viviamo in Dio nella misura in
cui Egli vive in noi. Perciò l’incontro d’amore con Gesù è redenzione
e shalom di Dio, non solo perché io come creatura cerco di identificarmi con Dio, ma perché Dio si identifica con la sua creatura, avendoci amato già quando eravamo ancora peccatori (cfr. 1Gv 4, 10-16).
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Le molte singole affermazioni riguardanti l’immagine cristiana dell’uomo possono essere raccolte e strutturate nella mariologia in maniera tale che questa può essere concepita come antropologia concreta. Se non riduciamo la grazia alla semplice dichiarazione di Dio di essersi riconciliato con noi, ma la concepiamo come una sua reale autocomunicazione a noi e quindi anche come un cambiamento della nostra situazione in ordine a lui, allora dobbiamo necessariamente parlare di una risposta dell’uomo, che l’uomo stesso è nella sua dedizione a
Dio. Poiché Dio è nella sua auto-comunicazione il principio e il contenuto della nostra auto-attuazione in ordine a lui, l’auto-attuazione
realizzata della nostra libertà è un assenso effettivo e un’autentica cooperazione alla salvezza. Tale cooperazione non consiste in un completamento della causalità salvifica che scaturisce da Dio, né consiste in
un’attività autonoma che scaturisce da parte nostra. Nel caso di Maria
la cooperazione alla redenzione può solo consistere nel fatto che ella
accoglie liberamente, in virtù della grazia, la salvezza mediante la fede
e con la sua libertà permette così all’auto-comunicazione di Dio di
giungere all’uomo. Perciò ella è, in dipendenza dall’unione ipostatica
di Gesù Cristo – nella quale abbiamo davanti a noi la perfetta e piena
auto-comunicazione di Dio e la sua accettazione da parte dell’uomo –,
il primo frutto e la rappresentazione perfetta dell’auto-comunicazione
accettata di Dio. E questo è il compendio della salvezza.
Perciò non possiamo semplicemente dire che Dio viene con l’iniziativa della sua salvezza a noi e che noi risponderemmo con le nostre
forze: in questo modo Dio e l’uomo sarebbero messi su uno stesso piano. Vero è piuttosto che Dio è il nostro Creatore e che egli si comunica a noi in modo tale che la nostra creaturalità viene dinamicizzata
e trascendentalizzata in ordine a lui, in virtù della sua grazia. Per cui
il compendio della salvezza non è semplicemente l’auto-comunicazione di Dio, ma l’auto-comunicazione di Dio accolta dalla nostra libertà
nella grazia. E Maria non concepisce la concessione della grazia come
una faccenda religiosa privata: è dunque la comunione il luogo e il fine
della salvezza. Quanto più un essere umano è santo e pieno di grazia,
tanto più è aperto alla comunità e impegnato nei suoi riguardi.
L’antropologia teologica, in specie nella sua compiuta condensazione della mariologia, serve a conoscere che Dio è divenuto uomo af-
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finché noi, attraverso l’umanità di Gesù Cristo (quale capo e corpo, il
Cristo totale), partecipassimo alla vita dell’amore trinitario di Dio.
Nella condivisione della vita divina si manifesta una relazione specifica con le singole persone divine. Come la beata vergine Maria, Madre
di Dio, mediante la fede, divenne figlia del Padre, madre del Figlio, il
Verbo incarnato, e tempio e sposa dello Spirito Santo (cfr. Lumen gentium, n. 53), così tutti i credenti sono chiamati a divenire in Cristo figli e figlie di Dio. Nella fede e nella sequela, Cristo è per così dire di
nuovo partorito da loro, cioè testimoniato davanti al mondo. Ed essi
sono, come templi dello Spirito, destinati a un rapporto amicale e
sponsale con lo Spirito Santo.
Il volume di Claudio Bertero,
Persona e comunione. La prospettiva di J. Ratzinger
Nel suo poderoso volume, Claudio Bertero passa analiticamente in
rassegna – per poi ricomporli in una efficace sintesi conclusiva – quei
quattro fondamentali aspetti che, attinenti in modo specifico all’ambito antropologico, hanno determinato il fine ultimo della sua appassionata ricerca. Essi trovano nella distinzione persona/natura, indagata all’origine a livello cristologico e trinitario, e nella diastasi Creatore/creatura – diastasi che «rappresenta sul piano antropologico la ricezione ratzingeriana della distinzione reale» – i principi metodologici adeguati per la tematizzazione dell’analogia, «su cui si è articolata
l’intera elaborazione dell’antropologia ipostatica alla luce della teologia trinitaria e cristologica» (p. 840).
Bertero stesso descrive come di seguito le quattro scansioni interconnesse dell’antropologia, individuate in filigrana attraverso tutta
l’opera del grande teologo bavarese: «1) il valore della riconnessione
ratzingeriana di “persona” al proprio ambito sorgivo; 2) l’evidenziazione operata dall’Autore della dimensione evenemenziale/attuale
della persona (actualitas); 3) il valore e l’originalità della lettura ratzingeriana dell’imago biblica in connessione con la dogmatica», infine,
circa il costitutivo rapporto tra “persona e comunione”, 4) «un’indicazione di metodo dell’Autore sulla natura comunionale dell’esperienza cristiana» (p. 841).
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L’auto-comunicazione originaria di Dio nella creazione e la sua accettazione da parte dello spirito e della libertà umana non avrebbero
alcun senso, se la storia di Dio con gli uomini non consistesse nella rivelazione di Dio, come del contenuto che completa le sue creature.
Dio crea il mondo e si comunica all’uomo per essere e per dominare
come Dio al di sopra di tutto e in tutto (cfr. 1Cor 15, 28). Nella storia
della salvezza diventa manifesto anche il mistero trinitario di Dio, allorché il Verbo incarnato di Dio, il mediatore e l’uomo nuovo Gesù
Cristo, fa del peccatore un «uomo nuovo», «che si rinnova, per una
più piena conoscenza, a immagine di colui che l’ha creato» (Col 3,
10ss). Ma una natura spirituale e una creatura predisposta ad amare
trovano il loro compimento solo nella partecipazione alla conoscenza
trinitaria di Dio e nella condivisione dell’amore delle persone divine
del Padre, del Figlio e dello Spirito. La visione di Dio «faccia a faccia» (1Cor 13, 12), «com’egli è» (1Gv 3, 2), è «la vita eterna» (Gv 17,
3). «Lo Spirito Santo, che è stato riversato nei nostri cuori» (Rm 5, 5),
sorregge e guida l’uomo, nell’intimo della sua persona e nella comunione delle persone, alla vicinanza immediata a Dio, cui dice: «Abbà,
Padre» (Gal 4, 4-6; Rm 8, 29).
La fede, nella sua sostanza profonda, è relazione dell’uomo con
Dio “Padre nostro”, il quale concentra la sua Rivelazione in Gesù Cristo e la perpetua grazie al dono dello Spirito Santo. Mediante la fede
siamo resi “figli di Dio” nel suo Figlio Unigenito (cfr. Gal 3, 26). Essa introduce perciò l’uomo alla comunione con il Dio trinitario, collocandolo vitalmente all’interno di una circolarità di Logos e Agape che
rivelano e inverano altresì l’umana natura, la quale è razionale e relazionale. La stessa natura razionale dell’uomo lo costituisce come essere in relazione in un modo del tutto peculiare nel cosmo, al punto da
consentirgli di entrare in rapporto libero e consapevole con il Logos
originario, e ciò è possibile proprio perché – come scrisse il giovane
Ratzinger in Einführung in das Christentum – «la sua ragione è logos del
Logos, pensiero del Pensiero fontale, dello Spirito creatore che permea
tutto l’essere» (ed. it., 201319, p. 29).
La categoria di filiazione – e termino con parole dell’allora Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, cui anche Bertero
opportunamente si richiama nelle battute conclusive del suo pregevo-
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le lavoro (cfr. p. 845) –, «se da una parte costituisce il fondamento della persona di Gesù Cristo, rivela ugualmente l’identità ultima di ogni
uomo... L’antropologia filiale costituisce una prospettiva che rende ragione della feconda ed autentica partecipazione dell’uomo al Mistero
trinitario e della vocazione che Dio ha affidato alla libertà e responsabilità della sua creatura e offre comprensione all’uomo in quanto essere chiamato alla filiazione».
Auguro che questo prezioso libro trovi molti lettori attenti e appassionati e contribuisca a far conoscere il pensiero antropologico di
Joseph Ratzinger/Benedetto XVI, che continua a essere luce sicura
per il nostro cammino.
Ringraziamenti
D’accordo con il Prof. Alfonso Amarante, vice preside dell’Accademia Alfonsiana, vorrei prima di tutto ringraziarla, Eminenza, per la sua presenza
tra noi nell’occasione di questo omaggio reso a sua Santità, il Papa emerito
Benedetto XVI, mediante la presentazione del libro, corposo e profondo, di
don Claudio Bertero: Persona e comunione. La prospettiva di Joseph
Ratzinger, volume che ha ottenuto il premio della migliore tesi dottorale nell’anno accademico 2012-2013 presso la Pontificia Università Lateranense.
Faccio notare, “en passant”, che il volume è già alla sua seconda edizione.
Non insisto sul valore dell’opera, ben messo in rilievo da Sua Eminenza,
piuttosto vorrei pronunciare alcune parole sul nostro maestro comune, Joseph
Ratzinger/Benedetto XVI, incontrato da me per la prima volta a Tübingen
(Germania) nel settembre 1969 e visitato recentemente nella sua residenza
vaticana il 22 maggio scorso per consegnargli personalmente, con don Bertero, il volume presentato oggi pubblicamente in questa sede accademica.
Ho trovato in entrambe le occasioni, come nella collaborazione avuta con
lui per più di 30 anni, un uomo amabile, umile, di grande intelligenza, cordialmente legato ai suoi amici e collaboratori. In questo incontro abbiamo ricordato quegli eventi ed esperienze che hanno disegnato, come piccole pietre
di un mosaico, la figura dei nostri legami di amicizia.
Ciò detto, vorrei innanzitutto sottolineare come questa amicizia è stata positiva per me (ho imparato tanto da lui), ma pure per l’Accademia Alfonsia-
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na. Penso in particolare al dottorato “honoris causa” consegnato il 7 dicembre
1996 al grande teologo francese redentorista del secolo scorso: François-Xavier
Durrwell, per il quale l’allora Prefetto della Congregazione per la Dottrina
della Fede, il cardinale Joseph Ratzinger, si impegnò di persona. E oserei dire che quella celebrazione accademica di un grande teologo come Durrwell fu
uno dei momenti più belli vissuti in questo ambiente accademico.
Molti altri eventi potrebbero naturalmente essere menzionati, ma quello sarà sufficiente per far capire come il nostro Istituto è stato e rimasto caro a Joseph Ratzinger/Benedetto XVI.
Così si imponeva con l’uscita del lavoro di don Bertero (pubblicato dalla
Lateran University Press) di rendere omaggio alla figura de Benedetto XVI
e di dirgli grazie per tutto ciò che ha fatto per noi.
Ho ricevuto da lui un biglietto nel quale mi augurava di essere “in comunione di pensiero e di preghiera”. Mi piace estendere questo augurio a
tutti noi e soprattutto agli studenti di questa Accademia, quelli di oggi e
quelli di domani. Grazie!
RÉAL TREMBLAY, C.SS.R.
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Glaube und Moral
Gegenwärtige Herausforderungen
– Werteumorientierung – Wandel der Moralnormen?
Konferenzbericht
Catholic Theological Ethics in the World Church (CTEWC)
Kraków, 14.-16. November 2014
Konrad Glombik*
Während des Treffens der Vertreter der katholischen theologischen Ethik zur Netzwerkbildung in Europa im Rahmen der
CTEWC in Berlin (27.-29. Juni 2013), wo man auf unterschiedliche
Erfahrungen, Bedürfnisse und Erwartungen stieß, aber auch gegenseitige Vorurteile zwischen den west- und osteuropäischen Moraltheologen spürte und feststellte, wurde beschlossen eine wissenschaftliche Konferenz in Polen zu veranstalten. Dieses Land verfügt
über den wohl größten Kreis der Vertreter der theologischen Ethik
in Europa (die Mitgliederzahl der Vereinigung der polnischen Moraltheologen beträgt über 150 Namen), die an sieben staatlichen
Universitätsfakultäten und an mehreren kirchlichen Priesterausbildungsstätten unterrichten und forschen. Eine konkrete Gestalt des
Themas und der Veranstaltung dieser Konferenz wurde beim folgenden Treffen des Organisationsteams (James Keenan, Roman Globokar, Konrad Glombik) in Ljubljana im April 2014 ausgearbeitet.
Die Konferenz Glaube und Moral fand im November 2014 in Kraków statt. Diese Stadt mit der Jagiellonischen Universität hat die älteste akademische Tradition in Polen und ist mit der Person von Johannes Paul II., einem wichtigen Vertreter des Personalismus, von
dem die polnischen Moraltheologen stark beeinflusst sind, verbun-
* Professor für Moraltheologie und Spiritualität an der Theologischen Fakultät der
Universität Oppeln
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KONRAD GLOMBIK
den. An dieser Konferenz nahmen Vertreter der westeuropäischen
Länder (Großbritannien, Deutschland, Italien, Frankreich, Spanien,
Belgien) wie der osteuropäischen (Tschechien, Slowakei, Kroatien,
Ukraine, Slowenien, Ungarn, Bosnien-Herzegowina), aus verschiedenen theologischen Einrichtungen in Polen (Warszawa, Opole,
Olsztyn, Kraków) und die Mitglieder des Planungskomitees (aus den
USA, Kenia, Hong Kong, Puerto Rico) teil.
Das Thema der Konferenz war eine der Grundfragen der theologischen Ethik nach dem Zusammenhang zwischen Glaube und Moral angesichts der gegenwärtigen Herausforderungen, hauptsächlich
der Säkularisierungsprozesse, die im Zeitalter der Globalisierung alle europäischen Gesellschaften betreffen. Auch wenn es auf der speziellen und konkreten Ebene unterschiedliche Ausgangspunkte und
spezifische Fragen, die das Denken der europäischen Vertreter der
theologischen Ethiker prägen, gibt, war es die Absicht der Konferenz
diese Unterschiede als gegenseitige Bereicherung und als einen Beitrag zum Kennenlernen und zum Austausch zur Sprache zu bringen.
Das Thema der Konferenz wurde in drei Sessionen besprochen,
in denen die einzelnen Probleme durch kurze Referate aus west- und
osteuropäischer und polnischer Sicht präsentiert und durch die
Stimme aus den anderen Kontinenten (Asien, Afrika und Nord- und
Südamerika) kurz kommentiert wurden. Die dargestellten Themen
wurden auch während der Diskussion in drei Gruppen und während
einer Podiumsdiskussion näher angegangen, besprochen und geklärt,
so dass alle Teilnehmer der Konferenz die eigene Erfahrung und
Sicht der Fragen einbringen konnten.
Im ersten Teil der Konferenz wurden die gegenwärtigen Veränderungen und Herausforderungen, die für die theologische Ethik eine Relevanz haben, dargestellt. Nach Alain Thomasset aus Frankreich sind aus westeuropäischer Sicht die wichtigen Herausforderungen drei Problembereiche: der Platz für die Stimme der theologischen Ethik zu den verschiedenen Fragen in den öffentlichen Debatten, das richtige Verständnis der Moralnormen und die Wahrnehmung der Stimme der Armen. Für die vielschichtige osteuropäische
Perspektive ist die Hauptherausforderung für die theologische Ethik
einerseits die Verwurzelung des theologischen Diskurses in der Ge-
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KONFERENZBERICHT CATHOLIC THEOLOGICAL ETHICS IN THE WORLD CHURCH
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sellschaft und andererseits ihre Internationalisierung – so Petr Štica
aus Tschechien. Darin geht es um einen Dialog mittels einer verständlichen Sprache mit den Theologen anderer Länder, mit den
Gesellschaften, in der Kirche und die Präsenz der theologischen
Ethik in der Öffentlichkeit. Für Marian Machinek aus Olsztyn, der
die Herausforderungen aus polnischer Sicht besprach, sind die größte Herausforderung für die theologische Ethik die Säkularisierungsprozesse und die damit verbundene Kluft zwischen den Glaubensüberzeugungen und den Lebenseinstellungen vieler Gläubigen und
die Frage nach dem Platz der Kirche in einem laizistischen Staat und
den Christen in einer modernen Gesellschaft (u.a. die Frage nach
dem Gewissenskonflikt). Aus afrikanischer Sicht sprach Elias Opongo aus Nairobi in Kenia über die moralische Führung dieses Kontinents und der Kirche für die Welt. So verstandene Führung muss in
der sozialen, politischen und religiösen Ethik verwurzelt sein.
Im zweiten Teil der wissenschaftlichen Diskussion ging es um die
nachhaltige Entwicklung der Werte. Martin M. Lintner aus Brixen
in Italien sprach über die Frage des Zusammenhangs zwischen der
Person und dem Gewissen. Er betonte, dass im säkularen Kontext
die Wahrung der Menschenwürde das Recht auf die ungestörte Entfaltung der Persönlichkeit entsprechend den persönlichen Überzeugungen, d.h. als den Schutz der subjektiven Gewissens- und Glaubensüberzeugungen bedeutet. Das Gewissen ist dem sittlich objektiv
Richtigen verpflichtet, die Gewissensentscheidung des Einzelnen
kann jedoch nicht auf einen reinen Akt von Normanwendung reduziert werden. Maryana Hnyp aus der Ukraine sprach über den Wert
der Familie vor dem Hintergrund der gegenwärtigen Umbrüche. Sie
beschrieb die Lage der postmodernen Familie, die mit den modernen Lebensstilen zusammenhängt, griff die Bischofssynode über die
Ehe und Familie auf und kam zu der Schlussfolgerung, dass die Familie als Bild, Träger und Kommunikator der unveränderten Werte
dienen kann, die Kirchenlehre über die Familie sollte jedoch nicht
vom Standpunkt eines abstrakten Ideals, sondern von der Position
der bestehenden Probleme im konkreten historischen und gesellschaftlichen Kontext hergeleitet werden. Sławomir Nowosad aus Lublin sprach über die Aktualität der für das soziale Leben relevanten
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Werte: Gerechtigkeit und Solidarität. Sie sind eine Grundlage auch
für die modernen Gesellschaften, damit sie wirklich wahre menschliche und geschwisterliche Gemeinschaften bleiben. Gerechtigkeit
und Solidarität sind unentbehrlich für das Zusammenleben der Menschen, unabhängig davon, welchen Problemen, Gefahren und Desorientierungen der moderne Mensch ausgeliefert sei und mit denen
er zurechtzukommen versucht. Lúcás Chan aus Hong Kong, die
Stimme aus Asien, wies darauf hin, dass alle dargestellten Werte drei
konzentrische Kreise der menschlichen Beziehungen in der Moraltheologie darstellen: Person, Familie und Gesellschaft, die miteinander verbunden sind. Er sprach die im Konfuzianismus vorhandenen
entsprechenden Werte an. Die im Zentrum stehende Person und das
durch das asiatische Denken unterstrichene Gebot der Selbstkultivierung führen von der Person durch die Familie und die Gesellschaft bis in das Universum hinaus.
Die Frage nach der Veränderung der Moralnormen wurde während der dritten Session der Konferenz behandelt. Ireneusz Mroczkowski aus Warschau sprach über den universalen und partikularen
Charakter der Moral. Er betonte, dass es auf dem Hintergrund der
modernen Herausforderungen und aus der Sicht des nachhaltigen
Wertewandels weder um eine Veränderung der Moralnormen noch
um einen Katalog der einer Korrektur bedürftigen Normen geht,
sondern um eine positive Antwort der theologischen Ethik auf die
gegenwärtigen Herausforderungen. Der Referent sprach von einem
Zusammenhang zwischen der Universalität und der Partikularität der
Moral und betonte, dass man in der theologischen Ethik nicht von
der konziliaren Neuorientierung der Moraltheologie abweichen, vielmehr den modernen Kontext des Verständnisses der Natur der
menschlichen Person berücksichtigen und die christliche Identität bei
der Reflexion über die Moral bewahren soll. Zur Frage Neue Normen
oder neue Sprache? referierte Julie Clague aus Glasgow. Sie führte aus,
dass Johannes Paul II. zum Denken über die Geschichtlichkeit der
Kirchenlehre und der Moral beitrug, was einige Beispiele bestätigten
(die Frage der Todesstrafe, der Würde der Frau, die Theologie des
Leibes). Dabei betonte Johannes Paul II. die grundsätzliche Bedeutung der Kirchenlehre und die Bewahrung der Kontinuität der Tradi-
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KONFERENZBERICHT CATHOLIC THEOLOGICAL ETHICS IN THE WORLD CHURCH
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tion. Papst Franziskus verweist dagegen auf die allmähliche Reifung
der Kirche im Verständnis der Wahrheit und die Vergeblichkeit solcher Grundsätze, die ihre ursprüngliche Bedeutung verloren haben.
Es geht also nicht um eine Dichotomie zwischen Moralnormen und
der Sprache, sondern um verschiedene Betrachtungsweisen der Entwicklung der Morallehre der Kirche. Gusztáv Kovács aus Ungarn
sprach über das Problem der Moral zwischen dem Idealismus und der
Wirklichkeit. Er verwies darauf, dass die Fragen der Wirklichkeit
manchmal das aus Idealen fest gefügte Gebäude der Moral zerstören
können, aber es auch möglich machen, ein umso helleres und getreueres Bild der Wirklichkeit zu erreichen. Die theologische Ethik kann
dem Menschen nicht durch überhöhte Anforderungen dienen, sondern als Quelle der Beweggründe, die unvollkommenen und weit von
den Idealen entfernten Handlungen, Ziele und Beziehungen im Licht
des Evangeliums zu erblicken. Zum Schluss dieser Session sprach als
Stimme aus Nord- und Lateinamerika Maria Theresa Dávila aus
Puerto Rico. Sie bewertete die Referate mit den Worten Eleganz,
Harmonie und Einheit und wies auch auf ihre Antonyme hin: Arroganz, Disharmonie und Zwietracht. Die Aufgabe der Vertreter der
theologischen Ethik ist es, zur Sprache zu bringen, dass Gott ständig
auf der hässlichen Seite der Lebensfragen unserer Zeit spricht. Er
spricht Worte der Hoffnung und der Liebe auch im Kontext der Arroganz, Dissonanz und Zwietracht, die manchmal die Erfahrung der
Menschen in der Welt dominieren. Die Aufgabe der Moraltheologen
ist es, den Worten Gottes Stimme und Bedeutung zu geben in Kontexten und Gesellschaften, in die sie gestellt und gesendet wurden.
Sowohl in den Referaten als auch in den Diskussionen und Gesprächen während der Konferenz spürte man verschiedene Akzente
und Erfahrungen und unterschiedliche Sichtweisen relevanter Fragen der gegenwärtigen theologischen Ethik. Die freundschaftliche
Stimmung bei den Diskussionen bewirkte, dass die Differenzierungen nicht eine trennende Mauer entstehen ließen, sondern gegenseitiger Bereicherung dienten. Die Konferenz in Krakau führte zu keiner gemeinsamen Stellungnahme, sondern trug zum gegenseitigen
Kennenlernen der Vertreter der theologischen Ethik aus verschiedenen Ländern Europas bei und setzte den Anfang für einen breiteren
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KONRAD GLOMBIK
Dialog und hoffentlich eine weitere Zusammenarbeit und gemeinsame Forschungsprojekte über die Grenzen hinaus. So wurde sie zu einer wichtigen und gelungenen Veranstaltung im Bau eines Netzwerkes Catholic Theological Ethics in the World Church, in dem die europäischen Theologen eine bedeutende Rolle spielen. Sie ist aber auch
ein wichtiger Schritt auf dem Weg zu einem vereinten Europa im
Bereich der Theologie.
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