È Facile Affrontare I Problemi Della Vita Se Sai Come

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È Facile Affrontare I Problemi Della Vita Se Sai Come
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Prima edizione in ebook: marzo 2014
© 2014 Newton Compton editori s.r.l.
Roma, Casella postale 6214
ISBN 978-88-541-6618-9
www.newtoncompton.com
Pino De Sario
È facile affrontare i problemi della vita se
sai come farlo
Newton Compton editori
Ad Alice, Lorenzo e Francesca
e a tutti i ragazzi perché imparino due cose:
la convivenza con gli altri e la concretezza delle cose
Prefazione
La nostra felicità, per un gioco di parole, è nella nostra facilità. La vita è infatti
molto facile se impariamo a prenderla. Ma nel prenderla siamo un po’ come le
piante giovani, che se non hanno un supporto possono venir su anche molto
storte. Perché? È difficile saperlo a tutto tondo, forse i due bisogni più forti che
ognuno di noi ha, quello di sopravvivenza fisica e quello di convivenza sociale, ci
espongono a voler fare poca fatica, a spremerci poco, a delegare, a non
impegnarci come invece potremmo. Per cui, saper prendere la vita, da “storti” o
da “dritti” che siamo, il punto cruciale per star bene è voler imparare
costantemente da problemi, conflitti, insuccessi ed errori. E questo non è facile.
Abbiamo bisogno di un altro modo di agire, di pensare, di sentire, di stare con gli
altri. E anche questo non è facile, ma questo libro ti può accompagnare un po’ in
tutta questa complessità che c’è.
1. Un punto importante di questo libro: nel difficile e complicato c’è il germe
della crescita e della facilitazione di sé. Qui provo a indicare un percorso di
educazione, un “polmone educativo” allo stare con gli altri e per la gestione delle
proprie e altrui “negatività”, i due fulcri centrali per l’arte della facilità. Credo che
la forza distruttiva di una situazione non agisca da sola, che essa abbia bisogno di
un concorso della persona. Possiamo “bonificare” la tossicità di quel negativo, che
ci capita un po’ tutti i giorni, mettendoci più educazione, un’educazione tuttavia
meno moralista e più centrata su metodi concreti, strumenti e pratiche
applicative che sappiano farci stare nelle situazioni quotidiane reali, non tanto
quelle idealizzate e immaginate. Immaginate per fare meno fatica.
2. Da formatore quale sono, docente all’università e nei gruppi in diversissimi
contesti, molte volte mi sento dire da allievi quanto sia vista con favore l’offerta
di un po’ di metodo, di buoni concetti e buone applicazioni, in quelle che restano
le nostre attività più complicate, le relazioni con gli altri, così imprevedibili e
mutevoli, così sfaccettate e contraddittorie. Siamo presi da stanchezza e pigrizia
conservatrice, dalla paura di sbilanciarci, e rinunciamo così a ogni capacità di
evolverci, crescere. Questo libro, a differenza di altri, parte proprio dalle difficoltà
e dalle “negatività”, così frequenti, di tutti e dappertutto. Gli esseri umani sono
infatti creature ambivalenti, la generosità ci viene spontanea, ma anche la
crudeltà e l’aggressività non ci mancano.
3. Non ci hanno poi raccontato abbastanza che l’altro ci costruisce (non c’è
soggettività senza l’altro), che incontro e scontro sono facce della stessa
medaglia e possono coesistere. Da questo impasto nasce l’unione, l’insieme, il
gruppo e, come scrive Schopenhauer, noi siamo come i porcospini: se stiamo
troppo vicini ci pungiamo, se stiamo troppo lontani abbiamo freddo. Della serie,
non siamo quasi mai contenti, troppo vicini non va bene e troppo distanti
neanche. Possiamo imparare, impegnarci sentendoci e sentendo gli altri. Il
contatto con le persone è il nostro “olio” nel motore, la volontà individuale in
questa metafora motoristica è invece la benzina.
4. Possiamo e dobbiamo diventare adulti competenti nelle emozioni e nelle
negatività, possiamo “studiare” per diventare un “facilitatore pratico”, colui cioè
che aumenta le proprie capacità comunicative ed emotive ed evita, dei propri
problemi e difficoltà, di dare sempre le colpe ad altri.
5. Molti studi ci dicono che quello che ci succede internamente in fatto di
funzionamenti neurobiologici, la qualità dei nostri pensieri e sentimenti, le
interazioni con gli altri sono tre piani fortemente collegati, da cui dipende la
nostra qualità di azione. Cervello, mente e relazioni sono da sintonizzare, mettere
su una frequenza simile, e questo libro partendo dagli ultimi studi scientifici indica
un’ampia galleria di strumenti da mettere in pratica, metodi che concretizzano
quello che nelle università si è studiato, per capire di più perché siamo incostanti,
irritati, litigiosi e stanchi.
6. Dopo le premesse scientifiche (prima parte), i metodi pratici per vivere più
facile (seconda parte), la terza parte sarà dedicata alle vive applicazioni in sei
contesti: la coppia, i genitori, il lavoro, i gruppi, gli adulti e il benessere. Qui
proverò con esempi più che reali a tradurre ancora più nel vivo le basi esposte
nelle altre due parti. Il “facilitatore pratico” è infatti un coniuge o un partner, un
genitore, un lavoratore (capo e collaboratore), un vicino di casa o un membro del
volontariato, una persona adulta proiettata verso il massimo del suo benessere,
verso emozioni positive, verso una maggiore connessione tra dire e fare.
7. Facilitare sé e gli altri, è un verbo (facilitare), è un sostantivo (facilitazione), è
un aggettivo (facile), ma qui lo vediamo come un’alta competenza relazionale ed
emotiva. Per “facilitazione esperta” si intende infatti quell’insieme di capacità da
mettere in atto in forma intenzionale, con atteggiamento attento, con l’obiettivo
possibilissimo di aumentare le risorse in gioco. Quattro le capacità da mettere nel
proprio cantiere: integrare le parti (F1), connettersi con gli altri (F2), gestire la
negatività e trasformarla in positività (F3), allenare la mente (F4). Facile è quindi
crescere nella complessità e riuscire a farne sintesi di qualità, salute e benessere.
La sintesi viene chiamata “integrazione” e un buon metodo per perseguirla è la
“facilitazione”: l’arte di comporre gli insiemi, una nuova arte di unire.
8. Hai nelle mani un libro, forse un po’ enciclopedico, forse a un primo impatto
non facile, ma ricco di indirizzi e orientamenti pratici per sintonizzare cervello,
mente e relazioni, in una modalità che considero naturale, non finta, che valorizzi
le tue qualità e potenzialità umane e persone e cose che ti circondano. Ricorda,
la facilità è nell’abbracciare la complessità e nell’ammettere le difficoltà che ti
appaiono davanti. In queste pagine puoi trovare dunque una miriade di buoni
criteri su come stare in famiglia, come aumentare il tuo smalto nel lavoro, come
imparare a stare meglio con te stesso/a, come stare nei gruppi, i più diversi tra
quelli che frequenti. Il segreto è unire. “Unisciti” con te e “unisciti” con altri.
PARTE PRIMA
Premesse, trappole e opportunità: un nuovo
"polmone educativo"
Siamo naturalmente differenti e conflittuali
Da vent’anni ho intrapreso la professione di formatore e facilitatore nel campo
delle risorse umane, frequentando contesti di ogni genere: le amministrazioni
pubbliche, la sanità, le aziende private, le scuole, i gruppi di cittadini.
E dire che da piccolo ero vergognoso e timido! Mi ricordo, alle medie seduto al
penultimo banco, arrossire quando mi chiamava la professoressa di inglese o non
proferire parola alle feste con parenti che conoscevo appena. Ripensandoci bene,
mi viene in mente che la nostra personalità è come una rosa che sta per
sbocciare: prima spuntano certe sfumature e sembianze, poi, subito, si trasforma
in altri colori ed altre forme; così è stato per me: a vent’anni, in discontinuità con
la fanciullezza, mi sono trasformato in estroverso e burlone, rivolto agli altri e alle
compagnie. In quell’epoca della mia vita ho esperito e consolidato l’amicizia tra
maschi: con l’amico del cuore di turno, ricordo ancora quel solido legame
composto da affetto, intesa, confidenza, interessi comuni, passioni, che tutti
insieme andavano a formare “corpi unici”. Una sensazione così intensa e profonda
che, una volta adulto, non credo di aver più provato. Le amicizie di quella
stagione hanno toccato così profondamente i miei pensieri, che se oggi facessi
una tac, penso che potrei ritrovarne tracce fisiche nelle immagini, quasi grumi di
emozione intensa per le ore trascorse, segni lasciati da quei lunghi pomeriggi
insieme.
In confronto a quell’epoca la vita adulta di relazione è più complessa, più varia,
tuttavia spesso deludente. Stare con gli altri ci stimola e ci crea problemi, è
un’attività che ci coinvolge dalla mattina alla sera: in casa in famiglia e fuori al
lavoro, non facciamo che relazionarci con altre persone, una fatica e anche
un’opportunità. Questo è il focus di questa Parte prima del libro, in cui provo a
spiegare perché siamo così difficili, incostanti e perché le pieghe negative molto
spesso invadono tutto, sembrando di gran lunga maggiori di quelle positive.
Vorrei raccontarvi quali fattori concorrano allo stare insieme con gli altri e i motivi
per cui siamo più conflittuali che conciliatori. È pur vero che le relazioni non le
possiamo standardizzare e programmare mai, che nel loro sali e scendi ci faranno
tribolare comunque, passando – come è per molti di noi – da buoni momenti ad
atmosfere critiche e insulse. Credo che a tutti noi serva un polmone educativo,
dove recuperare nuovo ossigeno per:
- imparare a rispettare le differenze;
- mettere nel conto le divergenze;
- ascoltare con più attenzione;
- controllare ed esprimere le emozioni;
- domare la nostra aggressività (fredda o calda che sia);
- scendere a patti con le proprie forme passive più disdicevoli;
- capire come accordarsi e negoziare;
- provare a rimotivarci via via riponendo nuova fiducia in noi;
- avere strumenti per attivarci, inventare nuove risorse, nuove qualità umane,
nuovi modi per rinnovare il senso alle cose e alle relazioni.
È già il programma completo di questo libro che hai in mano: evidenziare i
fattori difficili e oppositivi delle situazioni, non raccontarci favole o storie a lieto
fine, imparare alcuni concetti e metodi all’interno del “polmone educativo”.
L’altro giorno ero in aula con un gruppo di medici e alla conclusione del corso
uno di loro ha giustamente rimarcato quanto «le relazioni siano variabili
imprevedibili e quanto ci manchi un metodo, delle abilità per orientarcisi».
Questo è esattamente un obiettivo primario del libro.
Tra geni e cultura
Perché ci prendono certe paure improvvise? Perché aggrediamo e ci
attraversano spesso reazioni repulsive verso gli altri che non sappiamo come
tenere a bada? Perché dobbiamo ricucire una ferita relazionale molto spesso
raccontandoci storie camuffate però utili alla ricongiunzione con gli altri? Siamo
conflittuali e imprevedibili innanzitutto per una memoria antica che i nostri geni ci
imprimono, un file nascosto che abita all’interno di ognuno di noi, provocando
comportamenti che sono tutti riflessi tipici e per tutti uguali a causa della nostra
appartenenza alla nostra grande famiglia, Homo sapiens, nata circa 200.000 anni
fa in una remota valle dell’Etiopia, da cui la nostra specie ha mosso i primi passi.
Della nostra lunga storia come umanità abbiamo zone chiare e zone ancora
scure, ma certamente siamo passati da forme primitive di aggregazione ad altre
più sofisticate e artefatte, pur tuttavia certi comportamenti forse un po’
grossolani, automatici, quelli di attrazione e repulsione verso gli altri, restano
ancora oggi i medesimi dei nostri antenati passati.
Nei geni abbiamo i nostri antenati. Gli studi ci dicono che l’altruismo ha
rafforzato le nostre capacità di convivenza sociale e che nei confronti della
solitudine nutriamo solitamente diffidenza e disapprovazione. Abbiamo nelle
cellule una memoria antica che ci istiga a stare in gruppo perché ciò ci aiuta a
sopravvivere: così fu per i nostri antenati che erano costretti a combattere ogni
giorno sul campo per la loro sopravvivenza1. Come umani, così nel passato e così
oggi, per mangiare avremo sempre bisogno di comunicazione e scambio, siamo
infatti appartenenti a una specie a forte connotazione relazionale, una specie
denominata ultrasociale. Ma a occhio nudo non passa giorno in cui le ostilità nel
mondo assomigliano a un gioco di tutti contro tutti, non dando certamente
parvenza di una grande famiglia, che tenta di annodare il senso di una
convivenza, forse occasionale, ma pur sempre comune.
Le nostre differenze, paure e conflitti provengono, quindi, in parte dal nostro
impianto naturale, di cui al centro c’è la dimensione di “specie”, la nostra matrice
di fabbrica, geneticamente2 e biologicamente rilevante. Se vediamo quindi un
comportamento non bello negli altri, oltre che stigmatizzarlo, occorre considerarlo
tipico della nostra famiglia più allargata: molti nostri modi di fare provengono
dall’appartenenza a questa specie sapiens sapiens ultrasociale!
Da un altro punto di vista, sappiamo che all’interno della grande famiglia umana
agiscono categorie fondate su differenze etniche, religiose, sessuali, in una parola
culturali. La cultura e l’apprendimento sono l’altra fonte – insieme ai geni – da cui
provengono discriminazione e disapprovazione verso gli altri, in un formidabile
guazzabuglio di ingredienti distanzianti e difese razionalizzanti che spesso si
traducono in frasi come: “Con quelli là non parliamo”, “Loro non li capiamo
proprio”, “Delle loro attenzioni c’è solo da diffidare”. Si può osservare come le
norme di convivenza, i valori, le credenze, spingano le nostre interazioni verso
complicazioni e rigidità. Affermazioni come “non è che odio i colleghi
dell’amministrazione, sono loro che sono scorretti con noi”, oppure “le mogli
stanno col fiato sul collo e mostrano una dipendenza da noi mariti”, o ancora “le
lauree scientifiche sono asettiche rispetto a noi umanisti” sono l’espressione di
categorie mentali da cui sgorgano varie forme di barriere tra gruppi e tra
persone.
La nostra esperienza nelle famiglie e nei luoghi sociali è tutta percorsa dalla
dimensione dell’ostilità verso l’altro. Combattere, odiare, essere estranei creando
gruppi di affinità e amicizia che lottano contro i nemici di turno. Sembra che noi
umani non riusciamo a vivere senza conflitto e neanche senza nemici. Con questa
mentalità operiamo una netta distinzione tra amico e nemico, evidenziando
anche arbitrariamente i gradi di intensità di un’unione o di una separazione. Il
germe della differenza e del conflitto è sempre vivo, inventiamo il nemico in casa,
il nemico al lavoro, il nemico esterno in genere, che crea scompiglio spesso
inutile, ma rende almeno rinforzata la nostra identità e garantisce il
compattamento dei legami preferenziali.
Ognuno è un mondo a parte
Siamo davvero mondi a sé stanti! I nostri riverberi mentali, emotivi, affettivi
sono molto speciali e particolari, di essi ci accorgiamo veramente quando
sostiamo vicini al “sistema” dell’altro (relazione, lavoro, vacanza). Sì, “sistema”,
la parola lo rende bene, proprio perché ognuno è un teatro di comportamenti e
caratteristiche proprie che, quando vogliamo offendere, chiamiamo pazzie,
stranezze, storture, aberrazioni.
Uno è troppo preso da sé e vede gli altri come sfondo; un altro prova soggezione
rispetto a chi è più aggressivo o semplicemente parla in maniera diretta dicendo
ciò che pensa; un altro ancora razionalizza tutto e fatica a stare nei sentimenti;
un’altra tende a caricarsi dei problemi di figli, colleghi e vicini di casa: poi ancora
c’è chi è puntuale, chi un ritardatario di professione, chi assilla e chi lascia vivere
eccessivamente, chi introverso e chi starebbe sempre a parlare.
Da giovane ho fatto parte di gruppi e associazioni in cui si pensava di cambiare il
mondo, un febbrile desiderio di aggregazione si percepiva in quelle stagioni
tumultuose ma, nonostante la patina ideologica, già da lì mi andavo accorgendo
che una cosa erano i discorsi e un’altra i fatti e che molti malintesi emergevano
proprio nella difficoltà di rappresentare quelle idee.
Trovo che ci siano persone-fatti tutte protese all’agire e persone-parole molto
disquisitive e ragionatrici; come anche persone-gruppo che hanno un dono
naturale alla moltitudine e persone-singole con la qualità del protagonismo in
prima persona; e ancora persone metà-vuoto che guardano solo a ciò che manca
e persone metà-pieno ottimiste, volte anche in eccesso.
Nelle relazioni sono stato prima figlio, con papà e mamma, un fratello e una
nonna, un gruppo in cui c’era un buon attaccamento reciproco, ma anche alcune
nubi: per esempio papà non parlava con la nonna e la cosa durò anni; tra loro
c’era il gelo e la mamma faceva un po’ da cuscinetto, in una triangolazione che a
me ha provocato freddezza interpersonale e disorientamento. Ma tra genero e
suocera i rapporti sono per forza così? Dopo sono divenuto a mia volta genitore e
ho formato famiglia, con tre figli e una moglie, nonostante le mie mire giovanili –
un flop – di fondare una comune. Ho relazioni con amici, cugini, cognati, colleghi,
allievi, studenti e noto, almeno per me, quanto nella fase adulta sia difficile
alimentare una relazione senza poter poggiare su agganci produttivi in cui il
lavoro diventa il totem onnivoro. Senza progetti non ci si vuole bene? Non lo so,
ma qualcosa mi ronza nella testa.
Noto solitamente più cose negli altri, le facce, i gesti e le distrazioni, la
“stronzaggine” e la benevolenza, perché più visibili al mio occhio, ma ho imparato
anche un po’ a osservarmi, e di fatto su molte cose le somiglianze positive e
negative con gli altri sono alte, più di quello che una volta pensavo. Per esempio
quando una relazione si allenta, vedo in me (vedo negli altri) aumentare la
superficialità, si disinveste per sfilarsi gradualmente dall’impegno, in questi casi
trovare contromisure al lento declino è difficile. Oppure quando si accende lo
scontro per una qualsiasi cosa quotidiana (bollette, figli, lavori, fatture, ritardi), è
davvero critico stare in quella chimica pesante e rancorosa, sembra davvero che
tutto scivoli e frani come lava dal cartere di un vulcano. O ancora, quando sono
stressato e affaticato, mi rintano mentalmente nelle mie fissazioni e paure come
«non mi considerano», «non ce la potrò fare», «mi tendono una trappola».
Stesse dinamiche in famiglia e stesse dinamiche al lavoro, tra le due sfere ci
sono grosse differenze, ma anche molte similitudini. Ecco, nel corso del volume
vorrei provare a instaurare una forma di colloquio con te lettore, immaginando
una modalità di scrittura spero propizia, per riflettere sia sul nostro
comportamento individuale che sulle relazioni con gli altri.
Stare con gli altri è difficile
Ho già scritto che stare con gli altri è difficile, perché siamo naturalmente
differenti e inclini alla discriminazione e al conflitto. Ma cos’è che complica la
dinamica con l’altro? Gli interessi diversi? Il carattere? Le abitudini apprese in
famiglia? Nessuna e tutte queste cose e altre ancora. Vediamole in sintesi, sono
quattro le fonti di differenza e divergenza3.
Un primo fattore è dato dalla comunicazione, nella forma di messaggi che ci
scambiamo, che tra le fonti è quella più visibile: «Cosa sta dicendo Marco? Non lo
capisco proprio». La seconda fonte è l’emozione, paura, irritazione, protesta,
entusiasmo, che sono parzialmente visibili attraverso l’espressione verbale e non
verbale, ma anche parzialmente invisibili, essendo cioè vissuti interni che non si
manifestano nitidamente all’esterno. La terza fonte è la storia familiare, che
gioca il suo ruolo dietro il vissuto di ognuno; la storia include le personalità dei
membri della famiglia di provenienza, la loro cultura in termini di modi mentali e
valori, mappa del mondo, come siamo stati allevati ad affrontare gli eventi della
vita e le avversità. La quarta e ultima fonte è il modo di relazionarsi, le tendenze
tipiche e le inclinazioni personali con gli altri (fiducia, sospetto, coinvolgimento,
indifferenza, onestà, menzogna).
Le quattro fonti di complicazione dei rapporti possiamo individuarle rispettivamente nella
comunicazione, le emozioni, la storia familiare, il modo di relazionarsi. L’invisibilità di
questi quattro fattori, nel senso che tendiamo ad agirli come giusti e universali senza
metterli troppo in discussione, ci porta con frequenza a percezioni sbagliate su come
avvertiamo gli altri e come ci sembra che gli altri avvertano noi.
Queste quattro fonti forse ci possono aiutare a comprendere il perché delle
nostre difficoltà con gli altri, nella sfera privata e in quella lavorativa. Il punto
saliente è infatti non dare sempre tutte le responsabilità negative agli altri, ma
imparare a vederci anche noi negativi e cercare di porvi qualche piccolo rimedio.
Ma avere conoscenza di queste quattro “fonti di complicazione” può essere di
grande aiuto anche quando la comunicazione procede senza grande conflitti,
almeno in apparenza. Talvolta ci passano nella mente domande più o meno
assillanti, del tipo «chi è lei oltre quello che mi sembra di percepire?», «posso
contare su di lui?», «è una furba che mi sta usando?», «sono in grado di
aiutarla?». Acquisire un po’ di coscienza delle differenze non offre all’istante una
chiave di risoluzione al senso di incertezza che ci prende, ma ci può dare almeno
una base per organizzare le nostre riflessioni e può anche suggerire i passi da
fare per parlarne con l’interessato/a, per esempio «si innervosisce per cosa in
particolare?», «sembra di marmo, quale abitudine ha accumulato negli anni?»,
«non si apre, nella sua storia forse qualcuno l’ha criticata aspramente?».
Non tanto per giustificare il comportamento dell’altro/a, bensì per provare ad
accendere una luce un po’ più larga che evidenzi i fattori complessi della
relazione, a cui sarà bene da ora in poi riflettere su cosa mette l’altro e di più
anche cosa mettiamo noi.
Il fattore comunicazione
Sono il marito in casa, oppure sono il capo al lavoro, oppure sono in un dialogo
tra me e mia moglie, o il mio collaboratore: il messaggio che porgo con
un’intenzione positiva arriva in maniera negativa, di rifiuto, di protesta o di
allontanamento. Sì, perché la moglie ha un’altra testa e un altro modo di vedere
quella situazione, certo, ma anche per via che ogni nostra frase così come la
mandiamo possiamo star certi che arriva in altro modo.
Genitori stanchi di predicare ai loro bambini, membri della famiglia che parlano
costantemente con un suono di polemica nella voce, coppie in cui scattano litigi
ricorrenti, amici che non si comprendono più, colleghi al lavoro che aggrediscono
continuamente, sono tutti intrappolati in una comunicazione automatica e nonconsapevole. Ciò vuol dire che una buona comunicazione esige che il marito sia
efficace nell’emissione dei suoi messaggi alla moglie, ma al contempo, che si
orienti maggiormente alla moglie: «È pronta a ricevere il contenuto del mio
messaggio?» (comunicazione); «È in uno stato di emozione, di energia e di
disponibilità di umore e di tempo per riceverlo?» (emozione); «Ha un background
che le permette di comprendermi?» (storia); infine, «È propensa di suo a dare
fiducia, oppure si irrita facilmente?» (modo di relazionarsi).
Il fattore emozione
La ricerca di un neuroscienziato americano4 ci dà un quadro semplice e aderente
per comprendere le emozioni, collocandole su tre livelli. Il primo livello è
l’emozione rispettosa per un buon scambio relazionale empatico e caldo (contatto
sociale); il secondo livello è l’emozione di rabbia in cui si estremizzano i pareri e i
vissuti (attacco-fuga), quando per esempio ci sono ostacoli o frustrazioni nel
rapporto; il terzo livello è l’emozione di chiusura, quando ci mostriamo feriti,
delusi, rassegnati (calo passivo).
Qui la cosa essenziale che mi sento di rimarcare è la seguente: l’altro (la
moglie) che riceve il messaggio probabilmente sta vivendo i suoi “tre livelli” di
emozioni e il suo vissuto può essere completamente diverso da quello
dell’emittente (il marito). Un padre che dà ordini a suo figlio adolescente in
buona fede (livello uno) vuole solo obbedienza su una regola di convivenza in
casa e non comprende invece che il figlio in quel momento possa vivere di suo
rabbia o stizza (livello due). La donna che piange (livello tre) non si aspetta che il
marito risponda con irritazione e sarcasmo (livello due) e non comprende perché.
Insomma, qui comprendiamo quanto il mondo a parte di ognuno di noi presenti
caratteristiche non solo specifiche ma di difficile lettura, perché intricate e spesso
contradditorie. Nell’interazione, oltre alle parole che allontanano, anche le
emozioni fanno da divario perché fuori dall’aspettativa dell’altro. Come
conseguenza, si può cadere nel battibecco, nella reciproca aggressività, o anche
in episodi in cui uno mostra durezza e forza rabbiosa e l’altro si chiude ferito e nel
silenzio rancoroso.
Il fattore storia familiare
Questo terzo fattore rappresenta la cultura della persona che ha radici nella
storia familiare. Nella coppia, per esempio, si può creare un conflitto cronico se
un partner, spesso il marito, aderisce a un modello tradizionale mentre l’altro,
spesso la moglie, vive un’ambizione vitalizzante, e vuol passare più tempo fuori
casa presso musei e agriturismi. Al lavoro un capo ha un modello in testa per cui i
collaboratori sono sempre scorretti, mentre il suo impiegato ha studiato quanto
sia importante lavorare in ufficio con fiducia e collaborazione. Ognuno in effetti
trova la propria storia “normale” e quella dell’altro “stupida”, “puerile” e anche
“aberrante”.
Per storia qui intendiamo i principi che assommiamo e su cui i genitori di solito
martellano nella fase di crescita, ma anche la formazione nella vita o
all’università che in epoca successiva ognuno aggiunge come bagaglio generale.
Molte differenze si generano quindi proprio su questo piano della cultura appresa,
in cui il “goccia a goccia” di genitori, maestri o amici hanno un effetto-scultura,
ovvero “scolpiscono la nostra roccia”, creando tratti specifici e modi di vedere le
cose. È poi pressoché poco utile credere che l’altro possa perdere, solo perché noi
abbiamo un’idea normale e lui (per noi) aberrante.
Il fattore modo di relazionarsi
Il quarto e ultimo fattore di differenza lo ricaviamo da un altro studio5, che
mette al centro di ogni relazione il grado di “fiducia o non-fiducia”, una specie di
base che condiziona sia parole che emozioni. Il grado di fiducia nello scambio con
gli altri da dove può provenire in primis? Sicuramente da relazioni formative e
significative (genitori, fratelli) che vanno a imprimere su tutti noi sia in fatto di
controllo delle emozioni che di dinamica rispettosa o meno dell’altro. Esempio, un
rapporto padre-figlio irregolare e tumultuoso provoca ansia e caos emotivo nel
bambino e rilascia impronte emotive e di comportamento irascibile nel soggetto
quando diviene adulto. Quindi i problemi di tutti noi sono radicati nelle nostre
prime esperienze infantili, quello che lì catalizziamo con mamma e papà è
destinato a divenire un bagaglio ingombrante oggi nella fase adulta, questa si
chiama “teoria dell’attaccamento”.
Nelle differenze e nelle difficoltà con gli altri spesso le emozioni sono più
evidenti delle impronte relazionali, le prime le vediamo abbastanza chiaramente
(la rabbia, la tristezza, la paura), a differenza della sfiducia, dell’arroganza, della
vergogna, che sono un retaggio remoto partito dalla dinamica con un genitore.
Questo principio per cui ognuno ha un’impronta relazionale è mio consiglio
tenerlo bene a mente. È infatti un’ottima spinta per divenire flessibili e più
compassionevoli verso gli altri (chiamata anche “finestra di tolleranza”), guai
però a dirlo alla persona interessata, oltre a risultare manipolatori e psicologi da
strapazzo, il ricevente non potrà che rigettare il tutto. Quando un rapporto entra
in difficoltà, è possibile che l’incomprensione sia dovuta a una rabbia precedente,
ma questo non è per nulla evidente alla persona arrabbiata.
La via costruttiva per la facilitazione dei rapporti è tramite una migliore gestione
comunicativa, delle emozioni, delle storie personali, delle abitudini relazionali consolidate.
1. Mettere in conto dell’altro suoi aspetti più profondi e più antichi.
2. Esistono almeno due lati di ogni storia, quello che vede il soggetto-A e quello che
vede il soggetto-B e ognuno, credendo di aver ragione, può creare ulteriori inciampi.
3. Queste differenze vanno mediate e possiamo tentare di comunicare la prossima
volta in un’altra maniera?
L’insieme dei quattro fattori conferma con chiarezza il divario che intercorre in
ogni scambio con l’altro, oltre a evidenziare una volta di più i fattori di
complessità e complicazione. Possiamo quindi imparare a mettere in conto che
sono varie le componenti che possono contrapporsi nei tanti episodi giornalieri:
Sfera personale
- non aver fiducia in nessuno;
- non sentirsi mai all’altezza;
- sentirsi rigidi e bloccati;
- sentirsi sempre un po’ giù;
- essere sempre arrabbiati e non sapere perché;
- sentire un nodo alla gola, sempre lì;
- la vita scorre troppo veloce rispetto a quello che si riesce a fare;
- non sapere cosa può portare il futuro.
Coppia
- litigi frequenti;
- quando cade quel silenzio cupo e deprimente;
- sentirsi soli perché l’ex si riaccoppia;
- sentirsi respinti, il partner perdendo il lavoro si chiude in sé;
- non essere rispettati.
Famiglia
- la non comprensione tra figli e genitori;
- i lamenti di figli e marito o moglie;
- non entrare in sintonia con un figlio;
- la famiglia che si approfitta della propria disponibilità;
- un figlio che fa uso di droghe;
- differenze di carattere tra i membri e mito esagerato dell’armonia;
- difficoltà ad accettare i diversi modi di ciascun figlio;
- rapporto conflittuale con il genitore, non sentirsi liberi di scegliere.
Lavoro
- il senso di alienazione che si avverte a volte coi colleghi;
- l’irritazione che dà il capo solo a vederlo;
- fiducia crollata a un collega che tradisce per interesse;
- il lavoro che annoia;
- situazione pessima e non c’è via di uscita;
- precarietà e insicurezza, paura di non sostentamento;
- il lavoro piace ma toglie tempo ai figli.
Amici
- la delusione a cui si va incontro con gli amici fidati;
- non dire quello che realmente si pensa;
- quando ci sentiamo traditi solo perché l’altro fa l’altro;
- la difficoltà di trovare amici sulla stessa lunghezza d’onda;
- grave malattia di un’amica, una tragedia;
- non riuscire a contenere l’ansia di un amico.
Se riusciamo a portare nella concretezza almeno una parte delle fonti di
complicazioni con gli altri, possiamo per esempio evitare di sorprenderci delle
acute differenze che spesso ci spiazzano e consideriamo folli. Per esempio
potremmo avviarci a commenti più morbidi e comprensivi.
Un marito che tiene in conto le differenze con la moglie: «Capisco che lei non
può capirmi… io non voglio trovare sempre qualcosa che non va in chiunque, lei
ha avuto un altro tipo di famiglia, per loro criticare sempre era normale, per me
no».
Un genitore sul figlio: «Comprendo che ogni volta che parliamo della scuola e
del bisogno di studiare, il suo spazio di comprensione (finestra di tolleranza) si
chiude, forse il mio tono gli arriva solo come una predica, anche se questo non è
mia intenzione».
Sugli amici: «Sento il bisogno di maggiore ascolto con loro, ma alcuni proprio
non ce la fanno perché forse non l’hanno mai provato da nessuna parte».
Sui colleghi a lavoro: «Stiamo lì insieme e non ci siamo scelti, ognuno arriva da
culture e abitudini molto differenti quindi per me è arrivato il momento di
cambiare atteggiamento e non aspettarmi che loro siano come me».
Isolamenti e altre indolenze quotidiane
Gli studi recenti sugli stili di vita presentano un quadro difficile: l’attività sociale
delle persone è diminuita della metà negli ultimi quaranta anni! Quale attività
sociale? Vedere gli amici, andare al cinema, partecipare ad attività culturali,
collaborare nel volontariato. La gente rimane a casa. Risultato: aumenta
l’isolamento.
Tanti fattori vanno a concorrere: mancanza di tempo, stress sul lavoro,
dispersione urbana, eccessivo impiego di tecnologie, mito dell’individualismo. Ci
dobbiamo preoccupare? La solitudine è un campanello d’allarme, e come la fame
e la sete che se non soddisfatti ci portano disturbi, anche la solitudine ci può far
ammalare. Se ci sentiamo isolati quindi significa che dobbiamo occuparci di più e
meglio delle nostre relazioni, rafforzandole.
La solitudine, è stato riscontrato, produce uno stato emotivo depressivo e
pressione alta corporea. Come si scriveva sopra, sono sia i geni che l’ambiente in
cui viviamo le possibili cause della nostra propensione a stare soli. In effetti i
social network e il forte impiego della rete aiutano chi si trova in isolamento
forzato, per troppi impegni o perché disabile. Ma se ciascuno di noi dovesse
sostituire tutti gli scambi faccia a faccia con quelli informatizzati, la nostra
sofferenza sarebbe destinata ad accrescersi6.
In fatto di solitudine i giovani sono poi i più influenzati. Passano un gran tempo
su cellulari e iPad, si fermano di più davanti alla tv e diventano più apatici di
qualsiasi generazione precedente. Inoltre gli insegnanti lamentano una continua
riduzione di attenzione da parte degli studenti, che sembrano sollecitabili solo ad
alti livelli di stimolazione visiva, crollando invece nei livelli di attenzione e
concentrazione.
L’isolamento è quindi una macchia che si allarga mentre in proporzione va
diminuendo la partecipazione della vita sociale concreta e reale: questo doppio
fenomeno produce l’apatia delle persone tecnologia-dipendenti e crea una
barriera sociale per tutti. Quando la gente si isola tende a interagire
negativamente con chi incontra. Insomma, noi come umani abbiamo bisogno
delle relazioni sociali, il nostro bisogno di convivenza sociale rappresenta una
delle due colonne fondanti alla vita civile, l’altra è data dalla sopravvivenza fisica,
materiale, economica.
Altre indolenze quotidiane
È da dieci anni che studio con i colleghi quanto le situazioni complicate e difficili
entrino di gran lunga nelle vite quotidiane di tutti noi. Le complicazioni sono
infatti da considerare come una manifestazione non occasionale (ma frequente),
non attribuibile a un soggetto solo (ma di tutti), non localizzata (ma diffusa). Gli
inciampi complicatori (o anche negatività) secondo le mie ricerche si possono
attribuire a tre fattori concomitanti, uno che richiama l’altro, rispettivamente:
a . fattori naturali innati: esiste una complicazione prodotta da come siamo
congegnati come specie, per il nostro funzionamento di geni e cervello, elementi
che agiscono in tutti noi automaticamente;
b. fattori psicologici personali, del temperamento e del carattere individuale, che
si ergono come impronte individuali e mentali, producendo altre forme di
complicazione;
c . fattori culturali e sociali, inerenti ai valori, alle forme aggregative e
organizzative, alle tipologie di gestione delle risorse materiali, che rappresentano
una terza forma di complicazione.
Questi tre fattori insieme secondo me sono la causa di una così alta ricorrenza
dei problemi, dei conflitti, del malessere, della non linearità nei comportamenti,
di quello che spesso ci fa sussurrare «ma siamo tutti veramente strani».
Conflitti e malessere prodotti dai difetti del cervello
Alcuni funzionamenti critici, dunque, sono per così dire naturali, ci appartengono
proprio come specie, per la storia e le vicissitudini che abbiamo attraversato.
Dalla trasmissione genetica, oltre a ricevere funzionamenti virtuosi
(ragionamento, linguaggio) ereditiamo dei difetti, dei bachi innati, che ci
spingono anche a comportamenti negativi. Eccone un primo gruppo, siete pronti?
Inclinazione alla negatività: sono più potenti e attrattivi i fattori negativi rispetto
a quelli positivi, per il fatto che abbiamo un cervello emotivo già cablato
sull’allerta, che ci fa esagerare, estremizzare, vedere nemici anche dove non ci
sono. Per esempio, tra le emozioni primarie, quelle che abbiamo fin da bambini,
quattro sono negative (rabbia, tristezza, disgusto e paura) e una sola è positiva
(gioia). Ecco perché quando formuliamo tre apprezzamenti e una critica, nostra
moglie si attacca alla critica e cancella di colpo i complimenti ricevuti7.
Avversione alla perdita: abbiamo il difetto innato di soffrire di più quando
perdiamo qualcosa, rispetto a quanto non riusciamo a gioire nel caso in cui ne
veniamo in possesso. Siamo infatti attraversati da “avversione alla perdita”, che
ci spinge a soffrire di più di quanto gioiamo. Il dolore della perdita è potente circa
il doppio del piacere di una vincita, dato che conferma le lacune della nostra
razionalità. La ricerca affannosa di evitare qualsiasi cosa odori di perdita spesso
determina il nostro comportamento, spingendoci a fare fesserie8.
Voler aver solo ragione: estremizzare (attacco-fuga). Basta una dose di
stanchezza, una contrarietà imprevista, una pressione di lavoro eccessiva, ecco
che a scattare sono i circuiti dell’irritazione, per cui il nostro cervello preferisce
adottare pensieri ed emozioni forti ed estreme, rinunciando alla moderazione. Ne
scaturiscono frasi del tipo «o tutto o nulla», «o con me o contro di me». Nel
cervello avvengono sintesi chimiche ed elettriche che investono l’intero corpo, che
hanno un carattere di velocità e di potenza a cui raramente possiamo far fronte,
per un propagarsi di irritabilità, eccitabilità e ipersensibilità. In questi episodi il
pensiero complesso più razionale è fuori uso, disattivato9.
Regressione verso la media: dalla statistica e dagli studi di biologia proviene un
concetto non abbastanza tenuto in conto, che attribuisce a tutti noi un ricorso
naturale al “declino nella media”. Ovvero? Tendiamo cioè a fissarci su prestazioni
lavorative e casalinghe senza crescita, che tendono cioè ad appiattirsi nel tempo.
Questa tendenza è stata studiata presso l’addestramento di piloti, gli istruttori
notavano infatti che una cattiva prestazione era seguita da un miglioramento e
una buona era generalmente seguita da un peggioramento, sindrome che è stata
chiamata appunto “regressione verso la media”10.
Scorciatoie mentali: quando siamo pressati o agitati tende a dominarci il
cosiddetto cervello emotivo. In questi casi, la conseguenza più svantaggiosa è
data dalla forma di pensiero, che diviene schematica, improvvisata, superficiale.
Spesso infatti crediamo di avere operato un calcolo e invece siamo preda delle
scorciatoie mentali, strategie di pensiero semplificato, veloce ed economico che ci
fa risparmiare calcoli complessi; vengono anche denominati giudizi di pancia, con
l’insorgenza di trappole mentali, tra cui distorsioni, malintesi, minimizzazioni,
massimizzazioni.
Soffocamento da pensiero: qui è il cervello razionale che tende a dominare il
nostro comportamento, con un’eccessiva razionalità che ci può portare fuori
strada. L’esagerato ragionamento e il pensare troppo è come se togliessero
ossigeno alla persona, creando uno stato di “soffocamento” logorante. Quindi
tendiamo a perdere la fluidità delle azioni e ci andiamo a impantanare in uno
smodato autocontrollo, studio di sé e degli altri, una sorta di razionalità deviata,
che si stacca dalle esigenze generali, che nel frattempo agiscono senza regia, con
atti avventati e impulsivi.
Zombite: in molti spazi di una giornata il pilota automatico interno (routine,
schemi, credenze) ha il sopravvento sul nostro controllo cosciente e presente. La
zombite momentanea è una sindrome per cui ci si scopre come comandati da una
macchina avulsa dalla coscienza, nascosta e prevalentemente irrazionale, che ci
guida in uno stato di ridotta attenzione, in cui non ci accorgiamo di cose e
persone, e abbiamo come una nebbia che ci confonde.
Conflitti e malessere prodotti dalla persona e nei gruppi
Le psicologie personali (temperamento, ferite del passato, tratti di personalità)
sono un’altra provenienza di conflitti e malessere. Inoltre, la psicologia di gruppo,
quando entriamo in un collettivo, il primo è la famiglia, ma anche a scuola o al
lavoro, ecco che si vengono a creare altre difficoltà, che sono tipiche proprio della
denominata “dinamica di gruppo”, in cui succedono cose che non sono attribuibili
solo ai singoli, ma anche alle vicende che il gruppo porta avanti nelle sue più
diverse pieghe. Eccone un secondo gruppo, sono tante ed è un po’ pesante forse
leggercele tutte assieme, ma ci possono di sicuro anche aiutare per farci un’idea
più calzante con le realtà.
Meccanismi di difesa: ognuno conforma nel tempo le proprie reazioni consolidate
e giuste per far fronte alle possibili insidie esterne. I meccanismi di difesa li
azioniamo per schermarci da situazioni che evocano tensioni e ansie, che non
potremmo controllare. Le principali, di una lunga famiglia, sono: la rimozione
(cancellare vissuti che suscitano angoscia); la regressione (ritornare a forme
collaudate di sicurezza); la proiezione (attribuire ad altri atteggiamenti propri);
l’identificazione (agendo come si pensa che l’altro agirebbe)11.
Errore di attribuzione: è quel sistema di interpretazioni fisse che mettiamo sulla
valutazione dei fatti, per cui attribuiamo una responsabilità soggettiva quando il
problema l’ha prodotto l’altro (“è proprio negligente”). Quando invece il problema
siamo noi a provocarlo, ecco che scattano le giustificazioni più stravaganti, per
assegnare a responsabilità esterne la colpa12. Un esempio, se nel nostro gruppo,
il capo ci rimprovera per un errore, tendiamo a dire che la colpa è dei colleghi o
del cliente (cause esterne), mentre se andiamo a giudicare noi un collega, lo
carichiamo di errori e limiti personali.
Autocompiacimento (self-serving): tendenza di ognuno a salvaguardare la
propria immagine e a presentarsi agli altri come persona competente e di
successo. Se le cose vanno bene il merito è nostro, se invece dovessero andare
male, la responsabilità è certamente di altri. La maggior parte di noi costruisce
mappe egocentriche di sé, di autovalorizzazione che ci fanno avere una buona
opinione di noi ed elevarci sugli altri. Questi automatismi incrementano la nostra
autostima, ci proteggono dai traumi, ci permettono di giustificare gli insuccessi,
ma al contempo ci portano a sottovalutare rischi e pericoli, che riconosciamo solo
nel caso siano degli altri13.
Rancore: sentimento virulento che infetta gli altri e anche noi. Le principali
forme di rancore sono: la collera una volta covata deve esplodere; l’odio,
desiderio di rivalsa, di sofferenza inflitta a un nemico; la vendetta è il fermento
per cui a un torto si intende restituirlo; l’invidia, miscela tossica composta da
insoddisfazione di sé, risentimento e sadismo; il disgusto-disprezzo, senso di
ripugnanza verso qualcosa (disgusto) o qualcuno (disprezzo); la ruminazione
mentale, covare un risentimento. Tutta questa massa di emozioni negative sono
state definite passioni tristi, che deprimono la nostra vitalità.
Frustrazione: ogni interferenza che ostacola il soddisfacimento di un nostro
bisogno tende a produrre un aumento di agitazione mentale ed emotiva14, che ci
dà tensione, irritazione e altre forme di istigazione ad aggredire; spesso questa
aggressività non può dirigersi alla fonte reale e viene allora “spostata” su un
obiettivo diverso. La frustrazione-aggressività quindi prolifera in presenza di
avversità che alimenta a sua volta sentimenti di aggressività.
Infantilizzazione: quando vengono a cadere sicurezze, quando le situazioni si
fanno pressanti e difficili, ci può scattare dentro un senso di disorientamento e
disorganizzazione personale. Non riusciamo a organizzare una strategia di
risposta coerente, che sappia affrontare gli eventi ecco allora che insorge uno
“stato infantile”, centrato su un comportamento insicuro, aggressivo, campato in
aria, con uso di ripicche e piccinerie.
Vulnerabilità: ognuno di noi è al contempo un essere fragile esposto a
complicazioni e una persona ricca di risorse e talenti, un soggetto quindi
strutturalmente sospeso tra forze e debolezze.
Incompetenza emotiva: solitamente in una giornata ci troviamo a fronteggiare
un’ampia gamma di emozioni, le cosiddette emozioni primarie, paura, rabbia,
tristezza, disgusto, gioia; inoltre, le emozioni secondarie o sociali, imbarazzo,
gelosia, colpa, orgoglio e tante altre; infine le emozioni di fondo, benessere e
malessere, calma, tensione15. Nessuno ci ha mai insegnato a gestire le nostre
emozioni, semmai a nasconderle, perché non era una buona cosa mostrarle.
Siamo quindi tutti, chi più chi meno, incompetenti emotivi, quando ci prende per
esempio quel fuoco critico in cui il mondo ce l’ha con noi, oppure quando
scattiamo impulsivamente, quando generalizziamo facendo di ogni erba un fascio,
quando ancora ci chiudiamo a riccio offesi e feriti. L’incompetenza emotiva 16 è
eccesso di fuoco emozionale, è mancanza di raffreddamento riflessivo, è scarsità
di controllo e di espressione delle emozioni, è anche l’eccessiva dominanza del
razionale sull’emotivo, è non saper controllare gli impulsi e i propri stati d’animo,
è non saper avvertire i sentimenti dell’altro e rimanere nell’indifferenza
relazionale.
Disturbi comunicativi: lo abbiamo già visto, quando cioè lo scambio
interpersonale è bloccato da una complicazione invisibile ma sostanziale, che
distorce, blocca e produce pregiudizi. Chi parla emette un messaggio con
un’intenzione che a chi ascolta arriva con un impatto del tutto diverso,
provocando fraintendimento e distorsione. Sono state individuate dodici barriere
comunicative17, ovvero forme di risposta fisse e rigide che bloccano lo scambio,
tra cui: 1. comandare, 2. minacciare, 3. fare la predica, 4. dare consigli, 5.
redarguire, 6. giudicare, 7. assecondare, 8. ridicolizzare, 9. interpretare, 10.
consolare, 11. inquisire, 12. distrarre.
Capro espiatorio: studiato nei fenomeni di razzismo negli Stati Uniti negli anni
Trenta, quando la violenza verso i neri era agita come discriminazione ma anche
come effetto di frustrazione accumulata da soggetti bianchi che non riuscivano a
raggiungere i loro scopi. Questi, anziché mirare la critica ai bersagli reali (banche,
politici), operavano pressioni su soggetti deboli, denominati da lì “capri espiatori”.
In un gruppo per esempio, con l’attacco compatto contro un individuo per cercare
di sottometterlo, l’effetto positivo nefasto che viene a crearsi è quello di
aumentare i sentimenti di forza e autostima, quasi una rivitalizzazione18. Il capro
espiatorio è quindi un dispositivo assai frequente nei gruppi e nelle famiglie,
perché allaccia frustrazione e aggressività e soggetto debole, come forma di
concentrazione del negativo tutta da una parte mentre dall’altra se ne esce come
purificati nel totale candore positivo.
Inerzia sociale: è il fenomeno per cui le persone quando sono in gruppo tendono
a mettere meno impegno rispetto a quello che metterebbero se dovessero
svolgere lo stesso compito in via individuale. Detto anche “effetto Ringelmann”,
dal primo studioso che lo studiò nel 1880, l’inerzia sociale scatta come
inclinazione al disimpegno, perché in gruppo possono scattare fenomeni di
anonimato, con un calo conseguente del senso di responsabilità individuale.
Furbizia egoistica: è quel comportamento che vediamo spesso in strada, negli
uffici, un po’ ovunque in cui una persona beneficia di un servizio o di un bene
collettivo senza pagarne alcun costo, dal non fare la fila e passare davanti agli
altri, al non pagare le tasse. Il free-rider, termine inglese che sta per furbo
egoista, si sottrae all’impegno o al pagamento, risolvendo il dilemma tra
beneficio privato e bene collettivo, con una scelta egoistica di mero vantaggio
personale.
Conformità alla maggioranza: quando cioè ci troviamo in una pluralità di pareri e
cediamo a favore del parere prevalente e maggioritario, inibendo il nostro, pur
considerando il parere della maggioranza carico di inesattezze, limiti ed errori. È
quindi fare quello che fanno gli altri assumendo una posizione conformistica,
anche in seguito a possibili pressioni di un’opposizione unanime ma scorretta.
Conflitti e malesseri prodotti dalle situazioni
Le situazioni nelle loro componenti fisiche, ambientali, economiche, gerarchiche,
sociali, per come vengono strutturate e condotte, hanno il potere di cambiare le
persone, anche peggiorandole19. Vediamo alcuni effetti che esse possono
produrre. Ecco un terzo gruppo di eventi negativi a cui poi vi garantisco che
seguiranno nei prossimi capitoli i passi di soluzione.
Disimpegno morale: fenomeno che scatta quando una situazione è fortemente
omologante nel ridurre ai minimi termini delle persone che qui divengono solo un
numero20. In questa condizione i soggetti subiscono un netto abbassamento di
attenzione e rispetto, mentre le azioni negative trovano sempre
autogiustificazioni e minimizzazioni, attribuendo in più colpe alle vittime (es. un
infermiere che sbaglia e afferma «quel signore se lo meritava»).
Indifferenza: una difficoltà simile al disimpegno morale, riguarda l’appiattimento
delle espressioni della persona che diventano asettiche e bloccate. Qui si marca il
distacco emozionale con gli altri, la mancanza di interesse per il mondo
accompagnata col desiderio di non esserne coinvolti, oltre a insensibilità,
distrazione, quieto vivere.
Negazione: un meccanismo che ci porta a negare condizioni ed eventi resi
evidenti dalla realtà, sull’altare di una sedicente non informazione («non è così»,
«non lo sapevo»). La negazione è una forma di mancato riconoscimento, di
immoralità soggettiva o anche collettiva.
Obbedienza distruttiva: quando gente normale che si occupa soltanto del suo
lavoro, può, da un momento all’altro, rendersi complice di comportamenti di
acquiescenza acritica e indifferenza di fronte ad azioni lesive verso altre persone.
Non occorre essere in preda a perversione e sadismo, basta bensì essere
risucchiati nelle funzioni di un’obbedienza ferrea, un’alta appartenenza acritica
molto rivolta ai risultati, alta conformità di gruppo e sottomissione all’autorità. La
persona, tutta protesa a obbedire e mostrare la sua abilità ad aderire alle regole,
diviene un semplice meccanismo che esegue ordini dell’autorità.
Fatica fisica e mentale: una fisiologica dimensione presente in tutte le situazioni,
che prelude allo stress, da cui scaturiscono episodi di irritazione e irrequietezza.
Possiamo distinguere la fatica fisica, la fatica mentale e la fatica emotiva.
Errore umano: gli studi ci dicono che sbagliamo per due ragioni essenzialmente:
la prima per deficit di attenzione della persona che non è presente a se stessa nel
momento dell’azione; la seconda ragione è data dal controllo schematico, ovvero,
quegli aspetti standardizzati del fare che deviano l’applicazione di una regola o
portano a un difetto di ragionamento21.
Due culture contrastanti: sono stati evidenziati dalla psicologia due tipi di letture
della natura umana, una prima che attribuisce alle persone un senso scarso di
responsabilità e una forte propensione alla passività e alla non intraprendenza,
per cui necessitano stili di vita fondati su controllo e minacce (teoria-X); una
seconda che riconosce alle persone una buona propensione allo sforzo,
all’autocontrollo e all’autodisciplina, per cui servono stili fondati sull’inclusione e
la partecipazione (teoria-Y).
Il cigno nero dell’imprevisto: sta per quell’atteggiamento cieco rispetto
all’emergenza inattesa, in particolare verso le grandi deviazioni degli
avvenimenti, all’accadimento di eventi inaspettati22. La nostra azione umana si
muove sull’asse composto da esperienza e ripetizione, per cui ci concentriamo su
cose che già sappiamo e trascuriamo di più ciò che non conosciamo. Così
facendo, trascuriamo elementi dalla interdipendenza complessa di difficile
prevedibilità e ci troviamo indifesi di fronte all’imprevisto, sia per accadimenti
grossi o minuti.
Sindrome del “mondo giusto”: è quella visione del mondo che ci prende
periodicamente un po’ tutti, per cui ci convinciamo che il mondo sia dominato da
armonia, uguaglianza e giustizia. In particolare ci aspettiamo che le cose buone
capitino a chi è buono e le cattive a chi è cattivo. Una sindrome che possiamo
pensare come auspicabile, ma poco reale.
L’ottimismo come il prozac: nei vent’anni passati società e culture emergenti ci
hanno davvero martellato sull’utilità di pensare sempre positivo, creando così un
“conformismo positivo”, in cui è obbligatorio descriversi in termini solo ottimistici.
Nuovi studi hanno invece rilevato che l’ottimismo inteso come fissità può divenire
irrealistico e imprudente, indebolisce la capacità di pensare criticamente,
anestetizza le sensibilità al pericolo, tendendo a sottostimare e distorcere la
probabilità di comparsa di eventi avversi. Abbiamo bisogno di sano ottimismo,
che ci permette di controllare la paura e l’ansia generata dalle incertezze.
Abbiamo anche bisogno di sano pessimismo, che ha la funzione di abbassare le
aspettative e preservarci da delusioni.
Scarsità materiale: l’accesso ridotto a beni fondamentali come cibo, soldi e
tempo ha impatti specifici sui nostri processi mentali. La scarsità di qualcosa può
diventare un paraocchi, finiamo infatti per non pensare ad altro e questo ci può
portare all’indifferenza, all’impasse, alla distruttività.
La chiave dell’arte: trasformare il negativo in
positivo
All’inizio, un bel po’ di anni fa, quando lavoravo con Jerome Liss, il mio
insegnante mentore a cui devo molto per la mia formazione in psicologia, l’idea
del negativo che si trasforma in positivo era solo una piccola postilla che
emergeva quando studiavamo il comportamento di gruppi e persone. Gli assunti
teorici non erano molti, le osservazioni reali molte di più, la radice era una sola:
la negatività. Per me, un giovane baldo acerbo di studi, ma intraprendente nel
sociale, preso come ero dai fenomeni di crescita personale, di miglioramento ed
ecologia della mente, quella parola era un po’ fumo negli occhi. Infatti, Jerome la
esprimeva metodologicamente, la condivideva con gli allievi, ci studiava
costantemente e, pur nella grande stima che nutrivo per lui, era forse il lato che
meno comprendevo; infatti mi sembrava un po’ strano, così preso da questo
concetto di negatività. Diceva sempre che la migliore risorsa umana è la
negatività, ma io non capivo.
Furono i lavori successivi, le fasi della mia storia soggettiva e professionale che
negli anni mi hanno portato poi a prenderne atto e accorgermi che da baldo
positivo-sedicente mi stavo portando in una posizione per me nuova: stavo
diventando più un facilitatore di fenomeni negativi e meno un animatore di
positività. La negatività è in effetti maggiore della positività, è più forte e
potente, è più attraente, è una risorsa e un’opportunità oltre a rappresentare
come tutti sappiamo dolore, fastidio, malessere. Cominciai a comprendere la
convenienza di imparare a contenerla e trasformarla. Compresi che per passare al
positivo il percorso non può non includere l’attraversamento del negativo, non la
sua elusione e idealizzazione. Da qui mi cominciò a essere chiara la frase che
Jerome coniò: «Nel negativo c’è il germe del positivo» e un’altra: «La negatività
scava la buca e la positività pianta l’albero».
Jerome era netto in questo, con garbo si sedeva vicino a noi allievi e scrutava
facce e posture quando portavamo nel gruppo i nostri blocchi e problemi. Ricordo
come scattò in un Bologna-Firenze in treno, quando dei signori in due
scompartimenti più in là litigavano con occhi sgranati e gesti rigidi, voce tonante
e lui mi sorprese… guardava, scrutava platealmente, il contrario netto di quello
che feci io, che eludevo quella baruffa, tendendo ad assumere il classico
comportamento del “girarsi dall’altra parte”.
A turno tutti siamo negativi. Ognuno con propri comportamenti, specifici e
diversi, ma tutti portiamo nel mondo limiti, dissonanze, stramberie, criticità.
Ognuno, oltre alle capacità costruttive e produttive, mostra un corteo di
negatività composto da conflitti, distruttività, sofferenza, lamento, polemiche, di
cui abbiamo potuto vedere solo un campione nei paragrafi precedenti.
La negatività è infatti da considerare come una manifestazione non occasionale
(bensì frequente), non attribuibile a un soggetto (bensì di ognuno), non
localizzata (bensì diffusa). Come abbiamo già visto concorrono a ingrossare il
fiume della negatività in famiglia e al lavoro: i fattori neurobiologici innati, detti
“funzionali”, che agiscono in tutti noi individui umani; i fattori del temperamento
e del carattere personale, detti “disposizionali”, che agiscono come impronte
psicologiche e mentali; i fattori organizzativi, sociali, inerenti le aggregazioni, le
culture, aspetti considerati “situazionali”, del contesto ambientale.
Perché la chiamiamo “negatività”
La negatività è un termine riassuntivo e generico da me scelto per
rappresentare la frequenza, la diffusione e la quantità di condotte problematiche,
critiche, oppositive, disfattiste, fuorvianti che ogni giorno si presentano in ogni
palcoscenico della vita. Un termine appropriato per intercettare quella
dimensione “bassa” e normale della distruttività e la sua alta esposizione
quantitativa.
Per negatività intendiamo infatti una massa stabile e frequente di episodi, eventi e agiti
nella più piena ordinarietà, non lontana dalla normalità, ma intrecciata a essa.
Dopo essermi destato in seguito agli stimoli di Jerome, da tanti anni vado
osservando un po’ ovunque – in una scuola, un ospedale, in azienda – quanto la
negatività sia frequente e corra a braccetto con la positività (efficacia,
cooperazione, altruismo). Come un filo della corrente che ha una derivazione
“più” e una “meno”, anche relazioni, famiglie e gruppi hanno positività e
negatività. Le nostre esistenze hanno una condizione base che tende a oscillare
fra il buon funzionamento e il cattivo funzionamento e prima ne siamo
consapevoli meglio è. Un po’ andiamo avanti e un po’ torniamo indietro. È
curioso.
E ciò non dipende solo dagli sgambetti che ci possono fare gli altri, è il caso di
ammettere che una gran quantità di sgambetti ce li facciamo da soli. Un bel
pezzo di Vasco Rossi dal titolo Vivere non è facile rimarca nel testo un passaggio
a cui sono affezionato, che dice: «Il fatto più strano e illogico è che nonostante
che lo so continuo a farmi fottere da me».
Per esempio, ansia e tensione sono bordoni fissi negli uffici e nelle case, i
conflitti e le dissonanze tra persone sono latenti, lì pronti a scattare,
l’esaurimento della voglia di fare è fisiologico. La negatività è così diffusa perché
naturale e automatica (geni e cervello), perché appresa fin da piccoli e nel corso
della propria storia (psicologia personale), perché è culturale e viene propagata
nei sistemi sociali più ampi (le situazioni disumanizzanti).
Negatività… per capirci, ma anche per educarci. Il comportamento negativo ha un
portato certo, stabile, compresente, inevitabile, che sappiamo esistere in ogni persona
e contesto. La “negatività” è un termine generico e popolare, scelto intenzionalmente
perché tutti lo comprendano, per poter apporre nuova attenzione e far seguire una
nuova educazione.
La negatività è contigua e interconnessa alla positività, i due poli si attraggono e si
respingono. È un cocktail composto almeno da tre ingredienti: frutto di pulsioni naturali
profonde e molla di sopravvivenza (bio), un vulcano attivo prodotto da caratteri e
impronte personali (psico), una massa di condizionamenti disumanizzanti provocati dai
contesti (socio).
Siamo davvero un po’ tutti negativi?
Considerandoci una dualità positivo-negativa, la risposta è certamente sì, siamo
un po’ tutti negativi. Perché attraversati da mille fenomeni, controllabili e
irrazionali, antichi e presenti. Fenomeni che ci vedono tutti uguali e tutti diversi:
uguali perché parte della specie umana e quindi con funzioni e storia uguali,
diversi, perché ognuno ha la sua storia specifica, il suo profilo, le sue tipologie di
comportamento soggettivo.
Vale a mio avviso comunque il concetto per cui tutti siamo negativi, proprio
perché siamo umani, un po’ difettosi di fabbrica e un po’ rognosi, limitati e
limitanti nel gioco col mondo. Da qui il termine che ho trovato di negativi
similari23, tutti sulla stessa barca! Negativi similari vuol dire che abbiamo tutti
forze e debolezze, lati positivi e lati negativi, col positivo che si intravede e il
negativo denso e ricorrente. Negativi similari per affermare appunto che le insidie
arrivano da chiunque e da tutte le parti (dall’alto e dal basso) e non corrisponde a
verità la favola della “mela marcia” che, tolta lei il cesto delle altre mele può
vivere felice e contento. È chiaro anche, che ognuno ha negatività specifiche e
mirate, sia i soggetti e sia le situazioni.
Per esempio, Giovanni è negativo per il suo vittimismo rancoroso, Serena è
negativa perché sempre ottimista e non fa esprimere quelli che non la vedono
come lei, Marco è ipercritico e diffidente, Giulia paurosa e chiusa. Tutti abbiamo
lati oscuri e complicati, di difficile rappresentazione all’esterno e ancor di più di
difficile ammissione a noi stessi. La categoria dei “negativi similari” è forse un po’
uniformante, ma questo serve per metterci insieme su un filo comune, per cui
tutti siamo portatori sani di problemi e conflitti, malessere ed errori. È un filo teso
per renderci conto che è in prima persona che corroboriamo il mondo, di più di
quello che pensiamo, con azioni belle e azioni brutte, un piccolo ma costante
contributo quotidiano.
La similarità negativa poggia su due fattori dei tre illustrati: il fattore
“funzionale”, per cui siamo tutti attraversati dagli stessi funzionamenti
neurobiologici, che ci accendono automatismi fuorvianti e irrazionali, ci
sequestrano il pensiero buono riflessivo e ci attizzano il disimpegno verso l’altro,
la rabbia o la passività. Il secondo fattore “situazionale”, tutti i giorni vediamo
quanti conflitti internazionali ed economici sono disseminati e frequenti nel macro
mondo, nella cosiddetta civiltà dell’inquietudine pervasa da sentimenti crescenti
di precarietà, insicurezza, scarsità; nel micro mondo, quanta conflittualità esiste
nelle nostre famiglie e al lavoro, quanta influenza delle situazioni esterne produce
cambi di personalità, peggiorandoci.
Con il terzo fattore “disposizionale”, la similarità invece decade, visto che
ognuno è fatto a sua maniera, ma comunque ogni temperamento e soggettività,
come ho già scritto, presenta forze e debolezze, talenti e limiti.
Esiste pur tuttavia la scelta, in cui ognuno può avviarsi lungo un percorso di
educazione e di automiglioramento in proprio, senza che cervello e situazioni
possano bloccarci, per imparare a gestirci meglio ed evolvere verso emozioni
positive, l’altro obiettivo di questo libro.
Prima negatività: allarme e bachi innati
Siamo tutti parte di un grande disegno di specie, l’homo sapiens, ci avvaliamo e
portiamo dentro di noi una storia avventurosa e lunghissima, che vive nei nostri
geni, neuroni e nervi. I nostri stessi circuiti neurobiologici, mirabili e sofisticati
nella loro bellezza funzionale, presentano tuttavia alcuni “bachi innati”, che
innescano inevitabili squilibri, blocchi, limiti o eccessi nei pensieri, nelle emozioni,
nelle azioni che tutti i giorni compiamo. La nostra struttura anatomica (il cervello)
e fisiologica (i funzionamenti), ha collaudato modi specifici che presentano
vantaggi e svantaggi.
Nella nostra lunga storia evolutiva di umani, il cervello non ce lo siamo trovato
già pronto, ma la sua evoluzione è andata avanti grazie al caso e alla fortuna,
conformandosi sulle strette reazioni con l’ambiente circostante.
Di fatto anche il cervello non è perfetto e non c’è nulla di cui stupirsi. In questo
lungo tempo l’uomo non usava andare al supermercato e neanche in discoteca,
bensì doveva fare i conti con la natura e i rischi che essa comportava, doveva
prendere le sue decisioni in maniera rapida, sacrificando precisione e lucidità. Si
sono così costruite due parti del cervello, una logica, razionale, rigorosa, ma
lenta, l’altra intuitiva, istintuale, piena di fallacie, ma rapida.
Alcune zone del nostro cervello più profondo e primitivo si sono specializzate di
più nella sopravvivenza che nel piacere, proprio per tenerci in vita, imprimendo
automatismi emotivi di difesa. Questi automatismi antichi, trasmessi per via
genetica, si accendono con una velocità doppia rispetto a quelli della ragione.
Quando proviamo repulsione o minaccia si agitano dentro di noi gli stessi circuiti
che l’evoluzione ha congegnato per garantirci la fuga da un serpente o una
tigre24.
Nel corso della nostra lunghissima evoluzione abbiamo dunque incamerato la
memoria ormai innata e automatizzata, che governa i processi vitali, oramai
divenuta sofisticatissima25. Questi stessi automatismi risultano però eccessivi,
schematici, inadeguati se calati in semplici contrasti con marito o colleghi,
prendono la scena come sproporzionati e obsoleti, inadatti alla vita moderna26.
Possiamo quindi mettere nel conto il fatto che il nostro apparato cerebrale
contiene ancora meccanismi che lo fanno reagire come reagiva moltissimo tempo
fa, in contesti diversissimi. È un po’ come se ci vestissimo con un piumino per
andare in spiaggia in piena estate. Un pandemonio! Abbiamo meccanismi e
allarmi interni forgiati su minacce immagazzinate nell’evoluzione, ma questi
stessi allarmi oggi sono quasi sempre eccessivi. Abbiamo nei nervi e nelle vene
davvero una presenza primitiva, che i nostri antenati ci hanno trasmesso
(filogenesi).
Questo umano primitivo che ci vive dentro, automaticamente, senza che
possiamo deciderne alcunché, agisce per associazione, confondendo elementi del
presente con allarmi del passato antico. È una nostra entità, ci appartiene, ma
proviene da altri lidi ed epoche, per questo di fronte a semplici richieste e
affermazioni a volte esplodiamo o esageriamo, è come se dentro di noi si
muovessero altri impulsi, come se stessimo combattendo con una tigre che ci sta
azzannando, o con un serpente che ci sta pungendo, in balìa di percezioni e
circuiti psicofisici innati.
Questi stessi processi automatici e improvvisi – “umanoprimitivi” – sono gli
stessi del resto che ci garantiscono la sopravvivenza, ci fanno cioè da catapulta in
caso di pericolo serio, un incidente, un incendio, un terremoto, garantendoci la
giusta forza tempestiva nella situazione minacciosa. Quando però non è in
pericolo la vita, ma sono solo contrasti, stress e fatica quotidiani, quei circuiti ci
spingono a comportamenti esagerati e fuorvianti.
Bachi e allarmi scattano in automatico anche al cospetto di episodi ordinari di
irritazione, stanchezza e frustrazione, assumendo contorni non adeguati.
Riformulo il concetto, qui il cervello arcaico scatta automaticamente, generando
comportamenti negativi spesso amplificati, fuori misura, rispetto alla realtà reale
in gioco. È come se avessimo un canale preferenziale sempre acceso, un nervo
sempre scoperto di segno negativo, che ci crea una propensione a pensare e a
sentire male, quello che diversi studi chiamano inclinazione alla negatività. Molte
ricerche infatti ci dicono che le emozioni negative superano quantitativamente
quelle positive, ma ancor di più ci attraversano e stazionano in noi, assumendo
un peso determinante nella valutazione di persone e situazioni.
Una parte di complicazione negativa27 dunque sembra che si annidi nelle nostre
stesse funzioni cerebrali, così come le ereditiamo dai nostri genitori, divenendo
pressoché automatica e inevitabile, con il cervello emotivo che “spara” impulsi
che il cervello razionale non riesce a vagliare, per la sua lentezza, passività e
pigrizia. Molti nostri comportamenti sono provocati quindi dai capricci del cervello
emotivo e dalla contemporanea limitatezza di quello razionale.
La negatività è quindi una manifestazione della deficienza a volte transitoria del
cervello più sociale, quello che sa contenere gli impulsi distruttivi per porgersi
all’altro. Resta il punto che come umani siamo capaci di un’aggressività senza
criteri e senza scopi e che tanta negatività fa parte della nostra natura umana,
per cui vedeva giusto Montaigne, quando sospettava che «la natura stessa ha
instillato nell’uomo qualche istinto verso l’inumanità».
Seconda negatività: piccinerie e limiti personali
Qualche mese fa mi trovavo come papà a un’assemblea di genitori che doveva
fermare l’aumento delle rette delle mense dei bambini voluto dal Comune. Si
respirava nella palestra un clima di grande partecipazione ma anche molta
tensione. Dopo un’ora che ero lì, dopo l’ennesima interruzione degli interventi
dell’assessore da parte di un manipolo di papà molto aggressivi e vocianti, mi
scatta all’improvviso l’incazzatura e mi metto ad alzare la voce per bloccare quei
papà, che a mio avviso stavano esagerando. Ma per me che studio queste cose,
quindi le dovrei controllare, qual è stata la molla che mi ha scatenato voce alta,
faccia rossa, pensiero dogmatico? Sinceramente non lo so. So soltanto che sono
sbottato all’improvviso, senza preavviso e in maniera esagerata, da assoluto
incompetente.
Questo esempio oltre a confermare il germe di negativo dentro ognuno di noi,
della famiglia dei “negativi similari”, dimostra comunque una cosa, che la
negatività non è programmabile sia nella sua insorgenza che nelle sue modalità.
Nel mio sbottare improvviso c’erano rispettivamente, uno, i fattori biologici con
l’allerta del cervello emotivo, due, la mia personale ripicca verso persone che
trovavo arroganti, tre, la tensione provocata dalla fase economica generale con
famiglie in difficoltà perché prive di lavoro. La mia tesi è che in quasi tutti gli
eventi si mettono tutti e tre i fattori a fare da detonatore per la negatività.
Ora, vediamo la seconda fonte di negatività più specificamente psicologica e
diciamo subito che qui sono centrali gli aspetti di temperamento, o carattere
personale. Il carattere è una mescolanza di fattori genetici e fattori appresi. Ogni
temperamento ha lati buoni e cattivi. Il temperamento è il complesso di modi e
caratteristiche di una persona, per cui la possiamo riconoscere anche a distanza
di tempo, quando il soggetto si mostra con una patina costante come amabile,
malinconica o irascibile. Il temperamento è un piano sufficientemente stabile con
cui identificare un amico, la collega, un figliolo28. Comunque sia, il
temperamento è una forma di abitudine prolungata nel tempo, con cui si leggono
e si decodificano i fatti della vita.
Il temperamento è vicino al polo della natura, essendo determinato da geni e
variabili biologiche, ma risente anche del polo della cultura, perché è il frutto
delle relazioni incontrate nei primissimi anni di vita. I nostri tratti caratteriali
hanno delle predisposizioni cerebrali ancora prima della nascita, che plasmano il
modo in cui rispondiamo al mondo; ma fin dai primi giorni di vita, il nostro
cervello è direttamente forgiato anche dalle nostre interazioni col mondo e dalle
nostre relazioni umane con papà e mamma. Le esperienze coi genitori e con le
figure significative scolpiscono la nostra anatomia interna, fino a conformare la
struttura del cervello e a mescolarsi con i tratti innati, quegli stessi che la vita ci
ha regalato29.
I tratti del temperamento sono relativamente rigidi, pur presentando altri punti
più mobili e dinamici. Alcuni studi ne hanno identificato quattro categorie: a.
introversione, chi se ne sta da solo; b. estroversione, chi cerca la socializzazione;
c. nevroticismo, con alta ansietà e alta impulsività, che ha predisposizione allo
stress; d. stabilità emotiva con bassa impulsività e bassa ansietà, con
predisposizione all’indifferenza.
Il temperamento è metafora della nostra temperatura del corpo, la nostra
tipicità di “febbre”, che trova esposizione nel mondo tramite forme di
disadattamento e rigidità, ma anche di curiosità e altruismo30. La complicazione
per tutti noi è quando la febbre incrocia un’altra febbre, il marito e la moglie per
esempio, il capo e il collaboratore, quando cioè ognuno mette tra sé e la
situazione in corso un suo personale modo di intenderla, sulla base del proprio
impianto mentale, di cui il temperamento è una delle sue facce più evidenti. Ogni
soggetto ha infatti un suo modo di essere abituale, con cui esprime la sua
originalità e individualità, un insieme di tratti psicologici e morali che lo
caratterizza.
Il temperamento ha due ingredienti principali, emotività e azione. Vediamone
qui alcuni:
- appassionato (emotivo, attivo), persona tesa nel fare un’azione;
- collerico (emotivo, attivo), individuo reattivo, sovente impetuoso;
- nervoso (emotivo, non attivo), umore mutevole, incostante, ribelle;
- sentimentale (emotivo, non attivo), sognatore, sensibile;
- sanguigno (non emotivo, attivo), coinvolto, deciso, pratico;
- flemmatico (non emotivo, attivo), stabile, ponderato, puntuale;
- apatico (non emotivo, non attivo), chiuso, segreto, abitudinario;
- amorfo (non emotivo, non attivo), negligente, indifferente.
Quanto è complesso quindi un amico, un collega, un coniuge che tutti i giorni ci
sta davanti e quante sono le sue parti interne, come in una costante
metereologia, con nubi in montagna, precipitazioni sulle pianure, mari agitati e
venti da nord. Il punto di questa seconda negatività è che ogni temperamento
personale presenta forze e debolezze, lati chiari e lati scuri. Non trovo persone
nel mondo laico che, anche quando mostrano bellissime parti, non abbiano zone
di difficoltà e di impasse, è irrealistico.
Noi tutti amiamo parlare di noi, amiamo occupare lo spazio dell’altro e poi
raccontare anche i minimi dissapori che una giornata ci ha portato, dimenticando
spesso le gioie provate. I dissapori, le negatività, ci girano come frullini dentro la
testa e diviene quasi inevitabile non tirarli fuori al primo che ci capita. Per
esempio in treno, ora che le vite sono rese pubbliche dai cellulari, me ne sono
scritte alcune: «Io devo assecondare lei? Io non la assecondo di certo!»; «Ho già
capito dove vuole arrivare…»; «Lei sta sempre buttata su Internet»; «Si inventa
le cose, se le inventa di sana pianta»; «Lui si attrezza per tornare alla carica»;
«Finiscila! perché fai così, non pensare ’ste stronzate»; «Non vorrei che Walter la
prendesse male, vorrei evitare l’incidente diplomatico»; «Devo difendermi dalle
bordate interne ed esterne»; «Sì, gridi! ma non sai proprio parlare!»; «Dico
basta! ma non mi ascolti proprio».
In definitiva ognuno di noi porta fiori e cannoni nel mondo, il punto centrale è
prenderne consapevolezza, tutti abbiamo grandi tensioni e anche vitalità,
disordinate, un po’ sghembe, non sempre strutturate e stabili. Il punto sarà da
parte mia come autore, nelle pagine che vengono, riuscire a convincervi che i fiori
si riescono a mettere nei cannoni, ma lo vediamo più avanti.
Terza negatività: i contesti che ci peggiorano
L’altro giorno ero in aula con un gruppo di allievi a cui ho sottoposto un dubbio.
Mentre scrivevo questo libro me ne era infatti balenato uno assai rilevante: ma
non è che esagero con questa faccenda del tutti un po’ negativi e della negatività
così abbondante dappertutto? Ho portato questo dilemma ai miei allievi, ecco
alcune loro risposte.
La negatività è tanta e dappertutto? È giusto o è esagerato?
- No, visto che dal negativo poi ci insegni che c’è il positivo.
- Esiste di certo e qui le diamo finalmente un nome.
- Economicamente è un momento difficile che provoca altra negatività; è importante
quindi imparare da questo momento storico.
- L’importanza di stare nelle emozioni negative.
- La malvagità dell’altro già la conoscevo, qui stiamo imparando che non è malvagità
intenzionale, bensì frutto di automatismi anche naturali, vitali.
- Mi sembra l’aspetto tra i più importanti sia per il lavoro che per la famiglia.
- Esiste eccome.
- Ognuno è diverso ma siamo anche molto uguali.
Le vicende in famiglia e al lavoro, ma anche in treno, quindi si complicano
sull’altare di bachi innati naturali del cervello e per i temperamenti e le impronte
personali. Un terzo e ultimo fattore chiave di negatività è dato dal contesto, che
agisce fortemente su noi persone, tramite i “sistemi della situazione” e i “sistemi
di appartenenza”. Cosa sono? Molti studi 31 dimostrano che la linea tra bene e
male è del tutto permeabile e che i fattori ambientali possono agire su di noi
modificandoci, tanto che da persone buone e con sentimenti comuni ci possiamo
trasformare a volte in soggetti cinici e malvagi. Questa trasmutazione è stata
battezzata come “effetto lucifero”32, in cui il soggetto da lucifero si può
tramutare in satana, compiendo azioni e agendo comportamenti che, fuori dagli
influssi del sistema di appartenenza o dell’ambiente in cui si trova, ci
sorprenderebbero e diremmo: «No, lui non è così».
I contesti hanno un chiaro effetto di condizionamento e di vera e propria
modifica dei tratti usuali di una persona. Lo psicologo statunitense Zimbardo è
arrivato a queste conclusioni studiando da vicino i lager nazisti, le deportazioni e i
genocidi avvenuti in Bosnia, Cina e Darfur, oltre ad effettuare esperimenti nelle
università. La conferma che i sistemi delle situazioni agiscano da deterrente per
un mutamento mentale delle persone, lo fornisce l’altro studio sempre di
Zimbardo, denominato delle “finestre rotte”33.
Il “sistema delle situazioni” vuole dire quindi che la nostra mente può cambiare
in base a come è disposto l’ambiente fisico circostante (è a posto? è rotto? è
ordinato?) e anche come è impostato l’ambiente relazionale, che tipo di
meccanismi sociali agiscono intorno a noi (si danno addosso? si aiutano? tentano
di emarginare l’altro?). Sembra strano che adulti come siamo, un po’ di vetri rotti
in un giardino pubblico, un’azienda a forte gerarchia, possano condizionarci
negativamente, ma sembra proprio così. Le ricerche infatti hanno dedotto che la
sola presenza in un dato luogo di auto abbandonate, erbacce e vetri rotti,
possono innescare forme di vandalismo e criminalità.
I contesti dunque, nelle loro derivazioni fisiche e sociali, provocano nelle persone
germi di azioni non programmate, solo poco prima inimmaginate dai protagonisti
stessi. Questi studi ci dicono che il bene e il male non sono prerogative fisse, ma
sono bensì mobili e mutevoli. Queste stesse forze de-generative sono
compresenti potenzialmente in ciascuno di noi. Per cui certa negatività tra
genitori e figli, i trinceramenti di adolescenti o le continue sbadataggini, gli
episodi di rancore e cinismo nei luoghi di lavoro, sono tutti fenomeni in cui i
comportamenti distruttivi individuali vengono scatenati anche dalle “forze della
situazione”. Il contesto dunque ci può rendere ebeti e dei veri e propri soggetti
malvagi, come dall’altra, ci può far fiorire.
È vero che un malvivente è una “mela marcia” (l’individuo), ma più spesso di
quanto pensiamo, è giusto valutare quanto possa essere marcio anche il paniere
(la situazione). Individuo e situazione giocano inevitabilmente una danza di
costante intreccio reciproco.
Forse pochi casi di conflitto, distruttività, indifferenza, vengono freddamente
pianificati a tavolino. Solitamente, sentiamo al telegiornale di persone comuni,
con loro temperamento, con qualche tensione, ma gente comune, buona gente.
Che tuttavia ha manifestato distruttività, non voglia di lavorare, infantilizzazione,
passività. Non è quindi solo il cervello emotivo o il carattere personale a produrre
negatività.
I meccanismi chiave del contesto quale forza negativa sono:
- strutture di appartenenza: una fede, un’ideologia, un apparato di regole, un
partito, un’associazione, una famiglia; quel tipo di ambiente sociale, nei suoi
tratti dominanti ha effetto di modificazione di alcune parti nostre personali;
- sistemi di potere: per loro caratteristiche tipiche attivano forze di pressione e
conformismo che tendono ad alterarci;
- deindividuazione: quando diminuisce la consapevolezza di sé tende a crescere
l’effetto branco, l’eccesso di senso di gruppo, omologazione, uso di uniformi ed
emblemi, divise fisiche e psichiche. Gli effetti sono la perdita di consapevolezza di
sé, la riduzione di valori personali, lo svuotamento di individualità;
- deumanizzazione: quando il contesto tende ad azzerare la persona, privandola
dei suoi diritti e della sua umanità, riducendola a oggetto (o animale) senza
sentimenti, pensieri, valori; è forse il motore principale che tramuta persone
normali in perpetratori di negatività.
Il punto quindi è saper resistere al sistema di appartenenza di turno (famiglia,
associazione, vicinato, azienda), che ci tampina con le sue leggi, i suoi dogmi,
modificandoci, per un gioco che può divenire un cattivo gioco.
I “fuochi della negatività” restano tre, che tendono ad agire in simultanea: la
specie, che tramite geni e neuroni agisce con i suoi bachi innati e allarmi già
prefissati; la persona, che tramite il temperamento mette in gioco forze
debolezze; e infine la società e le sue miriadi di situazioni fisiche e sociali che
innescano veri e propri cambi di personalità.
La negatività è quindi fisiologica
Come bere e mangiare, così scontrarsi, irritarsi, attaccare, chiudersi possono
essere considerate funzioni fisiologiche, normali, atte a ristabilire equilibri, a
condensare nelle situazioni nuovi assetti e distanze; di recente in un mio gruppo
è stato detto della negatività: «da lì non si scappa», ovvero, sappiamo che esiste
e non possiamo evitarla.
La negatività va messa nel conto (al pari della positività), perché è una grande
fetta della realtà. A turno tutti siamo cattivi, cattivi adulti, cattivi genitori, cattivi
colleghi.
Il positivo e il negativo non sono prerogative di alcuni, non sono concetti
assoluti, ma, compresenti in ciascuno di noi, convivono nella stessa persona,
nello stesso contesto, siamo “negativi similari”.
La negatività è una “risorsa”, seconda
Che si voglia trasformarla o no, possiamo dirci che la negatività è e resta
un’esperienza difficile, sgradevole? Certamente sì. Restano tutti i connotati
negativi della negatività, non sto cercando un’uscita demagogica. Il punto nuovo
è tuttavia dato dal fatto che nel fenomeno negativo c’è anche risorsa, energia e
opportunità. Da qui deriva quindi la negatività-positiva, o la frase di Jerome «nel
negativo c’è il germe del positivo».
La negatività ha effetti di risorsa, energia e opportunità, quando:
- aumenta il contatto coi propri bisogni e necessità;
- tonifica l’identità personale;
- stimola il confronto e anche lo scontro;
- carica l’ambiente e lo scuote, lo rende elettrico;
- accende la forza di pensieri ed emozioni;
- fa crescere la vitalità e la voglia di sbloccarsi;
- provoca un’attenzione più acuta;
- aumenta la motivazione, la voglia di reagire;
- è un test di competenza per le persone e i ruoli in gioco.
Possiamo passare dalla cultura in cui la “negatività è un disturbo” alla cultura più
umana e aperta in cui la “negatività è una risorsa”. La positività (altruismo, gioia,
affetto, solidarietà) resta la risorsa prima, mentre alla negatività assegniamo il
valore di “risorsa seconda”, in cui, un po’ come si fa per i rifiuti solidi urbani,
possiamo raccoglierli con più attenzione per trasformarli in nuovi prodotti e
oggetti. Così la rabbia può diventare una nuova spinta a creare, la tristezza
tramutarsi in capacità di analisi, il disgusto trasformarsi in scelte più attente, la
paura diventare pertinenza.
Nel negativo c’è il germe del positivo
Il negativo e il positivo sono due polarità che dalla fisica alla psicologia
costellano la fenomenologia quotidiana; di solito le consideriamo antagoniste,
separate e una in lotta con l’altra. Negativo e positivo possono invece essere
intesi come polarità contigue e interconnesse, pressoché comunicanti, polarità
incluse in un medesimo sistema, in una stessa ciclicità, come quella giorno-notte.
La dinamica che le contrassegna comprende sia l’attrazione che la repulsione,
ovvero la lotta antagonista e la mescolanza complementare. Nei comportamenti
negativi risiedono anche aspetti di crescita e opportunità (positivo nel negativo),
come viceversa nei comportamenti positivi si possono rintracciare supponenza e
aggressività (negativo nel positivo).
È negativo anche il comportamento sempre ottimista e sempre positivo, perché
superficiale, distratto, ideale, tendenzialmente presuntuoso. Il “bicchiere
sistemico”, oltre a rimarcare le due parti classicamente distinte, aggiunge la
compresenza delle parti (la sovrapposizione), in cui il pieno è nel vuoto e il vuoto
nel pieno.
La negatività può essere trasformata
La negatività va trasformata perché conserva una ricca gamma di qualità, tra cui
un innalzamento di identità, attenzione e motivazione, libera forze psicofisiche,
ha un effetto di sblocco salutare, stimola il confronto, carica l’ambiente e lo
scuote.
Può essere gestita come una qualsiasi altra risorsa, nel tentativo di riconvertirla
in “materia riutilizzabile” (al pari e di più della positività); dunque il nostro lavoro
consiste nel riconoscerla, mettere nel conto che la negatività non è occasionale,
bensì una grande fetta della realtà che ci si mostra davanti.
Esplorando la negatività, le sue irrazionalità, le sue forze insite, possiamo
riconoscerla, contenerla, ricavarne informazioni, per ritornare alle possibili
soluzioni costruttive e positive. Il concetto che è anche il contesto a renderci
negativi, indebolisce la classica dicotomia tra negatività e positività che ci era
cara, poiché permetteva una demarcazione netta tra le due parti, tra mele sane e
mele marce. Per un sapore pacificamente assolutorio che suona mite “noi siamo i
buoni, loro sono i cattivi”. Ma anche la provenienza biologica della negatività,
quella ereditata dai nostri antenati è un altro elemento che ci pone tutti sullo
stesso piano, senza troppe discriminazioni o capri espiatori.
Credo che la forza distruttiva di una situazione non agisca da sola, essa abbia
bisogno di un concorso della persona. Come del resto anche i meccanismi
automatici prodotti dal nostro cervello emotivo possono essere ricalibrati
dall’educazione. Possiamo “bonificare” la tossicità del negativo con maggiore
educazione, un’educazione tuttavia meno moralista e più centrata su metodi
reali, che sappiano farci atterrare nelle condizioni reali e non ideali delle storie
quotidiane, altra funzione di questo libro.
Pienezza e travagli, l’integrazione di ragione ed
emozione
La geografia del cervello umano è complessa e possiamo paragonarla a un
edificio a tre piani. Partendo dal basso, al primo abbiamo l’area del tronco
encefalico (luogo di gestione degli stati corporei), al secondo piano c’è il sistema
limbico (luogo delle emozioni), al terzo piano infine la corteccia cerebrale (la
parte deputata a pensiero e ragione). Nel cervello non vige la regola dei
compartimenti stagni, bensì ogni piano contribuisce in maniera pur specifica alle
funzioni dell’altro. Il livello più basso deputato alla regolazione del corpo
contribuisce anche al pensiero insieme a quello centrale (limbico), come il
cervello più alto per instillare creatività e moralità deve avvalersi degli altri due.
La ragione sta nel cervello corticale, l’emozione nel limbico, il corpo nel tronco.
Questo è un buon schema valido per comprendere, ma occorre dire che i
funzionamenti dentro di noi sono molto più complessi e intersecati, per cui vige la
legge della connessione continua tra aree differenti.
Gli studi di questi ultimi venti anni confermano che emozioni e sentimenti non
sono indipendenti dai processi razionali, come invece si credeva in passato, ma
incidono fortemente sui pensieri razionali stessi.
Un cervello a tre piani
Prendiamo in considerazione la struttura del cervello sia perché da ciò possiamo
capire molto di tutti noi, sia perché essa è una configurazione favorevole per
sintetizzare alcune funzioni centrali del nostro vivere quotidiano. Il primo piano
del cervello è costitutito dal tronco encefalico, il cosiddetto gambo del cervello,
che coordina le funzioni vitali come respirazione, circolazione sanguigna,
metabolismo e sopravvivenza fisica.
Il secondo piano è dato dal sistema limbico (detto “cervello emotivo”), che
determina le nostre emozioni di rabbia, paura, eccitazione; contiene sia circuiti
innati sia circuiti modificabili dall’esperienza, ne fanno parte l’amigdala e
l’ippocampo. Il terzo piano è dato dalla corteccia cerebrale, a cui sono attribuite
le attività cognitive superiori coscienti e i comportamenti volontari, le funzioni
simboliche, il linguaggio, i calcoli matematici, le proiezioni nel futuro. Questo
piano controlla e coordina i due cervelli sottostanti.
Nella figura qui sotto riportata si visualizzano le tre parti del cervello che stiamo
analizzando, nella semplice disposizione della nostra mano. Non è vero quindi che
siamo solo soggetti razionali, come spesso crediamo, possiamo dire che lo siamo
in parte, considerandoci individui a “razionalità limitata”.
Una lotta tra ragione ed emozione
Possiamo infatti affermare che esiste un confine labile tra cervello corticale e
cervello emotivo, le aree alte luogo di calcolo e razionalità, con le aree basse
emotive istintuali. Sono pur tuttavia queste ultime a bypassare molto spesso
quelle della ragione, perché più rapide, potenti e automatiche.
Il cervello limbico, o cervello basso, antico, non si è praticamente evoluto nei
duecentomila anni a oggi e non ci fa differire coi nostri antenati, nonostante
grattacieli e Internet. Questo è un cervello con una massa anatomica minore, è
più piccolo, collocato in basso nel centro della testa, ma possiede una forza
straordinaria, controllando tutte le emozioni e condizionando pesantemente gli
stessi pensieri razionali.
Il cervello corticale razionale, o “cervello superiore e moderno”, molto più
giovane, è nato infatti con il linguaggio e in 150.000 anni ha vissuto uno sviluppo
straordinario, grazie in particolar modo alla cultura. Esso si trova a corona nella
parte frontale e superiore della testa e sovrintende alle nostre qualità di
riflessione, ragionamento, pianificazione e moralità.
In parole semplici, il nocciolo antico del cervello si occupa della regolazione
biologica di base, mentre in alto la corteccia moderna pondera con saggezza e
perspicacia. Ai piani alti della corteccia vi sono ragione e forza di volontà, mentre
in basso, risiede l’emozione34.
Alcuni studiosi attribuiscono al cervello arcaico la prevalenza delle emozioni sulla
razionalità e una specie di manipolazione per cui noi tutti crediamo di essere
razionali ma non lo siamo affatto, siamo in balìa di onde grandi, mentre crediamo
di ragionare, di dominare la vita e gli altri, solo perché usiamo le parole e la
comunicazione via Internet.
Molti studi35 hanno riscontrato come nei funzionamenti del cervello basso
emotivo, ci siano più connessioni che vanno alla corteccia (il cervello razionale),
che non viceversa. Ciò ribadisce la maggior forza e condizionamento
dell’emotività (involontaria e automatica) sul pensiero razionale. Le emozioni
tendono a dominare i pensieri.
Altri studi ci dicono invece dell’importanza di un collegamento della parte arcaica
con quella moderna, e prefigurano una loro possibile integrazione, collegamento
buono36, che intendo illustrare nei prossimi capitoli.
Pur annunciando che i due cervelli tendono uno a comandare sull’altro, quello
moderno della ragione a diventare troppo ragionatore, quello arcaico
dell’emozione, troppo esagerato e impulsivo.
Per fronteggiare il rischio di esagerazione con uno dei due cervelli, la via giusta
da prendere è provare a usare entrambi, educandoci e allenandoci un po’.
Cervello razionale
Controllato, meditato
Deduttivo
Lento
Cervello emotivo
Incontrollato
Spontaneo
Associativo
Consapevole
Ligio alle regole
Morale
Rapido
Inconsapevole
Automatico
Primo concetto quindi, in molti scambi e relazioni possiamo avere anche una
chiarezza teorica, che però viene sovrastata e offuscata da pensieri emotivi e
anche un po’ irrazionali, oppure istintivi e poco collocati nella realtà. La nostra
testa spesso è calda e stupida. Le negatività che agiamo infatti sono pervasive,
ricorrenti e anche prevedibili, sono l’esito di un incessante ping pong tra impulsi
automatici e pensieri controllati, tra emozioni e ragione. È più l’irrazionalità e non
la ragione il nostro habitat abituale. Tre funzionamenti di area limbica che ci
attraversano sono attaccare, fuggire, congelarsi, una terminologia scientifica che
sta a indicare:
- attaccare, criticare e aggredire;
- fuggire, non affrontare, eludere, lasciare il campo;
- congelarsi, chiudersi a riccio, sentirsi offesi, diventare indifferenti.
Quando siamo stanchi, tesi, contrastati, ma anche semplicemente impegnati e
calati in un sforzo produttivo37, le parti del cervello emotivo (amigdala) ci
spingono ad avvertire fastidi e irritazione, o anche solo difficoltà di applicazione,
ogni cosa pesa di più e questo è il primo sintomo del cervello emotivo che attiva
la sua agitazione, qui il pensiero razionale è poco presente e vitale, la sua pigrizia
permette alle emozioni di sopravanzare38.
Integrare ragione ed emozione
Il sistema limbico è dunque la zona più arcaica del cervello, sede dei processi
emotivi e percettivi di base. Questa funzione geneticamente codificata esiste in
ognuno di noi. Dunque, la nostra “corteccia intelligente”, giustamente orgoglio
dell’umanità, spesso e volentieri non riesce a calmare o disinnescare l’impulso
delle emozioni e anzi si accoda, innescando pensieri freddi, taglienti, persecutori,
in direzione di vendicatività e vittimismo. Ma è possibile cercare una strada in cui
ragione ed emozione, cervello corticale e cervello emotivo, non siano su sponde
contrapposte, bensì tentino modi nuovi di connessione?
Non più emozioni contro ragione, ma emozioni connesse alla ragione e viceversa.
Nell’evoluzione il genere umano ha appreso cose per cui nella cabina di regia dei suoi
funzionamenti si sono formate connessioni percorribili a doppio senso tra emozioni e
ragione, così i centri razionali ed emozionali sono continuamente collegati, con i secondi
avvantaggiati per la loro velocità automatica.
Pienezza di un’integrazione. Le emozioni giocano un ruolo positivo nella
costruzione delle decisioni razionali39, oggi sappiamo che quando le nostre scelte
sono dissociate dalle emozioni e dall’affettività sono del tutto irrazionali e ci
rendono asociali. Il noto neurologo Antonio Damasio è stato tra i primi a trovare
che «l’emozione facesse parte del circuito della ragione e che potesse contribuire
al processo del ragionamento, invece di essere di intralcio». Il mito di una
razionalità assoluta svincolata dal corpo delle passioni è del tutto tramontato e le
parti razionali non sempre hanno il controllo su quelle emotive, è più vero forse il
contrario: «la coda emozionale muove il cane razionale40»;
Dall’altra, occorre anche aggiungere che da sole le emozioni non possono
risolvere tutti i problemi, a volte le soluzioni mosse dalle emozioni si rivelano
controproducenti e avventate. Restano comunque strategiche, perché sono come
delle “guide interne”, nel momento che ci aiutano a dare significati e sensi al
nostro operare; esse necessitano tuttavia del contributo fondamentale della
ragione (e del linguaggio), infatti «è il controllo delle tendenze animali mediante
pensiero, ragione e volontà che ci ha reso umani41».
Emozioni che risolvono
Fuggire da un’insidia
Proteggersi da un attacco
Disgusto per l’inquinamento
Rabbia per un’angheria
Tristezza per un lutto
Emozioni che bloccano
Non si tollera un collega
Si vedono solo cose negative
Si chiude con una persona
Panico per un esame
Gelosie ingigantite
Nelle relazioni affettive e lavorative assistiamo a comunicazioni e scambi tutti
tesi alla razionalità, che aumentano di fatto una divaricazione tra funzioni
emotive (tensione, paura, rabbia, sensazioni) e funzioni corticali (pensieri, regole,
ragioni), in cui i pensieri razionali portano in una direzione e i vissuti emotivi
conducono nella direzione opposta. È come se la mente della persona fosse
scissa tra due parti, una tutta razionale e un’altra emotiva, due nuclei che già per
loro natura comunicano imperfettamente tra loro. Difatti relazioni e gruppi
dominati da logica e ragionamento soffocano sentimenti ed emozioni, in molti
episodi correttamente, in tanti altri no, perché non fanno che alimentare una
scissione tra capire e sentire, una scissione che produce di suo la proliferazione di
tante complicazioni, esplicite e nascoste.
Quello che vi propongo di sviluppare è l’integrazione tra le due parti: un po’ di
pensiero raffredda l’emozione e un po’ di emozione rivitalizza il ragionamento.
Per esempio, il cervello razionale non può zittire le emozioni, però può aiutarci a
capire quali stati d’animo ascoltare. Ma sembra facile dirlo, è molto più difficile
farlo.
L’integrazione ragione-emozione un po’ tutti la abbiamo provata e gustata, si è
affacciata in quei momenti tipici dove il clima relazionale è più calmo, a fine
giornata è più facile o in seguito a buon lavoro svolto tra colleghi, in cui si è
ricettivi, poco arroganti, attenti agli altri, meno falsi di altri momenti, più genuini
e schietti. L’integrazione implica il collegamento di parti differenziate di un
sistema e tende a farci sentire flessibili, sintonizzati, coerenti, energizzati e
stabili.
La cosa che conosciamo oggi è che i nostri funzionamenti interni automatici li
possiamo governare tramite modi di comportarci, di parlare e di pensare, che
imboccano la strada opposta a quella solita, in tal senso possiamo incominciare
a:
- trattenerci dall’esagerare, a cui siamo tutti avvezzi;
- prendere tempo, per riflettere e cogliere le situazioni;
- fare attenzione all’uso delle parole, da evitare quelle estreme, che enfatizzano
le differenze, favorendo invece parole che provano a mettere insieme parti
differenti.
Possiamo indirizzarci su vie più rispettose proprio stimolando i nostri
funzionamenti interni a riassociarsi e riregolarsi sul doppio canale ragioneemozione, un canale troppo esposto solitamente alla dissociazione e al
conflitto42. Un buon modo di operare nella realtà è quindi svolto da un cervello
ben integrato, che riesce cioè a prendere decisioni agendo su entrambe le forme
di elaborazione, quella razionale e quella emotiva. L’intelligenza dunque non è
solo quella razionale ratificata dal quoziente intellettivo ma vi è anche
un’intelligenza emotiva. Quando abbiamo paura per esempio possiamo tremare o
gettare per terra quello che abbiamo in mano, quale passaggio diretto dal
cervello emotivo al corpo. Avere questa nuova intelligenza vuole dire invece
tentare un percorso un po’ più complesso che da cervello emotivo passi al
cervello razionale, per poter prendere contatto con la paura a livello mentale e,
se le condizioni lo permettono, di esternare quel sentimento con buone parole a
chi ci sta di fronte.
Lo ricordo, gli studi in particolare di Damasio lo hanno chiarito, senza emozioni
non riusciamo a dare brillantezza alla ragione, non riusciamo a capire le
motivazioni e gli altri, non riusciamo a prendere velocemente decisioni logiche,
non intuiamo più quale è la scelta giusta per noi. Per Damasio, ma per tutti gli
studi delle neuroscienze e della psicobiologia, la nostra intelligenza non riesce a
funzionare in modo appropriato senza gli input irrazionali (inconsci, automatici,
un po’ fuorvianti) del cervello emotivo.
Unire le parti e unire le persone: la “ruota di
facilitazione”
A ventidue anni ho sentito il bisogno di lasciare casa e i miei genitori per
prendere la mia “strada”, in quegli anni ero troppo preso da tentare cose diverse
da quelle che vedevo intorno, tra cui gli stili ecologici, il centro dei miei interessi.
Lasciai a Milano genitori e fratello, loro non furono felici di quella mia scelta in
cui di fatto mi separavo dalla famiglia. Anni dopo con una prima figlia molto
piccola e un matrimonio che zoppicava, affrontai un divorzio, sciogliendo un
nucleo familiare messo su solo tre anni prima.
Dividere e dividerci è un’esperienza dolorosa, ma anche assai vitalizzante, che
sta nel ventaglio delle scelte e delle possibilità. Dividere è anche un’impronta
mentale, che mi trovo ad avere quando categorizzo persone e cose e le incastro
in contenitori astratti vivi solo nei miei pensieri, quando caccio dentro a degli
schemi eventi e contrattempi, quando emetto giudizi su cose e persone, quelle
buone e cattive, gradevoli e sgradevoli. Sono fatto così.
Da qualche anno ho compreso la forza del mettere insieme, sia seguendo
itinerari propriamente scientifici, sia intuizioni personali. Unire è una forza
suprema, che corrobora la griglia invisibile che sembra stia sotto a molte vicende
umane. A occhio nudo però la realtà è un’altra, basta accendere un telegiornale o
parlare un po’ in giro, si avverte il forte desiderio di prendersela sempre con
qualcuno, separando e sezionando cose e persone.
Tagliare, spaccare, spezzare, scindere sono facoltà che ci giungono dai geni e
dalla cultura, con ampi riflessi personali, che è facile adottare proprio perché
crediamo ci aiutino a sgomberare il campo, mettere ordine, tornare a quella
lavagna di ardesia di scuola, in cui ci imponevano una rigida scissione tra i buoni
e i cattivi.
Sto sostenendo che il ricorso alla divisione è molto sterile e inadatto. A volte
diviene pressoché inevitabile. Altre volte anche necessario e sano.
Ma se dividiamo troppo le parti interne nostre e le parti esterne nei confronti
degli altri, ecco che diamo ancora più fiato a conflittualità e malessere, forme che
abbiamo visto in precedenza già dobbiamo mettere in conto perché naturali, qui
ne aggiungeremmo ancora delle altre.
Lessico della divisione
Conflittualità frequente
Differenze che ingrossano divergenze e opposizioni
Discriminare l’altro e favorire sé
Modi di vedere le cose in bianco-o-nero (polarizzazione)
Scorciatoie mentali, ragionamenti semplicistici e populismo
Autocompiacimento
Pregiudizio, rancore, frustrazione, infantilizzazione
Capro espiatorio (l’altro come nemico assoluto)
Disimpegno morale (trattare male gli altri)
Stato reattivo
In questi anni ho cullato un’idea, a volte comoda e a volte assai scomoda, ossia,
che il benessere e la felicità avvengano sotto la spinta data dalla capacità di
unire le parti di sé e le parti di sé con gli altri. Unione tra quali elementi?
Proviamo ad articolare bene questo punto, che mi richiede qualche passaggio.
Unire è il nuovo esercizio, vuole dire connettere elementi diversi, integrare mettendo in collegamento parti
differenziate di uno stesso sistema e di un’unica realtà (negativo e positivo, razionalità ed emozione, sé e altro).
Ciascuna parte se isolata non permette una vita piena ed equilibrata, perché stimola eccessi e decadimento.
Unire e integrare vuol dire invece fortificare la complessità e la vitalità.
Abbiamo osservato nelle relazioni e nei contesti quanto stare solo su di un
piano, per esempio la positività, non sia efficace, come dall’altra, stare solo sulla
negatività spinga a bloccarsi. Abbiamo già scritto che essere solo razionali
appesantisce, come anche essere troppo emotivi non fa crescere.
Il nuovo piano per una vita più facile è far sbocciare uno sguardo di insieme, avvicinando le differenze, portando
dialogo tra le parti. L’insieme per esempio della propria persona (forze e debolezze), delle proprie relazioni (agio e
disagio), delle proprie condizioni materiali pratiche (vantaggi e svantaggi).
Per esempio, la positività da sola si presenta come astratta, troppo finta e
ideale, eccessivamente parolaia, mentre la negatività da sola si manifesta come
magmatica, caotica, molto fuorviante. Il nuovo esercizio è far incontrare le due
parti per collegarle come parti di un’unica entità, per accedere all’insieme. E qui
aumentiamo il senso di unità e di coerenza nella nostra vita, visto che sappiamo
benissimo che dell’esistenza ci sono cose buone e cose cattive.
L’incontro tra differenze mette poi in moto risorse ed energie di tipo
moltiplicatorio, perché è come se “sostanze” diverse incontrandosi liberassero
fenomeni molto più virtuosi, che solitamente restano invece imbrigliati e inibiti43.
Un po’ come quando con i colori mettiamo un giallo e un blu e viene fuori il verde,
o quando in cucina nella caffettiera la polvere e l’acqua fanno uscire il caffè.
Oppure quando tra persone, una tutta logica e l’altra tutta filosofa, il dialogo
interessato e reciproco può far sorgere miscele e sintesi stimolanti. Unendo
positivo e negativo, ma anche altre polarità, raggiungiamo una serie di condizioni
favorevoli, la positività si riscalda e si abbassa alle possibilità reali mentre la
negatività viene contenuta nel suo impeto, canalizzata.
Unire è quindi connettere due stati, due fattori, due nature che di solito tendono
ad annullarsi dentro forze oppositive, secondo una dinamica vinco-perdi e una
mentalità centrata sul dualismo (positivo sì, negativo no). L’integrazione invece è
nel filo di una mentalità duale (positivo sì, negativo sì), che accosta un fattore
all’altro, per via sistemica, relazionale, per cui ha senso una cosa ma ha senso
anche l’altra, anche se opposta. L’integrazione, come interconnessione tra
elementi differenziati di un sistema, illumina un sentiero che conduce
direttamente alla salute. Essa rappresenta la via in cui unire e integrare sono nel
solco della ricerca della salute, del benessere, del facilitarci una crescita e
un’evoluzione. Possiamo così evitare gli eccessi e gli specialismi, rinforzando solo
parti singole e quando una modalità domina sull’altra per lunghi periodi, il
risultato quasi scontato è l’insorgenza di rigidità o caos.
La mappa per una vita facilitata
Sono quattro le componenti su cui lavorare per una crescita personale, nella
direzione di una vita facilitata e piena.
Unione: ricerca di una cultura dell’insieme, detta sistemica, centrata
sull’integrazione, che cerca di mettere in collegamento due parti di solito opposte
e inconcilianti di uno stesso sistema; il risultato non è immediato ma è molto
conveniente iniziare.
Relazioni: la centralità delle interazioni con gli altri; per noi umani le relazioni
sono un habitat naturale, oltre a rappresentare il luogo pragmatico dove
soddisfare i nostri bisogni, il luogo in cui condividiamo informazioni,
apprendimenti, ciclo di vita. Noi tutti abbiamo vulnerabilità e debolezze che
soltanto altre persone sono capaci di correggere.
Cervello: è la componente fisica, il sistema nervoso esteso, distribuito lungo
tutto il corpo. Il cervello non è isolato bensì è un organo sociale che vive in
stretta interazione con l’ambiente e nelle relazioni con gli altri, sul cervello e le
sue dicotomie possiamo lavorare tramite il corpo, il linguaggio e la mente.
Mente: è la funzione di regolazione dell’intero sistema, possiamo infatti dire,
riprendendo la definizione di un noto autore, Daniel Siegel, che «la mente è un
processo incarnato e relazionale che regola il flusso di informazione ed energia».
Possiamo quindi considerare la mente come un processo risultante dalle
connessioni di corpo, cervello, relazioni e ambiente.
Nella seconda parte del libro ci dedicheremo estesamente ai metodi pratici per
una vita facilitata, più integrata, ben consapevoli tuttavia delle tante forze che ci
dividono e che ci fanno cadere nella negatività. Una consapevolezza questa, non
solo importante, ma più che strategica! Se non teniamo infatti in conto i
potenziali declini e i fisiologici slittamenti nella negatività, la vita facilitata
svanisce. A mio avviso non può esistere una ricerca di vita più facile se non si
porta attenzione ed educazione nei confronti della negatività (problemi, conflitti,
malessere, errori, senso di divisione).
Qui introduco la ruota di facilitazione, che nel suo ciclico andamento mette in
vista quattro vertici fondanti, di sviluppo e impegno. Ad ogni vertice assegniamo
la “F”, che sta a indicare la facilitazione, metter insieme fattori e persone per
andare oltre i propri minuti interessi.
F1-Integrare le parti (unione). È la funzione culturale e se vogliamo filosofica
della “ruota di facilitazione” in cui si incoraggiano i tentativi di unire polarità di
solito divaricate e antagoniste, come per esempio emozioni e ragione, azione e
riflessione, negatività e positività. Ho osservato che questa componente
sistemica, che include e ricrea le unità (olismo), è ben recepita dai gruppi,
comunque poi arenati su modalità dualistiche che escludono. Integrazione non è
cancellazione delle differenze, bensì ricercare la complementarietà, l’alternanza in
un disegno più ampio di unità. Occorre abbandonare il pensiero lineare e
cominciare a pensare in termini di coesistenza delle polarità. Niente è mai
soltanto bianco o nero e dobbiamo far sì che la parte bianca e la parte nera
possano esistere entrambe e convivere.
F2-Connettersi con gli altri (relazioni). Siamo forgiati dalle vite degli altri, siamo
programmati per connetterci l’uno con l’altro, ma la vita moderna rende tali
connessioni sempre più difficili da raggiungere. Per connetterci possiamo aprirci a
ciò che sente dentro l’altro, “decentrarsi” sull’altro non implica perdere la propria
identità e unicità, non è omologarsi, è invece restare unici ma collegati. La nostra
natura umana è interconnessa.
F3-Gestire la negatività e trasformarla in positività (cervello). Il cervello di suo è
integrato, ma anche cablato su informazioni molto antiche che lo portano a
dividersi tra ragione ed emozione. La negatività ha un propellente più emotivo,
perché più corporeo, diffuso e automatico. Il lavoro da fare è cercare
l’integrazione ragione-emozione: evitando l’eccesso di rigidità che tende a
imprigionarci (troppa razionalità) o l’eccesso opposto di troppo caos, che tende
invece a inondarci (troppa emotività). Con questo semplice esercizio – non troppa
razionalità e non troppa emozione – stimoliamo direttamente il nostro cervello a
riassestare i suoi circuiti e a gestire la negatività personale e con gli altri per farla
evolvere verso maggiore positività.
F4-Allenare la mente (mente). La mente possiamo considerarla come un
processo diffuso che avviene nel corpo e nella relazione e che regola il flusso di
energia e di informazione44. Possiamo curare e addestrare pensieri nuovi, perché
così facendo stimoliamo circuiti specifici del cervello con intenzione. L’attività
mentale stimola le funzioni cerebrali tanto quanto le funzioni cerebrali creano
l’attività mentale45. La salute mentale è sviluppo dell’integrazione, che a sua
volta schiude il comportamento alla flessibilità, all’adattamento costruttivo, alla
vitalizzazione, per un piano di maggiore e migliore coerenza tra quello che siamo
e quello che intendiamo diventare.
Lessico dell’integrazione
Non essere troppo sicuri di sé
Differenze da mettere in conto (finestra di tolleranza)
Nelle differenze cercare forme di uguaglianza
Modi di vedere con più colori e sfumature (complessità)
Collaborare conviene
Elogio del compromesso, della mediazione
Ampliamento dei circuiti interni per la compassione
Stato ricettivo, essere più aperti
Unire è certamente un vantaggio, perché rappresenta un esercizio che moltiplica
le risorse in gioco: chi non ricorda infatti il motto “l’unione fa la forza”? Unire è
tuttavia anche svantaggio, perché implica un’esposizione alla difficoltà e alla
latente conflittualità tra le parti, oltre che a subire forze tipiche che mirano di loro
a compartimentare, distinguere, in barba a complessità e integrazione. Alcuni
studi46 partono dall’assunto che unire già include la separazione, solo ciò che è
separato può infatti essere legato nell’unione. Stiamo immaginando così una
facilitazione della complessità, per renderla più fruibile e agevolata47. Le risposte
alla complessità non possono essere né troppo semplici perché non
risolverebbero i problemi, né troppo sofisticate perché rallenterebbero e
renderebbero troppo costose le soluzioni stesse.
Ribadisco il concetto, mettere insieme fattori di solito opposti ha un effetto
trasformativo perché accende in noi circuiti cerebrali nuovi e più estesi, un po’
come, per usare una metafora, un albero di natale in cui le tre file di lucine si
accendono tutte, senza nessun difetto elettrico che possa lasciare una parte
dell’albero oscurata.
Il “facilitatore pratico”: l’adulto che mira a
facilitarsi e facilitare
Riepiloghiamo insieme i passaggi compiuti fin qui:
1. siamo naturalmente conflittuali, per le mille proprietà specifiche e individuali
che ognuno di noi ha;
2. viviamo un periodo storico votato all’isolamento e a forme di vita sociale
parziali e confinate;
3. siamo tutti protagonisti di indolenze e negatività quotidiane;
4. le negatività sono di tutti (negativi similari), sono frequenti e dappertutto;
5. abbiamo difetti di fabbrica (specie, bio), ognuno agisce proprie piccinerie e
limiti (persona, psico), i contesti ci peggiorano (società, socio);
6. non possiamo inoltre non considerare il peso delle emozioni, che non sono
solo fuorvianti ma hanno anche il ruolo virtuoso di “riempire” di significato la
ragione;
7. non più emozioni contro ragione quindi, bensì emozioni con ragione e
viceversa;
8. unire è il nuovo esercizio, collegando parti differenziate di uno stesso sistema
fortifichiamo il senso di complessità insito nella vita e le stesse risorse di energia
psichica e fattuale;
9. abbiamo quindi tratteggiato un piano da sviluppare, lo chiamiamo ruota di
facilitazione, per aumentare motivazione, significato, salute e benessere;
10. abbiamo immaginato quattro abilità facilitatrici (F): F1-integrare le parti
(unione), F2-connettersi con gli altri (relazioni), F3-gestire la negatività e
trasformarla in positività (cervello), F4-allenare la mente.
Proprio da qui riprendiamo. Ero molto giovane e non ancora avevo studiato
queste cose, ma da solo arrivai a cogliere che le persone non riescono a capirsi
se non mettono nei loro scambi delle attenzioni, se non inseriscono dispositivi
semplici ma operativi, specialmente se devono combattere con i conflitti, la
passività, la demotivazione, il pregiudizio. In quell’epoca facevo parte di
un’associazione alternativa che promuoveva gli stili ecologici e le nostre riunioni
erano solitamente molto verbose, interminabili, seriose e spesso degeneravano
sempre nei soliti conflitti che vedevano protagonisti me e un’altra persona.
Ricordo che fantasticavo con le idee più varie, tra cui far girare la parola
velocemente, quasi obbligando ognuno a esprimersi brevemente per superare il
fatto che solo tre su dieci si esprimevano. Oppure fare dei cartelli visualizzando le
questioni che dovevamo decidere. O ancora, immaginavo un conduttore della
riunione che non dicesse molto di sé, ma che invece aiutasse i partecipanti a
esprimersi, che mediasse le posizioni, che ponesse in rilievo i punti su cui
riflettere, che supportasse la persona in minoranza su cui il gruppo martellava e
insisteva. E in quella dinamica io, un po’ “capro espiatorio”, forse invocavo
inconsciamente l’aiuto di una persona pia… La ricerca di crocerossine è nel mio
dna mentale, ma diciamo che come baldo giovane non ero chiuso solo a una
vertenza personale, mi intrigava il punto che un gruppo di persone potesse
sperimentare nuove regole di conversazione.
Sono poi seguiti gli anni con Jerome a cui sono arrivato conoscendo prima Enrico
Euli, trainer nonviolento che nei primi anni Ottanta era paladino della difesa
popolare nonviolenta, ci conoscemmo a un campo nonviolento a Comiso in Sicilia
e seguire le sue facilitazioni animate, coi cartelloni, in cui tutti potevano dire ed
essere attivi, fu per me un flash di goduria assoluta. Con Jerome poi ho vissuto a
stretto contatto decine di workshop formativi con gruppi di allievi intenti ad
acquisire abilità di gestione delle emozioni.
A metà degli anni Novanta arrivammo insieme a promuovere il primo fatidico
corso per “facilitatori”, soggetti che immaginavamo potessero dare una spinta
collettiva in particolare alle associazioni di cambiamento sociale (ecologiche,
nonviolente, dei consumatori), ma che poi ci accorgemmo che servivano anche
nelle aziende, nelle amministrazioni, nella sanità. Un po’ ovunque, basta mettere
tre persone al tavolino di un bar ed ecco che scatta la “dinamica di gruppo”, che
di suo altera e condiziona le interazioni e quindi anche il contenuto comunicativo
che queste tendono a esprimere.
Quale collegamento con questo libro? Immagino il facilitatore anche un adulto/a
quando è alle prese con le sue questioni personali e professionali. Un adulto –
genitore, marito, moglie, lavoratore, amico, vicino di casa, cittadino – che si dota
di criteri e strumenti pratici, per facilitare la propria vita quotidiana. Un adulto
“crocerossino” di se stesso e, se ce la fa, crocerossino per gli altri. Da questa
lunga storia possiamo rintracciare insieme la provenienza della proposta forte di
questo libro: possiamo e dobbiamo diventare adulti competenti nelle emozioni e
nelle negatività, possiamo “studiare” da facilitatore pratico, l’adulto che mira a
facilitarsi e facilitare.
Facilitazione e facilitatore. La “facilitazione esperta”48 è un sistema di metodi adatto per
il conseguimento di efficacia e benessere nella vita personale e professionale, un
approccio che tende a sviluppare la motivazione e il senso di gruppo, proprio perché
finalizzato a unire le parti, pur mettendo in conto delle mille forze che dividono. Il
facilitatore pratico è la persona, l’adulto, il genitore, il lavoratore che intende aumentare
le proprie competenze e vitalità nelle relazioni sociali, affettive, lavorative e si attiva con
proprie risorse per raggiungere questo obiettivo.
Gli studiosi di antropologia ci dicono che tutti noi nella vita abbiamo due scopi
precipui, il primo di sopravvivenza materiale, fisica, economica, il secondo di
convivenza, poter intrattenere relazioni nutrienti e buone. Ma il punto è che il
primo bisogno tende spesso a prenderci la mano (quanto è vero anche per me). E
lasciamo sul campo relazioni con mogli, figli, genitori, fratelli e parenti che senza
accorgercene scadono nella trascuratezza e nella mediocrità. Stare nelle relazioni
è difficile per tutti e anche se diveniamo dei facilitatori, continueranno a essere
difficili, proprio perché le relazioni sono la vita, complesse e intricate, intrecciate,
complicate.
Con un po’ di competenza e qualche strumento possiamo perlopiù ascoltare
meglio un amico, possiamo aiutare un genitore cogliendone le sue emozioni,
possiamo esprimere un bisogno emotivo con un figlio o una moglie, possiamo
fare una critica costruttiva al nostro capo e tanto altro. Ma anche un “facilitatore
pratico” è destinato a vivere i suoi drammi quotidiani, fatti di problemi, conflitti,
malessere ed errori. Si fortifica su migliori abilità, per esempio prendiamo me:
continuo ad arrabbiarmi e a covare le mie debolezze, faccio fiorire qualche
prelibatezza quello sì, non mi illudo, ma il vero cambio è nell’insorgere di un
conflitto che ormai comprendo che non potrà mai essere estinto, esiste, per cui
nicchio e cerco di cavalcarlo nelle sue bizzarrie. Un altro guadagno sostanziale è
nel non mantenere troppo il rancore nel post-conflitto, cerco più facilmente di
ritessere la trama, come saturare una ferita che prima si era aperta. Oltre
all’ascolto di me e dell’altro che è in una buona crescita costante.
In tutti noi agiscono complesse e sottili interazioni tra i geni e l’ambiente, ovvero
il nostro corredo di base trasmesso dai genitori (genotipo) si modifica
costantemente in interazione con l’ambiente, producendo la persona che siamo,
con le nostre specificità (fenotipo). Siamo un vero e proprio impasto di
complementarietà intrecciate e mescolate; siamo uno stupendo organismo
vivente di specie (mammifero, Homo sapiens) e specifico (persona).
La nostra centralina, il cervello, è un organo sociale e le nostre relazioni con gli
altri non sono un’opzione ma un dato essenziale per la nostra sopravvivenza.
Quando siamo in contrasto con gli altri è come se il nostro cuore si spezzasse,
quando qualcuno che è caro soffre, possiamo sentire quel peso anche dentro di
noi, questo tipo di risonanza fisica ed emotiva ci racconta della connessione con i
corpi e le menti di chi ci sta davanti. Sappiamo anche che la mente si sviluppa
all’interno di sollecitazioni che provengono sia dall’ambiente fisico (gli oggetti)
che dall’ambiente sociale (le altre persone), sia nell’infanzia ma anche in età
adulta.
Le connessioni cerebrali da cui emergono pensieri ed emozioni (la cosiddetta
mente) si sviluppano nell’ambito delle relazioni interpersonali49, per cui anche le
relazioni umane modellano la struttura del cervello, dal quale la mente prende
informazioni ed energia. Infatti, come abbiamo già visto, possiamo definire la
mente umana sia incarnata (ha luogo nel corpo, incluso il cervello) sia relazionale
(con la miriade di passaggi di pensieri ed emozioni tra noi e gli altri).
Un facilitatore pratico, quindi, incomincia a impegnarsi per migliorare i rapporti
umani perché capisce che pensieri e parole scambiati entrano nei propri circuiti
bonificandoli o anche intossicandoli (relazioni). Cerca inoltre di condizionare il
proprio cervello cercando nuovi stili di gestione della negatività e della positività
(cervello). Infine prova a educare la mente avendo cura della vita della propria
specifica e unica mente, nel mondo non ne esiste un’altra simile.
Il calore della vicinanza con gli altri è la carota. Il dolore di sentirsi soli è il
bastone. Conciliare il desiderio di autonomia con il desiderio di legame intimo è
una sfida che continua per tutta una vita. Una persona che aumenta la sua
cooperazione e contiene il suo antagonismo ha un vantaggio di benessere, anche
perché procede nel flusso più ampio dell’evoluzione, che solitamente favorisce i
soggetti che promuovono l’ottimizzazione delle relazioni interpersonali50.
Ma la voglia di cooperare deve fare i conti con la paura di essere traditi, la barca
con i passeggeri buoni potrebbe essere affondata da quella dei passeggeri
egoisti. Se l’egoismo prevale, ci perdono tutti, mentre se prevale l’altruismo, ci
guadagnano tutti.51 Qui noi consideriamo per il facilitatore la capacità di saper
stare nel conflitto e anche nella cooperazione, infatti sia in ambito biologico che
culturale agiscono contemporaneamente le forze del conflitto e della
cooperazione.
Per concludere, il facilitatore pratico senza che nessuno lo abbia obbligato, in
modo autonomo e proattivo si impegna a:
1. mettere in conto e conoscere i propri impulsi egoistici ed altruistici, a non
drammatizzarli e a non glorificarli, dando tuttavia preferenza all’altruismo;
2. fare un sano ping pong variando i punti di vista tra la “mappa-sé”, che
fornisce pensieri e sentimenti personali, la “mappa-altro”, che dà informazioni
sull’altro e la “mappa-noi”, lo sguardo di insieme sulle varie relazioni;
3. considerare che l’asse sé-altro resta un asse difficile e complesso, per questo
rende la propria “finestra di tolleranza” più flessibile possibile, per ridurre il
giudizio sulle proprie e altrui stranezze;
4. apprendere i metodi di gestione della negatività per cercare di trasformarla;
5. aprirsi agli altri, perché sa di avere bisogno di relazioni significative e di
connessione con gli altri, per aggiungere acqua al pozzo che alimenta il proprio
potenziale umano.
PARTE SECONDA
Mettere in pratica
Gli strumenti concreti per l’arte della facilità
Come per ogni nuova capacità da imparare, che sia l’inglese o sciare, recitare o
fare pilates, occorre abbandonare le belle idee confezionate e darsi da fare
esercitandosi. Così anche per diventare facilitatore pratico dobbiamo esercitarci
operativamente. Non basta infatti aver compreso che dietro un flop emotivo o
relazionale ci sono motivi arcaici, pieghe personali acquisite o situazioni
condizionanti. E non basta neanche avere qualche buon concetto riparatore in
più, dobbiamo provarci mettendo in campo le tecniche qui presentate,
organizzate per funzioni e ricche di esempi.
Il facilitatore pratico è uno di noi, una persona ordinaria, impegnata nella sfera privata e
in quella pubblica lavorativa, con gli amici, nella società, che intende aumentare le
proprie capacità di azione, comunicazione, gestione di conflitti e negatività,
apprendimento e vitalità. La denominazione richiama a qualcosa di concreto, di calato
nel basso, di agibile. Tutti possiamo rieducarci, tutti possiamo mettere in noi stessi nuovi
criteri e nuove abilità.
Integrare le parti (F1)
Avviamo la prima funzione facilitatrice (F1), quella che propone di mettere
insieme fattori differenti e di solito distanziati. In questa sezione come potete
vedere ci sono concetti e proposte che riguardano noi stessi, noi con gli altri, lo
stare nei gruppi, cercare di essere non solo più riflessivi ma anche più concreti.
Unire sé, riconciliarsi
Abbiamo già visto quanto sia importante alimentare una cultura che possa
integrare e unire parti di solito lontane e in opposizione. È un esercizio nuovo un
po’ faticoso, forse anche strano, ma di grande beneficio per sé. L’arte dell’unire
ciò che di solito è diviso è un’arte nobile che aiuta le nostre parti interne a
conciliarsi nella diversità, ma anche le parti assunte nelle interazioni con gli altri a
trovare punti di contatto e collegamento più frequenti. Unire è un esercizio che
non può che farci bene, visto che tutti i fenomeni sono riconducibili a unità
sistemiche, cioè insiemi più ampi delle loro singole parti.
Esercizio di dualità
Un esercizio di banale accostamento quotidiano di termini e fattori che
solitamente vediamo separati e in opposizione. Il piacere di mettere vicino al
bianco il nero, di accostare caldo e freddo, alto e basso e vedere l’effetto che fa.
La realtà è più complessa di quello che ci permettiamo di decodificare,
schematizzando, rimuovendo, negando. Se la vediamo con uno spettro un po’ più
ampio è tutto di guadagnato in fatto di visione realistica e di stimoli che forniamo
ai nostri sensi e al nostro apparato cerebrale. È tutta salute.
Esempi. Alcune coppie interessanti: corpo-mente; costi-benefici; giorno-notte;
andata-ritorno; emozione-ragione; io-l’altro; agire-riflettere; maschile-femminile;
inizio-conclusione; direzione aziendale-base operativa; problema-soluzione;
correre-riposare.
Proviamo. Su un quaderno di appunti, nella nostra testa, nel computer quando
pensiamo o progettiamo possiamo creare queste coppie da cui possono nascere
altre idee conseguenti, ma l’obiettivo principe è l’accostamento di due poli
opposti che possono coesistere e integrarsi.
Unione di due cervelli
L’importanza di far dialogare il cervello emotivo (vitale, veloce e schematico) col
cervello razionale (lento, logico, complesso). La nostra flessibilità, la nostra
integrazione (chiamata neuroplasticità) mette al centro in alternanza il cervello
alto, quando ragioniamo e parliamo (capacità di capire), col cervello basso,
quando indaghiamo il problema nelle sue parti di dilemma e disagio (capacità di
sentire).
Esempi. Spunti pratici:
- usare tutti e due i sistemi, sentire e capire;
- resistere alla tentazione di censurare uno dei due sistemi;
- ascoltare quel che le due aree ci dicono;
- evitare di pensare troppo, errore frequente e diffuso;
- evitare di macerarsi nel sentimento e nelle emozioni;
- di un problema il cervello razionale non può indagare più di quattro variabili,
oltre le quali va in confusione;
- se davanti a un problema complesso abbiniamo alla razionalità qualche spunto
su come sentiamo quel fatto, quale senso gli attribuiamo, ecco che operiamo
un’integrazione, per cui il cervello emotivo in connessione col cervello razionale
stimola a scegliere e decidere;
- il cervello razionale da solo può facilmente essere sviato anche da un singolo
aspetto marginale, è come incapace di accantonare le informazioni irrilevanti;
- il cervello emotivo invece è esagerato e spesso fuorviante, dalle tinte forti;
- il cervello emotivo è vitale e il cervello razionale è riflessivo e morale; la
razionalità crea la lista delle possibilità e l’emozione aiuta a scegliere dalla lista.
Proviamo. Unire emotivo e razionale, alto e basso, permette al nostro cervello di
ridurre gli episodi di dissociazione e polarizzazione, di riattivare nuove
connessioni che vanno ad accendere parti cerebrali di solito spente. Più sappiamo
accendere più parti del cervello e più moltiplichiamo i fattori di salute, benessere
e integrità.
Logica vantaggi-svantaggi
Il pensiero detto dicotomico tende a rappresentare le proprie idee come giuste e
quelle degli altri sbagliate. Questo concetto invece assegna a ogni idea nostra e
dell’altro lati positivi (detti vantaggi) e lati negativi (svantaggi).
È raro che un’idea sia solo vantaggiosa, di solito è il nostro marketing personale
che tende a vendere agli altri proposte e valori nostri. È bene quindi evitare il
gioco un po’ puerile per cui un’idea è solo perfetta (la nostra) e un’altra è tutta da
buttare52 (quella dell’altro). Vantaggi-svantaggi suggerisce un principio di
complessità, ossia, della stessa idea e proposta possiamo evidenziarne i punti pro
e i punti contro, le forze e anche le possibili debolezze.
Esempi. (Scegliere una vacanza, modello giusto-sbagliato)
A: «Andare al mare è proprio la cosa che ci serve, dobbiamo andare al mare, la
tua idea di andare in campagna mi sembra proprio sballata!»
B: «Ma guarda che in agosto il mare è preso d’assalto! Dobbiamo andare in
campagna. In quel periodo in cui si sta da dio. Come fai a pensare tu al mare mi
sembra assurdo!».
(Scegliere una vacanza, modello vantaggi-svantaggi)
A: «Io sento che desidero molto il mare per la nostra vacanza di agosto, ma mi
rendo conto che alla sua bellezza devo aggiungere anche spiagge e campeggi
tutti intasati e il pienone di gente un po’ ovunque».
B: «Io invece in questo correre continuo spesso penso “dove voglio andare a
rigenerarmi?” e non ho dubbi, penso a un luogo tranquillo e mi viene in mente un
bel luogo di campagna, un agriturismo, sì. Ma è pur vero che per i bambini
sarebbe preferibile il mare, per farli stare liberi almeno un po’».
Proviamo. Metti questa capacità di analisi di una scelta dentro le tue decisioni
quotidiane, lavoro, impegni, vacanza; puoi cercare di usare i vantaggi-svantaggi
come esercizio di pluralità, non ergendo sempre la tua proposta come la migliore,
ma studiandone insieme all’altro i pro e i contro delle idee sul tavolo.
Saper essere concreti
I miei insegnanti a psicologia me lo dicevano sempre. Ma non riuscivo a
comprendere bene il senso di tanta insistenza. Sia nell’ascolto, sia nella relazione
di aiuto ci martellavano sulla capacità di stare vicino alle cose concrete, ai fatti
della persona che avevamo davanti nelle simulazioni nei corsi all’università. «Non
dovete interpretare, dovete solo osservare il comportamento lì in seduta», «il
comportamento osservato va restituito al protagonista tramite pareri che
descrivano e non interpretino».
Io ero invece abituato a interpretare, la mamma per esempio quando una volta
ogni tanto si arrabbiava con noi figli e si chiudeva a riccio, tenendo il broncio per
qualche giorno, la interpretavo come “la mamma che ce l’ha con noi”. Giudicavo
la prof di inglese quando da ragazzino ci incuteva il terrore in classe per le
interrogazioni “la prof Grasso è dura con la sua materia”. L’interpretazione negli
scambi ci erge a paladini del giudizio, quelli che sanno tutto (senza sapere
niente). L’osservazione descrittiva ci riporta invece a semplici travet53, che non
hanno tanto da glorificarsi, ma pancia a terra si danno da fare per guadagnarsi la
loro pagnotta.
Ecco, la concretezza è un po’ questo, focalizzarsi sui fenomeni osservabili, gli
aspetti pratici, le parti materiali e fisiche, centrare l’attenzione sul ricavo
sostanziale di uno sforzo, mirare a un obiettivo e a un risultato.
Dall’astratto al concreto
L’insoddisfazione di tante interazioni scaturisce dalla tendenza delle persone a
parlare in modo troppo astratto, vago, dispersivo. Spesso anche dando per
scontato che noi che ascoltiamo conosciamo dei passaggi specifici che invece
ignoriamo. Il mio insegnante e mentore, Jerome, ci teneva molto: «La
concretezza è il migliore attrezzo per comprendere l’altro e sospendere i giudizi
automatici che nella nostra mente si affacciano prepotenti».
La concretezza è partire dai fatti per arrivare alle generalizzazioni, muovendo il
processo logico dal minimale al massimale, induttivamente viene chiamato
l’opposto di un andamento deduttivo, che dal generale passa al particolare. Col
generalismo siamo tutti più autorizzati a fare i populisti generici, in cui
sentenziamo persone e cose sull’altare dell’umore che ci passa in quel momento
e questo a mio avviso non va molto bene, tende ad appiattire i nostri scambi e
dirci sempre le stesse cose, «oggi fa freddo», «è cambiato il clima in questi anni»,
«in Italia le cose non funzionano». Per privilegiare i fatti occorre essere
documentati, i fatti si organizzano attingendo alla lista dei “codici di concretezza”:
cosa, come, chi, quando, dove.
Esempi.
Parole nella loro modulazione astratto-generale-concreto:
Astratto
Vegetali
Attività
Salute
Problemi
Società
Generale
Frutta
Lavoro
Fare movimento
Poco lavoro
Organizzazioni
Concreto
Albicocche
Vetrinista
Correre
Inviare curriculum
Banche
Proviamo. Metti nelle tue frasi almeno un codice concreto tra i cinque (cosa,
come, chi, quando, dove). Inoltre, da ascoltatore puoi fare domande specifiche,
del tipo: «quando è successo?», «quanto è durato quel lamento del direttore?»,
«chi in particolare non verrà più in palestra?».
Fatti e opinioni
I fatti sono un concreto elemento di prova che è avvenuto un dato episodio o
comportamento, i fatti sono lo specchio di un accadimento, un po’ come una
fotografia o una registrazione sonora.
Le opinioni invece sono la deduzione libera del soggetto che interpreta i fatti
stessi, formando ipotesi, teorie, giudizi. Mescolarli indistintamente può creare
molti malintesi. È importante quindi:
- distinguerli, precisando se si tratta di fatti o di pareri personali;
- integrarli, specificando che al fatto segue la nostra opinione.
Proviamo. In ogni scambio, specialmente nelle pieghe più controverse e
complicate, puoi invitare l’interlocutore a specificare se quello che sta affermando
è il fatto o la sua opinione. Parte avvantaggiato chi può citare i fatti (numerosi e
pertinenti), a supporto della propria idea.
Piano di azione
In molti momenti di una giornata, in casa e al lavoro, dobbiamo occuparci di
come pianificare l’azione.
Anche dopo uno scambio tutto rivolto ad analizzare un problema, siamo chiamati
a porre rimedio individuando una soluzione.
Ecco, tutti questi momenti sono adatti per tracciare il piano di azione (soluzione,
accordarsi, fatti concreti).
Possiamo fissare su computer, lavagna o nella nostra testa i quattro punti
chiave: cosa facciamo; come lo facciamo; chi se ne occupa; quando, la scadenza
e i tempi.
Cosa
Contenuti
Obiettivi
Ricerca di risultati
Chi
Referenti
Partner
Squadre
Come
Mezzi pratici
Metodi, Atteggiamenti
Stili di lavoro
Quando
Tempi
Step
Scadenze
Piano di miglioramento
Per accompagnare lo stato di attuazione di un’idea ci possono venire in aiuto
altri due schemi sintetici:
- la griglia di monitoraggio composta da: si fa già bene, da cominciare, si fa e si
può migliorare, da non far più. Seguendola nei suoi quattro punti possiamo far
emergere elementi che altrimenti potremmo dimenticare o non assemblare in
quello scambio o riunione;
- la griglia swot, acronimo inglese che sta per: punti di forza, punti di debolezza,
opportunità, rischi.
Proviamo. Specialmente la griglia di monitoraggio si presta per verifiche
periodiche. La possiamo visualizzare nella bacheca di ufficio o anche di casa, nei
periodi in cui si stanno impostando nuove abitudini e nuovi obiettivi di lavoro.
Si fa già bene
Si fa e si può migliorare
Punti di forza
Opportunità
Da cominciare
Da non fare più
Punti di debolezza
Rischi
Chiusura costruttiva
Dire no, concentrasi su una cosa sola per volta, avere coscienza dei limiti, sono
tutte cose che spesso erroneamente consideriamo di seconda linea, minori o
addirittura non buone. Invece dire no, concentrarsi su una cosa, evidenziare un
limite sono aspetti molto costruttivi ed efficaci. La psicologia queste funzioni le ha
chiamate “chiusura cognitiva54”, ovvero, l’intenzionale ricorso alla chiusura
mentale, nel tentativo di prendere una decisione, agire in tempo per un
determinato scopo, dare una risposta definitiva su un argomento.
Possiamo quindi riflettere in qualità di persone e gruppi come i meccanismi di
chiusura siano altrettanto importanti di quelli dell’apertura, quanto i fattori di
definizione e limite siano al pari importanti di quelli di espansione e sviluppo. Il
punto saliente resta quello del contemplarli entrambi, alternandoli e calibrandoli.
Esempi. Quando esponiamo un problema saremo apprezzati se:
- esponiamo il contenuto in modo attinente e appropriato, selezionandolo in
base al tempo e ai destinatari;
- evidenziamo sia le opportunità che i limiti;
- parliamo in maniera stringata e concisa;
- censuriamo i contenuti che sono fuori tema e vaghi.
Proviamo. La chiusura costruttiva serve nella sfera interpersonale per concludere
un colloquio amichevole, quando non si ha più tempo. Al lavoro invece può essere
utile nelle fasi di conclusione di un colloquio o riunione, nell’assegnazione di
compiti, di concretizzazione di un accordo. Da anni, assisto nei luoghi pubblici
(banca, poste), a operatori di sportello che non sanno imprimere un po’ di
velocità al loro servizio col pubblico e alcune volte in più, con la fila di utenti che
aspettavano, disperdersi e farsi imbrigliare dal cliente di turno verboso. La
chiusura costruttiva è uno strumento che nelle situazioni dispersive imprime tono
e concretezza, perché lo scambio sia più asciutto e concludente.
Focus sul contributo
Il presidente statunitense John F. Kennedy negli anni Sessanta lo proclamò dal
palco rivolgendosi ai suoi connazionali: «Non pensate a cosa la vostra nazione
può fare per voi, pensate a cosa voi potete fare per la vostra nazione». Nella
diffusa cultura dell’attesa, della delega e della passività fu un vero e proprio
cambio di prospettiva, che diede vita in seguito a correnti di pensiero anche
nell’economia.
Il focus sul contributo è semplicemente quell’atteggiamento attivo e propositivo
che porta la persona a domandarsi: «In che modo posso dare un aiuto a
quell’amico o a quel collega?».
Esempi. Come facilitatore pratico possiamo stimolarci per esempio domandarci:
- cosa richiede la situazione adesso?;
- come posso dare una mano, un contributo utile?;
- a cosa potrei o potremmo mirare nella ricerca di un risultato?
Focalizzarci sul contributo vuol dire quindi concentrarci sulle cose da fare in vista
dei risultati attesi (non solo sugli sforzi profusi); sull’intraprendenza (non sul
lamento); sulla responsabilità (non la delega).
Proviamo. Questo è uno scatto significativo per le nostre relazioni e i gruppi che
frequentiamo, stimolare cioè il passaggio da una mentalità passiva e arrendevole
a un atteggiamento più attivo e intraprendente.
Stare con gli altri, imparare il gruppo
Siamo tutti il frutto di una cultura individualista e singolare. I modelli sociali,
economici e del costume, in Europa in particolare, ci hanno da sempre
caldeggiato forme di arrivismo, competizione, o anche mesto esclusivismo. Solo
negli ultimi anni, con l’avvento della rete multimediale si fanno avanti concetti
nuovi come connessione, risorse aperte, collettivismo, reti sociali.
Tanti anni fa frequentavo un master di sviluppo personale a Firenze e a una
lezione, ricordo era un sabato pomeriggio, invece di trovare il relatore e metterci
nei banchi come solitamente era previsto, trovai tutta un’altra situazione. Con i
compagni fummo accompagnati in una palestra, eravamo una trentina di allievi e
in quello spazio aperto era precedentemente stata montata a metà della sala una
rete fino al soffitto. I nostri insegnanti, senza troppe spiegazioni, ci divisero in
due gruppi e ci diedero la consegna per quel pomeriggio: «Dovete oltrepassare la
rete senza toccarla, vediamo qual è il gruppo più capace».
Per passare di là ci lambicammo il cervello, l’unico modo era prendere di peso
ognuno di noi e da sdraiati farci passare in quei pertugi della rete (per intenderci
era come una rete di pallavolo che presentava maglie strette e maglie poco più
larghe). Ricordo il senso di gruppo che si attivò. Ricordo le tensioni tra di noi, chi
voleva insistere in una data idea, chi invece si metteva ai margini della
discussione eseguendo soltanto, chi perdeva la pazienza, chi considerava quella
lezione una pura follia perché si aspettava ben altro.
Quell’atmosfera concitata, agitata, elettrizzante, quasi litigiosa i padri della
psicologia dei gruppi l’avevano chiamata “dinamica di gruppo”.
Ecco, la dinamica di gruppo e stare con gli altri le possiamo considerare vere e
proprie attività, un mestiere, che comporta come per qualsiasi altro mestiere un
po’ di conoscenza, l’infarinatura di una qualche buona istruzione e un po’ di
impegno.
Fare gruppo
Fare gruppo, saper stare in un gruppo è una funzione sempre più richiesta nella
nostra attualità lavorativa, ma non solo. Alcuni punti da tenere presente:
- ogni persona non è solo individuo singolo, ma anche “soggetto relazionale”,
quando entra in contatto con altri tende a modificare in parte le sue
caratteristiche originarie;
- il gruppo – che sia famiglia, team in ufficio, associazione di volontariato – è un
“campo di forze”, in cui i ruoli operativi e le tendenze mentali 55 entrano in
comunione, ma anche in collisione;
- la cosiddetta “dinamica di gruppo” riguarda quindi le forze positive e negative,
attrattive e repulsive, tipiche di ogni aggregazione;
- il gruppo è un “tutto” psicologicamente organico che ha proprietà sue proprie,
che non corrispondono più ai singoli, né tantomeno alla loro somma algebrica
(l’in​tero è molto diverso della somma delle sue parti);
- non è la somiglianza tra i membri a costituire un gruppo, ma una certa
dinamica interdipendente tra loro;
- cosa rende unito un gruppo? La possibilità del singolo di raggiungere i propri
obiettivi e inoltre le finalità comuni da perseguire.
Il gruppo si caratterizza quindi come dotato di una propria identità e volontà
autonome, attiva atmosfere proprie che spingono la persona che vi entra a
esserne molto influenzata.
Esempi. Una bella immagine che mi è stata raccontata di recente è che un
gruppo è come una macedonia, in cui i diversi tipi di frutta si scorgono sempre, le
fragole restano fragole, i mandarini restano mandarini, ma tutti i frutti si
smussano, rilasciano parti di sé che vanno a comporre quel delizioso miscuglio,
prelibato al palato.
Proviamo. Può essere interessante portare l’attenzione su come il nostro
comportamento personale può cambiare in base al gruppo in cui ci troviamo.
Altro punto è osservare anche gli altri membri, come in gruppo tendano a non
sentirsi a proprio agio, come invece è più facile sentirsi nelle coppie (affettive e di
lavoro).
Negli ultimi anni noto come nei gruppi i tratti personali tendano ad amplificarsi,
chi introverso tende ancora di più, chi estroverso anche.
Accordo di gruppo
Progettare con altre famiglie quale vacanza fare, oppure stabilire tra colleghi il
piano ferie. O ancora, decidere se mettere o no l’ascensore nella riunione di
condominio, o come genitori trovare un accordo nel consiglio di classe di nostro
figlio che frequenta le medie o la scuola superiore. Tutte dinamiche di gruppo in
un interno, che sono protese non solo a consultarsi, ma anche a trovare punti di
sintesi pratiche, che vengono chiamate negoziazione, accordi.
Una negoziazione presenta alcuni punti nevralgici:
- accettare punti di vista divergenti e contrari;
- riconoscere il punto di vista dell’altro;
- esplicitare il proprio parere e la propria idea;
- orientare la ricerca di accordo basandosi sui fatti concreti;
- chiarire i termini dell’accordo.
Questo elenco è facile scriverlo o leggerlo, mentre invece è complicato metterlo
in campo. Personalmente scorgo tre grandi scogli, che vedo quasi sempre negli
scambi di gruppo: il primo è ammettere di essere diversi e a volte anche opposti
nelle idee e nei bisogni espressi, questa capacità di pluralità, di tolleranza e di
flessibilità è davvero faticosa e difficile da mantenere; il secondo, una volta
espresse le diversità si devono assemblare, attaccare le une alle altre, con
capacità di sintesi, che non sono così scontate; il terzo scoglio è esser adeguati
alle condizioni concrete e reali del contesto in cui ci si trova: l’ascensore nel
condominio non può costare più di tanto e le ore di palestra per i nostri figli non
possono essere maggiori di quelle previste dal programma ministeriale.
Proviamo. Il punto focale della negoziazione è il concorso all’accordo da parte
delle parti in campo. E come si può concorrere? La regola semplice è quella di
parlare insieme, scambiando pareri e ipotesi. Lo stile comunicativo diviene quindi
strategico: se questo è centrato su egocentrismo e monologo la negoziazione può
risultare ostacolata e di difficile compimento; se invece la comunicazione è
centrata su diversità e dialogo, l’accordo può risultare più fluido e praticabile.
Quindi, fai attenzione allo stile comunicativo, più tieni conto dell’altro e meglio e
prima puoi arrivare a negoziazione.
Decisione in gruppo
Si possono elencare sei modi di decisione:
- decisione naturale: le idee vengono presentate una dietro l’altra senza alcuna
discussione e il gruppo ne sceglie una lasciando automaticamente indietro tutte
le altre;
- decisione per autorità: il capo del gruppo prende una decisione per tutti; tale
risultato può essere in presenza o assenza di discussione e permette di
risparmiare molto tempo;
- decisione della minoranza: una piccola parte del gruppo è capace di influenzare
la discussione, riuscendo così a imporre la propria idea;
- decisione della maggioranza: è uno fra i metodi più utilizzati; una votazione
permette di verificare l’appoggio della maggioranza a una specifica soluzione, ma
crea anche delle coalizioni (vincitori e vinti);
- decisione per consenso: il consenso si raggiunge quando la discussione porta
alla scelta di un’alternativa preferita dalla maggior parte del gruppo e viene
supportata anche dai membri in minoranza, a cui in precedenza gli sono stati
accolti punti di loro gradimento;
- decisione all’unanimità: è la condizione spesso solo ideale in cui tutti i membri
si trovano d’accordo nella scelta.
Proviamo. La cosa più bella è saper prendere decisioni in famiglia o al lavoro,
variando lo spartito. Cosa vuole dire? Con la moglie non fare che sia sempre lei
oppure sempre tu a decidere, ma alternare, a volte lei, a volte tu, a volte
insieme. Così al lavoro, in una conduzione di gruppo direttiva il capo decide in
autonomia («ho deciso!»), alternando tuttavia decisioni più collegiali e in forma
partecipativa («cosa proponete?»).
Parola che gira
Un gruppo diventa efficace se sul piano interpersonale mantiene un buon livello
dinamico, in senso sia di quantità (scambi rapidi) che di qualità (scambi
pertinenti). La parola che gira è il funzionamento dell’interazione che si centra
sull’alternanza degli interventi e cerca di evitare il monologo e la
monopolizzazione di pochi sui tanti. La turnazione viene detta circolare, perché
stimola l’intero coro a cantare.
In un gruppo più la parola gira, non fermandosi sui soliti due o tre, e più
aumenta la capacità di unione nella diversità e della cosiddetta democrazia della
parola56. Noto solitamente come sia difficile anche in pizzeria evitare che gli
amici parlino a due a due, invece che insieme. Parlare in gruppo è pressoché
un’attività sconosciuta, siamo infatti troppo abituati alle coppie, alla solitudine o a
non dire.
I punti della parola che gira:
- è bene che gli interventi siano brevi;
- i turni brevi danno un buon ritmo attivo alla conversazione;
- lo scambio basato sul monologo causa invece esclusione e passività;
- il turno breve ci spinge a concentrare il discorso e ridurre le ripetizioni;
- la parola che gira è così più asciutta, sobria e più facilmente aggregabile alla
dimensione di gruppo, collettiva;
- così facendo si riducono le distanze tra i punti di vista, agendo cioè sul modo di
parlare e non solo sul contenuto.
Esempi. Caratteristiche: invitare ognuno a dire la propria; incoraggiare gli
introversi e i silenziosi (senza forzare); non bloccare il flusso, non incaponirsi, far
fluire; togliere la parola in maniera garbata, in caso di turno lungo; ringraziare
per il contributo fornito.
Proviamo. L’ho sperimentato decine di volte e ogni volta i risultati sono
eccellenti: da apatia i partecipanti passano a interesse, da disattenzione per
l’altro a curiosità, da passività ad attivazione.
Quindi, la gestione dei turni genera una forza centripeta57 che può offrire al
gruppo un carattere distintamente aggregativo e inclusivo.
Doppia cornice (contenuto e relazione)
Lo scambio interpersonale si compone di un piano di contenuto in cui si
scambiamo informazioni e di un piano di relazione in cui si muovono modalità,
gerarchie, atteggiamenti. Un amico racconta della sua vacanza al mare (piano di
contenuto), il tipo di spiaggia, di albergo, le persone incontrate. Nel mezzo, per
regolare lo scambio può tuttavia aggiungere frasi tipo «fammi concludere», «poi
mi fai le domande che vuoi», «vuoi chiedermi qualcosa?», «ti sto esagerando il
mio racconto così ti stupisco». Ecco, queste frasi non sviluppano il contenuto,
bensì il modo con cui la persona vuole parlare con l’altro, il modo con cui regolare
lo scambio, il cosiddetto piano di relazione.
La doppia cornice è infatti quel metodo pratico che cerca di esporre il contenuto
e insieme esporre anche il modo con cui si intende parlare con gli altri. La doppia
cornice annuncia sia i contenuti che la modalità comunicativa.
Esempi.
Insegnante/1: «Oggi studiamo lo scoppio della seconda guerra mondiale
(compito)… espongo i primi due concetti chiave e poi attendo le vostre
domande» (relazione).
Insegnante/2: «Dobbiamo parlare dell’esercito tedesco, come reclutava soldati
giovani (contenuto), ma abbiamo ancora solo dieci minuti… dico io una cosa, poi
due vostre domande» (relazione).
Genitore: «Ti devo dire come regolamentare l’uso del cellulare (contenuto) e
voglio tutta la tua attenzione!» (relazione)
Capo: «spiego le nuove linee commerciali che arrivano dalla direzione
(contenuto) dopodiché facciamo un giro di pareri brevi» (relazione).
Medico: «Signora, mi racconti intanto come va il disturbo (contenuto) poi le farò
qualche domanda, mi dica…» (relazione).
Proviamo. È quindi chiaro che la doppia cornice è una buona tecnica per
impostare e coordinare lo scambio con l’altro, può essere applicata a colloqui,
telefonate, riunioni. Con un’unica mossa comunicativa si curano due fattori – cosa
e come – entrambi importanti e indispensabili.
Limitazione della persona verbosa
Se me lo dicevano a vent’anni inorridivo, già a trentacinque il tema riuscivo a
comprenderlo bene. Se in una famiglia o in un gruppo si intende aumentare le
potenzialità di tutti e non solo dei più estroversi e aitanti, occorre che la parola
giri. Nel girare poi c’è sempre chi la terrà di più e chi di meno, è pacifico. Il punto
è che in giro ci sono persone che terrebbero la parola solo loro, che chiamiamo
verbosi, monopolizzatori, logorroici. Ma non è il caso di ergerli a mostri, un po’
tutti noi a turno siamo verbosi, se solo veniamo toccati nel vivo, in negativo
(criticati) o in positivo (ciò in cui crediamo fermamente).
Occorre quindi, al pari di saper offrire la parola, anche saper togliere la parola. Il
difetto dei monologhi è diffuso, come è diffusa la tendenza a girare intorno alle
questioni. Far sì che un intervento fumoso possa chiudersi e dare spazio ad altri,
diviene quindi una capacità strategica se intendiamo diffondere la cultura del
gruppo. In tutto questo occorre tuttavia evitare metodi bruschi, che possano
urtare il soggetto e spingerlo in una posizione critica o passiva.
Cosa fare in pratica per chiudere un turno monopolizzatore:
- invitare a concludere, «fa’ dire a me ora», «ho bisogno di dire la mia!», «se mi
dici tante cose non ti seguo, posso aggiungere io?», «sentiamo anche il parere
degli altri»;
- attivarsi, elettrizzarsi, manifestare col linguaggio corporeo un plateale senso di
agitazione, perché possa interferire intenzionalmente nella logorrea del parlante;
- spingere il soggetto monopolizzatore in modo pressante e affermativo, con un
incalzo imperativo, utilizzando la gestualità e l’espressione esortativa «bene!»,
con tono squillante; se è il caso ripeterlo: «Bene!… bene!».
Esempi. Un lessico utile: bene!; fa’ dire anche a me; ho compreso ora ti dico io.
Proviamo. Se sei attento e proteso all’altro, togliere la parola per dire tu o far
dire a chi ancora non ha detto diventa una funzione compatibile e necessaria.
Quindi, primo, cerca di elevare il tuo orientamento all’altro (ascolto, suo parere,
interesse per quello che dice), secondo, contieni pure la persona monopolizzatrice
togliendole la parola dopo che l’ha già tenuta per un po’: occorre contenere quei
soggetti per dare spazio a quelli introversi e silenziosi… con garbo e competenza.
Fare buone riunioni
Ho assistito a centinaia di riunioni, ne ho fatto parte a tutti i livelli, da
spettatore, partecipante, conduttore, facilitatore, leader. Ma anche da partner,
competitore, oppositore, critico, complice e altro. Sono stato assai incompetente
e ho visto e continuo a vedere altissime incompetenze diffuse. Mi fanno venire le
bolle le riunioni formali e molto cerimoniose, ma anche quelle informali in cui ci si
interrompe e si ostenta sicurezza. So di tantissime organizzazioni che le
bandiscono e di altre in cui le salette diventano “riunionifici”. E noi italiani, come
siamo marchiati dai treni che si rompono e arrivano in ritardo, abbiamo un uguale
marchio di fabbrica, dato dalla inconcludenza e astrazione delle riunioni. Davvero
un tasto assai dolente per tutti!
E dire che una riunione è un momento collegiale bello e importante, in cui ci si
consulta e in cui si possono abbattere tempi di consultazione individuale, visto
che intorno al tavolo ci sono tutti i destinatari presenti. Se pensiamo che il gruppo
sia solo un’entità statica e razionale ci avvarremo solamente di un verbale, un
ordine del giorno e di decisioni rapide. Se pensiamo, invece, che il gruppo sia
anche un’entità dinamica e irrazionale prenderemo coscienza della necessità di
possedere strumenti adeguati per far girare la parola, gestire il dissenso e la
negatività, controllare le dispersioni, concludere la riunione in maniera fattiva e
concreta.
Riunione a tre fasi
Sbagliamo a considerare le riunioni a mo’ di lenzuolo, un contenitore cioè dove
c’è sempre spazio per tutto, dove tutto può entrarci, per dire, aggiungere,
riempire. E invece no, la riunione è un imbuto, aperta e chiusa, e non può essere
monoritmica e monometrica, così facendo si sa quando inizia e non si sa quando
finisce. La riunione, come provo a illustrare nei miei lavori all’università e non
solo, è bene che sia dinamica, ritmica e con delle sequenze (i pistoni): si parte da
una fase espressiva, aperta, dove includere e incorniciare i temi, per passare a
una fase regolativa, un po’ aperta e un po’ chiusa, dove si danno precedenze e
priorità e si argomentano strettamente i fatti in questione, per concludere con
una fase performativa, tutta centrata sull’azione, chi fa cosa e i tempi di
realizzazione. Davvero si può essere più cooperativi e concreti, non è una
fantasia!
Esempi. Le tre fasi sono:
- fase espressiva: accendere lo scambio, includere;
- fase regolativa: canalizzare le dispute, approfondire, sviscerare;
- fase performativa: agire verso le azioni, concretizzare, concludere.
Proviamo. Nella riunione a tre fasi che abbiamo congegnato i risultati sono quasi
garantiti: maggiore inclusione e maggiore concretezza. Il punto cruciale è variare
il ritmo dello scambio – lento, accelerato, veloce – e le modalità dei turni di
parola – brevità, argomentazione, telegraficità. Questi due punti compongono il
dispositivo che permette alla riunione di serrare i ranghi, filtrando la massa delle
diversità e passando da una disposizione aperta consultiva a una chiusa
produttiva. Il metodo può essere adattato per ogni tipo di interlocuzione, dal
colloquio, alla telefonata pianificatrice, dalla riunione all’assemblea.
Nell’alternanza delle tre fasi si susseguono tre dimensioni differenti e
complementari: espressione, regolazione, prestazione.
I tempi di riunione
Percepito a volte come risorsa, ma il più delle volte come vincolo, il tempo
struttura e scandisce la vita della riunione senza possibilità di fuga e senza
possibilità di reintegrazione, per questo il tempo è fonte di ansietà.
Per la riunione efficace è quindi molto importante il controllo e il rispetto degli
orari, mentre è risaputo che le riunioni non efficaci si connotano per un loro
diffuso ritardo e slittamento.
È proprio per contrastare ritardi e inconcludenza che abbiamo messo a punto la
“riunione a imbuto”, qui sopra illustrata.
Cosa evitare? Tre cose:
- fissare le riunioni con l’orario di inizio e non con quello di chiusura;
- far passare il tempo senza quel sano fuoco dato da brevità e ritmo;
- eccedere nella troppa positività o nella troppa negatività.
Esempi. Cinque metodi da praticare:
- orario di inizio e orario di chiusura: indicarlo in ogni convocazione;
- rispetto degli orari: occorre iniziare la riunione a ora puntuale, dando la
certezza a ciascun componente che non ci saranno slittamenti superiori ai dieci
minuti, così come conclusioni posticipate; qui è fondamentale avere rigore, è
risaputo che nel tempo i gruppi tendono a rilassarsi, allargandosi negativamente
negli orari di inizio;
- fasi sequenziali e ritmo: l’inizio non può avere la stessa velocità della chiusura,
più lento è l’avvio e più veloce è l’arrivo conclusivo;
- chiusura costruttiva: quella per cui è bene dire: «Non c’è più tempo, dobbiamo
chiudere»; «non c’è più spazio siamo pieni, stop!»;
- tempo ottimale di riunione: il formato di riferimento è non superiore alle due
ore.
Proviamo. La prima cosa da attuare è dare un orario di inizio e di fine alla
riunione e cercare in tutti i modi di rispettarlo, le altre misure vengono
progressivamente a seguire come forme virtuose di rispetto e di capacità di
lavorare in gruppo.
Apertura e chiusura
Apertura e chiusura rappresentano due momenti entrambi importanti per ogni
riunione. Come ci si incontra e come ci si lascia sono infatti aspetti che vanno ad
agire nel vivo del lavoro lasciando come delle impronte che condizionano il
prosieguo delle attività.
Esempi.
(Apertura riunione): accogliere e mettere i membri a loro agio; stabilire
collegamenti con la riunione precedente; inquadrare sinteticamente l’oggetto
dello scambio (doppia cornice); scongelare il clima e mettere in conto soglie di
ansia e tensione; tollerare confusione e dispersione.
(Chiusura riunione): evidenziare le decisioni prese; apprezzare i passaggi positivi
della riunione; indicare i passi che attendono il gruppo, i compiti di ognuno;
aggiornare al prossimo appuntamento; concludere sempre in positivo, in modo
proporzionato e adeguato ai fatti accaduti in riunione.
Proviamo. Poni attenzione a questi due momenti, non ritualizzandoli, bensì
curandoli con buona genuinità e competenza.
Riunione nel cerchio
È una riunione tutta dedicata alle persone del gruppo, alle loro relazioni ed
emozioni, che ha come obiettivo la sua rimotivazione. I membri si riuniscono per
parlare e raccontarsi su come procede il lavoro, quali sono i problemi maggiori,
cosa ognuno comprende dell’attività in corso. È un metodo detto a bassa
gerarchia, c’è un facilitatore che agisce come riferimento, la funzione primaria è
quella di esprimere e ascoltare. Non è difficile svolgere una riunione nel cerchio:
disposizione aperta delle sedie per garantire che tutti si possano guardare;
durata, circa sessanta minuti non di più; evitare il dibattito o il battibecco,
ognuno è chiamato a dire la sua e gli altri ad ascoltare.
Esempi. Ottimo strumento di rimotivazione, funziona egregiamente per ridare al
gruppo una facoltà di ascolto e di capacità di senso, fattori irrinunciabili perché la
febbre passi: malessere, demotivazione, stress, svilimento, apatia. Le regole
chiave: interventi brevi; ognuno racconta di sé nella parità di turni; chi ha il turno
non viene interrotto; il senso è circolare, ovvero, sono esclusi i dibattiti a due o
tre; non c’è contradditorio, ognuno ha facoltà di esprimere il suo parere
liberamente; il facilitatore garantisce che la parola giri e non vengano emessi
giudizi.
Proviamo. Avremmo molto bisogno di riunioni nel cerchio, sia nella sfera
personale che in quella professionale. Sia tra amici, in famiglia, tra colleghi, nelle
associazioni. Ma frequentemente ci facciamo prendere di più da riunioni per fare,
organizzare, produrre, un po’ il nostro lato forte, ma che apre al lato anche
debole.
Riunione attiva
Molti gruppi sono passivi e tendono a delegare al leader, su cui gravano spesso
oneri ben maggiori di quelli programmati. Passività, inerzia e conflitto sono
blocchi abituali. Come fare per attivare un gruppo? Alcuni accorgimenti possono
essere:
- no monologhi, no presentazioni lunghe, sì turni brevi che rendono l’ambiente
dinamico (parola gira, e girando attiva le persone);
- semplicità, genuinità, apprezzamenti, schiettezza, sono ammesse sia spinte
negative che positive, si evitano solo le polarizzazioni eccessive (clima franco);
- evitare la piattezza di un’unica modalità monocorde, agire invece dei “salti” di
alternanze che creino discontinuità vitalizzante: parlare breve e parlare più
argomentato; esprimere problemi e poi costruire soluzioni; usare i due cervelli,
razionale ed emotivo. È proprio il salto con alternanza e discontinuità che tende a
generare vitalità58;
- finalizzare, con l’assegnazione di mansioni, modifiche di orari e sottogruppi di
compito, rinnovo dell’impegno, fibrillare il coinvolgimento.
Parola che attiva
1.
2.
Clima franco
3.
Generare vitalità
4.
Finalizzare
5.
No monologhi, sì turni brevi, discorso dinamico
Se tutti dicono, i contenuti diventano di loro appartenenza
Genuinità, apprezzamento, incoraggiamento (evitare la severità)
Alternanza di step, es. brevità-argomentazione, negativo-positivo
Far girare mansioni e impegni, stabilizzare e innovare
Proviamo. Il passo quattro sulla vitalità è certamente il punto saliente, il motore
principale, il quale tuttavia senza gli altri tre non avrebbe un buon assetto.
Prova quindi ad alternare modi e stili, lo abbiamo già detto in merito ad altre
funzioni, l’accostamento di forze diverse (integrazione) provoca significatività59,
nella discontinuità sequenziale c’è infatti il germe della vitalità e dell’attivazione.
Riunione di valutazione (debriefing)
È lo strumento di analisi a esperienza fatta, che ha la funzione di sistematizzare,
fare ordine, fare chiarezza, correggere, rimotivare. Anche un gruppo di amici dopo
una gita o una vacanza. Un gruppo di lavoro al compimento di una fase
produttiva. Un’équipe di assistenti sociali al termine di un’azione particolarmente
delicata.
Esempi. Il debriefing è da effettuare alla conclusione di azioni speciali,
programmi impegnativi, azioni complesse, per riepilogare le forze e le debolezze
emerse e metabolizzarne gli apprendimenti. I punti da seguire: come si è
lavorato; episodi specifici di criticità risolta e non; strascichi eventuali nella
gestione delle mansioni e lo stato dei rapporti interpersonali; cosa si è imparato.
Proviamo. Anche se siamo un gruppo di amici che intende rifare insieme una
vacanza, la riunione di valutazione può essere un momento adeguato e propizio
di valorizzazione e correzione dell’esperienza svolta.
Avvocato del diavolo
Partendo dall’idea che il conflitto, se gestito efficacemente, può essere utile per
migliorare la qualità delle decisioni, il gruppo di lavoro a fronte di una strategia
formalmente stabilita si dota di un tipo di riscontro critico interno denominato
“avvocato del diavolo”, funzione che viene assegnata a uno o più membri con il
compito di evidenziare dei contenuti solo le parti negative. Il gruppo può anche
ergersi a difensore delle proprie proposte e svilire l’avvocato del diavolo.
Esempi. Solitamente è un ruolo che nella discussione di gruppo può essere preso
a rotazione, in maniera libera o anche assegnato per le competenze possedute.
Proviamo. Presso riunioni complesse, delicate, dove si devono prendere decisioni
strategiche, l’avvocato del diavolo è un metodo che può aiutare i partecipanti a
stare in contatto con le criticità, i punti deboli, a gestire con riflessività facili
ottimismi non del tutto motivati.
Avvocato dell’angelo
L’avvocato dell’angelo è quella funzione di gruppo finalizzata al rinforzo positivo
dei lavori presentati.
Esempi. L’avvocato dell’angelo è il contraltare allo scetticismo, all’indifferenza,
alla negatività, perché promuove un’ottica possibilista. Può essere una figura
assunta a rotazione o anche una funzione agita per via spontanea.
Proviamo. In una discussione abbiamo bisogno sia di avvocati dell’angelo (la
ricerca di positività e apprezzamento) che di avvocati del diavolo (la ricerca di
difetti e critiche), nei gruppi collaudati infatti si nominano come ruoli intenzionali
entrambi.
Resistere e non spezzarsi (resilienza)
Resilienza, resistenza costruttiva
Sta sempre più assumendo un’importanza crescente il concetto di resilienza, un
neologismo che sta a indicare: la capacità di resistere allo stress; la capacità di
superare in modo flessibile condizioni avverse; la capacità di adattamento a
contesti negativi. Si tratta di una competenza fondamentale, volta a mantenere
l’integrità della persona, a svilupparne i fattori protettivi in grado di contrastare e
ridurre gli esiti svantaggiosi di eventi critici che, di norma, accadono a tutti nella
vita.
La resilienza è l’arte di risalire sulla barca rovesciata. Le ricerche per ora
effettuate su soggetti resilienti confermano che nella “resistenza costruttiva”,
giocano un ruolo chiave l’incontro con una persona significativa e l’appartenenza
a un contesto che sappia accogliere.
Esempi. Quando stiamo male, quando veniamo criticati, quando falliamo in un
nostro obiettivo non è facile risalire sulla barca che si è rovesciata. Ci scattano
pensieri, emozioni, sollecitati sia da routine mentali che da circuiti nervosi
automatici. Dall’altra, possiamo praticare la resistenza costruttiva prendendo
spunti dai diversi metodi illustrati in questa seconda parte del libro.
Proviamo. Puoi iniziare a lamentarti di meno, e mettere meno superficialità nelle
situazioni e aggiungere più sguardo di insieme nelle cose e nelle dinamiche, più
capacità di stare nelle difficoltà così come si presentano, aumentando le abilità di
autosservazione. La resilienza è una qualità che sgorga nelle pieghe delle criticità
negative, qui puoi aumentare le tue risorse mentali e operative per sostare e
trovare vie di uscita migliorative. Non è facile agirla, ma è bene almeno
protendere con piccoli passi concreti e possibili.
Apprezzare e criticare
Un giorno ero in aula con un gruppo di infermieri, un altro con educatori sociali,
un altro con comandanti di polizia municipale. In molti momenti di quelle mie
lezioni mi ero ritrovato ad apprezzare il loro impegno e il loro sforzo. Due
partecipanti in una pausa si avvicinano e mi dicono: «Ma lei prof è proprio così?»,
gettando un dubbio che quegli apprezzamenti fossero solo di facciata e
strumentali solo al ruolo che stavo rivestendo.
Questo episodio mi ha fatto riflettere a lungo su quell’interazione cercando di
scorgere spiragli di contraddizione nella mia azione. Da quando ho studiato
psicologia dei gruppi e i miei docenti mettevano al centro l’apprezzamento da
attivare verso clienti e utenti, ho maturato, sia nel lavoro che nella vita
personale, questa buona attitudine; in questi anni infatti con questo esercizio ho
apprezzato fornai, agenzie di viaggio, amici, segretarie, suore, bagnini, detenuti,
meccanici, figli. Risultato, la riflessione coi discenti, gli studi in materia, la mia
indole mi portano ad affermare che l’apprezzamento è una potente leva
trasformatrice.
Altro discorso è la critica costruttiva, un metodo ben congegnato ma di
complessa applicazione, proprio per le implicazioni che ho cercato di spiegare
nella prima parte del libro: siamo naturalmente conflittuali, siamo negativi in
automatico nel senso che ci scattano circuiti e abitudini profonde, abbiamo un po’
tutti un’impasse interna tra parti razionali e parti emotive. La critica costruttiva,
metodo studiato dalla psicologia sociale, è comunque la via di uscita, che fa leva
sul buon uso delle parole e sul mirare le critiche nei fatti e non nelle opinioni. Un
bagno di sana cultura che può contenere i nostri naturali impeti distruttivi.
Apprezzare e criticare è quindi la doppia leva che valorizza il positivo e gestisce
il negativo, una modalità complementare e duale, ovvero, che contempli sia
l’apprezzamento che la critica.
Apprezzamento
È da attivare quando l’altro svolge azioni e comportamenti buoni, quando un
figlio o un collega mostrano qualità positive, tipo impegno, attenzione, altruismo,
disponibilità, competenza, prontezza. È una forma mirata di rinforzo che porta
l’attenzione sugli aspetti positivi del comportamento altrui. Chi lo riceve ne trae
benefici e si sente rassicurato, riconosciuto nella sua posizione.
Apprezzamento non è gratificazione o encomio (retoriche ritualistiche e spesso
formali, finte), bensì è una forma comunicativa genuina, mirata, non cerimoniosa
e dato che non è prassi diffusa (anzi), il ricevente potrebbe anche fraintenderla, è
meglio quindi apprezzare dando spunti piccoli e specifici sulle cose reali
effettivamente accadute. L’apprezzamento può essere svolto sia sul fare (per
l’azione), sia sulla persona (per le qualità messe in campo).
Esempi. Lessico utile: apprezzo; ho notato con piacere; ho visto positivamente;
ho apprezzato il modo con cui ti sei spiegato con la zia; trovo buone le tue idee
sul nuovo progetto; buona la tua proposta.
(Capo in azienda): «Avete fatto un buon lavoro venerdì con le spedizioni, sono
risultate puntuali e i pacchi tutti in ordine».
(Genitore): «Sto apprezzando in questi giorni la tua voglia di studiare, nei fine
settimana ti sto vedendo tonica e attiva!».
(Colleghi insegnanti): «Voglio fare un apprezzamento a voi per l’impegno messo
in questo quadrimestre, in particolare per come ci siamo coordinati coi due
ragazzi stranieri, mi sono sentita affine alle vostre intenzioni di lavoro».
Proviamo. Offri almeno due apprezzamenti al giorno, piccoli, semplici, su piccole
cose concrete. Ricordo che l’apprezzamento più efficace è sobrio, semplice,
mirato e non è enfatico, esagerato, manipolativo60 ed è fondato sui fatti reali.
Critica costruttiva
Non è quella pia speranza implicita di quando diciamo «ma fammi una critica
costruttiva, dai…», quando in modo sottinteso stiamo dicendo «dai, cerca di
volermi bene e non male». No, la critica costruttiva non è questa.
È invece uno strumento su cui la psicologia si è soffermata più volte61 e
rappresenta il metodo da attivare nelle relazioni e nei gruppi, quando si
presentano episodi negativi ed errori.
La Critica costruttiva, criticare senza distruggere, presenta tre impostazioni
salienti che la distinguono da una critica distruttiva.
Critica distruttiva
«Sei sempre in ritardo»
(Critica generale)
«Sei il ritardo in persona»
(Sulla persona)
«Con te non cambia mai niente!»
(Senza spiraglio)
Critica costruttiva
«Il tuo ritardo di ieri mattina…»
(Critica mirata)
«I tuoi ritardi creano disagi al gruppo»
(Sul comportamento)
«Dobbiamo accordarci subito»
(Spiraglio aperto)
Occorre ricordare che anche la critica costruttiva è pur sempre una critica,
ovvero agisce in casi di inefficienza e di mancanza, eventi che di solito scatenano
routine distruttive ed emozioni esagerate.
Il punto efficace è controllare e contenere il fattore di disfattismo che insorge in
chi subisce il problema, ma anche spesso in chi lo ha prodotto.
Bisogna quindi moderarsi e contenersi nel proprio impeto, proprio affidandosi a
parole concrete, che si ancorano nei fatti avvenuti e non nelle opinioni esplosive.
Tre i passi fondamentali della critica costruttiva.
1. Permesso (o esordio), preparare il terreno:
«posso farti una critica?» (permesso);
«ho da farti una critica…» (esordio).
2. Mirare la critica, specificare fatti precisi e non opinioni:
«ti ho visto fare tre interruzioni in un’ora».
3. Proposta, cosa si fa la prossima volta:
«ti chiedo di fare solo cinque minuti alla mezz’ora, d’accordo?».
Esempi.
(Amici): «Posso farti una critica?… (permesso), il tuo ritardo di ieri davanti al
cinema mi ha dato fastidio… (mirare), la prossima volta mi devi avvisare subito,
va bene?» (proposta).
(Genitore): «Barbara, una critica (permesso): non stai studiando a sufficienza
per l’esame di teoria di guida, da lunedì ti ho visto solo due volte sul manuale e i
quiz (mirare)… ti chiedo di studiare almeno un’ora piena al giorno!» (proposta).
(Associazione): «Devo fare una critica al gruppo… (permesso), non possiamo
iniziare le riunioni sempre più tardi, le ultime tre sono incominciate alle dieci
(mirare), dobbiamo iniziarle massimo alle 21:15 e su questo dobbiamo fare un
accordo!» (proposta).
Proviamo. Intanto la riflessione va posta sull’impeto che solitamente ci prende
quando subiamo un torto o una negligenza altrui. Qui occorre portare maggiore
controllo, raffreddamento per poter canalizzare parole mirate e specifiche.
Davvero un’impresa, possibile però.
Incoraggiamento
È anch’esso una forma di rinforzo, come l’apprezzamento, tutto volto al positivo,
per infondere fiducia, stimolare. L’incoraggiamento ha lo scopo di ridurre la
componente giudicante e allentare freni e resistenze, fattori fisiologici sempre
presenti in ogni contesto. L’incoraggiamento evidenzia il positivo, pur non
nascondendo il negativo, in una sintesi costruttiva che coniuga positivo-enegativo, evitando così la positività gratuita che ha sembianze cerimoniose e un
impatto sull’altro di tipo formale e piatto.
Proviamo. L’incoraggiamento è la capacità di rendere lo scambio genuino,
semplice e sostanzioso, riducendo i fattori discriminativi e giudicanti. Per cui, non
è incensamento e positivismo idealizzato, bensì aperture e sollecitazioni a
esprimersi in modo realistico e integrato, tra positivo e negativo.
Connettersi con gli altri (F2)
Entriamo nella seconda funzione facilitatrice (F2), entriamo in questo
“laboratorio” per acquistare migliori capacità di convivenza con gli altri.
Si tratta di un repertorio fondamentale che se anche sviluppato solo in parte ci
può dare rilievi costruttivi per di più con effetti buoni anche sulle altre tre aree
della facilitazione.
Aprire la propria finestra di tolleranza
Pluralità
Possiamo dire che c’è una pluralità interna, l’aggregazione di parti che ci
costituiscono come individui e una pluralità esterna, data dall’incontro e dal
rapportarci con gli altri.
La nostra mente per esempio è il risultato di forti connessioni con il corpo, il
cervello e l’ambiente circostante, quindi è un sistema di sistemi, un’aggregazione
di componenti interagenti, dove l’interazione fra le sue parti è attivata dalla
differenza.
La differenza la troviamo come fattore sempre centrale nei fenomeni viventi,
una costante.
Ognuno di noi è un soggetto complesso e variegato, composto da diverse forme
composite. Stando sul versante delle abilità, anni fa alcuni studi di area
psicologica62 hanno individuato l’esistenza per esempio di sette intelligenze, che
organizzerebbero l’unità della persona:
- intelligenza linguistica;
- logico-matematica;
- musicale;
- manuale (plastico-manipolativa);
- motoria;
- relazionale;
- autoreferenziale.
Un’altra fonte di pluralità ci viene dagli studi sui comportamenti organizzativi63,
da cui provengono sei forme per pensare, denominate “sei cappelli per pensare”,
dove ciascun cappello è rappresentativo di uno stato e di una facoltà mentale. Sei
cappelli per sei colori, così assegnati:
- bianco, riguardante i fatti e i dati oggettivi;
- rosso, emozioni e passioni;
- nero, atteggiamenti negativi;
- giallo, ottimismo e positività;
- verde, creatività e nuove idee;
- blu, sintesi e coordinamento degli altri cinque cappelli.
Prospettiva dell’altro
Saper considerare e incrociare il punto di vista dell’altro. Mettersi nei panni
dell’altro per:
- immaginare di essere nelle sue condizioni;
- essere al suo posto;
- identificarsi indossandone le vesti;
- assumere per un momento la sua personalità.
In psicologia è un nuovo campo di ricerca che considera la capacità degli
individui di accogliere e riconoscere il modo di vedere dell’altro, ossia il modo
altrui di dare senso al mondo e alle situazioni. I punti forti di questo buon
concetto sono:
- superamento dell’egocentrismo, per non assumere il proprio punto di vista
come assoluto e universale;
- sviluppo di dialettica e dialogo, per rendersi conto delle caratteristiche
dell’altro;
- decentramento sull’altro, per tentare di comprenderne modalità e
comportamenti.
La prospettiva dell’altro è un atteggiamento, uno stile relazionale, che porta il
facilitatore pratico a orientarsi anche sull’altro e non solo su di sé.
Apertura all’altro
Nel 1950 lo psicologo statunitense Carl Rogers sviluppò il metodo “centrato sul
cliente”, ovvero una modalità di aiuto che assegnava la massima centralità alla
persona64. Rogers studiò quanto fosse efficace riporre fiducia nella capacità
dell’individuo di conoscere se stesso, di conoscere il mondo esterno, a condizione
che gli venissero forniti i mezzi necessari. Infatti, nessuno è meglio di se stesso
per definire e risolvere i propri problemi, da qui il concetto di non-direttività. Gli
spunti da quegli studi ci lasciano un patrimonio molto utile per tutti noi:
- interesse, disponibilità e ridotto pregiudizio, incoraggiamento all’espressione
spontanea della persona;
- non giudizio, attenuamento delle forme assolute e dogmatiche;
- non-direttività, la persona è protagonista della sua storia e gode della facoltà
della completa iniziativa nel gestire i suoi problemi;
- espressione, manifestare e scoprire il suo universo soggettivo;
- obiettività, lo sforzo costante per controllare e osservare, anziché giudicare e
sentenziare.
Griglia aperta
È il metodo opposto alla “chiusura costruttiva” illustrato sopra. Qui è l’apertura
la capacità da ricercare, quale approccio per tollerare l’incertezza, prendere
tempo, concedersi lo spazio di comprensione, evitare l’assillo. La griglia aperta è
un modo di rispondere che lascia maglie aperte, non per negligenza e
noncuranza, bensì perché non si è in ancora in grado di fornire una risposta
precisa.
Esempi.
(Lessico utile): forse; vediamo…; proviamo a sentire altre idee…; è probabile;
possiamo rifletterci su…; potrebbe darsi; sembrerebbe ma attendiamo un po’.
Proviamo. Rispondi in questa modalità nei momenti concitati, agitati e quando
non è ancora chiaro nulla, anche per mettere una distanza tra te e i problemi.
Rispettare le differenze e stare nelle divergenze
Qui incomiciamo a sviluppare più propriamente le capacità di comunicazione
interpersonale. Come docente è un’area a cui sono particolarmente affezionato,
infatti su questo argomento mi sono cimentato all’inizio della mia carriera con
ottimi risultati e i primi due libri da me scritti sono stati incentrati proprio sulla
comunicazione65. Ricordo ancora agli inizi degli anni Novanta il fermento che
c’era nella società intorno alla comunicazione interpersonale, personalmente mi
sembrava di cogliere una qualche conquista, che un esperto ci potesse dire come
impostare un discorso (emissione), come ascoltare (ascolto), come accertarsi e
riscontrare (feedback) e come fare accordi (negoziare). Via via diventai anch’ io
un esperto, sentendomi le volte di più e le volte di meno un po’ fuori luogo, nel
condurre corsi su tale versante. Perché domanderete? Il motivo è semplice, se un
corso di inglese tocca gli aspetti della persona tangenzialmente, così un corso di
informatica o di bricolage, ma un corso di comunicazione investe la persona nel
suo centro, nelle sue abitudini acquisite innate, quelle rilevate dalla famiglia di
origine, quelle apprese lungo la strada. Quanto un altro adulto solo perché è il
docente possa entrare nel vivo di questo terreno delicato, è una domanda che mi
faccio ancora oggi.
Parola chiarificativa
Gli scambi hanno una parte di contenuto e una di relazione, concetto che ho già
introdotto con la “doppia cornice”. Per assurdo dovremmo avere due bocche, una
per “parlare di contenuti” e un’altra per “parlare di modi di parlare”, una per
“parlare di” e una per “parlare con”. Espongo qualche esempio con la speranza di
poter essere capito.
Parola-contenuto
(comunicazione)
Voglio andare al mare
Col capo è un macello
Sono ringalluzzito!
Tutti ce l’hanno con me
Mi sento una pasqua
Parola-relazione
(metacomunicazione)
Ti dico questo
per prenderti in giro
Non so come ti arriva
Mi fai spiegare?
Non mi interrompere ora
Ma stavo scherzando
Nella colonna di sinistra ci sono messaggi di contenuto, mentre nella colonna di
destra i messaggi di regolazione dello scambio, sul tipo di relazione che
intendiamo intrattenere con l’altro, o forse meglio ancora il tipo di comunicazione.
La parola chiarificativa (una metacomunicazione66) tende a curare il modo con
cui intendiamo parlare, è “meta” proprio perché è un parlare sul parlare, parlare
cioè per chiarificare e specificare come abbiamo parlato o come proveremo a
parlare.
Parlare sul parlare (metacomunicazione)
Mi fai dire e poi mi fai domande dopo?
Ieri ho alzato la voce e non ce l’avevo con te…
La testa bassa a tavola significa che sono stanco e non ce l’ho con voi
Quando parli non mi guardi in faccia
Puoi essere più breve così ti dico anch’io la mia?
La parola chiarificativa è quella frase di chiarimento sul senso delle nostre parole
e dei nostri comportamenti. È una frase che esprime una cosa già fatta (ex post),
oppure una frase per regolare l’interazione in corso (ex ante). Quindi, nei casi in
cui parliamo di un contenuto è comunicazione, quando invece parliamo del modo
di parlare è metacomunicazione.
Esempi.
(Chiarimento sulla disposizione delle parole): «Voglio spiegarmi meglio…»; «non
mi interrompere, puoi ascoltarmi?»; «Te lo dico ma non so se dico bene, ma
provo a dirlo lo stesso…»; «Puoi concludere?».
(Chiarimento sul senso delle parole): «Stavo scherzando!», «Vi voglio
provocare…»; «Ce l’ho con te…».
(Colleghi): «Ho usato un tono duro ieri, voglio chiarire che non era diretto a voi,
ma a una complicanza del computer di questo periodo»; «Ti dico una cosa, ma
non voglio di certo convincerti, bensì per me è importante dirtela…»; «Quello che
dirò ora vi arriverà un po’ duro…».
Proviamo. Questo strumento non è facile da comprendere e quindi da applicare.
Dall’altra è molto efficace, perché tende a regolare, a specificare i modi con cui
parlare (livello “meta”), a esprimerci anche quando siamo nel dubbio. È un forte
agevolatore dello scambio. Molti messaggi che inviamo tutti i giorni sono
metamessaggi, perché parlano del modo con cui avvertiamo l’altro e di come
intendiamo regolarne lo scambio, la relazione.
Permesso
È una forma di domanda da formulare quando i contenuti dell’interazione sono
sensibili: episodi spiacevoli, privati, intimi; è un bussare alla porta della persona
rispettandone tempi e modi; è chiederle in diretta se le va di parlare e riceverne
risposta, evitando inutili congetture. Nel caso di ferita emotiva per esempio, di
imprevisto, un po’ tutti reagiamo con il trinceramento, rinchiudendoci proprio
perché siamo attraversati da un senso di ingiustizia che nessun’altro può mai
capire.
Esempi. «Ti va di parlarne?» (in caso di emozioni spiacevoli); «ti posso dire
subito?» (in caso di fretta); «posso chiederti una cosa?» (scambi di lavoro);
«posso darti un consiglio?» (proprio se non possiamo farne a meno); «posso
parlarti di un mio problema personale?» (autoapertura).
(Lavoro) Corinna ha da tempo un problema, il suo direttore tende a escluderla, a
trattarla in modo sbrigativo, a non rivolgerle la parola:
A: «Sto da cani! Ma è possibile che ci siano capi così incapaci!».
B: «Ti va di parlarne?».
A: «Sììì… ma sono davvero giù…».
B: «Io ti ascolto e le tue cose rimangono tra noi».
Proviamo. Sono tanti i momenti di una giornata, anche i più incerti, i più strani,
in cui puoi mettere a frutto il permesso: con la collega nella stanza «ti va se ne
parliamo un po’?»; a un passante «posso disturbarla un attimo?»; ai figli «voglio
chiedervi stasera una cosa speciale, posso?». Prova il permesso quale via diretta
e rispettosa al tempo stesso, in particolare quando sai che ti assalirebbe
l’imbarazzo, l’incertezza, l’inibizione.
Abilità dialettica
Dialettica sta per uno scambio non proprio piatto e consensuale, bensì acceso o
stimolante, quando tra noi e l’altro ci corrono differenze e divergenze, che
tuttavia entrambi riusciamo a sostenere pur nel rispetto reciproco. È arte del
ragionare e dell’argomentare, è abilità nel discutere, è processo di interazione tra
visioni contrastanti.
Più è viva l’interazione, più è attiva la considerazione reciproca sulle diversità e
meglio si crea il terreno che porta agli accordi.
L’abilità dialettica segue una vera e propria scala, in cui a un capo c’è il modo
classico detto a “una via”, monodirezionale e monologo, e all’altro capo il modo a
“due vie”, bidirezionale fondato su dialettica e dialogo.
Esempi.
Ecco una possibile scala di modi comunicativi:
- retorica: forma di comunicazione basata solo su ragionamento formale e
assenza di interessamento per l’altro;
- persuasione: metodo di convincimento dell’altro che, a differenza della
retorica, prevede una soglia di coinvolgimento, seppur basso;
- dialettica: arte di discutere e ragionare con l’altro, modalità che non disdegna
le divergenze, di cui spesso tenta sintesi e connessioni;
- mutualità: è la capacità di accogliere il diverso punto di vista dell’altro e di
confrontarlo con il proprio;
- reciprocità: modalità comunicativa con pari trattamento e pari opportunità dei
partecipanti, attenzione alla relazione e non solo al contenuto;
- comunanza: stile di coesione, capacità di cooperazione, conoscenze comuni,
uno stesso orizzonte culturale.
Proviamo. È auspicabile variare lungo l’intera scala, con una preferenza tuttavia
verso dialettica, mutualità e reciprocità.
Contratto di comunicazione
Questo è uno strumento utile in particolare nella comunicazione nel gruppo
quando il conduttore è un capo o responsabile di progetto. Come per la “doppia
cornice” e la “parola chiarificativa” anche qui tendiamo a stipulare un accordo sul
modo di parlare, a fissare alcune regole base di comunicazione durante la
riunione o il briefing.
Esempi.
Possibili punti da concordare:
- fare interventi brevi così la parola gira;
- si approfondiscono i problemi e poi si elaborano le soluzioni;
- si sta sull’argomento di turno senza divagare;
- ogni membro può prendersi un impegno operativo, gli impegni sono da
distribuire e non accentrare.
Filosofia del rispetto
Rispetto, un metodo ma ancor prima un valore di convivenza molto alto, che
tuttavia non raramente tende a saltare. Ronald Laing è stato uno psichiatra
scozzese di prima grandezza, che studiò il ruolo repressivo sia della società che
della famiglia, scorgendo vie di uscita non solo nel chiuso della psicologia ma
anche agendo cambiamenti sociali. Tra i suoi vari interessi c’erano anche le
interazioni e la comunicazione interpersonale67, a cui approdò sostenendo un
punto cruciale. In ognuno di noi vive un’esperienza interna che è invisibile a chi ci
guarda o ascolta, perché complessa, annodata, intrecciata, spesso poco
spiegabile. A questa difficoltà e complessità interna, l’ambiente esterno risponde
con esasperata facilità giudicante, etichettando.
Giudicare vuole dire interpretare e seguire i diktat solo dei nostri criteri e istinti
viziati da assolutezza, chiusura, presunzione. La filosofia del rispetto è invece
quella forma mentale e comunicativa per cui ogni analisi è parziale, ogni
interpretazione è approssimativa, il soggetto è molto più complesso di ogni
minimale interpretazione. Una cosa è quello che si mostra all’esterno
(comportamento) e una cosa è quello che ci vive dentro (esperienza).
Laing scriveva nella sua ricca bibliografia: «Io vedo le tue azioni, non la tua
esperienza intima… tu vedi le mie manifestazioni, non la mia esperienza
interiore», e nel volgere delle sue ricerche lo portò a una conclusione: «Le nostre
esperienze saranno eternamente invisibili agli altri».
Esempi. Nelle interazioni di tutti i giorni la trappola dell’interpretazione
giudicante è lì in agguato. Ogni persona, dentro la sua esperienza invisibile, ci
può sollecitare attrazione o repulsione, questo sì, ma ogni soggetto ha suoi buoni
motivi per dire quello che dice o fare quello che fa.
Proviamo. Puoi evitare giudizi facili (o almeno renderli meno frequenti), puoi
evitare improbabili interpretazioni68, pettegolezzi, pareri assoluti sull’altro.
Sappiamo che queste sono attività mentali che hanno radici profonde nel cervello
emotivo, quello più antico e che scattano senza che ce ne accorgiamo. Vanno
tollerate sì, ma anche fatte evolvere con una migliore educazione della mente.
Educare dunque la propria mente a ridurre giudizi e pettegolezzi (interpretare) e
aumentare il rispetto.
Ascoltare e accogliere l’altro
Ascolto buono
L’ascolto buono è dare attenzione all’altro quando parla e si esprime. Cinque le
qualità:
- lasciare spazio e tempo all’esposizione;
- evitare di interrompere;
- dimostrare attenzione tramite sguardo e postura;
- invitare ad aggiungere e spiegarsi meglio;
- verificare la propria comprensione.
Esempi. Lasciare spazio all’esposizione vuol dire ricezione del messaggio altrui
facendo silenzio. Evitare di interrompere è invece non accavallarsi nei turni di
parola.
Dimostrare attenzione tramite sguardo e postura è manifestare un linguaggio
del corpo vivo e orientato all’altro. Invitare ad aggiungere è usare locuzioni tipo
«e poi come è andata a finire?», «prosegui, ti ascolto», «c’è altro che vuoi dire?».
Infine, verificare la propria comprensione vuol dire accertarsi se ciò che abbiamo
capito corrisponde a quello che l’altro intedeva dire.
Proviamo. Ognuno di noi tra faccia-a-faccia e cellulare/telefono intrattiene ogni
giorno decine e decine di scambi, diciamo nell’ordine delle trecento fino a
cinquecento interazioni.
È vero pure che spesso abbiamo così tanti ingorghi che ci ingolfano. L’ascolto è
pur tuttavia un esercizio benefico, che ci fa bene e fa star bene.
Ascolto attivo
Alla base dell’ascolto buono possiamo aggiungere alcuni altri elementi in
direzione dell’ascolto attivo, una forma ancora più completa di prestare
attenzione all’altro.
Per approdare a un ascolto più ampio, che comprende anche l’uso del corpo,
attivo infatti sta a significare proprio questa possibile aggiunta, ascolto prodotto
col corpo e non solo sul piano delle parole.
Sono quattro le capacità aggiuntive:
- prestare un’attenzione sia fisica che psicologica69;
- usare i marcatori vocali (mhm, uh, ah) come risposte non verbali;
- aggiungere le frasi-invito (o apri-porte) che incoraggiano a parlare;
- rispondere in maniera non-giudicante e accogliere il senso del messaggio:
«Immagino come puoi stare…»; «Ti devi sentire proprio giù, vero?»; «Continua…
non sono qui a fare da giudice».
Esempi.
- Marco: «Sono un tipo ansioso, mi preoccupo in continuazione, non ho mai
pace!».
- Riccardo: «Ansioso dici, hai notato cosa ti dà più ansia?».
- Marco: «Non lo so…».
- Riccardo: «Eh sì comprendo, è difficile capirsi tra sé e sé, vero, è così?»
(risposta non-giudicante).
- Marco: «Sai cosa mi disturba, è che oggi si lamentano tutti!».
- Riccardo/1: «Mhm, mhm…» (marcatori vocali).
- Riccardo/2: «E su cosa si lamentano che ti disturba di più…» (frase-invito).
Proviamo. Esercitati a usare il corpo nell’ascolto, per esempio con le idee qui
riportate: guarda negli occhi, come fonte di conoscenza efficace; sporgiti
leggermente in avanti con la postura; dai un rinforzo affermativo con cenni del
capo su e giù; fai domande garbate; non distrarti. Questi punti fanno del tuo
ascolto un ascolto attivo, forse più impegnativo, ma assai più stimolante, più
vicino alla connessione sé-altro. Un’altra prova la puoi fare sulle risposte nongiudicanti: disponiti per provare qualche volta la frase “mi immagino cosa puoi
provare”, preferendola alle solite formule impregnate di consigli, ricette,
alleggerimenti e sviamenti vari.
Eco verbale
Forma di ascolto attivo in cui l’ascoltatore ripete alcune delle parole che ha
appena ricevuto dall’emittente, senza apportarvi nessun commento o aggiunta, di
solito le ultime parole delle singole frasi, così come accade per l’effetto-eco delle
vallate, che duplica le ultime parole. Le parole-eco contribuiscono alla
connessione sé-altro, all’allineamento intersoggettivo. Attenzione, vanno ripetute
con un volume leggermente più basso di quello del protagonista.
Esempi.
A: «Sono molto giù».
B: «Molto giù».
A: «Alcuni colleghi è come se mi dovessero far pagare qualcosa…».
B: «…Far pagare qualcosa».
A: «E sì, non mi guardano in mensa, si girano dal​l’altra parte».
B: «…Dal​l’altra parte».
Proviamo. Da utilizzare in particolare quando la persona che hai davanti ha
bisogno di particolare vicinanza e comprensione. Anche tu, utilizzando l’ecoverbale, puoi facilitarti l’ascolto.
Risposte non verbali
Quando parliamo non possiamo non muovere il corpo, la faccia, le mani. Per cui
se la parola ce l’abbiamo noi ci possiamo accorgere del linguaggio corporeo del
nostro interlocutore. Spesso se l’altro ci dovesse fare un gesto platealmente
dissonante, per esempio con la testa che si muove nel gesto di dire no, il nostro
discorso può subire anche una brusca frenata. Senza che l’altro abbia aperto
bocca.
Il corpo parla tantissimo e arriva molto più veloce della parola, perché è visivo
(lo vediamo e non lo ascoltiamo), perché è massivo (è una massa corporea
contro il suono flebile di parole), perché ci attraversa lungo l’intero fisico. Tra
corpo e parola quasi sempre non c’è partita, troppo più potente il corpo, la
proporzione è di 7 a 3.
Le risposte non verbali (o feedback70 non verbali) sono le risposte agite sul
piano fisico non-verbale. Sono sia risposte volute e risposte involontarie, tra cui
segni gestuali e mimiche facciali, cenni della testa, smorfie, movimento degli
occhi, posture, tic.
Esempi. Una testa che dice no, occhi stralunati mentre cerchiamo di dire una
cosa importante, la persona che non ci guarda mentre le proviamo a dire una
cosa delicata. Tutte risposte, tutti messaggi veri e propri, formulati senza l’uso di
parole, un po’ approssimativi certamente, ma che arrivano ancora di più dei
discorsi verbali.
L’esempio dell’altro che scuote la testa per marcare il disaccordo, due volte su
tre ci fa interrompere il discorso, questo sta a significare che la risposta non
verbale è la risposta più forte e veloce rispetto a tante altre, perché agisce non
solo sulla componente del cervello razionale-linguistico, bensì su quello
irrazionale emotivo.
Proviamo. Impara a osservare di più e meglio come si muovono le persone, quali
gesti compiono, quali segnali corporei emettono, quasi sempre involontari. Così
facendo diventiamo più ricettivi e più attenti a gestualità e posture, acquisendo
una soglia in più di lettura delle situazioni. Cosa possiamo osservare per
esempio?
- guardare le diverse camminate degli altri, è buffo vedere le diversità;
- scrutare la mimica e la faccia quando due persone non si capiscono;
- guardare come i giovani camminano e come si atteggiano;
- osservare i portamenti delle categorie: insegnante, artigiano, bancario;
- farsi smorfie davanti allo specchio, giocare un po’;
- osservare la propria faccia, quando siamo fermi in auto.
Fai anche tu la tua palestra di attore e spettatore del teatro della vita
quotidiana, è stimolante e divertente.
Maieutica
La maieutica ha una provenienza antica socratica, quella di “far partorire gli
spiriti”, ovvero, far sì che la persona porti alla luce la sua verità. Il ruolo del
filosofo greco era quello di formulare le giuste domande per fare in modo che
l’allievo acquistasse chiara coscienza di concetti e conoscenze. Maieutica oggi
vuole dire metodo di ascolto e partecipazione attiva da parte di cittadini o di
membri di un gruppo di lavoro. Essa consiste nel far esprimere alla persona
pensieri e sentimenti, che in altri modi non riuscirebbero a emergere.
L’arte di estrarre un pensiero, far emergere, portare a coscienza è una via
efficace per esprimersi, aprirsi alla diversità, comunicare alla pari, essere più
autentici. La maieutica fu riproposta da Danilo Dolci71, sociologo triestino, in un
centro rurale della Sicilia, dove si trasferì nel 1952 e dove si dedicò ad aiutare gli
ultimi, pescatori e contadini, sperimentando i metodi della nonviolenza attiva, per
la lotta alla disoccupazione. L’approccio maieutico considera ogni persona un
protagonista attivo e non prevede il ruolo passivo di spettatore.
Proviamo. Nelle buone giornate ti puoi accostare a problemi e persone con
qualità umane rinnovate, di comprensione, immedesimazione, semplicità,
autenticità, fiducia, genuinità. Fiducia per le proprie qualità e per quelle altrui,
che possono essere alimentate da buone domande e un’attitudine gentile. Prova
a semplificare le tue idee e i tuoi comportamenti, prova a essere genuino,
schietto, ad accogliere e accostarti all’altro con maggiore sensibilità e rispetto.
Esprimersi, dialogare, scambiare idee
La prospettiva sé-altro
Siamo troppo abituati a contrapporre la nostra idea a quella dell’altro. Quasi
senza fare attenzione alle parole che l’altro pronuncia, tendiamo solo a parlare di
noi. L’esempio è quando si sta male.
«Ho il mal di denti oggi!»
«Ho poco lavoro».
«Non li capisco per niente».
«Stai zitto che ci combatto da sempre».
«Io proprio nulla».
«Io non li ho mai capiti».
La prospettiva sé-altro è quel modo di comunicare in cui invece si fa attenzione
a sé ma anche all’altro.
«Ho il mal di denti oggi!»
«Ho poco lavoro».
«Non li capisco per niente».
«Che cosa ti fa male?»
«In questo mese o un po’ sempre?»
«In che occasione
in particolare?»
Le interazioni sono un agone di “io” che si affacciano ad altri “io”, una tendenza
di mostrarsi e compararsi nella più piena mancanza di interesse per l’altro, il
cosiddetto deficit “tu”, in cui si fa fatica a interessarsi agli altri. Con tanto “io” si
resta ognuno nella propria sfera di cristallo, isolati, malinconici e in solitudine.
Con “io-tu” invece siamo in comunicazione72, in un terreno comune.
Per il facilitatore pratico nella prima parte del libro si suggeriva “unire le
persone”, ebbene questo obiettivo non significa infatti avere le stesse idee, anzi.
Unire le persone vuole dire invece farle avvicinare nelle loro posizioni, e come si
può fare ad avvicinare le posizioni? Sicuramente incrementando la dialettica, la
dialogicità, l’interazione, la prospettiva propria in connessione con la prospettiva
dell’altro.
La prospettiva sé-altro è dunque una forma comunicativa efficace, frutto di
un’interazione potenziata da andata-e-ritorno, che nello scambio interpersonale
alla sola prospettiva personale aggiunge anche la prospettiva dell’altro.
Capacità di dialogo
Il dialogo è la strada maestra a significati più condivisi, ad accordi più fluenti, a
convivenze più pacifiche. Per dialogo non intendiamo tuttavia il susseguirsi di due
monologhi, bensì l’alternanza di frequenti cambi di turno. Come il chilometro è
l’unità di misura della lunghezza, il chilogramma del peso, così il cambio di turno
è l’unità di misura dell’interazione.
Possiamo aumentare alcune abilità principali, tra cui ascolto, sintesi, brevità e
ritmo, tolleranza alla diversità, mettersi nei panni dell’altro, espressione del
proprio parere, regolazione delle emozioni, negozialità. Per superarsi oltre la
propria “prospettiva personale” (io) e intercettare la “prospettiva dell’altro” (tu).
Il punto focale non è il “tu” sempre e comunque, come altruismo comunicativo:
dalle mie ricerche emerge infatti come fondamentale anche l’espressione del
proprio punto di vista, costruendo ponti “io-tu” e “tu-io”.
Intelligenza collettiva
La crescita esponenziale delle conoscenze, soprattutto in alcuni settori, e la
conseguente iperspecializzazione rendono impossibile per il singolo
padroneggiare campi che siano al di fuori delle proprie specifiche competenze:
solo la capacità di individuare le sfaccettature di una questione, lo scambiarsi
informazioni utili, l’elasticità nel cooperare possono trasformare una mole di
informazioni in una miniera di soluzioni per problemi complessi: l’intelligenza del
futuro dunque è collettiva.
Uno dei primi input da dare in tale direzione è nelle forme comunicative più
circolari, più “io-tu”, meno attaccate al proprio disegno o visione egocentriche,
più alla ricerca di visione e disegni comuni, da condividere. In tal senso, per unire
le persone e sviluppare un’intelligenza colletiva è importante evitare il monologo
(aumenta la distanza) e preferire assidui cambi di turno (riducono la distanza). Il
monologo è un oggetto che esclude, il cambio di turno al contrario è un oggetto
che include. Si garantisce così una parità di metodo (i soggetti possono dire),
lasciando al solo piano di merito una sacrosanta disparità.
Proviamo. Già nel prossimo incontro di condominio, di genitori nel consiglio di
classe, di amici del comitato, di colleghi in ufficio puoi ricordarti dell’importanza
collettiva, che è davvero il fattore moltiplicatore di conoscenze e risorse.
Parola viva
Se ascoltare è importante lo è anche saper parlare. Emissione e ascolto sono
infatti le due funzioni basilari della comunicazione interpersonale. Lo dico sempre
ai miei studenti, se uno è introverso (per cui è tanto ascoltatore e poco
emittente) o l’altro è estroverso e verboso (tanto emittente e poco ascoltatore),
occorre bilanciare un po’ queste due parti, che non saranno mai in perfetto
equilibrio, ma potranno altresì integrarsi e non lasciare una delle due allo zero.
Parola, emissione, espressione del proprio punto di vista possono essere
corroborati da una parola viva, ovvero:
- esporre in modo logico e ordinato;
- essere chiari e completi;
- essere precisi, concreti, specifici;
- adattare il proprio linguaggio a chi abbiamo davanti;
- essere aderenti al tema;
- essere brevi, concisi, sintetici, non dire tutto insieme;
- usare un tono di voce vitale.
Esempi. Possiamo fare attenzione ed evitare di girare intorno alle questioni,
evitare di inserire dettagli che non sono utili, evitare i troppi esempi,
considerazioni, distinguo. La qualità in questione, la vivezza, è data dalla
sinteticità, dal senso asciutto dell’emissione e dall’essere aderenti a chi abbiamo
davanti.
Proviamo. Esercitati a essere più vitale e stimolante quando parli in casa e al
lavoro.
Richiesta parere
Per attivare forme “io-tu” dialogiche, occorre incrementare le capacità di
risposta, ritorno, verifica, che abbiamo già denominato di feedback. L’altro
rappresenta la fonte che vede, sente, percepisce cose del contesto e di noi, che
noi stessi non possiamo vedere, per questo è strategico raccogliere pareri, per il
semplice fatto che si allarga la nostra area di visione e conoscenza. Il primo tipo
di feedback per importanza e quantità è quello della richiesta parere, l’invito
all’altro perché esprima una sua idea e opinione, il valore di dare attenzione e
interessarci a chi ci vive intorno.
Esempi. «E tu cosa ne pensi in merito?»; «Hai proposte?»; «Come è andata
l’altro giorno?»; «Come ti vanno le cose?»; «Hai suggerimenti in merito?»; «Nella
nostra famiglia quale problema c’è secondo te?».
Proviamo. Prova la richiesta parere e usala più spesso in una giornata, ti ricordo
che formulando solo semplici piccole domande puoi aumentare la tua attenzione
verso gli altri.
Fare domande
Richiesta parere è una domanda, come anche i feedback. La domanda mira a
ottenere nuove informazioni e il suo uso ponderato permette di prevenire
ambiguità, malintesi, oltre a stimolare il confronto. Fare buone domande è una
questione sia di struttura linguistica che di modi garbati in cui porgerle. Le
principali tipologie sono:
- domande aperte, richiesta ampia di informazione: «Com’è andata oggi?»; «Al
lavoro come va?»;
- domande chiuse, richiesta di una risposta specifica, un sì o un no; si usano per
avere un’informazione rapida: « Sei stato bene oggi?»; «Ti ha telefonato?»;
- domande ipotetiche, stimolano a far riflettere su una determinata questione
ipotizzata: «Se ti chiedessi di fare una proposta sulle basi di quello che ci siamo
detti, cosa diresti?»; «Se potessi cambiare lavoro cosa ti piacerebbe fare»; «Se il
suo capo le facesse in continuazione solo critiche come si comporterebbe?»;
- domande con il perché, perché di un evento e perché di un atteggiamento:
«Perché c’era traffico?»; «Perché il treno ha fatto ritardo?». Oppure: «Perché sei
così triste?»; «Perché non vuoi mai parlare?».
Le domande è preferibile formularle in maniera garbata e discreta. Vanno quindi
evitate le domande incalzanti a mo’ di primo grado, le domande che hanno già
una risposta, le domande che aggrediscono.
Esempi. Marco dice: «Sono un tipo ansioso, mi preoccupo in continuazione!». A
Marco possiamo formulare decine di domande, come vediamo qui di seguito, che
solo la nostra ridotta attitudine non ci fa fare. Le domande è come se
corrispondessero a un circuito cerebrale, che possiamo raffigurare con un sentiero
quasi invisibile nel bosco, invaso da rovi e cespugli che quasi lo cancellano. La
propensione alle risposte, vedremo più avanti, alle ricette, corrisponde invece ad
altri circuiti cerebrali, raffigurabili in un’autostrada a tre corsie. Ecco un ventaglio
di domande possibili che sarebbe conveniente rivolgere a Marco:
- «Ansioso dici, hai notato cosa ti dà più ansia?»;
- «Ansioso più per il lavoro o per le persone che hai a casa?»;
- «Ma in continuazione cosa vuol dire, un po’ ogni giorno?»;
- «Ti prende lo stomaco o la testa?»;
- «Dici ansioso… sì, un episodio di questi giorni?»;
- «In continuazione… lo associ a qualcuno?»;
- «Ansioso… un pensiero che ti viene ricorrente?»;
- «Cosa ti viene da fare, distrarti, imbambolarti, o cosa?»;
- «Ti va di parlarne?»;
- «Riesci a parlarne a casa, qualcuno ti ascolta?»;
- «Hai notato che ti prende per compiti specifici?».
Proviamo. Fare domande vuol dire curare gli altri, attiva quindi domande per
incrementare conoscenza e socialità.
Brevità e ritmo
L’interazione sé-altro come abbiamo visto è dentro un campo di sollecitazioni
multiple, verbali e non verbali, razionali ed emotive, positive e negative. In questi
anni ho studiato con Jerome e con colleghi all’università quanto la presa del turno
possa diventare più o meno centrale negli eventi comunicativi. Ebbene,
osservando sul campo decine di riunioni e interazioni ho potuto notare la grande
inclinazione che un po’ tutti abbiamo a parlare quasi da soli, pur in presenza di
altre persone. Cosa intendo dire? Quando abbiamo la parola siamo
inevitabilmente molto presi da noi stessi, siamo come in un gorgo interno, un
gorgo buono, in cui i circuiti neuropsicologici si concentrano per dare il meglio,
ma anche un gorgo cattivo, per via di una patina di egocentrismo che ci prende.
Tutto questo per affermare che il ricorso alla lunghezza è sempre in agguato e
fa parte di noi. La lunghezza tuttavia non ci favorisce nell’integrazione dei punti di
vista e ancora più semplicemente, nel tornare a casa prima la sera. Possiamo
quindi imparare la brevità e il ritmo, è nostro vivo interesse.
Le interazioni possono danzare di più: parlo io, parli tu, parla l’altro e l’altro
ancora, quindi riparli tu e riparla l’altro e riparlo io. Con questo accorgimento ho
notato che i partecipanti a uno scambio tendono a coinvolgersi di più, rispetto ai
metodi convenzionali (interazioni bloccate, monologhi, turni lunghi).
Brevità e ritmo infatti imprimono allo scambio velocità e dinamismo e il punto
focale, lo ripeto, è fornito da comunicazioni corte, concise, sintetiche, in
alternanza, poliloghe73, a più canali. Queste caratteristiche portano i nostri
contenuti a migliore ricevibilità e aumentano lo status dei più deboli, riuscendo
cioè a dare anche ai membri di livello più basso la possibilità di parola.
Proviamo. Esercitati a diventare più stringato. Ne guadagna la dinamica,
l’attenzione, il tuo coinvolgimento e quello degli altri.
Cambio di turno
In una conversazione la presa del turno scandisce l’alternanza di parola tra i
partecipanti. Per lavoro, ho notato che i sindacalisti, gli insegnanti e i colleghi
dell’università sono le categorie che tendono a maggiore loquacità e logorrea.
Ritmi lenti, discorsi lunghi, contenuti sospesi e labili, noia, senso di estraneità
evidente, delega e passività sono solo alcune delle sindromi che incombono tra le
persone. Uno stillicidio che a mio parere tonifica i pochi e narcotizza i tanti.
Col cambio di turno invece miriamo a tonificare un po’ tutti, senza forzare, chi
più e chi meno. È matematico infatti che se i turni si alternano l’interazione
divenga inclusiva e vivace, di contro se i turni dovessero rimanere lunghi e
monologhi, è quasi certo l’aumento di noia ed esclusione.
Proviamo. Incrementa la turnazione di parola quando sei in gruppo o in coppia,
lo puoi avvertire come uno sforzo eccessivo che però ripaga con molte
opportunità, tutte da scoprire. È ovvio poi che ci sono argomenti in cui si deve e
si può affrontare il discorso prendendo più tempo, ma questa eventualità potrà
essere una parentesi, non una norma fissa e costante.
Rimando (accertarsi di aver capito)
Il rimando è uno strumento verbale con cui un ascoltatore, prima di procedere e
dare risposte, può prima accertarsi se la sua comprensione è corretta, rispetto ai
contenuti ricevuti dall’emittente. Spesso ci inalberiamo senza aver colto bene
quello che l’altro sta affermando, altre volte capiamo una cosa per un’altra, altre
ancora fraintendiamo i dati di un lavoro o di un appuntamento.
Il rimando si effettua tramite parafrasi e riepilogo sintetico, con proprie parole
senza aggiungere niente di diverso del contenuto dell’altro (detto anche
rispecchiamento o riformulazione) e comporta il punto di domanda finale. È
metodo adatto quando ci scambiamo ragionamenti complessi o visioni fantasiose,
o anche quando trasmettiamo istruzioni per azioni macchinose.
Esempi. «Comprendo bene che… è così?»; «Provo a dirti se ho capito … è così?»;
«Tu vuoi dirmi che… è giusto?»; «In altre parole…?».
A: «Al lavoro è come se dovessi cambiare personalità, tutto per non irritare il
direttore!».
B: «Hai una situazione ambigua al lavoro, comprendo bene?»
C: «Nessuno mi dà pareri sulla ricerca consegnata in presidenza, resto davvero
inebetito».
D: «Senza riscontri al lavoro ti senti male, è così?».
Non serve se l’interlocuzione è semplice:
A: «Signore, mi sa dire dove è una latteria?».
B: «Guardi, eccola qui di fronte!».
A: «Mi sta dicendo che è lì davanti a me, è così?» (sarebbe ridicolo!).
Proviamo. Se ricevi messaggi complessi da un figlio o una collega ecco che puoi
utilizzare il rimando: «Ti dico se capisco bene… è così?»; «Comprendo bene che…
è giusto?»; «Provo a dirti se ho capito… giusto?».
Verifica sul parlato
È una richiesta che mira a verificare se l’altro ci ha capito. Il rimando ci
garantisce la comprensione dell’altro, la verifica sul parlato invece ci garantisce
che l’altro capisca noi. Conviene quindi di tanto in tanto usarla, anche qui in
particolare per i contenuti complessi.
Esempi. Alcune possibili situazioni:
(Lavoro): «Sono riuscito a spiegare che per me è importante attivarsi settimana
per settimana, indipendentemente dagli andamenti delle vendite dei nostri
prodotti sul mercato?»
(Ufficio): «Sono risultato chiaro quando ho detto che per me sono importanti
anche le critiche, meglio poi se costruttive?»
(Associazione): «Ribadisco, quando ho detto “non inventiamoci nemici che non ci
sono” intendevo mirare dritto alle nostre campagne sociali, vi è chiaro?».
Proviamo. Ricordiamoci quanti piani ci rendono naturalmente differenti e
conflittuali (comunicazione, emozioni, storia familiare, modo di relazionarsi),
quindi, i messaggi incocciano in disparate barriere e trappole. Occorre quindi che
tu non dia mai nulla per scontato. È bello poi verificare se sei riuscito a spiegarti
in una cosa importante a cui tenevi, così facendo puoi renderti inoltre conto in
diretta di come le tue parole impattano sui tuoi interlocutori.
Disco interrotto (insistere per voler capire)
È la tecnica del sondare, esplorare, approfondire, stare nel merito74. Stimolare a
un’ulteriore aggiunta per raccogliere altre informazioni che altrimenti non
verrebbero fuori; sollecitare risposte più esaurienti e specifiche. Il disco interrotto
è una capacità comunicativa finalizzata allo svisceramento di un problema, al suo
approfondimento. Si chiama così perché prende spunto dai vecchi dischi in vinile,
che se presentavano un graffio, ripetevano sempre le stesse note. Qui si può
formulare una stessa domanda anche più volte, in forma ripetuta, fino a che
l’interlocutore non vi risponde.
Esempi. Il disco interrotto quando:
- si deve stare nello stesso punto discorsivo;
- non ci si deve fare condizionare da insidie e provocazioni;
- occorre spingere a stare nel merito senza divagare.
Proviamo. Metti in pratica il disco interrotto in caso di barriere comunicative,
malintesi, difese individuali (ansia, aggressività), argomenti difficili, argomenti
critici, adottando l’arte di stare nel merito per capire, anche se gli altri dovessero
far finta di aver capito e si danno alle divagazioni.
Aumentare l’intesa e l’empatia
Empatia (sentire come sente l’altro)
L’empatia è la capacità di immedesimarsi nel vissuto di un’altra persona: sentire
in sé qualcosa che assomiglia a ciò che l’altro sente in maniera più netta e
amplificata.
Empatizzare quindi significa condividere temporaneamente, sperimentare i
sentimenti dell’altro, partecipare alla qualità ma non alla quantità, al tipo e non
all’intensità dei sentimenti di chi stiamo aiutando.
Di empatia se ne parla anche troppo, confondendola spesso col semplice ascolto
buono o attivo.
Invece empatia è una qualità abbastanza speciale, che ritagliamo come adulti in
nicchie particolari, presso relazioni intime o dal forte carattere di aiuto, vedasi
volontariato. La pratica dell’empatia richiede un assetto ricettivo che consenta di
entrare nel ruolo dell’altro per avvertire l’emozione e i segni comunicativi verbali
e non verbali.
Empatia corporea (imitare l’altro per sintonizzarci)
La scoperta dei neuroni specchio, una parte presente nel nostro cervello, ce l’ha
detto in tutti i modi: ci imitiamo l’un l’altro per entrare in relazione, proprio grazie
a neuroni che già possediamo naturalmente nella parte alta dell’encefalo. Quindi,
l’imitazione è naturale, ma anche funzionale alla socializzazione e all’empatia.
L’empatia corporea è un modo efficace per sintonizzarsi con l’altro, imitandolo in
forma minimale e parziale.
Daniel Stern, psicoanalista americano scomparso di recente, ha svolto molti
studi sull’interazione madre-bambino, da cui è giunto al concetto di attunement,
sincronizzazione e corrispondenza interpersonale delle espressioni fisiche non
verbali (ritmo, intensità e forma).
Stern scoprì che l’interazione basata sull’imitazione e sulla similitudine
incrementa l’intesa e la connessione (tra madre e bambino, ma anche tra adulti).
La leva cruciale è data dal fare qualcosa che fa l’altro, imitandolo in una misura
bassa (imitazione o “specchio parziale”).
Non si tratta di una manipolazione, ma solo di un buon modo per entrare più
facilmente in sintonia, da inserire anche nelle giornate faticose e complicate75.
Esempi. L’empatia corporea si compie quando:
- ripetiamo alcune parole dell’altro;
- assumiamo una presenza corporea similare (la scelta gestualità, postura,
mimica facciale);
- riprendiamo un ritmo comunicativo simile.
Protagonista
Ascoltatore
Giorgio è triste, manifesta una
Sara imita parzialmente il tipo di portamento corporeo, la
postura curva e dimessa…
postura curva.
Sauro è agitato e utilizza parole a
Manuele accelera nella sua verbalità per avvicinarla a
raffica scuotendo di tanto in tanto la
quella di Sauro, da calma diventa più elettrica.
testa.
Federica utilizza un linguaggio
informale e strascica platealmente le Grazia adotta il linguaggio informale e intercetta qualche
parole, ha dei movimenti laterali di
parola chiave di Federica.
occhi e testa.
Il capo evita incoraggiamenti fatui a parole, bensì prova a
I colleghi in riunione sono stanchi,
intercettare la stanchezza del gruppo, facendo discorsi
molti hanno il collo piegato e posture
brevi e tentando un contatto verbale «c’è stanchezza è
dinoccolate, sguardi persi al soffitto.
vero?…».
Proviamo. Con garbo puoi imitare piccoli gesti e movenze dell’altro al solo scopo
di sentirlo meglio e connetterti con lui/lei di più.
Calore umano
Il calore è un bisogno umano fisiologico, biologico, psicologico, filosofico, ma sì,
anche economico! Il calore è fondamentale. Può essere definito anche come una
meteorologia, ossia, quel clima che aleggia e si avverte in un gruppo, una
famiglia, un ufficio. Il calore è una qualità che si vede negli occhi, si sente nella
voce, si sente nella maniera in cui siamo accolti. Il calore è il cuore della
gentilezza76.
Il calore umano tende ad accentuare i fattori di attenzione, informalità,
sensibilità. La sua forma interpersonale, comunicativa, è orientata al
coinvolgimento, progredendo da informazione, ad attenzione, fino a sintonia
(quella fredda invece passa dalla trasmissione informativa, dai ruoli, alla ridotta
sintonia). In uno spazio caldo gli scambi sono frequenti, le discussioni più dirette
e attive77 e ho notato che le parole sono meno elettriche e tensive, sono più
dosate e meno quantitative.
Proviamo. Il calore non si inventa ma si può ricercare. Su questo piano sono
importanti le parole ma ancor di più i gesti e il comportamento in senso più
ampio.
Scongelamento
Quando lo spiego ai miei studenti ho l’idea che sia per loro di facile
comprensione, ovvero, contrariamente al termine che lo definisce, il concetto
arriva bene. Sì, perché non è proprio semplice affermare che se intendiamo
lavorare meglio, studiare meglio, discutere meglio, si debba incominciare col
curare non tanto le mansioni, le pagine del libro o l’ordine del giorno, bensì
l’ambiente relazionale complessivo.
Lo scongelamento è questo e corre vicino al calore umano, possiamo dire che
sono condizioni limitrofe. Cos’è? Possiamo definirlo come quel comportamento
interpersonale meno contratto, più genuino, più leggero, per un approccio alle
cose non ideologico, non severo, non dogmatico. Esso serve in moltissime
situazioni, per abbassare le soglie di ansia e tensione, per contenere e ridurre le
polarizzazioni e gli schieramenti, per non perdere di vista gli obiettivi più ampi. È
quindi un prerequisito chiave nelle fasi di apprendimento e di cambiamento: nella
rigidità e nella severità si apprende e si cambia molto meno.
Lo scongelamento agisce sui nostri due cervelli integrando il cervello emotivo
con quello razionale, accendendo così risorse altrimenti sopite, la migliore
premessa al clima propositivo e costruttivo.
Esempi. Al lavoro ma anche in una discussione in famiglia possiamo tenere ben
presenti i seguenti spunti:
- esordio genuino: fin dalle prime battute è preferibile imprimere un modo
rispettoso, colloquiale, anche se non cerimonioso e freddo;
- apertura: tramite forme corporee aperte: mimica facciale distesa, occhi
rilassati, gestualità morbida, sorriso, respirazione fluente, parole di
interessamento;
- essenzialità e leggerezza: da una parte dare rilievo ai contenuti sul tappeto,
dall’altra cercare modi leggeri, semplicità, umorismo;
- la perfezione non esiste, è bene mirare a comunicazioni semplici e significative,
senza troppi contorsionismi.
Proviamo. Questi metodi non vanno provati tutti assieme, puoi iniziare da uno o
due e vedere l’effetto che fa; su questa direttrice cerca comunque i tuoi metodi
che ti fanno stare comodo e rilassato e che possono aiutare anche i tuoi
interlocutori.
Àncore di comprensione (anche detto “piantare i semi”)
Le àncore di comprensione sono tentativi che formuliamo per provare a metterci
nella prospettiva dell’altro. Vuol dire fare esempi, immaginare cosa lui/lei possa
pensare o sentire e quindi avanzare ipotesi comunicative. È tentare di indovinare
temi che possono riguardare chi ci sta di fronte, in casi di impasse, chiusura,
soggezione, vergogna, paura. Il “seme” poi può essere più o meno indovinato,
l’importante è la tensione immaginativa verso l’altro.
Esempi.
(Educazione stradale a scuola) Istruttore: «Siamo sul motorino, l’aria arriva
fresca, i cartelli stradali… ma chi li vede? Vero, ragazzi?».
(Costituzione italiana a scuola) Insegnante: «La Costituzione tratta
dell’organizzazione politica dello Stato… cosa vi fa venire in mente, qualche
immagine di un telegiornale, i deputati, il tricolore, cosa?»
(Relazione di aiuto) Facilitatore: «Giovanni, ti vedo con la postura ricurva e la
faccia triste, cosa succede, avverti solitudine, vergogna, o cosa?»
(Azienda) Capo: «I risultati di questo trimestre non vanno, mi domando, è un
problema di prodotto, di concorrenza, di criticità tra noi, cosa?»
Proviamo. Mettersi nella prospettiva dell’altro è una capacità bellissima, che a
volte può creare anche godimento vero! Possiamo paragonarla alla sensazione
provata quando leggiamo un romanzo o vediamo un film avvincente, in cui i
nostri neuroni specchio lavorano a pieno regime e ci fanno entrare davvero
nell’altra storia. I nostri “semi” sono messi lì con gentilezza e generosità, servono
da ancora, per possibili risposte come: «Sì è proprio così», «No, aspetti, le
spiego…». Allena appena puoi questa capacità di decentramento sull’altro.
L’intesa con l’altro
Unirci di più con gli altri in prima persona è guadagnare in salute, guarigione,
benessere, apprendimento. Ma anche provare a unire le persone a loro volta
quando vestiamo ruoli di genitori, amici, professionisti nel lavoro, coi colleghi. Il
verbo chiave è unire.
Esempi. Gli spunti di seguito sintetizzano metodi già illustrati.
Forte interazione e prospettiva sé-altro:
- ascolto buono e ascolto attivo;
- dire la propria con efficacia, parola viva;
- fare domande, richiesta parere;
- verificare la propria comprensione, accertarsi di quella dell’altro;
- filosofia del rispetto.
Cambi di turno, la parola che gira:
- brevità e ritmo;
- dare spazio alle differenze, per integrarle e comprenderle;
- togliere con garbo la parola se la persona è verbosa;
- invitare a essere concisi e asciutti.
Connessione sé-altro:
- scongelamento, calore umano;
- attenzione ed elasticità nell’affrontare altre personalità;
- immediatezza, concretezza, capacità di complessità;
- evitare la vaghezza, fare esempi, scambiare possibilità;
- vicino fatti, luoghi e persone, efficacia ed efficienza contestuale.
Proviamo. Imparare da soli è molto più difficile che imparare in gruppo. Per cui
se ti capita puoi fare un corso, ma anche condividere alcuni punti di questo libro
con un’amica, un amico o un collega e tentare di passare dalle parole ai fatti.
Fare accordi, negoziare e mediare
Sulla negoziazione esiste una bibliografia vastissima. Il ruolo di negoziatore più
congruente è di solito assegnato a chi lavora negli affari, ma anche a chi sta in
politica e nella diplomazia. Per esempio chi tratta con nuovi mercati emergenti la
penetrazione del proprio prodotto (automobili, abbigliamento), Marchionne o
Rosso. O un ambasciatore, il pensiero va al nostro diplomatico in India, in questi
mesi infausti per la sorte dei due marò italiani. O Renzi, che tratta la nuova legge
elettorale con gli altri partiti.
Della serie, negoziatori di professione. Ma noi tutti calati come siamo nelle
vicende quotidiane, quante micro-negoziazioni dobbiamo effettuare in una sola
giornata? Mi prendo ad esempio: oggi è domenica, quale film andrò a vedere con
mia moglie?; Francesca, mia figlia grande, quante ore al giorno deve studiare per
preparare dignitosamente i suoi esami all’università; con Lorenzo di tredici anni, è
annosa la negoziazione su quanto tempo stare su iPad e Facebook e in quali orari
spegnerli; con Alice, la figlia piccola, visto che non mastica abbastanza il cibo a
tavola, quante masticate concordare per ogni boccone? Ecco, se una giornata è
costellata da continue comunicazioni e scambi (diciamo diciassette ore), quanto
tempo passiamo per fare accordi con gli altri. Io credo non meno di otto ore al
giorno. E in queste otto ore la maggior parte di noi non ha minime cognizioni di
cosa vuole dire negoziare, mediare, fare accordi.
Negoziazione
Tutti i santi giorni abbiamo davanti decine di micro-negoziazioni, punti cioè da
trattare con altri per giungere a patti, accordi, mediazioni. A volte le negoziazioni
fanno seguito a semplici differenze di idee, a volte a divergenze e opposizioni già
più sostenute, altre volte a veri e propri contrasti e conflitti. Ecco, negoziare
significa accedere al meccanismo più evoluto che noi umani abbiamo inventato,
ovvero, saper valorizzare divergenze e conflitti e trasformarli in nuove risorse e
opportunità.
Le abilità che accompagnano la negoziazione possono essere:
- la collaborazione: ricerca di soluzioni buone mirate a utilità condivise;
- l’integrazione: i propri bisogni e al contempo i bisogni dell’altro;
- la relazione: elementi costruttivi prima dell’accordo (reputazione, aspettative),
durante (fiducia, comunicazione) e dopo (rispetto, affidabilità)78;
- l’accordo: assegnazione di risorse e mansioni, allargamento eventuale delle
risorse, compensazioni; nessuna delle parti ottiene ciò che chiedeva, ma viene
modulata in modo complessivo una nuova opzione (concetto di “ponte tra le
parti”).
Quando in una negoziazione vogliamo vincere senza preoccuparci dell’altro,
rispondendo solo ai nostri bisogni e appetiti (modalità vinco-perdi) avvengono
alcuni fatti tipo:
- dinamica del tiro alla fune;
- gioco al rialzo e gioco al ribasso;
- innalzamento di astio e contrapposizione;
- compromesso come via d’uscita nella mediocrità;
- concessioni reciproche eventuali.
Quando invece in una negoziazione vogliamo vincere preoccupandoci anche un
po’ dell’altro, rispondendo ai nostri bisogni e appetiti e in parte a quelli degli altri
(modalità vinco-vinci) le circostanze tipo sono:
- soluzioni per entrambe le parti;
- rielaborazione degli interessi (poste in gioco);
- mutamento di percezione dell’altro, offerte, suggerimenti e richieste;
- metafora della torta più grossa, con più risorse;
- cooperazione senza perdenti.
Feedback negoziale
Fare accordi efficaci è sinonimo di azioni meglio coordinate, perché a monte le
persone si sono parlate, si sono consultate. I cattivi accordi sono perlopiù il frutto
di incapacità a gestire lo scambio, impaludato dentro a interferenze e barriere. A
tutti capita di fare cattivi accordi, è normale. Il feedback negoziale è un
strumento semplice, essenziale, che ha l’obiettivo di diffondere la capacità
negoziale a più persone e a più livelli. I passi fondamentali:
- avanzare un’idea grezza di accordo, che tratteggi i contenuti ma non li
definisca nei dettagli;
- parere dell’altro, aprire alla sua valutazione e a possibili aggiunte;
- definizione, confezionare e definire l’accordo.
Si parte dichiarando all’altro i punti concreti di un primo abbozzo di accordo,
avvio della consultazione dentro un orientamento di base, sul quale sarà poi più
agibile aggiungere altri particolari. L’idea grezza è formulata con parole non
perentorie e assolute, ma con una buona tensione verso la soluzione.
Esempi.
(Colleghi consulenti): «Dimmi come ti sembra questa mia idea sui compensi da
dividerci… propongo 5,5 a me 4,5 a te e le spese di segreteria a mio carico, visto
che l’ho utilizzata di più…».
(Colleghi infermieri): «Come ti sembra la possibilità di fare due domeniche di
rientro di seguito a testa?»
(Associazione): «Se fissassimo le date delle riunioni mensili fino a marzo,
sarebbe un problema per voi?»
(Famiglia): «Sull’uso dell’iPad, facciamo che dalle 15:00 alle 18:00 si spegne
tutti i giorni…?».
Proviamo. Prova a fare accordi con questi passi, rifletti sul fatto che avere idee
già troppo confezionate presso figli, mariti e colleghi, può accendere spesso solo
l’opposizione e la negazione. Se i margini di negoziazione non dovessero
concretizzarsi si tratta di prendere tempo e aggiornarsi, tenendo in conto gli
spunti concreti emersi.
Passi negoziali
I passi da seguire per una negoziazione efficace, secondo uno dei modelli più
sperimentati ed efficaci, sono79:
- distinguere le persone dal problema, focalizzarsi sulle questioni pratiche
distinguendo bene tra l’oggetto e le persone;
- abbandonare le posizioni e le rivendicazioni, evitare di spostare negativamente
l’attenzione dal problema alla persona;
- andare verso bisogni e interessi, per cercare risposte concrete alle necessità
espresse sia da noi che dall’altro;
- sviluppare diverse opzioni di soluzione, un ventaglio di vie d’uscita;
- costruire l’accordo e valutarne prospettive, ricadute e risultati.
Proviamo. È uno specchietto da tenere bene in vista, fanne una copia e mettilo
in agenda, in bacheca e nel cellulare: ti può venire in soccorso nelle mille
trattative quotidiane, da quelle più piccole a quelle più significative e importanti.
Vincere-vincere
L’approccio io vinco-tu vinci ( win-win) sta a indicare quello sforzo mentale e
materiale che le parti mettono nel tenere in conto il più possibile i due tipi di
interessi. Per esempio, per il genitore controllare il figlio e per il figlio andare in
giro; per il capo garantirsi i risultati e per il collaboratore stare in buona salute;
per il medico dare una cura e per il paziente trovare sollievo pratico al suo
disturbo. Questa via negoziale è anche detta “risoluzione dialettica dei problemi”,
cercare cioè di trovare una soluzione che rispetti più possibile desideri e bisogni
propri e dell’altro, e trovare soluzioni benefiche ed eque per le parti.
Vincere-vincere infine, a mio avviso non è da vedere come facile buonismo, è
agire invece una tensione più ampia e non solo bloccata sulla propria parte.
Questa tensione è sana provarla e applicarla, di certo ci si può riuscire a volte di
più e altre volte meno.
Cosa chiedo-cosa offro
Tanti anni fa ero in Sardegna in una casa in campagna a condurre un gruppo di
formazione sulla gestione dei conflitti. Una ventina di partecipanti tutti interessati
a prendere dal corso buone idee e buone pratiche. Come è mio stile a sessioni
teoriche faccio di solito seguire sessioni pratiche, il mio ricordo va a due sorelle
presenti in quel gruppo che vollero condividere con noi il loro conflitto che durava
da dieci anni. Il conflitto, prima partito dalla spartizione di beni materiali da parte
dei genitori (case, mobili, terreni) in quei lunghi anni si era poi spostato su temi
fortemente affettivi, di considerazione e attenzioni che tardavano a venire tra le
due.
Nell’elaborazione del loro caso, verso la fine chiesi alle due sorelle che cosa
entrambe chiedevano e cosa offrivano vicendevolmente. Ho ancora un ricordo
netto a distanza di ben quindici anni della loro facilità a chiedere, mentre
entrambe stentavano nell’esercizio di offrire. Siamo un po’ fatti così, a chiedere
siamo buoni tutti, a offrire invece siamo un po’ più pigri, avari e spilorci.
Comunque quella giornata sarda portò poi alla costruzione dell’accordo tra le due
sorelle, su quel terreno così accidentato che riguardava il ripristino di reciproche
attenzioni e sensibilità umane, interrotte nei dieci anni precedenti. Cosa chiedo e
cosa offro è proprio lo strumento in casi del genere, forse più agevole per un
terzo mediatore, ma si può tentare anche nel faccia a faccia diretto. Un dare e un
avere fondato su cose concrete e precise, a volte anche molto minimali ma ben
specificate. I passi:
- le parti definiscono i termini del problema e annunciano orientativamente quali
soluzioni vedono;
- uno alla volta le persone espongono le richieste (cosa chiedo) e le disponibilità
(cosa offro);
- i turni di parola è bene che siano brevi e mirati, senza possibilità di
generalizzazioni che sono sempre lì in agguato.
Esempi. Questo metodo ha bisogno di una minima e massima assistenza, data
da un mediatore, facilitatore, o anche un aiutante conoscente che si dispone tra
le parti80; lungo l’intero scambio l’aiutante-facilitatore si mantiene tra le parti,
non propende per nessuna delle due e sollecita gli attori a chiedere e offrire cose
semplici e concrete.
Mediazione tra due persone
Vediamo ora come possiamo muoverci quando siamo terzi in un contrasto tra
due parti; il terzo è un aiutante occasionale, oppure un facilitatore pratico
(l’adulto che impara le competenze sociali), o anche un mediatore
adeguatamente formato professionalmente. Requisito importante, se facilitiamo
per esempio due amici, entrambi siano favorevoli al ruolo che lì andiamo a
rivestire, ovvero, devono riporre fiducia in noi e nel ruolo di terzi tra le parti. I
passi del facilitatore sono:
- attivarsi nella regia della parola, dato che le parti tendono solo ad accavallarsi,
interrompersi, a spararsi frecciate, come un vigile urbano dobbiamo gestire il
traffico dei turni di parola, garantendo solo che quando parla uno l’altro ascolti e
viceversa;
- sostare nei motivi del contrasto81, volendone quasi rimarcare le diverse letture
dei fatti: se intendiamo unire dobbiamo prima separare, evidenziando rispettivi
temi e rispettive ferite82;
- scorgere i punti di contatto, raccogliere le rispettive richieste e attese83 e
costruire l’accordo, precisando i punti concreti con il consenso delle parti.
Proviamo. Il punto cruciale è aiutare i soggetti ad esprimere, tenendo aperto lo
scambio, evitando che la ricerca di accordo diventi un assillo eccessivo. Lo
sappiamo, può creare smarrimento tenere aperto e non ancorarsi all’accordo, ma
le parti implicitamente chiedono anche di liberarsi e sfogarsi, non solo di
negoziare. Dopo un congruo tempo di indagine aperta si cerca di convogliare la
mediazione verso passi concreti e possibili. Offriti qualche volta nel ruolo di terzo,
presso amici e colleghi, è un’opera davvero buona!
Gestire la negatività e trasformarla in positività
(F3)
Eccoci alla terza funzione facilitatrice (F3). Se le altre sembrano complesse e
ostiche, questa è forse ancora di più. Qual è il filo conduttore? La negatività –
problemi, conflitti, malessere, errori – se gestita con metodi adeguati può
risultare una fonte di risorse e opportunità, quale humus fecondo nel lavoro, in
famiglia, nella socializzazione.
«Dai diamanti non nasce nulla e dal letame nascono i fior».
(Fabrizio De André)
A mio avviso quando siamo arrabbiati o abbiamo paura è di fatto fastidioso e
doloroso, non c’è niente da dire, tuttavia in quella negatività è come se si
trovassero enzimi potenziali generativi di qualcosa di buono.
«Nel negativo c’è il germe del positivo».
(Jerome Liss)
Un po’ tutta la cultura e l’educazione passano in maniera distratta su questo
ampio fenomeno tipico dei comportamenti umani distruttivi e disfunzionali,
assegnando alla positività l’unico centro propulsore dell’efficacia della persona e
dei gruppi. Qui avanziamo un differente punto di vista fondato sulla negatività
come risorsa, che sostiene che con adeguati strumenti è possibile trasformare le
negatività in costruttività e apprendimento. Più precisamente, posso dire dopo
anni di studio e osservazione sul campo, che il comportamento negativo
nasconde risorse molto più grandi di quanto pensassi un po’ di anni fa. Occorre di
certo attrezzarsi, aumentando le competenze relazionali ed emotive, tramite
strumenti e metodi efficaci, per cercare di accogliere, contenere e trasformare la
negatività, primariamente perché ha una sua componente naturale, è
fisiologica84.
Diciamolo subito, non è facile! La negatività è un tabù, un disturbo, è già difficile
placarla, chiuderla, figuriamoci se ci poniamo l’obiettivo di accoglierla e
trasformarla. A conforto, possiamo innanzitutto dire che la negatività è una
specie di motore che carica le persone, le relazioni, i gruppi di vitalità e voglia di
crescere. Ma a questo punto scatta la domanda topica come e quando, con quali
forme e strumenti si può fronteggiare la negatività?
Mettere in conto barriere e malintesi
Barriere comunicative
Sono le forme di sbarramento che si ergono alla comprensione comunicativa, al
riconoscimento reciproco. Possiamo individuarne di tre tipi:
- incomprensione sul messaggio: quando interpretiamo in modo sbagliato le
parole dell’altro;
- interazione difficile: la difficoltà all’intero processo comunicativo, di rigetto,
negazione, scarsa sintonia;
- interruzione nella relazione: rottura e abbassamento della fiducia, conflitti e
lacerazioni non recuperati, non interesse.
Esempi. Sono state individuate ben dodici barriere nella comunicazione85, siete
pronti? Sono davvero tante e sembra che come si fa, si fa male:
- comandare: esercizio di potere fondato su minaccia e svalutazione;
- minacciare: contrasti, intimidazioni, paura e spavento;
- fare la predica: obblighi e vie di costrizione e colpevolizzazione;
- dare consigli: superiorità, faciloneria, «ti dico io come devi fare»;
- redarguire: influenza, pressioni costanti, accenni di umiliazione;
- giudicare: il gioco delle critiche a buon mercato, sulla pelle dell’altro;
- assecondare: complimenti eccessivi come arma di conformismo;
- ridicolizzare: induzione a sentirsi stupido, affibbiare etichette;
- interpretare: pretesa di comprensione assoluta;
- consolare: distrazione e negazione dello stato dell’altro;
- inquisire: ricerca di ragioni in maniera incalzante, da interrogatorio;
- distrarre: divagazione ed elusione di problemi.
Proviamo. Metti nel conto le barriere, solo con questo atto di umiltà, ti potrai
mettere di impegno a prevenire i malintesi e le trappole. Fai frequenti controlli su
cosa arriva all’altro di ciò che comunichi, al contempo aumenta l’attenzione verso
quello che l’altro ti dice.
Ostacoli interpersonali
Ne indichiamo qui tre su cui il facilitatore può prestare maggiore attenzione:
- coalizione: due o più persone fanno fronte comune contro un altro,
alimentando una coppia di condotte di solito fissa e così composta: favoritismo
per sé (forte aderenza a qualcuno) e discriminazione per l’altro (forte repulsione),
per un fenomeno tipico di schieramento;
- collusione: le persone si appiattiscono su modelli formali esterni, sebbene
siano inautentici, distorti o illusori; solitamente si tratta di taciti accordi in cui i
soggetti convergono per interessi poco chiari;
- pregiudizio: opinione precostituita di prevenzione, diffidenza, disposizione
sfavorevole nei confronti di qualcuno o qualcosa; spesso luogo di frustrazione e
aggressività, personalità autoritaria, dogmatismo.
Esempi. Alcuni comportamenti negativi che pesano nelle nostre relazioni in casa
e al lavoro:
- fissità e chiusura, etichettatura dell’altro a un solo aspetto;
- pensiero schematico, estremizzazioni di parole e fatti;
- stereotipi, inquadramenti delle persone in senso grossolano, arbitrario;
- distorsione, sospetti e svalutazioni puntuali.
Proviamo. Come per le barriere, metti nel conto questi inciampi interpersonali e
alimenta modi più efficaci per cercare di andare oltre.
Disconferme relazionali
La comunicazione di disconferma è la soglia dell’ascolto zero, la mancanza di
riguardo per l’altro, il disattendere gli argomenti che l’altro vorrebbe inviare.
Sette le tipologie di risposte di disconferma:
- risposte impenetrabili: comunicazione superficiale e criptica;
- interruzione: accavallamento, sovrapporsi all’altro;
- irrilevanti: risposte scollegate da ciò che l’altro dice;
- evitanti: il discorso dell’altro è buono per cambiare discorso;
- impersonali: risposte generiche e piatte;
- ambigue: un messaggio che insinua significati multipli;
- incongruenti: con due significati opposti, in contraddizione.
Gestire i conflitti
Il conflitto
Il conflitto fa sempre male, ci scuote, ci provoca scosse e fremiti mentali e fisici,
che deformano la realtà, la ingigantiscono. Il conflitto con l’altro è un tremore,
una nebbia su tutto il resto, un sentimento di rivalsa orgogliosa, e tanto altro
ancora. Nel conflitto di solito si nega tutto di sé e si cerca di colpire l’altro
aumentandone le colpe, secondo uno schema polarizzato di ragione-torto,
chiamato “attacco-fuga”. Il pensiero cosciente e ragionevole prodotto dal cervello
razionale è inondato dagli impulsi automatici emotivi, per cui risulta disattivato.
La scommessa è come salvare il pensiero, come farlo riemergere dalle acque? La
ricerca di un’uscita costruttiva dal conflitto è contrastata dalle forze potenti del
negativo, una lotta impari, tanto che la costruttività rischia di essere sempre
perdente, perché vista come puerile e buonista. Prima di indicare alcune buone
misure per cavarsela, possiamo affermare che:
- non è facile per nessuno;
- la perfezione in questi frangenti non esiste;
- in conto è da mettere una soglia di disagio e di cattiveria fisiologici.
Tipologie di conflitto
Alcuni studi hanno bene classificato i conflitti, partendo da tre fattori chiave: gli
scopi, le azioni, le persone. Nelle nostre relazioni si possono presentare quattro
tipi di episodi conflittuali86. Per divergenza (scopo contro scopo):
- due persone tendono con azioni differenti a obiettivi differenti (uno vuole
andare al mare e l’altro in montagna);
- due persone tendono con azioni similari a obiettivi differenti (si pensa a una
vacanza ma uno la vuole in campeggio e l’altro in albergo);
- la persona è presa da due impulsi divergenti (vuole andare in vacanza ma
anche restarsene comoda a casa);
Per concorrenza (scopo sopra scopo):
- due persone con desideri che si assomigliano (due colleghi che mirano
entrambi alle ferie tra luglio e agosto);
- conflitto per coincidenza e simmetria (due colleghi che mirano alle ferie a
ferragosto);
- più persone desiderano la stessa risorsa che è limitata (le ferie in agosto).
Per ostacolamento (azione contro azione):
- modificazione dell’azione di un’altra persona (non far parlare il collega perché
non esprima i suoi bisogni);
- impedire all’altro il raggiungimento del suo obiettivo (tramare col capo perché
la richiesta del collega non venga esaudita);
- gli attori si ostacolano a vicenda (tipica formazione di sottogruppi di complicità
che si scontrano e si escludono a vicenda);
Per aggressione (azione contro persona):
- modificazione diretta delle caratteristiche della persona colpita (aggressione
fisica alla persona o a oggetti e beni);
- mirare alla restrizione delle libertà d’azione, a ferirne l’integrità (tagliare le
gomme dell’auto, scritte sui muri e sui portali elettronici);
- minacciare l’esistenza dell’altro (telefonate anonime, cattura, annientamento).
Come possiamo vedere, il conflitto modula le forme di aggressività fino ad
arrivare alla violenza, dimensionandosi su scontri prima tra scopi, poi tra azioni e
quindi alla persona, l’ultimo gradino, certamente il più pesante.
Stili di fronte al conflitto
Ognuno di noi ha una sua propensione a come disporsi nei conflitti, acquisita per
via genetica e per apprendimenti e cultura ricevuti da famiglia e società.
Schematicamente sono tre i modi di stare in un conflitto:
- stile passivo, movimento di fuga e rinuncia, arrendevolezza e sconfitta;
- stile aggressivo, sotto il segno della vittoria a ogni costo, modello antico
fondato su autoritarismo, ricatti e minacce;
- stile assertivo, centratura sulla relazione, flessibilità e capacità di
adeguamento, fermezza nel difendere la propria dignità senza ledere quella
dell’altro; stile centrato sul tentativo di rispetto reciproco, comunicazione e
soddisfazione dei bisogni di entrambi.
A mio avviso un po’ tutti oscilliamo tra stile passivo e stile aggressivo,
personalmente solo di recente mi sono reso conto di appartenere allo stile
passivo, che contempla anche una buona dose di evitamento, dall’altra sto
notando su di me un’aumentata capacità di controllo ed elaborazione, che anni
addietro non avevo. Ebbene, posso aggiungere che generalmente il terzo stile
assertivo nel vivo del conflitto viene compresso e assume solo parzialmente le
sue qualità, che tuttavia in forma residuale è bene che siano:
- ammettere che ci si può scontrare;
- saper stare nel conflitto senza teorizzare e idealizzare, né giudicare;
- stare più possibile nei fatti e non nelle opinioni;
- sospendere lo scambio se peggiora eccessivamente.
Passi di gestione nel conflitto
Il conflitto, ci dicono gli studi, è un evento naturale come bere e mangiare, un
evento che non potremo mai eliminare. Quindi, prima ci attrezziamo e meglio
stiamo. Ecco alcune buone pratiche per sviluppare le competenze alla gestione
dei conflitti:
- non soffocare il conflitto ritenendolo inutile negatività, proviamo a starci un
po’;
- stare sui fatti, preferendoli alle opinioni;
- provare a riflettere un po’, provare ad ascoltarsi, come stiamo nel corpo, quali
pensieri passano, quali fremiti emotivi sentiamo;
- dosare le parole, è davvero importante, il controllo verbale può risultare infatti
decisivo, ma questo punto non è per niente facile proprio perché la parola viene
come sequestrata dalle forze del cervello emotivo automatiche ed esagerate.
Proviamo. La cosa più importante che ti suggerisco è quella di ridurre le risposte
automatiche che ti guidano velocemente verso esagerazioni, squalifiche,
peggioramento. Evita l’effetto “occhio per occhio e dente per dente”, per cui se
l’altro è distruttivo anche tu lo diventi per via uguale87. Evita inoltre di
appioppare ricette facili e soluzioni confezionate, il più delle volte interferiscono
negli sfoghi in corso e in più i riceventi spesso non sono proprio in grado di
ascoltare.
Terzo tempo (strumento di riparazione post-conflitto)
Il terzo tempo è un concetto che riprendiamo dal rugby, dove è tradizione che i
giocatori delle due squadre si incontrino nel dopo-gara per socializzare; il terzo
tempo è un momento di integrazione tra i giocatori, cui spesso partecipano anche
le loro famiglie e, talora, anche i tifosi; nel mondo anglosassone si svolge in
genere presso la club house della squadra che ospita l’incontro.
Così anche per il conflitto, il terzo tempo sta a rappresentare il ritorno alla
relazione, la ripresa dello scambio interpersonale dopo il blocco che ne aveva
paralizzate le comunicazioni e ne aveva elevate le barricate. Istruzioni per l’uso
del terzo tempo nella gestione del conflitto:
- prendere tempo in un contrasto minore per tornare allo scambio servono
magari tre ore, mentre per uno sgarbo più accidioso e distruttivo servono una o
due giornate, da valutare volta per volta; il punto è non far passare troppo
tempo, perché il tempo può ricucire, ma tende di più ad amplificare i motivi del
conflitto;
- ritorno alla comunicazione, più possibile in modo riflessivo, in cui cerchiamo di
prenderci le nostre colpe e non insistere troppo su quelle dell’altro;
- comunicazione di riparazione, che mira a riformulare un nuovo accordo e una
nuova soluzione per i giorni a seguire.
Proviamo. Se il conflitto si infiamma è meglio fermarsi lì. Occorre quindi far
passare l’acqua sotto i ponti, metafora del far rifluire la corrente del fare
quotidiano. Impegnati tuttavia a ricucire con i punti illustrati del terzo tempo,
rispettando i tuoi tempi ma non esagerando a far passare troppo tempo.
L’errore
Nel cocktail della negatività non ci sono solo problemi, conflitti e malessere, ma
trova spazio anche l’errore, un’eventualità sempre presente e in cui cadiamo a
turno un po’ tutti. Si definisce errore umano il fallimento di esecuzione di
un’azione in precedenza pianificata.
Il punto saliente rispetto all’errore riprende il concetto sopra esposto della
“mela” e del “paniere”, ossia, le responsabilità attribuibili al soggetto e quelle
riscontrabili nel contesto. Le buone teorie tendono a integrare i due versanti,
considerando il comportamento individuale in relazione con l’ambiente fisico e
sociale circostante, che può avere indotto la persona stessa a sbagliare.
L’analisi quindi possibile di un nostro errore può risalire sia ai fattori
disposizionali (cioè specifici a noi stessi, attenzione, sbadatezza, stanchezza,
demotivazione) che a quelli situazionali (riferiti al luogo se lavoro o casa, alle
condizioni logistiche tecniche, agli episodi di relazioni con altre persone presenti).
Proviamo. Evita la via difensiva e giustificativa, cerca di sviluppare l’autocritica e
se ce la fai l’osservazione del ponte tra cause individuali e cause contestuali.
Esplorare e trasformare la negatività (capacità negativa)
In queste pagine l’ho già scritto varie volte, intendiamo la negatività non solo
come disturbo ma anche come risorsa. La capacità negativa è quella nuova
qualità della persona che accetta momenti problematici, conflittuali e di
malessere per coglierne le potenzialità di comprensione e azione, sviluppando
abilità di esplorazione in grado di trasformare la negatività in costruttività. I suoi
costituenti importanti sono: accogliere, contenere, trasformare.
Il dispositivo della “capacità negativa”
Al manifestarsi di una criticità negativa, anziché dare subito soluzioni e ricette è
consigliabile prima capire. Come? Tentare di esplorare la negatività tramite l’uso
di domande mirate; cercare di starci un po’ per giungere a una sintesi utile;
dopodiché ritornare verso l’azione, in cerca delle soluzioni possibili.
Tre i passi, ben riportati nella figura:
- esplorare: non perdere le opportunità che offre la negatività, evitare le
soluzioni premature, permettere l’esposizione negativa (accoglienza) in forma
però canalizzata (contenimento); avviare un’indagine pratica degli elementi
concreti e sentiti (discesa nel negativo);
- sostare: far crescere la propria soglia di comprensione, dedicarsi alla sintesi del
problema analizzando gli aspetti della situazione e della persona (sosta nella
realtà vissuta);
- agire: orientarsi a soluzioni graduali, evitando quelle astratte, perfette, ideali,
riformulare in maniera costruttiva azioni, accordi, decisioni (risalita verso il
positivo).
Il rigore del dispositivo della capacità negativa consiste nel fatto che alla
“discesa” è importante far seguire la “risalita” e come si è attraversata la
negatività occorre uscirne. Della serie, bisogna approfondire senza macerarsi, per
poter procedere verso cose migliori88.
Esplorando la negatività e le sue molte irrazionalità, interveniamo sullo stesso
meccanismo neuropsicologico di separazione del cervello razionale (corteccia) da
quello emotivo (limbico), provando perlopiù a integrarli un po’. Come?
Imbrigliando la forza delle emozioni negative con delle buone parole, riflessive ed
esplorative. Il punto cruciale è la risposta ricettiva, anziché la risposta reattiva e
automatica.
Questo ci sembra un metodo buono per noi come persone: infatti se veniamo
solo obbligati e spinti verso soluzioni-ricetta, il nostro cervello tende a ribellarsi,
fateci caso89.
Proviamo. Impegnati a non dare ricette e ad ascoltare almeno un po’. La
persona che hai di fronte non cerca soluzioni immediate, il più delle volte
desidera essere riconosciuta e, per quanto riusciamo, essere accolta.
Parola chiave
La parola chiave è quella parte di frase che connota un intero discorso.
Restituendola al protagonista si aggancia il suo vissuto o disagio per esplorarlo
tramite una breve indagine pratica. È forse lo strumento più importante per la
gestione della negatività.
Noi facilitatori pratici sappiamo come agirla perché ci avvantaggia, e i motivi
sono:
- ascoltiamo attivamente;
- portiamo attenzione alla criticità dell’altro;
- ci ancoriamo a punti concreti e non a vaghezze astratte.
Come va utilizzata? La parola chiave va selezionata e restituita al mittente
all’interno di una frase di accoglienza e contenimento al tempo stesso. Per
l’emittente la parola chiave è una parola densa che connota un accadimento, per
il ricevente invece è una porta di accesso a un vissuto sconosciuto.
Esempi.
- «Oggi non mi sento bene, per dirti la verità mi sento uno straccio!» (parola
chiave: uno straccio!);
- «Da questa mattina ho avuto un pensiero ripetitivo “sei un disastro! La tua vita
è a pezzi!”» (parola chiave: un disastro);
- «La nostra associazione, è garantito, fa cose eccelse e cose miserrime» (parole
chiave: cose eccelse e miserrime);
- «Il mio capo non passa giorno che ci va giù pesante con tutti» (parola chiave:
pesante con tutti);
- «Oggi sto proprio bene» (parola chiave: proprio bene).
Proviamo. Attiva questo strumento subito e in grande quantità.
Alcuni studenti all’università mi hanno fatto osservare che la parola chiave è fare
il pappagallo, ricordo che a fronte di quell’osservazione mi ero un po’ risentito.
Dopo qualche giorno riflettendo mi dicevo «sì, hanno anche ragione, è fare il
pappagallo» e qui aggiungo, un pappagallo a fin di bene.
In definitiva, cerca di estrarre dai discorsi altrui le parole significative, fai
esercizio nelle interazioni di tutti i giorni, puoi anche allenarti su testi scritti su
riviste e giornali, al computer. Questa capacità puoi portarla nello scambio
interpersonale come strumento sia di ascolto attivo e sia di esplorazione e
approfondimento attento.
Parola direzionale
Per indagare la negatività, alla parola chiave (che apre le porte) possiamo
aggiungere una direzione (che crea un argine). Ecco allora la cosiddetta parola
direzionale, mettere cioè le cinque direzioni all’indagine:
- “cosa”, la più diffusa e semplice, che sostanzia il fatto;
- “come”, importante se intendiamo cogliere modi e stati d’animo;
- “chi”, riferimento alle persone coinvolte;
- “quando” e “dove”, i fattori che specificano il tempo e il luogo90.
“Cosa” è emblema di fatti e azione, “come” di modalità ed emozioni, “chi” di
identità, “quando” di unità di tempo, “dove” di unità di luogo. La parola
direzionale è efficacissima perché imprime una direzione alla ricerca e anche al
contenimento della negatività.
Esempi.
- Rosaria: «Sono giù…».
- Marco/1: «Giù… (parola chiave) in quale momento oggi (parola direzionale), ti
va di dire?».
- Marco/2: «Giù per cosa (parola direzionale)? Racconta».
- Collega-A: «Queste riunioni non servono a nulla!».
- Collega-B: «Nulla… quale momento di quella di oggi è per te inutile?».
- A: «Mah… quando abbiamo visto le slide della sede francese, ho pensato che
sono storie che conosciamo già e non ci servono».
- B: «Cosa sapevi già, in particolare?».
Nell’esempio dei colleghi una parte della negatività è emersa e il “B” può
lasciare la via di metodo (indagare) e portarsi sulla via di merito (rispondere dal
suo punto di vista): «Sono d’accordo con te», oppure «non sono per niente
d’accordo con te».
Proviamo. Applica la parola chiave e direzionale e non abbatterti se ti sembra di
sbagliare o, anche, se ti sembra un modo finto: non è così, è solo nuovo perché
non ci sei abituato.
Passi concreti
Dopo l’esplorazione con parola chiave e parola direzionale occorre ritornare sul
piano della soluzione, attivando le soluzioni tramite i passi concreti. Cosa sono? I
fatti possibili, le misure operative da apportare, le azioni da effettuare. Le
soluzioni è preferibile istruirle in senso graduale (passo dopo passo) e con la
massima specificità e concretezza. Sono da evitare infatti quei salti eccessivi che
dalla problematicità tendono a saltare verso soluzioni perfette, tutte positive, che
rischiano fortemente di restare solo sulla carta.
Esempi.
- Rosaria: «Sono giù….».
- Marco: «Giù… in quale momento oggi, ti va di dire?».
- Rosaria: «La responsabile non mi considera e incensa sempre le sue cocche e
poi mia madre non si sente bene già da un po’».
- Marco: «Ah comprendo, con la responsabile non va, ma un fatto di questi
giorni?».
- Rosaria: «Ho consegnato un report sull’ipotesi di rassegna di libri storici da
tenere in biblioteca da noi a maggio e non mi ha ancora dato risposta…».
- Marco: «Sì, è come ti fa sentire».
- Rosaria: «Eh come vuoi che mi senta, male».
- Marco: «Sì… che ne pensi, forse puoi farti sotto tu?».
- Rosaria: «Bah, ha sempre altre priorità, lei!».
- Marco: «Perché non provi a prenderla in un momento di calma, non so, a fine
mattina o l’inizio del pomeriggio… che ne dici?».
- Rosaria: «Potrei farlo alle due quando rientra!».
- Marco: «Sì è una buona idea, prova da qui a tre giorni!».
I passi concreti sono frasi mirate all’agire, calate nel contesto, che integrano i
punti di vista differenti, pongono precedenze operative. Nell’esempio di Rosaria
come possiamo vedere, si è passati dal generico «sono giù» a «potrei incontrarla
alle due», nel volgere di soli pochi turni di parola.
Proviamo. Sviluppare passi concreti è una competenza pragmatica importante,
di un’idea infatti è bene allenarsi a individuare le piccole azioni concrete fattibili e
progressive verso una sua più piena realizzazione.
Allenati a sviluppare passi concreti, piccoli passi possibili sia con te che con
l’altro.
Patto di capacità negativa
Devo ammettere che tra i metodi allestiti in questi anni questo è quello che
resta più inapplicato dai gruppi dove solitamente opero. Molti allievi, clienti o
amici mi dicono spesso che sono troppo avanti, sarà! Ma la cosa non mi conforta
più di tanto. Il patto di capacità negativa è un accordo preventivo da fare in
gruppo o in famiglia prima che i problemi si manifestino, è una promessa
reciproca che i membri si fanno, a seguire l’esplorazione, anziché la ricetta. Il
patto è preferibile stringerlo in un momento di calma e ordinarietà.
I passi:
- impegno a non negare la negatività;
- spazio all’indagine e non alle sentenze;
- sforzo nel riconoscere responsabilità ed evitare i processi;
- ambiente interpersonale franco e diretto;
- ricerca e focalizzazione nelle soluzioni costruttive.
Proviamo. Problemi, conflitti, malessere ed errori sono di natura sistemica e
vanno affrontati coralmente, evitando la deriva delle reciproche accuse o del
capro espiatorio. Il patto propone il metodo dell’esplorazione come capacità più
qualificata per andare alla costruzione di nuove soluzioni. È anche vero che
conflitti e malessere sono cicloni, che tendono a spazzare via quello che
incontrano. Da qualche parte occorre tuttavia iniziare.
Proteggersi dalla negatività alta (due scale di negatività)
Quasi tutti gli episodi di negatività in un luogo di lavoro o a casa sono a mio
avviso aggregabili nella negatività che da qualche anno ho denominato “bassa”,
in cui il contrasto o la passività, la rabbia e l’intero ventaglio di condotte negative
resta nell’alveo dell’aggressività dissonante, senza debordare verso
comportamenti antisociali più intensi.
Abbiamo detto della negatività “bassa”, ora per fare un po’ di ordine possiamo
dire che la negatività “media” si presenta con enfasi distruttive ma sempre dentro
binari sociali minimi, mentre nella negatività “alta” fanno esordio forme di
devianza e aggressione fisica, in cui ogni tipo di binario sociale si interrompe.
Ecco le voci di una possibile classificazione delle tre negatività:
- negatività bassa, in caso di: problemi, conflitto, malessere, errori, incertezza,
critica, passività, negazione, lamento, malinteso, vergogna, diffidenza, barriera,
cinismo, confusione, pettegolezzo, dogmatismo, moralismo, opposizione,
chiusura, inibizione, apatia, divagazione, ira, stizza, offesa, stress;
- negatività media, in caso di: disturbo costante, trinceramento oppositivo,
insulto occasionale, insinuazione subdola, critica squalificante, essere sempre
contro, squalifica sistematica, esaurimento emotivo;
- negatività alta, in caso di: critica umiliante, illazione aggressiva, sgarbo, furore,
odio minaccioso, usurpazione, aggressione fisica, devianza, violenza fisica,
distruzione oggetti e cose, danneggiamento beni, boicottaggio aggressivo,
condotte antisociali, mobbing, furto, inciviltà.
È importante saper calibrare le risposte, come da schema seguente.
Negatività bassa
Negatività media
Negatività alta
Capacità negativa
Sveglia
Protezione buona
Nella negatività “bassa” ci sono buoni spazi per l’interazione, in quella “media”
lo spazio per una qualche interazione è ancora possibile, nella negatività “alta”
l’interazione diviene pregiudicata, lo spazio di ragionamento azzerato sfocia in
aggressioni verbali e fisiche, per cui dobbiamo trovare metodi adeguati a ogni
singolo evento.
La sveglia (fronteggiare la negatività media)
In un’interazione aggressiva, alterata, ma con qualche spiraglio aperto,
possiamo agire questo strumento. Il punto focale qui è dato dall’evitare
l’escalation distruttiva, prendendo tempo e agendo una tensione attiva con
movimenti corporei rapidi e vigorosi, un portamento che viene chiamato sats91. I
passi:
- attivare la molla (mobilizzare il corpo, stare all’erta);
- giocare il problema tra sé e sé (essere riflessivi, farsi domande);
- esplorare, indagare (domandare, usare la parola chiave);
- rispondere, dichiarare (accordarsi e/o respingere).
Illustriamo meglio i passi:
- attivare la molla, avviare un respiro consapevole, radicarsi con postura e
gambe (grounding92), mettere autorevolezza nel tono corporeo, stare all’erta,
vigilare, usare cautela; qui è fondamentale non rispondere di getto e soprattutto
dare tono attivante, darsi una “sveglia” in particolare nel corpo;
- giocare il problema tra sé e sé, attivare una ricezione possibilista che tiene
aperto uno spiraglio, un pensiero “forse sì, forse no”, nel cosiddetto dialogo tra sé
e sé, astenersi da reazioni, evitare di definire e risolvere subito, è importante
ascoltare, cercare di cogliere le reali questioni in gioco, evitare e contenere
pensieri ossessivi, altra aggressività;
- esplorare, indagare, il ricevente accoglie la protesta e attiva la tecnica della
parola chiave («dici che sono stato disattento») e della parola direzionale («…
forse in quei giorni dei nuovi clienti, o quando?»), fare domande mirate;
- rispondere, dichiarare, il ricevente esprime la propria idea e posizione con
buona energia e con tre accortezze: prova a condividere il più possibile; lascia
aperto uno spiraglio di non soluzione immediata; se necessario, fronteggia la
negatività smentendo, contrastando con frasi brevi mirate ai fatti.
Esempi. (Scontro tra colleghi)
- A: «Ma tu mi pigli in giro!».
- B: «Ti piglio in giro, mhm… forse quando ho detto che volevo cambiare turno e
non l’ho più cambiato… o quando?!» (attivare la molla).
- A: «Fai sempre così, cambi idea continuamente».
- B: «Sì, ma puoi essere più preciso?» (giocare il problema).
- A: «Fai quello che ti pare nel nostro gruppo, non te ne frega nulla a te!».
- B: «Un episodio di questi giorni?» (esplorare).
- A: «Sì, il turno di lunedì!».
- B: «Allora, ti dico la mia… sì forse hai ragione, cerco di darmi da fare e non
guardo troppo gli altri, tuttavia il turno di lunedì l’ho richiesto al direttore nella
trafila consentita, non vedo qual è il problema» (rispondere, dichiarare).
Proviamo. Allena la molla, ovvero corpo, pensieri e parole rapidi, pronti e
vigorosi.
Protezione buona (fronteggiare la negatività alta)
Abbiamo già visto come nella negatività “alta” lo scambio sia impossibile, i
canali del ragionamento sono disattivati, agiscono in noi processi chimici ed
elettrici molto potenti. Qui il punto cruciale diviene sapersi proteggere e saper
chiudere rapidamente, gestendo solo il contenuto essenziale, perché il resto è
bruciato. Che fare? I passi:
- contenuto solenne: stare su un solo contenuto e non muoversi da lì;
- puntellamento: postura tonica, stare all’erta, usare cautela.
Nella gestione della negatività “alta”, il ricevente ha due priorità: la prima
riguarda la verifica se nello scambio c’è un punto concreto che si può definire; la
seconda è data dall’attenzione alla protezione di sé, sia fisica che psichica e dalla
chiusura rapida dell’interazione, un congedo rispettoso e fermo. In questo caso il
ricevente si frena, evita la dispersione delle energie e si autocongeda nella
ritirata93.
Illustriamo meglio i passi:
- contenuto solenne, ripetere e ripetere una sola cosa, nel cosiddetto “disco
interrotto”, non c’è spazio di chiarimento, non c’è spazio mentale, c’è una forte
chiusura cognitiva, occorre stare su un solo contenuto e su questo va chiuso lo
scambio; turni asciutti e lapidari, poche parole (le parole sono germi infetti); non
tendere all’eleganza, alla coerenza, ma tentare di essere sufficientemente
adeguato alla difficoltà.
- puntellamento, rinforzare la postura, che sia radicata, vitale, che fronteggia;
mobilizzare tono e corpo; attivare una molla corporea con una piccola spinta in
avanti; contatto col respiro; sgranare gli occhi; mettere autorevolezza
richiamando una sana tensione muscolare; stare all’erta, vigilare, usare cautela.
Esempi.
(Scontro capo-collaboratore).
- A: «So bene chi le ha dato l’incarico e il posto!…».
- B: «Ciò mi arriva come un’offesa» (puntellamento col corpo).
- A: «Gente come lei si può solo offendere!!!».
- B: «Gori, parliamo della valutazione negativa di quest’anno» (contenuto
solenne).
- A: «Ah lei vuole proprio distruggermi!».
- B: «Gori, ripeto, parliamo della valutazione 2013» (contenuto solenne).
- A: «vuole davvero distruggermi!».
- B: «Gori, la valutazione 2013» (contenuto solenne).
Proviamo. Se lo scambio dovesse precipitare nelle offese, a mio avviso il
ricevente farebbe bene a chiudere e aggiornare. Se lo spiraglio invece si aprisse
leggermente, lo scambio dovrebbe essere comunque breve, fatto di pochissime
cose, frasi corte e molto mirate.
Non peggiorare quello che è già negativo
Noi formatori abbiamo un grande merito che è quello secondo me di divulgare
contenuti molto forti nella direzione delle competenze sociali e manageriali in
genere. Ma abbiamo anche un limite, che è quello di immaginare le persone e i
gruppi come tutte rivolte ad apprendere, costantemente in cambiamento e
attratte dal miglioramento continuo e dal senso di eccellenza. Fossero così
sviluppate queste belle cose.
Sono abbastanza convinto invece che alla negatività non ci sia mai fine e che
per un “adulto buono”, un “genitore buono” e un “lavoratore buono” in molti
frangenti non si ponga tanto il fatto di eccellere, ma quello di non declinare verso
il negativo del negativo. Adultità e competenze mi piace vederle in questo spettro
più ampio, in una scala che comprende le grandi negatività e dall’altra le grandi
positività.
Risposta flessibile
Esistono risposte automatiche, come le stiamo già studiando, nelle quali alla
rabbia si risponde con rabbia, alla negazione con altra negazione, ma esistono
risposte che provano a interrompere questa negligente interazione. La risposta
flessibile fronteggia la negatività “bassa” e “media” mettendo più capacità di
riflessione, esplorazione, moderazione, tutte virtù che evitano esiti peggiorativi e
inconsulti. Nella flessibilità accogliamo la negatività con tolleranza e voglia di
capire, mettendo un po’ da parte i punti di vista estremi e distruttivi.
Esempi.
(Scuola)
- Studente: «l’inglese, prof, non serve a niente!».
- Insegnante: «Non serve a niente… ovvero? Cosa te lo fa dire?».
- S: «Ma se ne fa troppo poco, chi va a Londra non spiccica parola».
- I: «Ah troppo poco, la difficoltà per te è avere una base minima utile per
viaggiare, è questo?».
(Famiglia)
Figlio: «I miei amici odiano tutti».
- Genitore: «Odiano tutti, cosa vuoi dire, spiegati…».
- Figlio: «Ma sono lessi e all’improvviso gli scatta una rabbia assurda».
- Genitore: «Rabbia dici, ma rispetto a cosa o a chi? fammi capire».
- Figlio: «Sai che sono “fogati” di calcio e musica house».
- Genitore: «A te come ti fa sentire, perché poi gli vuoi bene, giusto?».
(Azienda)
Collega-A: «Qui ognuno fa quello che gli pare e i clienti si lamentano poi».
- Collega-B: «A cosa ti riferisci nello specifico?».
- A: «Ma guarda ora, periodo di influenza, chi si mette a casa per dieci giorni
senza avere nulla».
- B: «Sì, dici, mancano spesso tuoi colleghi o cosa?».
- A: «Da me ne mancano tre e siamo in sei in tutto».
- B: «Hai molto più lavoro da fare?».
Proviamo. Alla negatività evita di rispondere con disattenzione, con negazione o
con altra negatività. Prima invece occorre che ti prodighi a comprendere, questo
è il senso della risposta flessibile.
Distanza personale
Ognuno di noi ha uno spazio personale psicologico al fine di interagire con gli
altri, uno spazio che è stato chiamato “zona cuscinetto”. Molti studi sostengono
che si formi fin dai primi anni di vita, ma la sua strutturazione diventa stabile solo
nel periodo puberale. La finalità della zona cuscinetto è la costruzione di forme di
difesa per graduare le interazioni con l’esterno, una specie di “seconda pelle”.
Una ristretta zona cuscinetto di solito riguarda persone aperte e fiduciose,
un’ampia zona cuscinetto invece individui che nutrono titubanze nell’espressione
di sé, ma queste non sono considerate categorie fisse e assolute.
La cosa importante da rimarcare all’interno di episodi negativi è che la nostra
capacità di distanza si mobilizzi, sia fluida e flessibile, un po’ come un mantice di
fisarmonica che si apre e si chiude. La capacità di variare la distanza personale ci
permette due cose:
- il controllo dell’aggressività, garantito sia dall’affermazione di sé che dalla
difesa della propria individualità;
- la modulazione, scegliere di entrare o non entrare in rapporto con l’altro.
Prendere tempo
Abbiamo detto del “terzo tempo” come quella capacità di ricucire a posteriori
una relazione, ripartendo da un’attitudine riparativa per ritornare a uno stato
normale dopo che si era rotto o deteriorato. Prendere tempo invece è un’altra
abilità che possiamo agire nel vivo della negatività, nel pieno di uno scontro o
diverbio.
La presa di tempo è un modo utile per non farsi travolgere dalla veemenza della
negatività, che si presenta con toni accesi e contagiosi: una grande virtù. All’altro
possiamo sembrare distaccati e altezzosi, di certo, ma anche questo possibile
attacco è preferibile farlo scivolare. Abbiamo già visto molti strumenti che
possono venirci in soccorso per prendere tempo, li riepilogo:
- filosofia del rispetto, quale grado di attenzione e di ridotto giudizio;
- ascolto buono e ascolto attivo;
- richiesta parere e rimando, capacità di prospettiva dell’altro;
- griglia aperta, non assillo e presa di tempo;
- parola chiave e parola direzionale, capacità di esplorazione e indagine;
- risposta flessibile, tentativo di comprensione e indagine;
- distanza personale e zona cuscinetto, modulare apertura e chiusura.
Proviamo. Qui l’appello che ti faccio è nei confronti del tuo cervello alto
razionale, davvero il fulcro su cui puoi far leva per non farti inondare dai fenomeni
emotivi illustrati. Ricordo che nel cervello razionale c’è la sede del linguaggio
(emisfero sinistro), per cui è fondamentale che anche tu possa diventare una
persona competente nella comunicazione, la parola se dosata può infatti aiutare
nell’integrazione di ragione ed emozione, oltre che metterci al riparo da i
frequenti battibecchi.
Il pianto
Si piange nelle situazioni e per i motivi più disparati. Chi più chi meno,
piangiamo di gioia, sollievo, soddisfazione, oppure di dolore, per un lutto, un
fallimento, un conflitto, una delusione. Si può piangere di rabbia, per
un’umiliazione subita, perché ci si sente in colpa. Le lacrime possono esprimere
quindi tantissime cose, dalla richiesta di aiuto a una protesta o un’accusa. In
questa parte del libro dedicata alla negatività mi sembra importante citare il
pianto, un’espressione umana assai controversa, ma comunque importante e
molto attinente a questa area.
Alcuni studi e la nostra viva esperienza quotidiana rilevano che le persone si
sentono “meglio” dopo aver pianto, a causa dell’eliminazione di ormoni associati
allo stress. Anche altre secrezioni di chimiche del corpo utili ci suggeriscono una
teoria per cui il pianto è un meccanismo sviluppato nell’uomo per gestire lo
stress, come tentativo di riequilibrio quando superiamo livelli elevati. Altri studi
evidenziano invece la stretta connessione tra pianto e percezione di debolezza,
quando infatti viviamo momenti di vulnerabilità e incertezza il ricorso al pianto è
più frequente.
Personalmente ci sono periodi che il pianto lo sento nella mia faccia, come se
stesse covando… e mi viene sempre l’immagine della mia mamma, quale
approdo sicuro a cui affidarmi. Da quel pianto potenziale poi di solito non ne
faccio nulla: morale della favola, anche piangere è difficile (potrò facilitarlo?).
Proviamo. Piangere è un’attività così intima e personale che non richiede nessun
consiglio e nessuna regola, ma un paio di cose mi sento di aggiungerle: la prima
è che puoi scegliere con chi condividere un momento in cui lasciarti andare,
optando per una persona che ti dà fiducia e sensibilità; la seconda è che se
piangi, mi raccomando, non metterti nello stato d’animo di chiedere scusa a
qualcuno.
Aiuto di un terzo
In molti episodi negativi, in una crisi di coppia, in un’associazione che fa fatica
perché al suo interno si sono formati due gruppi contrapposti, in certo cinismo in
un team di lavoro, l’aiuto di un terzo può avere effetti molto importanti che ne
velocizzano gli sviluppi e le soluzioni.
È stato infatti sperimentato che una persona “terza”, non implicata, produce un
grosso effetto di agevolazione tra le parti. Con la presenza di un facilitatore,
persone e gruppi si sentono più liberi di esprimere le loro negatività, prerogativa
che rende più fluido e meno macchinoso il raggiungimento di obiettivi. La terzietà
è difatti il tratto distintivo della facilitazione, lo “stare in mezzo” tra le parti e tra
le persone. È assumere una equa vicinanza, equa imparzialità, equo aiuto.
Ma da soli, adulti capaci e intelligenti non ce la fanno? La negatività è talmente
frequente, di tutti, dappertutto – e così evidente nella realtà – ha un’azione che
Jerome chiamava “effetto carrarmato”, ovvero, non è tenue o gentile, bensì
invadente, contagiosa, pesante. Noi tutti quando siamo in coppia, famiglia, gruppi
non ci rendiamo conto di tanti nostri comportamenti, di tanti automatismi
aggressivi e/o passivi che agiamo. Per questo motivo da soli non ce la facciamo,
servono facilitatori.
Allenare la mente (F4)
Siamo giunti alla quarta funzione facilitatrice (F4), quella che propone il lavoro
sulla nostra mente, quale soglia cruciale per il miglioramento della nostra vita:
salute mentale, attenzione, flessibilità, adattamento costruttivo, vitalità,
maggiore coerenza tra quello che siamo e quello che intendiamo diventare,
bellezza, autorealizzazione.
Curare sé e aumentare l’attenzione
Assertività
Dal latino assèrere, composto dalla particella ad indicante scopo e da sèrere che
sta per “intrecciare” e quindi per “discorrere”, intendendo discorso come “parole e
concetti intrecciati”. Il significato di assèrere è, per estensione, anche quello di
“annettere a sé” e quindi “far proprio” da cui il senso figurato di “sostenere
un’opinione”.
L’assertività è una modalità di comportamento flessibile attraverso il quale
affermiamo i nostri punti di vista senza tuttavia prevaricare quelli degli altri, il
punto di equilibrio tra aggressività e passività. È assertivo dire sia sì che no,
sostenere un elemento positivo o anche uno negativo.
Gli elementi costitutivi dell’assertività sono: - difesa dei diritti, capacità di
rifiutare richieste irragionevoli;
- capacità di iniziare e portare a termine le interazioni sociali, con fluidità e a
proprio agio;
- espressione dei sentimenti, capacità di comunicare sentimenti positivi
(assertività positiva) e negativi (assertività negativa);
- abilità nel risolvere problemi e soddisfare personali bisogni e quindi saper
avanzare richieste, favori, offerte;
- indipendenza, capacità di resistere a pressioni nella direzione del conformismo,
dando voce a proprie credenze e opinioni.
Proviamo. Assertività, un altro libro dei sogni? In parte sì, tuttavia trovo un
punto importante in particolare, ovvero, l’importanza di affermare sé pur nel
rispetto dell’altro. Ecco, questo a mio avviso è il fulcro “buono” dell’assertività che
possiamo applicare.
Io-assertivo (l’importanza del proprio punto di vista)
Con la prospettiva sé-altro miglioriamo l’interazione, preferendo il cambio di
turno al monologo, aggiungendo alla sola prospettiva personale anche la
prospettiva dell’altro. Qui sopra abbiamo visto come la richiesta di parere e fare
domande sviluppino infatti una buona centratura sull’altro, ora il cerchio va
chiuso, aggiungendo una seconda centratura, quella su di sé.
L’io-assertivo è proprio quella capacità specifica che ci può puntellare
nell’affermazione di sé, nell’espressione delle nostre ragioni e convinzioni, quando
possiamo affermare il nostro punto di vista, in alternanza col punto di vista
dell’altro. Io-assertivo: io penso, io sento, io dico, io agisco è frutto di un buon
contatto col sé personale, con le nostre caratteristiche e il nostro temperamento.
Tante volte di più che in passato quindi, ci possiamo ritrovare a comprendere a
pieno le ragioni del collega o della moglie, ma al tempo stesso a tenere strette le
nostre ragioni e convinzioni. È assertività difatti riconoscere che io posso avere la
mia ragione e tu la tua ragione94.
Esempi.
(Scuola)
Insegnante: «Luca, capisco che tre interrogazioni in una settimana sono troppe,
ma ho ragione anch’io nel dirti che non possiamo rimandare ancora, la scuola sta
chiudendo! Ti chiedo di confermare la verifica per mercoledì!».
(Coppia)
- A: «È incantevole l’idea di una vacanza a Ischia».
- B: «Sì certo, a me però viene voglia di un trekking sulle Dolomiti».
(Azienda)
- A: «Puoi darmi uno dei tuoi sabati? Ho problemi a casa».
- B: «Comprendo, tuttavia non posso, ho anch’io situazioni critiche fuori dal
lavoro».
(Università)
Studente: «Quest’anno non voglio ridurmi a fare le corse prima degli appelli di
esame, inizio da subito a studiare!».
Proviamo. In una giornata calcola quante volte affermi “io”. Se superi le dieci
volte, puoi cercare di non andare oltre e puoi coniugare qualche “tu”, se sei sotto
invece formula più frasi che iniziano con “io”.
Messaggio-io
In alcuni casi assumere il nostro punto di vista ci può esporre in maniera anche
difficile, ma è certamente una buona strada per diventare autorevoli e anche
rispettosi.
Per esempio, a fronte di un disagio o a un errore dell’altro, invece di criticarlo in
“seconda persona” (tu), per rilevare le sue colpe o mancanze, è possibile
cambiare e affermare il nostro disagio in “prima persona” (io).
Stare sempre sull’altro in questo caso è improduttivo, perché quello che un noto
psicologo chiamò “effetto clacson”95 crea una cascata eccessiva al quale l’altro
risponde con indifferenza o negazione.
Il messaggio-io, invece di fissare sull’altro le colpe con modalità razionale, tende
a manifestare il proprio stato d’animo inerente la vicenda.
I messaggi in prima persona sono di solito più efficaci perché sono messaggi di
assunzione di responsabilità che tendono a limitare gli effetti negativi su chi li
riceve. Occorre quindi evitare l’effetto clacson «tu non vai bene», «tu non studi»,
«tu sei in ritardo», che produce solo un’insistente pesantezza, e privilegiare i
messaggi-io molto più efficaci.
Queste indicazioni possono giungere nuove per molti, in base all’educazione
ricevuta, in cui per esempio possiamo aver avuto il divieto a usare il pronome
“io”, o ancor peggio, l’ammonimento a esporre i propri sentimenti perché segno
di debolezza.
I passi:
- il messaggio-io si costruisce sulla sequenza: comportamento negativo, effetto
tangibile, sentimento provato;
- esposizione di cosa provoca il problema, descrizione oggettiva dei fatti:
«Abbiamo continue interruzioni per i cellulari»;
- aggiunta dell’effetto e della ricaduta su di sé: «Le decisioni diventano vaghe»;
- espressione del sentimento: «Mi fa sentire sospeso, arrabbiato».
Messaggio-Tu
Messaggio-Io
«Quando ti vedo a letto fino a tardi (comportamento), penso
«Francesca, ti alzi tardi, non
ai tuoi esami (effetto) e mi sento molto preoccupato
studi, non fai nulla in casa…».
(sentimento)».
«Sandro, tu non mi aggiorni sul
«Quando sono nell’incertezza per un lavoro
lavoro, tu non rispondi alle mie (comportamento), mi sembra di non andare avanti (effetto) e
mail, tu sei distratto!».
provo tanta precarietà (sentimento)».
«Per le assenze in associazione (comportamento), non
«Voi non date nessuna garanzia
riusciamo a seguire i nostri programmi (effetto), la cosa mi fa
e sicurezza!».
sentire teso e stanco (sentimento)».
Proviamo. Allenati a tradurre il clacson-tu in messaggio-io, in cui provi a portare
attenzione a cosa senti, a esprimere come il comportamento dell’altro produce su
di te vissuti e sentimenti. È un buon esercizio per allenare la mente e la tua
mente può imparare anche attraverso un semplice esercizio linguistico.
Momento presente
L’evento più deleterio che non di rado ci capita è quello del sequestro emotivo,
nel quale sorge in noi un’emozione che non registriamo con attenzione
consapevole e che dunque ci sequestra, ovvero, ci attiva reazioni corporee
indesiderate. Per evitare questi frequenti decadimenti, la pratica del vivere il
momento presente è molto adatta e di aiuto fondamentale.
È la pratica della consapevolezza (detta anche mindfulness) che ha a che fare
con particolari qualità di attenzione che possono essere coltivate e sviluppate
attraverso metodi di concentrazione e meditazione. Da un punto di vista delle
scienze del comportamento la mindfulness può essere pensata come una
disciplina della coscienza. Sono moltissime le ricerche scientifiche che confermano
gli sviluppi positivi cerebrali e dei comportamenti nei soggetti praticanti96.
Possiamo fare esercizio di presenza consapevole quando si apparecchia la
tavola, quando mangiamo, quando laviamo i piatti, quando facciamo le pulizie in
casa e ancora, nell’orto, tagliare l’erba, lavarsi i denti, farsi la doccia, giocare coi
bambini e un po’ sempre; dare attenzione e presenza a una qualsiasi attività ha
l’effetto di arricchirla, renderla più viva, brillante, reale.
I passi concreti:
- fermarsi per ascoltarci, sintonizzazione con sé, pratica di silenzio e meditazione
(assumere una posizione corporea comoda e seduta senza far niente, chiudere gli
occhi, far fluire i propri pensieri);
- si sviluppa uno stato mentale e modalità dell’essere non orientata a scopi, il
cui focus è permettere al presente di quel momento di dispiegarsi così come è;
- si può anche esercitare la stessa modalità di presenza tramite pratiche
informali, di ascolto e connessione col corpo e i pensieri, per esempio al primo
risveglio, quando saliamo in macchina, quando programmiamo la giornata in
corso, quando siamo sul lavoro, quando pranziamo, quando ritroviamo le persone
care la sera;
- possiamo anche ascoltare il nostro corpo, cercando di contattare la nostra
interezza così come siamo in quel momento presente.
Proviamo. Alcune idee per praticare: incomincia a documentarti sulle pratiche
meditative97, ce ne sono di molto diverse, quelle laiche vanno più che bene. Poi
fermati qualche volta durante il giorno, pochi istanti in cui non farai niente e
portarai l’attenzione sul respiro.
Essere riflessivi, autocriticarsi, valorizzarsi
Interrogarsi
Abbiamo visto quanto sia importante formulare domande all’altro, per sviluppare
attenzione e curiosità costruttiva. Possiamo rivolgere l’attitudine di fare domande
anche a noi stessi, per raggiungere altrettanti buoni risultati.
Farsi domande, aumentare la capacità riflessiva, di dialogo interno è una buona
cosa.
Di solito frequentiamo il verbo usando significativamente il modo indicativo («è
così») e imperativo («si deve», «muoviti») ma non diamo altrettanta attenzione
all’interrogativo: quindi, farsi domande, chiedersi impressioni, sensazioni, dare
fondo alla propria unicità è un modo utile per coltivare sé e contenere la trappola
assai diffusa in giro di avere sempre pronta la verità in tasca.
Esempi.
- «Mi ascolto, ho più paure o stimoli positivi?»;
- «Sento la sua distanza, da cosa è provocata? Cosa sto mettendo io?»;
- «Il capo è particolarmente gioviale con me, cosa è successo di buono in questo
periodo?».
Proviamo. Qui l’esercizio è evidente: cerca di non avere sempre la risposta
pronta, di non voler avere sempre ragione, prova altresì a farti domande, rifletti,
tieni presente che determini le tue azioni, anche se è così facile attribuirle spesso
solo agli altri.
Raccolta di dati su di noi (feedback proattivo)
Proattivo significa che parte da noi senza che il contesto circostante lo abbia
richiesto o normato, quindi essere proattivi significa seguire oltre alle regole
esterne, anche regole interne, in senso di autonomia, dignità e
automiglioramento. Il feedback proattivo è la richiesta di un parere su di noi che
formuliamo all’altro su nostra iniziativa. Visto che ci mettiamo un po’ nelle mani
dell’altro, chiedendogli un parere su di noi, conviene effettuarlo con persone
selezionate e quando stiamo bene nelle buone giornate.
In questi anni come formatore ho provato in alcune classi con la semplice
richiesta che mi dicessero cose positive e negative della mia conduzione.
Ho effettuato feedback proattivo anche coi miei lettori sui libri pubblicati,
chiedendo quali parti fossero utili, scritte bene e quali no e ho raccolto molti
buoni spunti. Infatti, se intendiamo crescere professionalmente e personalmente
più in fretta, a mio avviso, il feedback proattivo è lo strumento adatto. Una sola
attenzione, se alla nostra richiesta l’altro dovesse iniziare una sequela troppo
negativa, possiamo invitarlo a concludere dicendogli: «Sento che posso sostenere
solo poche cose, ti ringrazio».
Esempi.
(Lavoro): «Il report che ho scritto come ti è sembrato? Dimmi pure le parti
buone e quelle no».
(Classe): «Come vi sembrano, ragazzi, le mie lezioni, qualche parere?».
(Associazione): «Come vi sembra la mia azione di presidente?».
(Coppia): «Come mi vedi in questi giorni?».
(Amiche): «Come mi sta il nuovo taglio di capelli?».
Proviamo. Puoi intanto iniziare a fare feedback proattivo con una persona fidata,
in casa o al lavoro. Così rompi il ghiaccio e ti alleni per feedback più difficili, se
vorrai attivarli.
Autocritica
Nel frequentare di più e meglio la prospettiva sé-altro, abbiamo visto che si
intercetta più spesso il parere altrui, ecco, in questo andirivieni di messaggi ci
può venire più facile vederci un po’ come ci vede l’altro: un panorama fortemente
diverso rispetto a quello ammirato dal nostro individuale punto di vista.
Proprio perché possiamo vederci un po’ anche dall’esterno, ci possiamo
accorgere anche di aver sbagliato o che l’altro non ha poi così torto: il passo
verso l’autosservazione è breve. Ecco allora che l’autocritica può avvenire, portare
cioè alla persona interessata un punto di criticità che noi abbiamo prodotto. Se
l’altro poi, per suoi motivi, volesse esagerare infierendo, sta a noi confermare
solo l’oggetto di autocritica e non esporci di più.
Esempi.
(Azienda): «Ieri sera ho riflettuto sull’agitazione provocata nel pomeriggio e mi
sono reso conto di aver esagerato, scusatemi».
(Coppia): «Hai ragione quando mi dici che sono un orso, che mi chiudo con tante
paure, mi rendo conto quanto posso condizionarti…»
(Associazione): «Ho riflettuto sulle mie frequenti assenze alle riunioni, è vero
che sono discontinuo e mi scuso con voi».
Proviamo. L’autocritica non è una tecnica, o meglio è un po’ tecnica ma anche
scelta personale.
Per cui ognuno la agisca quando e se se la sente. Nel frattempo tuttavia, il
punto saliente è dato dall’attivazione assidua di un ponte “io-tu-io-tu” che
avvicina e scambia le prospettive, è sano mantenere la propria idea e non
svenderla all’altro, come è anche sano non barricarsi nella propria in senso
difensivo. Ecco, l’autocritica, dentro questo stile relazionale, può scaturire con
maggiore fluidità, senza obblighi e forzature.
Approfondimento (capacità di senso)
In molti momenti di un’interazione è bene che i soggetti possano rinforzare un
dato valore, credenza, contenuto altrimenti sopito e annebbiato, con brevità e
concretezza. La capacità di senso è lo strumento che prova a esplicitare il proprio
punto di vista con un’emissione imperniata su un punto focale a cui si crede
molto.
Esempi.
(Cooperativa sociale): «Fra due mesi la segreteria si sdoppia in due segreterie
territoriali […] il senso che io vedo è nello stare più vicino ai nostri utenti, più
vicino vuol dire più a disposizione loro per i servizi di sostegno e cura».
(Associazione): «Da noi la gente si aspetta una sola cosa, la garanzia sulla
salute, ovvero un ambiente che garantisce la vita a sé e ai propri bambini, salute
vuole dire possedere le risorse umane per stare con rispetto all’interno di una
comunità più allargata».
(Famiglia): «Prima di ogni nostro pasto ci diamo la mano per ringraziare del
cibo, chi l’ha prodotto e il pianeta che ci ospita tutti».
Proviamo. Oltre alle emozioni sono importanti anche i ragionamenti e i valori
culturali.
Prova in alcuni momenti a esprimere un punto in cui credi e che è buono
comunicare.
Autoefficacia
È la convinzione nelle proprie capacità, nel poter organizzare e realizzare le
azioni necessarie per gestire bene le situazioni e raggiungere i risultati
prefissati98.
Le convinzioni di efficacia ci influenzano nella razionalità, nei sentimenti, nelle
relazioni e nelle azioni. L’autoefficacia comporta un controllo dei fattori di stress,
trasforma mentalmente le situazioni minacciose in situazioni sostenibili, controlla
e modera l’ansia e la depressione, promuove modalità di comportamento efficace
per rendere affrontabile un ambiente critico.
Esempi. Qualche spunto concreto in materia di autoefficacia:
- gestire la frustrazione se intorno non si avverte il consenso desiderato;
- non buttarsi giù in seguito a un fallimento o a una pesante critica;
- contenere lo scoraggiamento di fronte alle avversità;
- controllare l’agitazione in situazioni di stress;
- elaborare la rabbia per un diniego o una risposta negativa;
- superare l’irritazione per torti subiti.
Valorizzazione e autostima
Volenti o nolenti siamo continuamente sotto esame, rispetto al nostro giudizio o
a quello di altri, a canoni ideali o in merito a un compito specifico. Per questo una
corretta e sostenibile valutazione di sé è una componente essenziale del nostro
benessere psicologico e sociale. L’autostima è quindi la stima che nutriamo per
noi stessi, il grado di valutazione positiva che attribuiamo alle nostre stesse
capacità.
Scrive Argyle,99 noto psicologo sociale: «L’autostima rivela la misura in cui una
persona approva ed accetta se stessa e si ritiene degna di stima, sia in termini
assoluti che in confronto ad altre persone». E al pari dell’identità personale,
l’autostima ha sia un nucleo stabile che un corollario di autovalutazioni
periferiche, maturate nelle diverse relazioni in corso nei molteplici contesti di
appartenenza (famiglia, coppia, lavoro, amici, società).
Esempi.
Qualche punto a corredo:
- è il rapporto tra “sé percepito” e “sé ideale”: il primo è frutto di considerazioni
presenti all’interno della propria vita, il secondo è invece l’idea di come si
vorrebbe essere;
- può scattare bassa autostima nel momento in cui il nostro sé reale non riesce a
raggiungere il livello del sé ideale e quando diviene più grande la discrepanza tra
i due;
- se tendiamo a svalutarci, ci sentiamo troppo lontani da come desideriamo
essere, il nostro modello ideale ci appare troppo lontano e irraggiungibile e ne
soffriamo;
- L’autostima, influenza l’autoefficacia, il tono dell’umore, le relazioni affettive e
in generale influenza la realizzazione nella vita.
Proviamo. Quante volte ci sarà capitato di sentirci dire «non hai fiducia in te»,
«non sei consapevole delle tue potenzialità», oppure «ma chi ti credi di
essere…». Tutti quadretti dove rientra il tema dell’autostima. Inizia a valutare di
te le forze e le debolezze, mettiti lì su un quaderno, al computer, o pedalando in
bicicletta e tira fuori almeno cinque difetti e cinque qualità.
Stare nelle emozioni, autoapertura, intelligenza emotiva
Sfumature di rosso
Il contenitore complesso che include il nostro mondo emotivo comprende diverse
sfumature di rosso, che è bene conoscere, perché dalla loro conoscenza possiamo
avviare una prima forma di competenza emotiva, che passa da una prima presa
di contatto con loro e noi.
Affettività: il territorio ampio della vita psichica soggettiva che non risulta di
dominio dell’intelligenza e della ragione; rientrano nel campo dell’affettività non
solo i sentimenti e le emozioni, ma anche il dinamismo dell’inconscio, ciò che è
stato rimosso e sfugge alla consapevolezza della persona.
Emotività: indica il profilo di reattività, di impressionabilità e di risposta agli
avvenimenti da parte della persona, per esempio commozione, immediato
turbamento, inalberamento, ira.
Emozioni: la risposta immediata, impulsiva, indifferenziata all’avvenimento o alla
situazione, si tratta di una risposta primitiva, elementare che può procurare
piacere o dolore; le emozioni sono fenomeni di breve durata.
Sentimenti: il sentimento matura in modo autonomo e si separa dalla reazione
emotiva per vivere una vita propria, il sentimento (o umore) ha manifestazioni di
bassa intensità, durevoli o pervasive, senza una causa immediatamente
percepibile, un vissuto che diviene consapevole.
Stati d’animo: sono definiti come emozioni di intensità relativamente bassa e
durata lunga; lo stato d’animo è meno intenso dell’emozione e non promuove
reazioni o impeti corporei.
Emozioni di base: sono le nostre basi animali del sentire, associate all’idea di
piacere (gratificazione) o dolore (punizione).
Impulsi e motivazioni: sono raggruppamenti che ruotano intorno al concetto di
appetito, inteso in senso ampio: fame, sete, curiosità, esplorazione, gioco,
sessualità.
Emozioni di fondo: lo stato generale buono o cattivo.
Emozioni primarie: universalmente riconosciute nelle diverse latitudini dei cinque
continenti, sono primarie perché vissute già nelle prime fasi di vita neonatale:
paura, rabbia, tristezza, disgusto, gioia.
Emozioni sociali: emozioni che si intrecciano in parte con i pensieri, tra cui
imbarazzo, vergogna, senso di colpa, orgoglio, compassione, gelosia, invidia,
ammirazione, indignazione, disprezzo.
Intelligenza emotiva
Intelligenza emotiva, ovvero:
- riconoscere le proprie emozioni e sentimenti più ricorrenti;
- controllare emozioni e sentimenti, nel controllo è molto presente il fattore di
racconto ed espressione nelle relazioni e gruppi;
- essere empatici, comprendere e accostarsi alle emozioni degli altri;
- gestire lo stress, attivando tra le altre cose la capacità negativa;
- essere aperti, incoraggiare aperture, costruire fiducia nei rapporti.
- automigliorarsi, crescere partendo dagli aspetti difficili e complicati.
Proviamo. La proposta è iniziare da uno di questi punti e provare a praticare. Per
esempio inizia col condividere ansie e preoccupazioni e anche sentimenti belli con
una persona della tua cerchia che ti può garantire un buon ascolto senza troppo
giudizio e senza troppe ricette. Potrai così sviluppare un contatto più attento con
cosa provi e in più un’adeguata espressione che l’altro potrà accogliere.
Sosta nelle emozioni
La sosta nelle emozioni è utile per: aumentare l’ascolto di sé, creare una
vicinanza ai propri vissuti emotivi, costruire con altre persone scambi buoni e
sensibili dove provare ad aprirsi e cercare un po’ di profondità.
Nel nostro cervello, come abbiamo già visto, i terminali nervosi delle emozioni
sono concentrati nel cervello emotivo e in particolar modo nell’amigdala.
L’amigdala, delle dimensioni di una mandorla, è un organo che impara
velocemente e dimentica lentamente, entra in allarme frequentemente, è più
veloce e automatica, del cervello razionale. Nell’amigdala la maggior parte delle
cellule nervose è sintonizzata su stimoli spiacevoli, piuttosto che su quelli
piacevoli. Per questo siamo così inclini alla negatività, per questo molta parte del
mondo emotivo che viviamo è indolente e scomodo.
Le emozioni non sono fisime mentalizzate, bensì l’entrata in campo di
funzionamenti corporei inevitabili e automatici, prodotti col concorso di fenomeni
chimici ed elettrici, i visceri, il sistema motorio. Gli effetti si vedono in espressioni
facciali, vocalizzazioni, posture e comportamenti come bloccarsi, alzare le mani,
serrare le mandibole, sgranare gli occhi, ecc. Alle emozioni occorre dare un freno
che le possa raffreddare e anche contenere, rappresentato dal linguaggio e dalle
relazioni.
Esempi.
Possiamo immaginare le emozioni come serrature che si aprono solo con la
chiave giusta:
- una prima chiave possibile è data dall’ascolto di sé attento e tollerante;
- una seconda chiave è data dal racconto a una persona di fiducia che non dà
ricette bensì un ascolto attento;
- una terza chiave, la consuetudine di scrivere su un proprio diario100.
Parola risonante
In alcuni momenti di una giornata o di un periodo abbiamo bisogno di parlare,
tuttavia non partendo dai bisogni (io-assertivo) e neanche dalle difficoltà con
l’altro (messaggio-io), bensì su cosa proviamo e cosa sentiamo in merito a noi
stessi e alla situazione. La parola risonante è una forma di autoapertura, in cui la
persona tenta di esprimere contenuti autentici e sentiti, che non hanno la pretesa
di risolvere o capire, bensì di far emergere qualcosa di nascosto o anche
evidenziare qualcosa di particolarmente significativo, al contempo imperfetto,
non chiaro. Qui è interessante l’impiego di parole non razionali e fredde, bensì
parole semplici e vicine al vissuto, anche l’impiego della metafora può essere
utile. Modalità che prova a integrare il cervello emotivo con quello razionale,
quello che sentiamo (irregolare, confuso, agitato) con quello che capiamo
(lineare, logico, inquadrato).
Esempi.
(Azienda): «Non ho niente chiaro, ma sento in particolare una cosa che mi
impedisce… questo ritmo di lavoro pazzesco mi fa sentire a volte come un ferro
arrugginito, senza corrente e senza vapore, è una sensazione strana… ma ho
bisogno di dirla».
(Associazione): «Le ultime divergenze nel gruppo mi portano a sentirmi
timoroso, come se avessi preso una botta in testa».
(Famiglia): «Quando la mattina uscite senza salutarmi mi sento come dentro
una mandria di animali che sanno solo grugnire o belare e la cosa mi fa sentire
male».
Proviamo. Questo è un metodo obiettivamente più avanzato, per cui ti propongo
di utilizzarlo più avanti. Intanto puoi osservare quanto in momenti importanti la
tendenza in uso sia quella di fare discorsi freddi, teorici, centrati su idealità e
astrazioni, coniugati sul “noi” generico (sintomo di un livello razionale che tenta
di scavalcare l’irrazionalità emotiva). Uno dei punti forti, ricordati, è quello di
integrare alto e basso, avvicinare ragione ed emozione, questi due separati e
distanti fanno grandi danni comunicativi e sociali. Che la razionalità sia un po’ più
morbida e l’irrazionalità un po’ più contenuta.
Buona gentilezza
Essere gentili è possibile e conviene: fa bene alla salute, guadagna simpatie,
crea intorno a noi un clima positivo e sereno. Magari non potremo riuscire a
esserlo sempre, ma farne ricorso con maggiore frequenza può rappresentare una
qualità di vita importante.
La gentilezza, infatti, ci può aiutare a trovare un senso alla nostra esistenza, ci
fa elaborare meglio i guai quotidiani e aumenta il sentimento di benessere con
noi stessi. La gentilezza è una forma di coraggio senza violenza e una forma di
forza senza durezza.
La gentilezza, quando la riceviamo, ci fa star bene, ma anche essere gentili fa
un gran bene.
La gentilezza, un atteggiamento (nutrirla dentro) e un comportamento (portarla
fuori) ci offre vantaggi per la nostra crescita personale, la salute del corpo e della
mente, le relazioni, ma può divenire decisiva anche per l’apprendimento
scolastico, l’efficienza sul lavoro e il successo in genere.
Esempi. Alcune componenti in ordine sparso:
- il calore dell’affetto;
- la bellezza della generosità;
- il sollievo di essere ascoltati e visti per quelli che siamo;
- il sostegno dell’amicizia;
- la meraviglia della gratitudine;
- avere un’attenzione con persone sconosciute;
- usare il garbo nei contatti e nelle relazioni professionali.
Proviamo. Un esercizio che ti suggerisco è di compiere ogni giorno un atto
autonomo di gentilezza: una telefonata, un pensiero gentile, un apprezzamento,
un’attenzione.
Potenziare sé, l’energia e la vitalità
Vitalità e bioenergia (uso globale del corpo)
La vitalità si esprime con un comportamento energico, attivo, rapido, aperto,
coraggioso, con stile assertivo, rispettoso, propositivo. Si possono individuare
quattro tipi di energia:
- energia di movimento (energia cinetica): garantisce attività e lavorìo;
- energia di accumulazione (energia potenziale): acquisizione di dati, notizie e
soluzioni;
- energia di trasmissione (energia termica): vitalità interna da trasmettere nelle
proprie azioni e agli altri;
- energia di reazione (energia chimica): il frutto di un’esperienza psicofisica che
vive nella persona in cui l’energia si genera, si consuma, si gestisce.
Il tipo di energia che abbiamo può darci o anche toglierci la “carica”, dipende
dalla sua mobilitazione nel triangolo composto da cervello, mente e relazioni, che
ogni giorno dobbiamo integrare. Tutto ci fa intendere che l’energia può essere
vista come una connessione di parti differenti e lontane, che però una volta
messe in collegamento sprigionano forza e vitalità. Questa vita che ci si muove
dentro è anche denominata bioenergia101, un fenomeno che ha una molteplicità
di manifestazioni e le sue proprietà principali sono invisibili102. Il metabolismo
energetico di una persona sana è mantenuto da tre condizioni: deve poter
assorbire l’energia di cui ha bisogno; l’energia deve poter circolare liberamente in
modo da essere sempre presente dove è richiesta; la persona deve trovare
sbocchi per agire quell’energia.
Esempi. Cosa può fare la persona o il facilitatore pratico per curare la propria
vitalità energetica in una giornata come tante:
- respiro: attivare una respirazione più consapevole e completa sia nei momenti
di difficoltà, sia nei momenti di soddisfazione; il respiro mobilizza il tronco fino a
far muovere leggermente spalle, sterno, pancia, fino alle gambe e alle braccia; la
respirazione sana ha caratteristiche di unità e totalità;
- centratura attiva: è l’effetto di una consapevolezza posturale, il corpo si
dispone in modo tonico e morbido al tempo stesso;
- frasi positive: sono frasi costruttive che vengono dette nel dialogo interno per
sollecitare pensieri di coraggio e gentilezza (es. «posso fare bene»; «ho le qualità
per essere utile»; «posso imparare dalle difficoltà»).
Respiro, centratura e frasi positive sono cose semplici e complicate al tempo
stesso. La cura della propria vitalità è un fattore strategico per potersi orientare
alle situazioni e fronteggiarle, per fare ciò ritorna come fondamentale la cura del
corpo, dopo che per alcuni decenni le attenzioni erano tutte al pensiero e alla
razionalità. Il corpo è la sede del cervello, dalle attività cerebrali sorge l’attività
della mente, che a sua volta è in stretta interazione con l’ambiente fisico e
sociale.
Proviamo. Prenditi qualche momento in una giornata per portare l’attenzione al
respiro, esercizio che come abbiamo visto serve ad aumentare la sensibilità al
“momento presente”. Cura poi la tonicità del corpo, postura, portamento,
camminata. Infine, prova con le frasi positive, una piccola forma di preghiera
tutta personale.
Rinnovo dell’energia
Siamo fatti di ritmi biologici interni ed esterni e il corpo umano è un orologio
governato da cicli103. Gli studi ci dicono che quando lavoriamo e ci impegniamo,
ogni due ore dovremmo fare quindici minuti di riposo, che serve come recupero e
ricarica dell’energia. Siamo congegnati per alternare a periodi di intensa attività
momenti di riposo ricaricante.
Possiamo intanto sapere dell’importanza del sistema nervoso autonomo,
ramificazione fondamentale del cervello nel corpo, che governa le funzioni
naturali come il respiro, il battito del cuore, i processi digestivi. Il sistema
autonomo è composto da due parti, una “attivatrice” detto sistema simpatico
(che fa muovere) e un’altra “rilassatrice”, sistema parasimpatico (che ci calma);
la prima è dedita all’azione e a consumare energia, la seconda al riposo e a
rinnovare l’energia sia psichica che corporea.
Ebbene, per rinnovare e gestire meglio la nostra energia, possiamo calibrare
proprio questi due sistemi, con la semplice formula che all’azione segua il riposo
e viceversa. Gli studi ci dicono infatti che è l’alternanza tra i due sistemi a creare
il ricambio energetico. E ci dicono anche che per rinnovare l’energia occorre
riposarsi spesso e bene104.
L’Università della California ha studiato per esempio che spezzare la giornata
lavorativa con una siesta genera dei miglioramenti significativi nella memoria,
tanto quanto otto ore di sonno notturno. L’Università della Florida ha invece
trovato che le quantità ideali di tempo produttivo si attestano sui novanta minuti,
da intervallare con una pausa.
Il rinnovo dell’energia fondato sull’alternanza e sulla ciclicità ci può aiutare a:
- gestire con attenzione le energie fisiche e psichiche;
- integrare azione e riflessione;
- ridurre i fenomeni di distrazione, errori, incidenti.
Esempi. Come ci accorgiamo che siamo a corto di energia? Tramite una serie di
indicatori, un breve elenco:
- avvertire il bisogno di stirarci e interrompere ciò che stiamo facendo;
- sbadigliare spesso o sospirare;
- esitare o rinviare, incapaci di continuare a lavorare;
- sentire il corpo teso, tirato e affaticato;
- essere sfasati, concentrazione scarsa, mente che divaga;
- percepire uno stato calante ed emotivamente vulnerabile;
- dimenticare parole che sono sulla punta della lingua;
- fare errori di distrazione nello scrivere e nelle cose ordinarie;
- notare un calo di rendimento e di produzione.
Proviamo. Intanto, come prima cosa evita assolutamente tutti quegli
psicofarmaci105 inventati per accelerare i ritmi produttivi, chiamati anche “viagra
del lavoro”; sulla carta aiutano a sentirsi più sicuri e in forma ma le conseguenze
sono terribili: dipendenza, turbe psichiche, depressione, irascibilità. Come
seconda cosa invece, molto positiva, appena puoi fatti un pisolino, che da solo
accresce lucidità e presenza, migliora la vita sessuale, aiuta a prendere migliori
decisioni, ci fa sembrare più giovani e contribuisce a perdere peso, riduce i rischi
di malattie cardiache, mette di buon umore, potenzia la memoria. Questo
prodotto, il pisolino (o altre forme di riposo breve) non è tossico, non ha effetti
collaterali e soprattutto… è gratuito! Come terza cosa, positiva, al lavoro fai
pause pranzo evitando bar affollati e rumorosi, bensì preferisci luoghi più
tranquilli e silenziosi, sviluppa modalità lente e rilassanti.
Metodi di attivazione
Ho potuto osservare in questi anni che l’attivazione delle persone avviene
quando si stimolano simultaneamente più funzioni, da quelle relazionali
interpersonali a quelle emotive, fino a quelle più propriamente del fare e
dell’agire. Diveniamo attivi infatti dentro un concerto in cui la sinfonia è composta
dalle melodie congiunte della relazione, dell’emozione e dell’azione.
In questa parte del libro dedicata all’energia e alla vitalità, ha un posto
importante la cultura dell’attivismo, cioè quella propensione a darsi da fare,
muoversi, prendere l’iniziativa, cercare, sperimentare, innovare. Sia in casa, nel
lavoro, ma anche nelle didattiche scolastiche, in seguito agli studi recenti, si sta
capendo come per imparare ci si debba attivare col corpo, perché l’attività della
mente è connessa e dipende dai movimenti fisici e motori. È sotto gli occhi di
tutti come la passività ci renda invece spenti mentalmente e addormentati.
Proviamo. Alcune idee per il quotidiano: gestisci con attenzione la quantità di
tempo che passi davanti a computer, cellulari, tv, tutti mezzi che ci inducono
passività; è importante muoversi, camminare e fare attività motoria; sono
buonissime attività anche cantare, ballare, suonare.
Esprimersi col corpo (il corpo espressivo che facilita)
Nella vita facilitata il corpo è molto importante. Perché?
Uno, il corpo è teatro delle emozioni. Le emozioni sono incarnate nel corpo,
incapsulate, sì le avvertiamo anche nella mente, ma il sudore, il respiro corto, la
voce che si secca sono tutte manifestazioni corporee. Dalla stretta interazione di
corpo, cervello e ambiente ecco poi emergere pensieri, sentimenti, stati d’animo,
volontà, la tipica attività della nostra mente. Il linguaggio del corpo è un
linguaggio delle emozioni impresse, delle emozioni represse e delle emozioni
espresse.
Due, col corpo svolgiamo tutto. L’intera vita è condotta col corpo, in particolare
tuttavia alcune funzioni sono da evidenziare:
- espressione di emozioni, bisogni fondamentali, motivazioni;
- comunicazione, stabilire e mantenere relazioni;
- presentazione di sé, nel lavoro e nella sfera sociale pubblica;
- convenzioni e cultura, nelle sedi aggregative, organizzative e sociali.
Tre, il corpo pesa di più della parola. Non è solo un dato evidente su una
qualsiasi bilancia (sic!), questo concetto ci dice che quando inviamo un
messaggio la componente corporea arriva prima e di più rispetto a quella
verbale; gli studi in materia hanno misurato le percentuali dei tre codici
comunicativi interni a un singolo messaggio:
- contenuto verbale 7% (linguistica);
- tono della voce 38% (paralinguistica);
- espressione del corpo 55% (cinesica, prossemica).
Il corpo è più veloce, automatico, espressivo mentre la parola è più specifica,
dettagliata, immaginativa. Se inviando un messaggio corpo e parola risultano
incongruenti, il destinatario automaticamente decodifica di più il corpo che la
parola106.
Quattro, col corpo siamo natura e siamo cultura. Molti linguaggi corporei sono
fuori dal nostro controllo cosciente, sono frutto della nostra complessa natura,
difatti sono loro a guidarci. Parallelamente tuttavia abbiamo tutti una parte
corporea appresa con l’educazione e nelle convenzioni sociali. Qui si inserisce il
corpo espressivo107 che vado a illustrare più avanti, gesti utili da apprendere
oltre l’educazione ricevuta e le convenzioni, per facilitare le nostre giornate.
Linguaggi non verbali
La voce, ecco i suoi principali aspetti dinamici:
- tonalità e profilo di intonazione;
- durata, pause e velocità del parlato;
- intensità, volume e accento;
- prominenza e ritmo;
- qualità vocale fonatoria (voce di falsetto, gracchiante, aspra);
- varianze vocali come espressione di emozioni e sentimenti;
- accenti come espressione di appartenenza a un gruppo linguistico.
Gli studi in materia hanno messo in relazione le caratteristiche di personalità e
le qualità vocali: voce aspirata, viene associata a giovanilità, femminilità e
creatività; voce esile, soggetti sensibili emozionalmente immaturi; voce piatta,
atteggiamento scostante e freddo; voce nasale, associata a pigrizia e noia; voce
tesa, scarsa flessibilità e arrendevolezza; voce gutturale, maturità e realismo;
voce altisonante, chiara, forte, associata ad atteggiamenti energici, orgogliosi e
di comando.
Il silenzio, uno strumento di comunicazione molto potente. Il silenzio ha diverse
funzioni, tra cui:
- attirare l’attenzione e generare sorpresa nell’uditorio distratto;
- gestire il potere, le persone subordinate stanno di più in silenzio;
- rimarcare espressioni positive, quali approvazione, intimità, affetto;
- evidenziare modalità negative, quali smentita, disconferma, chiusura.
Il volto, è composto da ben oltre venti muscoli contrattili, compresi i masticatori,
la maggior parte dei quali sono nella fronte e attorno agli occhi. Il volto ha un’alta
capacità espressiva, visto che con le sue modificazioni ci invia tre diversi piani di
informazioni, riferiti alla personalità, alle emozioni, ai segnali collegati ai fatti in
corso.
La mimica facciale, il luogo di elezione dei “dimostratori di emozioni”, ossia,
espressioni facciali collegate a uno stato emotivo di tipo primario – rabbia, paura,
tristezza, disgusto, sorpresa, gioia. La faccia riceve più attenzione visiva di
qualunque altra parte del corpo e quindi l’espressione facciale è la più soggetta a
commenti.
Gli occhi, rappresentano uno dei più importanti segnali comunicativi, denominati
anche come specchio dell’anima; l’occhio, anatomicamente, comprende un’ampia
struttura di terminazioni nervose ed è circondato da muscoli extraoculari che
possono contrarsi migliaia di volte al giorno. L’ipotesi di molti studi ci dicono che i
nostri antenati hanno cominciato ad aiutarsi guardandosi. Questo dato ci dice
dell’importanza degli occhi come rivelatori, come mediatori di informazioni e di
relazione interpersonale. Nel corso di un’interazione gli occhi regolano i turni,
segnalano intenzioni, comunicano disappunti, commentano le idee di un altro.
Il gesto, la tendenza a gesticolare è certamente un codice universale della
comunicazione. In epoche recenti in Italia era passata la regola per cui
gesticolare era maleducazione, invece il comportamento gestuale è
fondamentale, può essere tuttavia educato o anche arricchito. Studi affermano
che nel nostro cervello ci sono circuiti in cui si sovrappongono le terminazioni
delle mani e della bocca: si forma così un sistema di comunicazione in cui parole
e gesti sono collegati e inscindibili.
La gestualità, sono cinque le categorie di gesti:
- emblematici, es. scuotere la mano per salutare;
- illustratori, collegati al discorso ne chiariscono il contenuto;
- regolatori, segni impiegati nella gestione dei turni di parola;
- adattatori, grattarsi, toccarsi i capelli, scambiare oggetti o pacche sulle spalle,
giocare con la penna;
- espressivi, gesti involontari legati alle emozioni.
Le mani, forse la parte del corpo che manifesta il comportamento più
spontaneo; le usiamo in maniera involontaria e in maniera intenzionale, per
salutare, per descrivere oggetti ed eventi, per esprimere emozioni. Dopo il volto,
le mani sono la parte più espressiva e comunicativa del corpo. I principali gesti di
comando sono:
- mano aperta (palmo verso l’alto), segno di onestà, disponibilità;
- mano aperta (palmo verso il basso), segno di autorità, chiusura;
- mani intrecciate, segno di chiusura, ma anche di protezione;
- mano chiusa col dito puntato, segno di ordine, accusa, indicazione;
- pugno, rappresentazione di forza, gioia, vittoria se i pugni sono portati verso
l’alto; rabbia, ostilità, aggressività se invece portati verso il basso, o i pugni
esposti in senso orizzontale verso l’altro, simbolo di offesa e sfida.
La postura, comprende la grande massa corporea (testa, spalle, tronco e
gambe) e di solito trasmette con maggiore rapidità segnali sullo stato emotivo e
mentale della persona, diciamo che ne offre un quadro di insieme.
L’atteggiamento posturale di base di un individuo è la somma delle esperienze e
delle emozioni sedimentate lungo la sua storia personale e non solo come
espressione del suo atteggiamento del momento.
Movimenti della testa, ecco le posizioni principali:
- relazionarsi, testa dritta e volitiva;
- essere superiore, testa dritta e mento sporgente, forma arrogante;
- sottomettersi, testa inclinata lateralmente in segno di debolezza;
- disapprovare, testa china in avanti per un atteggiamento negativo;
- ascoltare, testa con piccoli cenni su e giù;
- voler chiudere, cenni su e giù posti con rapidità;
- contrastare, movimento oscillatorio da lato a lato per il no.
La prossemica, è l’uso dello spazio fisico e delle distanze interpersonali. Un
primo aspetto è lo spazio individuale, la cosiddetta “bolla d’aria”, ovvero lo spazio
vitale che ci sta attorno oltre i confini fisici. Un secondo aspetto è la distanza
spaziale, stare vicini o lontani, un segnale che dà immediatamente conto del tipo
di rapporto che corre tra due persone. Un terzo aspetto è il posizionamento, se
con l’altro ci si affianca è sintomo di collaborazione, se invece si è frontali vuole
dire confronto e competizione.
La distanza interpersonale, quattro i tipi:
- distanza intima, di 0-45 cm, è la zona più importante, quella che ognuno
difende a spada tratta, solo chi ci è vicino negli affetti vi può entrare (moglie,
marito, figli, genitori); attiva l’apparato tattile e olfattivo;
- distanza personale, di 45-120 cm, propria delle relazioni amicali e tra colleghi
di lavoro; attiva l’apparato tattile;
- distanza sociale, di 120-360 cm, caratteristica di relazioni formali e
impersonali, con clienti, persone poco conosciute; non è presente il contatto
fisico, attiva gli apparati visivo e uditivo;
- distanza pubblica, dai 360 cm in poi, tipica delle situazioni di grandi gruppi,
eventi pubblici; attiva l’apparato visivo e in parte l’uditivo.
Comprendiamo quindi quanto l’intimità forzata con gli sconosciuti ci metta a
disagio, è per questo che in ascensore adottiamo strategie di evitamento come
non guardarci negli occhi, fissare il soffitto o il pavimento. La vita ha bisogno di
spazio e la territorialità ci dà la garanzia di risorse e distanze necessari per la
nostra esistenza.
La conformazione fisica, comprende in senso generale gli aspetti statici, in
quanto generalmente non modificabili, quali la corporatura, la pelle, la condizione
fisica nel complesso, il volto e il colore degli occhi, tutti elementi fisici che sono i
primi a essere percepiti.
L’abbigliamento, l’acconciatura, il trucco, gli accessori, gli oggetti esibiti. Nelle
varie epoche è circolato il detto intorno al dilemma dell’abito non fa il monaco. Si
può dire che è vero in parte, infatti il vestito è di fatto una seconda pelle e quindi
parla e comunica eccome, dall’altra, in ogni scambio dopo le prime impressioni
diventano altre le centrature su cui relazionarsi. Per il famoso etologo Morris 108
gli abiti hanno tre funzioni fondamentali: di comfort perché ci coprono; pudore
perché proteggono parti intime; esibizione di status sociale. La prima funzione
riguarda aspetti fisiologici, quali il ripararsi dal freddo in inverno e alleviare il
caldo in estate; la seconda è riferita alla convenzione sociale che ci impedisce di
mostrare la nostra nudità, per ridurre la carica sessuale; la terza riguarda la
definizione della categoria sociale di appartenenza.
Corpo espressivo che facilita
Scrivevo prima del corpo involontario e del corpo intenzionale, due realtà
entrambe presenti. Quando parliamo nell’esprimerci mobilizziamo in automatico
faccia, postura e in particolare le mani, che come abbiano già visto sono quasi in
sincronia col parlato.
Corpo involontario (natura)
Faccia tesa o rilassata
Smorfie e gesti improvvisi
Posture varie
Tic, suoni vocali
Gesticolazione e gesticolio
Corpo intenzionale (cultura)
Dare la mano per salutarsi
Dire ciao con la mano dal treno
Indicare con l’indice un oggetto
Salutare nelle parate militari
Mimare al bimbo il gesto “te le do”
Nella mia lunga carriera di formatore, col supporto in particolare di Jerome, ho
via via messo a punto un repertorio di gesti corporei intenzionali, a uso di
persone e facilitatori. Il “corpo espressivo” è l’insieme di abilità comunicative non
verbali orientate alla facilitazione delle interazioni, al fine di aumentare il
contatto, lo scambio, la sincronia, il calore. Ne fanno parte alcune funzioni
essenziali:
- faccia viva;
- gestualità intenzionale;
- marcatori vocali di ascolto;
- postura energetica.
Esempi. Quando il corpo espressivo ci può veramente aiutare:
- nelle relazioni affettive col partner nella coppia;
- come genitori coi figli;
- nei conflitti in famiglia e nella comunicazione a tavola;
- con le persone verbose e monopolizzatrici;
- quando dobbiamo subire l’aggressività dell’altro;
- quando dobbiamo fare buoni accordi con gli altri;
- al tavolo del computer e al telefono;
- nelle riunioni scombinate e inconcludenti;
- se andiamo a trovare un amico che non sta bene;
- nell’ascolto attento di amici che si separano;
- quando dobbiamo fare risultati nella professione;
- nel rompere il ghiaccio con un cliente;
- nella protezione di noi in caso di aggressività;
- per diventare un po’ più leggeri e di buon umore;
- per voler bene agli altri;
- per imparare a dirlo con le parole ma anche con il corpo, coordinati.
Proviamo. Per prima cosa puoi introdurre nel tuo fare quotidiano alcuni gesti
intenzionali o piccole misure che a tua discrezione riprendi da qui; attenzione,
prendi un aspetto per ogni sottogruppo (faccia, gestualità, marcatori vocali,
postura). Prova a praticarle con genuinità, ti sembreranno un po’ finte, non ti
preoccupare perché è l’effetto tipico di quando impariamo.
La faccia viva
La faccia viva corrisponde a un’espressione attenta, aperta e ben disposta verso
l’esterno, in forma di un piccolo sorriso abbozzato, non pieno ed evidente, una
specie di ammiccamento positivo, come quando guardiamo gli altri con un filo di
simpatia, un tipo di faccia che è proprio piacevole vedere negli altri ed è perdipiù
molto contagiosa.
Quando esprimiamo e quando vediamo una faccia viva, si verifica una
considerevole attivazione del cervello alto razionale, in una sua parte deputata
all’integrazione con le emozioni (detta corteccia orbitomediale) che ha la funzione
di attivare i circuiti tipici della gratificazione (circuiti della dopamina). La faccia
viva include segni di interesse, riflette pensieri e sentimenti di apertura per
l’altro, la sensazione di essere a proprio agio, annuire, confermare, fare
attenzione.
Esempi. Possiamo frequentare molto di più il collegamento tra quello che
proviamo e la nostra faccia e viceversa, tra la nostra faccia e quello che
proviamo. È frequente infatti, fateci caso, assumere mimiche brutte e negative,
anche quando stiamo bene, per via delle routine schematiche tra cervello, mente
e corpo109. Il fatto di modificare intenzionalmente la propria mimica facciale può
avere un effetto favorevole sull’umore e chiudere il cerchio nella maniera
seguente: come le emozioni conformano la faccia così la faccia può conformare le
emozioni110. Possiamo quindi in vari momenti della nostra giornata modificare la
nostra faccia, in maniera gentile e intenzionale.
Inoltre, la faccia viva è un buon metodo, indispensabile e strategico, per tutte le
professioni che includono il contatto col pubblico, segreterie, sportelli, uffici
relazione col pubblico, operatori di anagrafe, educatori, insegnanti, medici,
infermieri, uomini pubblici, bancari.
Proviamo. In macchina puoi fare esercizi con lo specchietto retrovisore,
guardandoti prima con la faccia brutta e poi con la faccia viva, porta l’attenzione
a come ti fa sentire. Nelle buone giornate in strada o in metropolitana puoi offrire
ai compagni di viaggio e ai passanti una faccia meno brutta e contrita, lo fai per
loro ma anche per te, stai lavorando con i cervelli diversi e attivando in piccolo la
tua dopamina. Infine, un buon esercizio è quello davanti allo specchio di casa, qui
puoi sbizzarrirti facendo stretching facciale, stirando i muscoli, prima contraendoli
e poi rilasciandoli, oltre ovviamente a provare la faccia viva.
La gestualità intenzionale
Sono gesti regolatori in forma intenzionale, studiati appositamente per la
facilitazione delle relazioni, per aumentare partecipazione e inclusione e gestire
la negatività. La gestualità intenzionale aiuta in due sensi, sia a far capire meglio
agli altri ciò che diciamo, sia a centrarci meglio su noi stessi, diventare più saldi e
piantati.
L’elenco gestuale 111 che segue propone una gamma di dieci “gesti
facilitatori”112, ovvero, che incrementano l’inclusione della persona e la sua
connessione con gli altri.
Ecco in sequenza i dieci “gesti facilitatori”:
- vassoio-uno a una mano, palmo della mano morbido, rivolto verso l’alto,
proteso verso l’altro (dare la parola, accoglienza, apertura);
- vassoio-due a due mani: palmi delle mani rivolti verso l’alto, protesi verso
l’altro (forte apertura, invito a dire);
- spada-uno a una mano: palmo della mano verticale in posizione di taglio,
tonico con movimenti su e giù (contenimento, concretezza, azione);
- spada-due a due mani: palmi in verticale in posizione di taglio, tonici con
movimenti su e giù (mirare all’azione con vigore);
- pinza media: indice e pollice si avvicinano, lasciando un piccolo spazio tra loro
(invito alla conclusione);
- pinza chiusa: indice e pollice si chiudono, si serrano (chiusura imperativa del
turno di parola);
- borsa: gesto emblematico di “ma cosa vuoi”, con sviluppi sui polpastrelli che
non si toccano (andare alla sostanza di tante parole);
- stop: mano aperta all’altezza del busto, il palmo morbido e anche fermo
(distanziarsi, proteggersi);
- indice a pendolo: dito indice da muovere lateralmente indicando due persone
che stanno affermando cose simili e collegabili (connessione);
- scossa: gesti animati discontinuamente a scatti, che intendono trasferire
elettricità intenzionale alla discussione (interferire, interrompere, scuotere ciò che
si sta addormentando).
Proviamo. Nelle relazioni familiari e di coppia puoi estrarre in particolare i gesti a
vassoio-uno, vassio-due, borsa e indice a pendolo, rispettivamente per
alimentare la tua capacità di ascolto e accoglienza unita alla voglia di capire e
andare al concreto, oltre che mettere insieme. Nel lavoro, se coordini persone e
riunioni la gestualità intenzionale ti può essere oltre più preziosa nella sua intera
gamma.
I marcatori vocali di ascolto
Se vi ricordate nell’ascolto attivo abbiamo già parlato dei marcatori vocali,
vocalizzazioni sonore non verbali, che accompagnano il senso del discorso
dell’altro, tipo “mhm”, “ah”, “sì”, “oh”, “ehm”. L’obiettivo nel ruolo di ascoltatori è
quello di mantenere alto il livello di ascolto attivo, la sincronizzazione con l’altro,
alleggerire il portato quantitativo delle parole113 e in tali direzioni queste forme
vocali possono essere molto utili. Nelle situazioni ingarbugliate e delicate i
marcatori vocali possono anche sostituirsi alle parole. Li usiamo per:
- ascoltare in modo attento e attivo;
- davanti a un dilemma, quando non si sa cosa è meglio dire;
- nei casi in cui si accavallano emozioni e pressioni di diversa natura;
- quando si intuisce che l’altro ogni nostra parola la può fraintendere.
Esempi. Alcuni marcatori vocali da utilizzare:
Aah, ah!, eeh!, eh?, ehm, mah, mhm, no, no?, ohh, okay, ecc…, sì, ssh, uh, uhm,
vivaddio.
Le funzioni quotidiane e i marcatori vocali:
- comprensione, assunzione di nuova conoscenza: ah
- incertezza, dubbio: mah
- ascolto attento: mhm; mhm
- sorpresa: uh
- dispiacere: ohh
- disappunto: ah!
- soddisfazione: aah, oh, ooh.
Proviamo. Intanto la prima cosa che ti suggerisco è di cantare, fischiettare,
seguire una canzone che ti piace canticchiandone il motivetto, anche senza le
parole e se non lo fai più, è bene che lo riprendi.
Così facendo abbassi nella mente il pregiudizio per cui emettere dei suoni sia
una cosa indelicata o rozza, è invece il contrario. Nel caso dell’ascolto è indelicato
infatti ascoltare in modo ingessato senza dare nessun cenno all’altro. Esercitati
quindi a mettere i marcatori vocali per ascoltare meglio.
La postura energetica
Giorno dopo giorno possiamo accumulare abitudini scorrette, o invece provare a
inserirne di buone. La postura energetica è una di queste, per un cambiamento
minimo, che può dare effetti positivi sulla struttura corporea (vedi cervicali, mal
di schiena), ma anche sugli organi interni e quindi sullo stato generale
dell’umore. Stare al computer e alla scrivania è un’attività tra le più diffuse e
deleterie, è il caso di apportare qualche piccola attenzione in tal senso.
Come del resto quando siamo in piedi tendiamo ad assumere posizioni poco
fisiologiche, per i lavoratori di sportelli, chi svolge attività manuali e nei servizi
alla persona. Ci può aiutare una postura viva, tonica, che integra attivazione e
rilassamento.
Esempi. Le buone posture da assumere sono:
- in piedi: in queste posture ci aiutiamo con il grounding114, poggiando cioè i
piedi ben in terra, nel tentativo di creare un miglior e maggior radicamento; il
corpo si dispone in modo tonico e morbido, orientato all’altro e con un baricentro
su di sé;
- seduti: qui è bene sempre mantenere una forma eretta e non rigida; in
particolare possiamo distinguere due modalità: “postura di lavoro”, in cui il corpo
poggia sulla totalità del piano della sedia, la spina è eretta; “postura al balcone”,
quando si dà il fronte a un altro (sportello, conduzione riunioni, faccia a faccia) il
punto di appoggio nella sedia è nella parte anteriore, sul ciglio (la figura corporea
tipica di chi sta per scattare come per una corsa).
- spalle e collo: mobilizzarli con rotazioni e piccole attivazioni, per ridurre
l’impatto della pesantezza di una postura ferma e imbalsamata.
Proviamo. Incrementa un contatto di base col tuo corpo ascoltandolo di più,
massaggiati con brevi e piccoli contatti, puoi anche darti piccole strofinature e
carezze. Riduci le posture involute, curve e storte, lunghi periodi in cui stai in una
sola posizione. Ricordati di praticare piccoli stretching appena è possibile,
stiracchiandoti. Siediti bene.
Costruire una buona persona
Eccoci arrivati alla conclusione della lunga carrellata di metodi e strumenti per
facilitarci e facilitare. La costruzione di una buona persona riguarda senz’altro
l’intero percorso lungo le quattro “F” e che qui suggelliamo con gli ultimi
strumenti utili.
Leggerezza
Abbiamo visto fin qui quanto la capacità negativa sia utile per affrontare
incertezza, confusione e altri inciampi quotidiani. Qui possiamo solo aggiungere
che quel metodo può essere completato, o anche alternato, con un po’ di sana
leggerezza (da non confondersi con il prendere le cose “alla leggera”). La
leggerezza comprende il buon umore, l’ottimismo, un sano relativismo, la
vivacità, l’apertura, un senso frizzante, stare nel presente.
La leggerezza è prima di tutto una disposizione mentale, un atteggiamento nei
confronti di se stessi e degli altri; è una forma di distacco, un modo per non
prendere troppo sul serio il mondo; è un’attitudine a non essere tronfi, gonfi,
invadenti, assillanti, per non alimentare un io ipertrofico e non essere pesanti. La
leggerezza, anche in momenti molto duri, se ben dosata, può far virare il corso di
uno scambio, correggere conversazioni noiose, recuperare energia in momenti di
fatica. Per accendere un po’ di leggerezza possiamo tenere presente che:
- sia un modo fruibile da quella persona;
- non debordi diventando esagerata ironia;
- non ecceda deviando l’attenzione dai contenuti.
Riso e umorismo
«Chi non ride mai non è una persona seria» è uno degli aforismi più ben riuscito.
Nella storia del pensiero occidentale il riso ha ricevuto attenzioni specifiche da
parte dei maggiori filosofi, che ne hanno evidenziato la natura ambigua e
sfuggente. La risata si afferma come un vero e proprio lubrificante dei legami di
gruppo, in grado di sdrammatizzare situazioni potenzialmente conflittuali e
cementare il senso di condivisione e comunità. Sempre in bilico tra grossolanità e
raffinatezza, semplificazione e ironia, lo humour non si presta a essere facilmente
etichettato e ingabbiato: forse per questo risulta essere particolarmente
interessante ai giorni nostri.
Che ridere avesse un’influenza positiva sul nostro stato di salute lo sapevamo
già da tempo, ma solo da alcuni anni si è diffusa la cosiddetta “gelotologia”,
ovvero la scienza che studia le applicazioni del buonumore e delle emozioni
positive in campo medico. Un’applicazione di questa giovane scienza è la clown
terapia, ideata dal medico statunitense Hunter “Patch” Adams e diffusa
soprattutto in ambito pediatrico, ma non solo.
Ridere quindi ci fa bene: il buonumore e le emozioni positive hanno anche il
potere di prevenire numerose patologie grazie alla loro azione benefica sul
sistema immunitario, il riso stimola infatti nel nostro organismo la produzione di
chimiche buone che attivano vere e proprie sostanze antidolorifiche naturali in
grado di migliorare il quadro di salute generale.
Esempi. Riso e umorismo vanno bene sia in episodi di tensione e ansia da
prestazione, che durante colloqui e riunioni. Non vanno bene invece nel pieno di
conflitti e negatività, oppure quando le persone enunciano valori e credenze, qui
di solito i comportamenti poggiano su parti psicologiche dure, assertive e quasi
aggressive, quella pesantezza che restringe gli spazi all’umorismo.
Proviamo. Molte volte mi hanno chiesto se è possibile apprendere umorismo e
leggerezza, sono certamente dell’avviso di sì. Basta esercitarsi anche qui, non
stare troppo attaccati all’immagine che possiamo dare, allentare l’autogiudizio.
Poi il resto viene da sé, la realtà a tratti è comica, a tratti drammatica tanto che
conviene alleggerirla; in più molte parole si prestano a giocare con l’umorismo
perché hanno doppi e tripli sensi.
A fari spenti
Il miglior modo di concludere questa ampia carrellata di strumenti operativi è
illustrando i fari spenti. Cosa intendo? “A fari spenti” è un modo di dire gergale
che sta per impegno senza tanto clamore. Qui noi lo possiamo vedere come un
abito mentale volto a preferire la sostanza e i fatti anziché le forme e i tanti
discorsi. “A fari spenti” è per esempio introdurre un cambiamento senza troppa
enfasi nuove idee migliorative senza esagerazioni.
Esempi. È una tattica comunicativa che cerca di evitare clamore e bei discorsi (i
cosiddetti riflettori) e preferire vie sostanziose e sostanziali, incentrate su fatti e
azioni praticate; i fari spenti possono essere strategici per gestire le resistenze e
la paura del cambiamento nei contesti.
Prova. Sono dell’avviso che se proviamo gioia è bene che la manifestiamo, così
come per paura e rabbia. Dall’altra, se intendiamo inserire un cambiamento è
preferibile introdurlo nei suoi passi sostanziali e provando a immaginarne
l’impatto che produce sui destinatari. Allora, in molti casi ho sperimentato che
avere un profilo basso senza troppa enfasi, sia il modo più efficace per la
diffusione dei cambiamenti.
PARTE TERZA
Vivere più facile
Nelle esperienze di tutti i giorni
Molti anni fa nel mio iter di apprendimento i miei insegnanti mi diedero un
segnale verde: «Pino, hai appreso tutti gli strumenti, ora puoi solo divertirti di
più» ma, come spesso fanno gli allievi, non capii proprio nulla di cosa volessero
dirmi. Solo molti anni dopo sono riuscito a decifrare quell’affermazione, a mio
modo, ma credo tutto sommato con un senso adeguato: imparando i metodi mi
ero come compresso e appesantito, da lì in avanti avrei potuto applicarli nei modi
più consoni per me, verso le esperienze professionali che sarebbero arrivate.
Come poi è stato.
Cosa voglio dirvi? In ogni nostra funzione di vita possiamo individuare una parte
strutturante “hard”, una specie di impalcatura e poi una parte di esperienza
“soft”: la prima su cui poggiare, la seconda per agire. È come se la vita la
dobbiamo fabbricare e al tempo stesso lasciare che sia.
Così un lavoratore consegue un diploma e poi esercita il mestiere, il medico
studia per la laurea e poi cura i pazienti e così via. È così anche per questo libro,
nelle prime due parti ho posto le basi del comportamento facilitante (“hard”) e in
questa terza sviluppo i temi dell’esperienza (“soft”), della vita in pratica.
Perché vedete, se ci proponiamo come obiettivo una vita più facile, sono
convinto che ci debbano servire buone conoscenze, strumenti concreti per
agevolarci, quello che io chiamo un polmone educativo alla facilitazione115. Dove
però l’educazione è composta da strumenti applicativi e semplici alla portata di
tutti (non ideali e teorici), da provare volta per volta negli eventi giornalieri.
Insomma, educazione quale bandolo della matassa che ci possa far migliorare e
temprare nelle asperità della vita reale. Per questo è fondamentale conoscere e
agire gli strumenti pratici, da sole le aspirazioni e le belle idee non bastano più.
Ancor di più in una società divenuta ancor più complessa e complicata, molto più
conflittuale rispetto a qualche lustro fa. Qualche esempio.
Esperienza nella vita
Con la mia fidanzata voglio costruire un buon rapporto
Quando litighiamo è un casino
Lei mi tiene il muso
Sono madre di due ragazzi che spesso mi sfuggono di mano
Con mio marito stentiamo coi figli a essere uniti e coesi
Sono un capo e in ufficio molti collaboratori mi ostacolano
Lavoro da trent’anni, il nuovo capo appena arrivato fa il
maestrino
Strumenti per facilitarsi
Prospettiva sé-altro
Apprezzamento
Finestra di tolleranza
Gestire i conflitti
Terzo tempo
Messaggio-io
Mettere in conto barriere
Accogliere e trasformare a
negatività
Fare gruppo
Abilità dialettica
Ascolto buono
Richiesta parere e Ioassertivo
Passi negoziali
Cosa chiedo-cosa offro
Sono volontario ma non vado più alle riunioni perché
inconcludenti
Esperienza nella vita
Non so con chi parlare di cose un po’ profonde, ho paura del
giudizio degli altri
Riunione a tre fasi
Critica costruttiva
Strumenti per facilitarsi
Interrogarsi, autocriticarsi
Sosta nelle emozioni
Apertura all’altro
Anche la nostra personalità soggettiva è costruita su due pilastri: il
temperamento che rappresenta le basi prevalenti di noi stessi e l’esperienza che
si dispiega nel “fiume” di ogni momento.
Coppia: nelle divisioni un amico che facilita
La vita che scorre. «Sei un incapace!», «sei un furbo!», «sei strana!»: chi sta
discutendo? Una coppia che sta infrangendo tutte le regole della buona
comunicazione. Come uscirne? Non è facile perché la negatività induce un
sentimento di offesa, innalza le difese e di conseguenza mette i partner in una
trappola. Un po’ tutti abbiamo provato la vita di coppia e nonostante agli amici
fuori si mostri il lato buono, tra le nostre mura non è tutto rose e fiori. La
condizione di una coppia classica è il luogo della positività e della pace dei sensi,
ma anche un covo di negatività, in particolare di conflitti e malessere.
Intorno al conflitto si snoda una schiera di altri eventi, tra cui: scontro, guerra, lotta,
battaglia, contro, urto, posizione, collisione, dissenso, discordia, litigio, diversità,
contrapposizione. Intorno al malessere invece: disturbo, inquietudine, turbamento,
disagio, fastidio, nervosismo, irritazione.
Le complicazioni. Elena e Alberto convivono da nove anni, hanno attività
appaganti che però spesso li portano in città diverse. Possono contare su una
buona dose di affiatamento e di solidità, ma a volte intorno alle piccole cose
crollano quasi inevitabilmente; è il caso di una sera intorno a un futile problema,
la gestione del dentifricio:
- Elena: «Spremi sempre il tubetto dall’alto, quante volte te l’ho detto!»
- Alberto: «Pensa alla salute, dai…».
- Elena: «Sei il solito… mhm fammi stare zitta!».
- Alberto: «E tu sei esagerata come sempre».
- Elena: «Ma se non sai neanche piegarti un paio di pantaloni, io sono stupida
che mi aspetto che spremi bene il dentifricio, siamo proprio alla follia…!».
- Alberto: «Alla follia ci sarai tu, io vado a farmi un piatto di spaghetti».
E il gioco del battibecco partito dal dentifricio strizzato dal basso, dall’alto,
chiuso o aperto continua e si può anche inasprire. Notiamo in questo episodio
critiche distruttive da una parte perché generiche e assolute e forme difensive di
alleggerimento inopportune dall’altra. Nelle coppie le frasi di sfogo «sei proprio
uno stupido!», «sei un’ingrata», «sei un egoista», «stai rovinando tutto!»,
scaricano per un istante lo stress, ma creano un circuito chiuso dove la vendetta
verbale porta a un’escalation del conflitto seguita poi dalla sfiducia, dalla distanza
e in casi poi estremi dalla separazione.
Non sto immaginando un ménage di coppia anestetizzato e neutro, dove le
baruffe sul dentifricio o sulle chiavi della macchina che non si trovano si azzerino,
anzi. Il catalogo dei contrasti può essere molto lungo e può investire tensioni ben
più complesse rispetto al tubetto per lavarsi i denti.
Studi hanno evidenziato che i conflitti nelle relazioni profonde assumono tre
predominanze: disaccordi specifici e conflitti su particolari argomenti; discussioni
sul modo di accostare i problemi e cercarne soluzioni; relazioni insoddisfacenti in
cui il conflitto diventa un modus vivendi della coppia. I conflitti nelle coppie sono
invece affrontati solitamente in tre maniere: evitando semplicemente il conflitto,
la risoluzione attraverso l’attacco al partner, la risoluzione tramite il
compromesso.
Complessità/1. Nella coppia le emozioni sono spesso a “fior di pelle” per la
ragione doppia, uno perché siamo dentro un legame il cui nido è l’affettività e
l’altro perché si coabita in uno stesso spazio vitale.
Le emozioni come abbiamo potuto vedere sono forti e scavalcano il pensiero
razionale proprio perché alimentate da circuiti interni antichissimi. Le emozioni
tra i due partner si manifestano solitamente con estremizzazioni aggressive o
anche con episodi di chiusura fredda in cui si mastica amaro. È altrettanto vero
che la coppia può avvalersi di “polmoni” positivi, tra cui la fiducia, l’affetto, la
sessualità, ma le insidie come stiamo vedendo non mancano.
Complessità/2. Nella coppia è un continuo allinearsi e scompaginarsi anche sulle
identità individuali che confliggono con la dimensione di coppia, ne fanno seguito
dunque momenti in cui i due si contrastano perché dominati dalle forze della
differenziazione, con altri in cui le forze dell’integrazione regnano sovrane.
Difatti l’alternanza può essere così sintetizzata, con un fluttuare tra rigidità e
caos, in cui all’interno si tentano oasi di armonia. Difficile quindi vivere in pace,
ma è un susseguirsi di costanti allarmi, per motivi oggettivi esterni, ma anche per
vissuti interni ai singoli partner. Il progresso nella coppia quindi può essere inteso
come il risultato di un continuo processo di accomodamento, adattamento e
negoziazione continui.
Complessità/3. Le relazioni sentimentali non hanno solo lo scopo di far stare
bene i due partner, ma sono anche e soprattutto il luogo in cui ognuno dei due
desidera colmare il proprio senso di incompletezza e guarire una volta per tutte le
proprie ferite d’amore primarie, ovvero le carenze affettive e le delusioni
rimediate durante l’infanzia, inclusi gli eventuali abusi fisici o morali. Questo è un
desiderio profondo, nascosto e quasi inconsapevole ma molto potente, che
influenza tantissimo la dinamica della coppia116.
Complessità/4. Ricercatori britannici hanno scoperto che all’interno del nostro
cervello amore e odio sono attivati dalle stesse aree e dagli stessi meccanismi
neurobiologici. Il processo mentale che ne scaturisce vede come molto connessi
sentimenti d’amore a quelli dell’odio. Odio e amore, oltre che nella vita, sono
vicini anche nel nostro cervello. Quegli studi hanno trovato che i “circuiti dell’odio”
si attivano nel cervello emotivo, la stessa area che muove anche i “circuiti
dell’amore” e ci spiegano il motivo per cui sia l’odio che l’amore possono portare
a simili atti di comportamento intenso117. In sintesi, odio e amore sono entrambi
irrazionali e portano entrambi ad azioni che possiamo considerare valorose o
crudeli.
Gli strumenti che facilitano. Come rimediare a questi vortici? Se i metodi
possono aiutarci sono anche dell’avviso che non siano risolutori in toto, che
all’irruenza di molti momenti non ci siano tecniche, libri, corsi che tengano. È
anche vero tuttavia, che nell’irruenza, se siamo senza “educazione”, possiamo
andare ancora di più allo sbando; è vero inoltre che, senza educazione, non
sapremo come riparare a quell’irruenza, quali passi compiere per rigenerare la
nostra coppia. In sintesi gli strumenti pratici nei conflitti di coppia possono
essere:
L a critica costruttiva può incanalare le scariche aggressive e gli insulti, che di
loro non danno nessuna informazione e inducono solamente alla rappresaglia. La
critica costruttiva comincia quando chi riceve il rimprovero fa una domanda
precisa all’altro: «cosa ho fatto di negativo?». La domanda mira alla concretezza
dei fatti e non alle opinioni118. Chi invece fa la critica cerca di evitare di
lamentarsi e si concentra su una frase mirata all’errore che il partner ha
provocato, non fa una voragine del problema, indica una proposta per la prossima
volta: in questa maniera egli può creare un nuovo modus vivendi per i giorni
successivi. Esempio, Elena: «Noto che hai l’abitudine di spremere il dentifricio
dall’alto, mi è scomodo, puoi spremerlo dal basso per favore?».
Altro strumento è la parola chiarificativa, buono per imparare a stare nelle
divergenze, che tende a curare il modo con cui parliamo o abbiamo parlato.
Esempio, Elena (nel momento stesso del diverbio): «Sono così infastidita anche
per la faccia che mi fai, come se mi dai della scema, so che esagero… me ne
rendo conto». Elena il giorno dopo (nel terzo tempo119): «Ieri sera ho ancora
una volta esagerato sulla questione dentifricio, è che mi prende una furia che non
so proprio come fermare, tu poi ci metti del tuo…». Qui Elena per ricucire ritorna
sul fatto esasperato e accenna anche a una autocritica120.
Un altro strumento pratico per facilitarsi è il feedback negoziale, il metodo per
fare accordi più agevolmente, in cui si prova ad avanzare una prima idea grezza,
si chiede il parere dell’altro e si definisce la soluzione pratica insieme121.
Esempio, Elena: «Che ne pensi se il dentifricio lo spremessimo tutti e due dal
basso… per una diatriba in meno tra noi due?». L’idea grezza formula un’idea
concreta ma in forma interlocutoria, per evitare, qualora l’idea fosse già tutta
dettagliata, che venga respinta solo perché è chiusa e strutturata.
Un altro strumento è la vitalità e bioenergia che ci ricorda infine che nei diverbi
è molto importante respirare, attivare una respirazione più consapevole e
centrarsi sulla postura, tonificando il corpo come prima buona regola di
fronteggiamento. Ma a volte le emozioni date dalla rabbia e dalle “ferite” sono
troppo forti e esigono sollievo con urgenza, in questo caso la domanda è: «Come
posso scaricare le tensioni senza fare male?» In tal senso sarebbe buono
frequentare un gruppo o un corso di formazione periodico in cui condividere con
altri la gestione delle emozioni e della negatività, corsi in cui utilizzare la voce, il
corpo, i movimenti.
Anche per la coppia l’educazione alla facilitazione esige un periodo di pratica. In
questi anni con i colleghi abbiamo messo a punto metodi didattici che evitano i
discorsi unilaterali e teorici, che suonano come una predica e si orientano invece
verso un apprendimento attivo a cui tutti partecipano. In questa maniera la
nuova facilitazione si apprende, non come un elenco di “si deve” e “non si deve”,
ma come una musica che quando la si ascolta ci fa dire «sì provo anch’io queste
cose» ed «è vero spreco troppe energie se rimango nell’ignoranza», oppure
«l’altro ha sbagliato ma anch’io ci ho messo del mio»: una musica che molti
allievi sentono loro, che è gradita e invitante alle loro orecchie, che l’hanno già
sentita almeno una volta, quando si sono conciliati con persone esterne o parti
interne a loro.
Soluzione: nel conflitto un amico che facilita. Nella coppia un’eventualità
riprovevole è che i continui battibecchi, oltre a creare frequenti inciampi, portino
la relazione un po’ fuori strada, in cosa? A mio avviso nel cercare più profondità,
quella forma di sintonia che permette ai due partner di confidarsi, sostenersi,
superare piccole vicende quotidiane.
Per provare a ridurre i battibecchi, le fisiologiche incomprensioni, le piccole e
grandi differenze di temperamento e di storie personali122, oltre a ricorrere
all’aiuto di professionisti, propongo che un piccolo aiuto possa essere portato da
un amico, per esempio. L’obiettivo è soccorrere la coppia, che di suo, otto casi su
dieci, non fa che continuare sulle solite trappole e baruffe abitudinarie, che ne
conformano la condizione di coppia stessa. L’amico per una, due, tre volte, si
offre come “terzo” tra le parti, in posizione di facilitatore pratico e occasionale.
Per fare il soccorritore che facilita (“F”) non dobbiamo caricarci sulle spalle le
angosce degli amici, né tantomeno lambiccarci il cervello per trovare soluzioni
eccezionali… ma?
- Elena: «Alberto da un po’ di tempo è distratto, incurante di quello che gli dico,
come preso da altro, questo mi rende gelosa e preoccupata».
- F: «Sì, preoccupata…».
- Alberto: «E io ti sento col fiato sul collo, perfettina, con questo eccesso di
controllo che tutto sia in ordine, ma è una tua fissa, io non voglio esserne
contagiato».
- F: «Sì, hai timore di venire contagiato dal suo eccessivo controllo».
- F: «Elena, spiega meglio la tua sensazione per cui vedi Alberto distratto e tu
gelosa». Elena si esprime brevemente…
- F: «Tu Alberto, come stai in questo periodo, quali difficoltà attraversi?».
Ecco, questa alternanza di turni (invece dell’accavallamento) e questa
attenzione a un po’ di profondità (invece del battibecco superficiale) sono già due
“farine” prelibate che l’amico-facilitatore porta al mulino della coppia, senza che
lui sia un esperto, semplicemente. Basta solo qualche buon criterio di metodo,
che chiamo rudimento, un rudimento di educazione alla facilitazione.
Studiando un po’, per esempio questo libro, interessandosi un po’ alle dinamiche
umane interpersonali, facendo un corso sulla facilitazione, l’amico-facilitatore
potrà compiere altri passi importanti, per il suo apprendimento, la sua salute e il
suo benessere e di chi gli ruota attorno. Risultato, si fa star meglio due amici in
angoscia e un po’ intrappolati, senza aver speso un euro, con risorse proprie fatte
in casa.
Istruzioni per l’amico, facilitatore occasionale. Fornisco ora un riepilogo per
l’amico-F, un facilitatore pratico, l’arteficie centrale a cui intendo rivolgere tutto il
mio sostegno e incoraggiamento:
- garantisciti che le parti siano d’accordo al tuo piccolo aiuto123;
- il tuo intervento è breve, un’ora, che stabilisci all’inizio; puoi proporti per altre
due o tre volte;
- invita le parti a esprimersi, nell’alternanza dei turni di parola, occhio ai turni
brevi, i monologhi ingrossano le convinzioni individuali, il cambio invece le
miscela;
- non parteggiare per nessuno dei due, mantieniti terzo ed equanime più
possibile, se riconosci la ragione di lei cerca di scovarne una anche nel racconto di
lui;
- prova con loro a individuare una soluzione, senza tuttavia forzare: se non ci
dovesse essere conviene che ne prendi atto senza insistere, il tuo di buono l’hai
già fatto, non puoi che darti una buona pacca sulle spalle.
L’amico-facilitatore è una funzione improvvisata perché legata a un episodio
specifico ed è su autonomina, quindi è bene che risponda a caratteri di
occasionalità e di tempo definito. I facilitatori con questa modalità possono agire
soltanto per pochi minuti, per poche ore o per qualche volta. Questo tentativo a
tempo, tuttavia, può scattare solo se a monte lui e lei adottano il principio
dell’aiuto, concordando sull’importanza di una presenza terza.
Genitori: comunicare e gestire la negatività
La vita che scorre. Papà Riccardo è imbronciato, sia per questioni di lavoro, non
tutto gira come dovrebbe, sia per questioni affettive, con Daniela le cose sono
altalenanti. E poi c’è Carlo, il ragazzo di 14 anni che lo preoccupa: «Mi va fuori dal
seminato, non lo controllo più», «i suoi amici sono più importanti di noi». Fare il
genitore è un mestiere complicato, ma anche fare il figlio lo è.
A volte i nostri figli vorrebbero stare alzati fino a tardi, altre volte non studiare
mai, altre “cuocersi” letteralmente per ore su di un cellulare o iPad. Contrasti di
questi tipi genereranno probabilmente delle rotture legate alla definizione dei
limiti e delle regole, che i figli devono rispettare. Ci sono poi rotture aggiuntive, di
quando per esempio il genitore rincara la dose con suoi comportamenti eccessivi,
minacciosi o aggressivi, che producono effetti deleteri sulla mente del ragazzo.
Benché molte rotture non potranno essere evitate, ascoltarsi e coglierne la loro
natura quando si verificano è essenziale per poter ristabilire un legame
collaborativo e positivo. Occorre che parta dal genitore un approccio di
risintonizzazione col figlio per una possibile “riparazione”.
Le complicazioni. La mamma ha un negozio di scarpe e torna a casa tutte le
sere non prima delle nove. È una donna molto curata che tiene molto all’aspetto
esteriore e la forma, fattori acquisiti da un padre colonnello dell’esercito. La
madre entra come una furia in corridoio, va verso la sua stanza in fondo, passa
con questa gran lena davanti alla camera di Ilaria, 16 anni studentessa al liceo,
figlia unica, butta lì un’occhiatina ed esclama: «Sei la solita disordinata… sai
questo non è un albergo, io non ti devo rifare la camera tutti i giorni, chiaro?».
Difatti, la signora è stressata ma anche la figlia è lì passiva che segue solo le chat
sul cellulare. Un quadretto che si ripete pressoché tutte le sere. Disordinata,
incapace, incostante, testarda sono gli ingredienti di un’etichetta che ormai è
divenuta un vero e proprio marchio fisso.
Un quarto d’ora più tardi rientra anche il papà, un tipo morbido e positivo che
appena tolta la giacca cerca subito Ilaria, «la mia figlioletta, dov’è la mia
signorina». Il babbo chiede permesso e si siede sul ciglio del letto della ragazza e
incomincia un breve discorso centrato sulla situazione coi colleghi di lavoro alla
fine del quale, rivolgendosi a Ilaria, fa: «E la tua giornata come è andata?».
Quindi due comportamenti molto differenti da parte della madre e del padre a cui
Ilaria risponde già con modalità organizzate e specifiche; in lei i pensieri e le
emozioni si stratificano formando delle categorie, che devono essere
adeguatamente accompagnate dai genitori con momenti di dialogo e riflessione.
I Girardi sono invece una famiglia media che vive al quinto piano di uno stabile
di nove piani nella periferia di una grande città del Nord: il papà fa l’elettrauto in
proprio, la mamma lavora in un negozio di pasta fresca e hanno due figli,
Martina, sedici anni e Renzo, tredici. Scena serale: tutti quattro a tavola, la
televisione giustamente è vietata, un gran silenzio cala sulla compagnia,
interrotto solo da «passami il sale», «dammi il formaggio». Ogni tanto il papà,
come se parlasse da solo, con lo sguardo intinto nel piatto e il sopracciglio destro
increspato se ne esce fuori con frasi del tipo «ma state zitti come l’olio!». Le
risposte sono mugugni da fattoria degli animali.
Si mangia in fretta, in apnea, perché quel momento di gruppo possa essere più
rapido possibile, alla fine, la liberazione, tutti si ritirano nei loro vani, papà alla
televisione, mamma in cucina, Martina in camera, Renzo in corridoio col gioco
elettronico. Tramite l’oralità a tavola, gli adulti ma in particolare i ragazzi
costruiscono modelli culturali di riferimento e anche veri e propri nessi nelle parti
del cervello, pensate infatti la differenza che si produce se a tavola i discorsi sono
brevi, schematici, giudicanti, o invece impegnati socialmente, argomentati. A
tavola lo scambio comporta comunque una partecipazione attiva (anche il silenzio
è un segno attivo), tutti mettono qualcosa, la spinta più o meno naturale è alla
condivisione.
Complessità/1. L’affettività positiva non preserva dalla negatività, al contrario
tra genitori e figli affettivamente legati, conflitti e malessere possono essere
anche di grande portata. Un terreno di legami positivi semmai tende a limitare
l’espandersi della negatività, a mettere in campo l’impegno a mantenere le
relazioni gestendo costruttivamente le opposizioni e i contrasti problematici. Ma
non è sempre così.
Complessità/2. Il primo compito dei genitori è quello di comprendere a fondo la
propria esperienza infantile, per evitare di ripetere modelli di interazione
inadeguati. Non è raro sentire da parte di genitori affermazioni tipo «non
immaginavo di poter ripetere gli stessi atteggiamenti ricevuti da bambino dai
miei genitori, agisco proprio in quel modo». Esiste quindi un continuum tra
modelli mentali ricevuti e modelli da trasmettere, che molto spesso vengono agiti
senza troppo controllo ed elaborazione.
Complessità/3. Diventare genitori modifica profondamente il legame coniugale e
la nascita di un figlio e la sua crescita costituiscono una sfida permanente per la
coppia. Qui il problema più complesso è quello non facile di integrare la
dimensione coniugale con quella genitoriale, in modo da dar vita a una nuova
forma di identità di coppia. E la presenza di capacità cooperativa tra i due
genitori è una risorsa decisiva che impatta sui figli.
Complessità/4. Sul versante culturale i due ruoli di padre e madre hanno subito
trasformazioni enormi. Oggi esiste il cosiddetto padre “maternizzato”, colui che
riconosce alla madre una maggiore competenza nella gestione del mondo
affettivo del figlio e anche perché lui stesso tende alla vicinanza emozionale col
figlio, divenendo empatico e non solo guardiano di norme ed etica. La madre è
invece “allarmata”, perché molto preoccupata che il figlio possa avere uno
sviluppo aleatorio e concludersi con la formazione di un soggetto incapace e
inetto.
Complessità/5. La famiglia infine, un microsistema sociale che raggruppa più
generazioni e che assume caratteristiche complesse che non sono la mera
somma delle sue parti. La famiglia è ritenuta capace di reagire alle difficoltà e
agli stress e la sua crescita si lega alle risorse che si attivano per superare gli
eventi critici, quindi, essa è sollecitata a una costante malleabilità nel mutarsi
come mutano le età dei suoi componenti.
L’ecologia nelle relazioni. La Comunicazione ecologica 124 proposta da Jerome
Liss, studioso dei comportamenti nei gruppi, prova a sviluppare due fattori in
particolare: la famiglia è un gruppo in cui tutti i membri portano vissuti e azioni
personali e profonde; in questa dinamica interna sono naturali gli aspetti sia
positivi che negativi, parti logiche e parti emotive. È ecologica perché in
movimento, si apre e si chiude, è una rete che tende all’integrazione delle
persone e dei temi in gioco. È ecologica per i suoi principi ecologici che applica
alle relazioni umane:
- coltivare il meglio di ogni persona;
- mantenere una buona coesione di gruppo;
- perseguire gli obiettivi comuni.
Gli strumenti che facilitano. Per il genitore – un compito difficile quanto quello di
governare un intero Paese – si possono dire tante cose in merito alle capacità che
dovrebbe, dovremmo, mettere in campo. Io per esempio sono babbo di tre figli,
una di ventitré anni, uno di tredici e una di undici, e quante volte mi sento
inadeguato e chiuso nei miei schemi acquisiti, quante volte mi tocca la tristezza
di non riuscire a comprenderli, come se volessi sentire le loro voci di dentro per
prenderli un po’ per mano o solo per dirgli «sì, ti capisco, anche per me è stato un
po’ così».
Due gli strumenti che comunque mi sento di proporre, il primo è in “F4-essere
riflessivi, autocriticarsi, valorizzarsi” e in particolare interrogarsi, per avviare quel
pensiero costruttivo più profondo di sé, sulle nostre abitudini di quando eravamo
noi bambini, rispetto ad ora che siamo genitori, per focalizzarsi sugli errori da non
ripetere125. Il secondo strumento pratico è l’intera area “F2-connettersi con gli
altri”, con le singole capacità riferite a rispettare le differenze e stare nelle
divergenze, ascolto, intesa ed empatia, fare accordi, negoziare e mediare. Il
modo di comunicare coi figli lo trovo ultraimportante, sia per la relazione nel
presente ma anche come terreno favorevole sui cui investire nella “banca” di una
buona relazione futura con loro.
Soluzione: comunicazione e gestione della negatività. In questa parte del libro
stiamo sviluppando un approccio al ruolo di genitore che ha come principi
fondamentali la comprensione interna emotiva, la relazione interpersonale e il
saper fare gruppo-famiglia. Elementi essenziali di un’idea di facilitazione sono: 1.
la consapevolezza; 2. la comunicazione; 3. la gestione costruttiva della
negatività; 4. la crescita del ragazzo.
Nella consapevolezza, il genitore:
- impara a esprimere pensieri ed emozioni;
- si impegna a mostrare i suoi sentimenti in modo autentico;
- si interroga circa i messaggi ricevuti con taluni comportamenti dei figli.
Nella comunicazione, il genitore:
- esprime critiche costruttive (mirate e con possibilità di uscita);
- si impegna all’ascolto buono e ascolto attivo;
- ricorre a frequenti negoziazioni e mediazioni (quando il contrasto è con un
fratello o tra figlio e partner).
Nella gestione della negatività, il genitore:
- ricerca il positivo senza però occultare il negativo;
- esplora e sosta nelle negatività;
- si impegna ad aiutare per la trasformazione del malessere e la ricerca della
soddisfazione emotiva e del darsi da fare nelle cose concrete.
Per la crescita del ragazzo, il genitore:
- si pone all’interno di una relazione inuguale ma anche integrata, all’insegna sia
della responsabilità che della reciprocità;
- ha un orientamento integrato, sa essere sia direttivo che partecipativo;
- accetta incondizionatamente il figlio, non sempre approva le sue azioni, a volte
gli contrasta la strada.
1. Consapevolezza e lavoro su di sé. Vuol dire vivere nel presente in contatto coi
nostri pensieri e i nostri sentimenti e nello stesso tempo pronti a percepire quelli
dei nostri figli. Se riusciamo a essere più presenti mentalmente ed emotivamente
aiutiamo bambini e ragazzi ad avere in quel momento una piena esperienza di
loro stessi, cioè a esprimersi e quindi a regolare i loro stessi comportamenti.
Essere genitore consapevole è fare cose che entrino in contatto con le esigenze
emozionali dei figli, è all’interno infatti delle interazioni emotive, che i figli
sviluppano il loro senso di sé e la capacità che fiorisce di mettersi in relazione col
mondo.
2 . La comunicazione. Lo scambio interpersonale è ultraimportante che possa
essere condotto con uno stile dialogico e nella prospettiva sé-altro, ovvero che
dia una doppia centralità sia al figlio che al genitore e in questa dualità via via
giocarsela in direzione della comprensione affettiva o anche del controllo
normativo. La comunicazione, nei suoi episodi efficaci o in trappola, insegna ai
genitori e ai figli che la relazione umana non è una partita destinata a definire chi
vince e chi perde (modo detto anche a “somma zero”), ma una relazione in cui
vicendevolmente ci si regola, ci si confronta, ci si scontra, si cerca un accordo
(modalità anche detta a “somma variabile”).
3 . La gestione costruttiva della negatività. Nella rabbia, nel disagio, nella
chiusura ci sono aspetti di sicuro fastidio, ma possiamo imparare a scorgerne
anche opportunità e risorse. Per esempio, in famiglia quando si affaccia una
negatività invece di rispondere con reazioni e altra negatività, si può iniziare a
replicare con l’approfondimento. In particolare per esplorare e voler comprendere
il problema, prima di emettere giudizi e sentenze. È un’abilità di controllo delle
emozioni, ma che nel caso di un figlio è un impegno più che ben ripagato.
Esempio di interazione tra Ilaria e la madre:
- Ilaria: «Non succede mai niente di buono intorno».
- Madre: «Niente di buono, spiega meglio, figlia?».
- Ilaria: «Eh sì, sono qui in cameretta e i miei amici sono nelle loro stanze ad
annoiarsi anche loro».
- Madre: «Annoiarsi… cosa ti fa annoiare in questi giorni di più?».
- Ilaria: «Ma che ne so mamma, tu che torni sempre tardi, papà anche, a scuola
i prof monotoni, è tutto così monotono».
- Madre: «Quali pensieri ti passano in questa monotonia?».
L’esplorazione e la sosta nella difficoltà è un momento complicato ma che può
segnare un maggior interesse del genitore e una vicinanza da parte del figlio, che
non si sente giudicato o consigliato.
4. La crescita del ragazzo. Un figlio, come qualsiasi altra persona, è un crocevia
complesso e complicato di ragione, emozione, modelli appresi, dimensione
affettiva, un laboratorio chimico viaggiante, per le sue trasformazioni continue,
fisiche e psichiche. Un figlio va strigliato e coccolato, va spronato e contenuto,
limitato; va compreso e va ostacolato; va messo alla prova e va aiutato. L’azione
genitoriale potrà talvolta seguire dettami “stretti”, di rigore, precisione e
confronto (di segno frontale), il genitore qui è inuguale, nel senso che marca la
distanza e il suo ruolo di adulto; per farne seguire altre forme più “aperte”, di
esplorazione, di comprensione e ascolto (di affiancamento), qui il genitore cerca
una qualche uguaglianza di interazione riducendo volutamente le distanze.
Lavoro: tra capi e collaboratori, apprezzamento e
critica costruttiva
La vita che scorre. In un qualsiasi luogo di lavoro l’asse capo-collaboratore è
sede di difficoltà e negligenze, che ricadono direttamente sulla prestazione
organizzativa. Tutte le ricerche ci dicono che il comportamento dei capi è al primo
posto di importanza nel funzionamento della macchina lavorativa, dal capo
dipendono funzioni chiave su come orienta il gruppo sugli obiettivi; come indirizza
i collaboratori nel lavoro operativo; come crea le condizioni di cooperazione;
come favorisce un clima di lavoro franco e costruttivo. Le relazioni interpersonali
verticali, i rapporti tra capi e collaboratori imprimono così un’impronta robusta e
spesso decisiva al clima di lavoro e alla produzione in azienda.
Alcuni studi126 hanno sondato le aspettative dei collaboratori rispetto a un capo
efficace, che sappia:
- supportare soluzioni innovative;
- valorizzare le idee dei collaboratori;
- aggregare i pareri di tutti nelle riunioni;
- valutare attentamente le persone;
- allenare le competenze dei lavoratori;
- dare certezze ai dipendenti;
- creare uno spirito di squadra;
- valorizzare i risultati del gruppo.
Altre ricerche mettono invece in chiaro una ricorrente e viziosa deriva del
cosiddetto “leader tossico”, quel capo che usualmente adotta comportamenti
negativi, tra cui: chiusura nelle relazioni, formalismo, ambiguità sugli obiettivi,
incertezze delle strategie, intolleranza per le persone, insensibilità agli altri,
pessimismo, controllo autoritario.
Le complicazioni. La dominanza del capo che monopolizza: «deve avere sempre
l’ultima parola lui!». Sappiamo che il capo ha la tendenza a monopolizzare lo
spazio della parola: è infatti molto frequente che in riunione parli molto e che dai
confronti coi collaboratori voglia uscirne avendo sempre ragione. Quali sono le
conseguenze di questa incapacità? Forse la più drammatica è che tende a
spaccare il gruppo, in coloro che lo seguono fedelmente e in coloro che invece
resistono e bloccano tutto appena gli si presenta l’occasione. La parola che marca
la dominanza, la volontà di avere sempre ragione sono fattori che hanno l’effetto
di spaccare il gruppo, provocando schieramenti a favore e contro il capo. In
questo clima organizzativo poi, i collaboratori diventano vaghi e inconcludenti,
oppure dogmatici e ostili.
Un’altra complicazione è quando il collaboratore fa un errore. Inesattezze e
sbagli sono molto frequenti, provocati sia dalla sostenuta tecnologia presente nel
lavoro, ma anche dal fatto che le regole vengono interpretate soggettivamente
dalle persone. Si fanno quindi errori, potremmo dire provocati da imprevedibilità
tecnica e da precarietà mentale (distrazione, dimenticanze, noncuranza). Le
ricerche ci dicono che gli errori sono tipici del processo del pensiero e in gran
parte non si possono evitare, perché sono una conseguenza diretta del modo in
cui la mente elabora le informazioni, per cui sono pressoché fisiologici,
diversamente da quello che si pensa, per cui gli errori sarebbero il frutto solo di
stupidità e negligenza.
Complessità/1. Quando si diventa capo, le precedenti relazioni interpersonali
subiscono una qualche forma di disturbo, la rete sociale interna originaria cambia.
Che lo voglia o no, il nuovo leader deve tenere una certa distanza tra sé e gli
altri. C’è quindi il tema della solitudine di chi è in una posizione di comando,
componente che produce una significativa dose di stress e frustrazione. Fa
esordio inoltre il fastidioso tema dell’invidia, molti smaniano intorno ai simboli
della leadership e al prestigio che rappresentano. Infine, il capo ha paura che gli
altri possano portargli via ciò che gli è costato così tanta fatica, fenomeno che lo
porta quasi automaticamente ad assumere atteggiamenti rigidi e guardinghi.
Complessità/2. Chi è comandato solitamente segue gli aspetti tecnici e
produttivi con livelli buoni di osservanza, ma sappiamo, la vita ordinaria giorno
dopo giorno tende a creare interferenze e alti e bassi.
Ecco allora comparire svariati fenomeni nel gruppo di lavoro, tra cui discontinuità
nella motivazione, resistenze varie, dissonanze di vedute, proiezioni e allarmismi,
proliferazione delle divisioni e dei conflitti. Gli studi della psicologia del lavoro ci
dicono di due trappole sempre presenti e già introdotte nella prima parte:
l’impegno ridotto (social loafing), che si manifesta quando i membri di un gruppo
si impegnano di meno in un compito a cui contribuiscono tutti, rispetto a quando
affrontano una mansione individualmente; l’inerzia sociale scatta quando un
membro intraprendente percepisce che sta lavorando troppo in confronto a
qualcun altro più passivo. L’altra trappola è il cosiddetto calcolo egoistico ( freerider), il calcolo vizioso del singolo che evita di dare il proprio contributo alla
situazione comune; il free-rider evita di cooperare, di prendere posizione attiva,
di mettere del suo nel lavoro comune. Da queste due trappole dei collaboratori,
più quelle dei capi che si irrigidiscono per difesa del loro ruolo conquistato, ecco
che viene a profilarsi un “quadretto” dalla tante insidie potenziali.
Complessità/3. La differenza gerarchica tra capo e collaboratore richiama
nell’immaginario di molte persone la relazione che nell’infanzia ciascuno ha avuto
coi genitori e si configura quasi inconsapevolmente nella categoria genitorebambino. È difatti possibile che capo e collaboratore si blocchino su una visione
egocentrica, in cui entrambi non tengono conto dell’altro, per via di posizioni
precostituite, opinioni bloccate, ruoli mentali fissi. Il capo dà dei lavativi ai
collaboratori e questi danno del bieco sfruttatore al capo: i collaboratori non
muovono un dito se nessuno li controlla (schema del capo); i capi non fanno altro
che spremerci (schema dei collaboratori).
Gli strumenti che facilitano. Un capo è da una parte un “leader di contenuto” che
deve presidiare il lavoro tecnico, dall’altra è anche un “leader di relazione”, che
deve apportare fiducia, clima costruttivo e supporto ai collaboratori. Seguendo le
quattro funzioni esaminate nella Parte seconda del libro, possiamo ricavarne
altrettante raccomandazioni.
La prima qualità di un capo facilitatore: data per fondamentale la componente
direttiva, si tratta di affiancarne una seconda più centrata sulle persone e sulle
relazioni e non solo incardinata su compiti e risultati. Si tratta quindi di “integrare
le parti (F1)”, per perseguire non solo i propri bisogni, ma prodigarsi per bisogni e
interessi più ampi e articolati. La seconda qualità è di un capo collaborativo, che
sviluppa tra i colleghi la cooperazione, l’interdipendenza, l’autonomia di azione, la
responsabilità e lo spirito d’iniziativa per il raggiungimento di obiettivi comuni e
complessi, fondando questa capacità sul “connettersi con gli altri (F2)”, con la
schiera di metodi comunicativi efficaci e di prospettiva sé-altro.
Arriviamo alla terza qualità, il capo allenatore, che sostiene il morale del gruppo,
impedendo un’esposizione sociale di singoli addetti a forme di esclusione,
gestisce negatività e da questa trova le buone risorse per piani di azione inclusivi
e sostenibili per il gruppo, qui l’area a cui attingere è “gestire la negatività e
trasformarla in positività (F3)”. La quarta e ultima raccomandazione riguarda il
capo gestore del potere, che passa dal comando (potere su) alla guida (potere
con, potere per, potere tra), da una concezione di chi deve tirare il gruppo, a
un’altra in cui far crescere e cresce con il gruppo; i riferimenti qui sono a
riflessività, attenzione e vitalità, presenti nell’”allenare la mente (F4)”.
Soluzione: tra capi e collaboratori, apprezzamento e critica costruttiva. Il capo
del futuro dovrà avere una grande capacità di ascolto, non solo come suo talento
personale, ma anche come funzione organizzativa. Un capo che interroga anche
se stesso e che ascolta i diversi soggetti, alla ricerca del polso della situazione. È
quindi importante che il capo possa assumere uno “stile costruttivo” nelle
dimensioni delle relazioni, della collaborazione, della risoluzione dei conflitti, del
sostegno, della motivazione dei suoi collaboratori.
Il capo può effettuare una “scelta”, quella di voler costruire insieme ai suoi
uomini e donne il futuro di un’azienda, di un gruppo, di un’associazione: la
capacità di risolvere problemi, prendere decisioni, fare gruppo è dunque una
nuova frontiera di uno stile di comando “partecipativo”. Uno stile che esiste
realmente e non è relegabile solo alle favole.
Ecco, questo stile costruttivo e partecipativo a mio avviso può prendere corpo
intanto con due strumenti base, elementari, di primo accesso, che sono
l’apprezzamento e la critica costruttiva, il primo da attivare quando si lavora bene
e la seconda quando si fanno errori e si accumulano ritardi. Riepiloghiamo i due
strumenti.
Apprezzamento
valorizzazione delle capacità
su fatti concreti, mirato
genuino e non cerimonioso
Critica costruttiva
inibizione di errori e ritardi
su fatti concreti, mirata
direttiva e negoziale
I nostri scambi come adulti sono di solito centrati sul suggerimento: «io farei»,
«tu fai come ti dico io», «non va bene come hanno fatto», ecc. Il suggerimento è
un modo di comunicare abbastanza informe, generalista, si danno suggerimenti e
consigli un po’ a tutti, non costa molto. Non si ascolta e non ci si immedesima
negli altri, ma le risposte e le ricette, quelle sì, un po’ tutti le sappiamo dare.
Far evolvere le nostre conversazioni sui terreni più impegnativi
dell’apprezzamento e della critica costruttiva vuole dire ampliare il copione della
sceneggiatura quotidiana. Anche tra capo e collaboratore, come abbiamo visto,
un altro asse molto critico e delicato, è possibile apportare miglioramenti: iniziare
a introdurre nelle routine lavorative e comunicative apprezzamento e critica
costruttiva è un passo semplice ma già molto importante. Il capo che introduce i
due strumenti e lo comunica in riunione e anche via mail: «Propongo che il nostro
lavoro possa essere scandito da ora in poi da apprezzamenti per le cose fatte
bene e critiche costruttive, quando si sbaglia e si fa male».
Qualche esempio di apprezzamento:
- Capo al gruppo: «Apprezzo molto in questi giorni l’impegno che vedo sia in
magazzino che in produzione, vi vedo tonici e concentrati!».
- Capo a Giovanni: «Ho visto con piacere che non fai più ritardi la mattina,
apprezzo molto».
- Capo a Rosanna: «Trovo buone le tue idee sul nuovo progetto, buona la parte
in cui approfondisci gli obiettivi della nuova linea di prodotti».
Qualche esempio di critica costruttiva:
- Capo al gruppo: «Una critica, negli open space ho notato sia venerdì che ieri
troppe discussioni e troppe parole che disturbano anche l’ambiente di lavoro,
chiedo che si parli a voce più bassa e su cose essenziali, va bene!».
- Capo a Giovanni: «Ho da farti una critica, il tuo ritardo di giovedì e di oggi di
mezz’ora, ha creato disguidi all’ufficio, devi cercare di chiudere con questa
abitudine, ti chiedo di farlo a partire già da domani…».
- Capo a Rosanna: «Una critica, nella nuova linea di prodotti hai messo sei
prodotti, sono troppi, non ce la possiamo fare nel semestre, li trovo esagerati, ti
chiedo di ristudiare il listino e arrivare massimo a tre».
Ho visto con piacere che non fai più ritardi la mattina, apprezzo molto».
Una volta maturata questa prima fase, in cui il capo invia apprezzamenti e
critiche costruttive in forma genuina e non occasionale, bensì frequente e
sistematica, egli può operare il secondo passo che è dato da ricevere
apprezzamenti e critiche lui da parte dei collaboratori. Il capo può introdurre così:
«propongo che apprezzamenti e critiche possano essere riferite anche al mio
operato, nei nostri incontri quindi potete sottopormi osservazioni sia in un senso
che nell’altro».
Questa seconda fase è meritevole per il capo, è certamente impegnativa, ma è
fatta per creare più gruppo, sbloccare i “pigri” della situazione, uniformare un po’
di più le prestazioni, ridurre i pettegolezzi nel corridoio e negli open space. Il
gruppo tuttavia può avere una doppia risposta nei fatti, inibirsi, cioè bloccarsi,
perché il capo resti lontano, inarrivabile, ingiudicabile, oppure, anche esagerare,
investendo il capo di eccessivo criticismo. La calibrazione non è infatti una qualità
umana, o meglio lo può diventare, dopo adeguata cura ed educazione. In tal caso
il capo, in via preventiva, o anche alle prime avvisaglie può riassettare il suo
meritevole esperimento, dicendo: «Vi ho detto della mia disponibilità a ricevere
critiche e apprezzamenti anche sul mio operato, nei casi in cui avvertissi le
critiche eccessive, mi riserverò la possibilità di dire “puoi concludere”…».
In definitiva, con questi due strumenti possibili, vedo per un capo un futuro di
maggiore impegno sul piano delle relazioni, che tuttavia può coincidere con una
maggior fluenza e facilitazione del lavoro nelle sue componenti tecniche,
produttive e manageriali. Curando infatti l’asse della relazione anche l’asse del
compito tecnico non ne può che trarre altrettanto giovamento.
Gruppi: fare riunioni più concrete e coinvolgenti
La vita che scorre. La riunione è un’attività polifonica, un’orchestra composta da
violini, chitarre, fiati e percussioni. Negli anni ho visto qualche talento naturale
cimentarsi polifonicamente nelle realtà lavorative, sì perché se c’è in giro qualche
“maestro d’orchestra” di tipo collettivistico, lo dobbiamo al talento e
all’applicazione sul campo, non di certo a una cultura diffusa, a un’educazione che
potrebbe partire già dagli asili.
La riunione in gruppo è un evento di connessione e conflitto tra pensieri e
culture, tra individualità e gruppalità, che si svolge su di un piano esplicito – le
azioni da svolgere, le decisioni da prendere, ma ne nasconde un secondo piano
nascosto – l’insieme della dinamica interpersonale ed emotiva, già illustrata a
fondo.
Quindi, la riunione di gruppo è il luogo emblematico della razionalità di azione,
ma sottintende e incorpora un vespaio dinamico e irrazionale, uno dei motivi
chiave per cui le riunioni nei contesti più vari – con condòmini, colleghi,
insegnanti, genitori, volontari – sono spesso un rebus complicato.
Riunione, il piano concreto
Condominio, decisione sulla
Riunione, il piano nascosto
Antipatie, paure, tensioni, chi vuole prevalere,
ristrutturazione del tetto
soggezione
Lavoro, discussione sui nuovi turni di
Conflittualità tra temperamenti diversi, pregiudizi
lavoro
incrociati
Riunione, il piano concreto
Riunione, il piano nascosto
Scuola, il consiglio di classe dà le
Proiezioni diverse degli insegnanti su singoli
valutazioni a fine quadrimestre
studenti, chi vede impegno e chi non vede impegno
Genitori, le maestre spiegano il
Il genitore che le attacca, che vede sempre
programma annuale
minacce
Associazione, volontari che si riuniscono Chi parla soltanto e chi invece vuole solo i fatti e si
per coordinare una campagna sociale
spazientisce per le tante parole al vento
Quattro i tipi di riunione più frequenti (vedi figure qui sotto):
- riunione produttiva: finalizzata ad azioni e risultati, che segue tre fasi in
sequenza “a imbuto”: condividere i problemi, regolarli e regolarsi, concludere e
agire;
- riunione conflittuale: il cerchio al centro indica che lo scontro blocca l’evolversi
funzionale della riunione;
- riunione di compito imminente: dove le conclusioni per pianificare le azioni
sono più imponenti e accentuate;
- riunione di motivazione: dedicata al parlarsi, chiarirsi, far emergere problemi e
disagi; il gruppo è centrato su se stesso e sulle relazioni interne e quindi meno
sul fare e pianificare.
Altre tipologie di riunioni:
- riunione per informare, incontri in cui un soggetto comunica dati ai
partecipanti;
- riunioni per raccogliere informazioni: in questo caso chi conduce la riunione ha
predisposto domande da sottoporre ai partecipanti;
- riunioni di confronto: è per definizione una riunione in cui i sottogruppi con
opinioni divergenti si incontrano per mettere in chiaro le proprie posizioni;
- riunioni per trovare accordi: ci si può orientare verso una negoziazione (le parti
si accordano direttamente) o una mediazione (le parti vengono aiutate da una
“terzo soggetto” mediatore e facilitatore);
- riunioni per prendere decisioni: il gruppo è chiamato a scegliere e schierarsi; è
una tipologia di incontro ad alta tensione;
- riunioni formative: in cui si diffonde un nuovo sapere tecnico o sociale;
- riunione di creatività (brainstorming): produzione e invenzione di idee;
- riunione-lampo (briefing): aggiornamento veloce e rapido passaggio di
informazioni;
- riunioni di progetto (kick-off): avvio di un nuovo programma, pianificazione e
stato di avanzamento dei lavori;
- riunioni di consulenza: esame di problemi con un esperto;
- riunioni di valutazione: il punto su obiettivi e prestazioni;
- riunioni multiattore: enti e associazioni coordinano politiche sociali;
- gruppo tematico: riunione centrata su tematiche definite;
- riunioni evento: incontri assembleari costruiti per simboleggiare nuovi valori,
riunioni con forte impatto di immagine e di rappresentazione scenica con un’alta
valenza rituale;
- forum partecipati: assemblee di cittadini e amministratori sui temi della
gestione della cosa pubblica.
Le complicazioni. Oltre all’ampia gamma di negatività, gli esiti di una buona
riunione vengono solitamente contrastati anche dal fenomeno dell’inconcludenza.
Ho scoperto che tante riunioni sono generiche, senza obiettivi, sfocate e intrise di
linguaggio astratto, sfuggente. È questo l’ambiente di base in cui cresce e
prolifera la seconda grossa trappola, l’inconcludenza appunto. Abbiamo già visto
quanto la dinamica di gruppo comporti numerosi inconvenienti: molte ricerche per
esempio ci dicono che quando si è in riunione tendiamo a ragionare di più, ma
meno bene; anche la qualità individuale in termini di idee e creatività sembra
perdere energia e originalità127.
Quindi, per visualizzare l’inconcludenza nel 2008 ho immaginato che la
riunione128 fosse “a campana” e come ogni campana molti incontri finiscono con
un’apertura dispersiva invece che con una chiusura che concretizzi. La riunione “a
campana” si apre e non si sa quando finisce e con quali risultati: si inizia spesso
in ritardo, all’ordine del giorno si aggiungono troppe altre voci, parlano sempre i
soliti, non si stringe nella direzione dei fatti e delle azioni. Scelsi la campana
proprio perché nella fase conclusiva le riunioni spesso non chiudono fattivamente
e anzi restano aperte in maniera illimitata. Ecco alcuni fattori che generano
inconcludenza.
Complessità/1. Una complessità è data dal gruppo stesso e dalle emozioni
incontrollate e inconsapevoli che di solito circolano, senza che i soggetti le
riescano ad avvertire e considerarle come davvero sono, cioè vere e proprie
“lenti” che deformano la realtà e ne amplificano comportamenti ed effetti. Per
esempio un’idea immaginaria tipica in un gruppo è che la riunione sia come una
“selva”, un’arena in cui il singolo si sente inferiore rispetto agli altri, che
costituiscono un unico corpo ostile. Questo disagio non è indice di malattia, ma
solo di una fisiologica inclinazione mentale, abbastanza tipica di una riunione con
colleghi o persone più o meno conosciute.
Complessità/2. Alcune difficoltà che ho raccolto in uno dei tanti corsi sulle
riunioni.
1 Argomenti vaghi
Orari non
2
rispettati
Problemi restano
3
tali
Introduzioni
4
lunghe
5 Per non litigare…
6 Si decide, ma…
Il gruppo è
7
chiuso…
Divagazioni, non stare in argomento
Ritardi e tenuta difficile dei tempi
Problemi senza soluzioni, se ne aprono altri
Premesse che non vanno alla concretezza
Si lascia cadere il discorso
Poi fuori è tutto diverso, tutti criticoni
Gruppo chiuso a qualsiasi cambiamento
Si guarda solo agli aspetti negativi, non c’è mai tranquillità, alcuni cadono
nel silenzio
9 Inerzia nel gruppo
Staticità e resistenze che demotivano
10 Carica e scarica
Si arriva carichi e si diventa subito scarichi
11
Vaghezza
Stare troppo sospesi o troppo teorici
12 Passivi e spenti
Non disponibilità ad assumere iniziative
L’attenzione
13
Tutti parlano, accavallamenti, ci si spegne
scende
8
Tanta tensione
Complessità/3. L’ho già scritto, non siamo educati alla cultura di gruppo, alla
pluralità di più pareri in simultanea, bensì sappiamo muoverci meglio nella
cultura di coppia, appresa lungo l’arco della vita: madre-bambino, maestrascolaro, insegnante-studente, medico-paziente.
Se nella riunione si aumenta pluralità e senso collettivo a discapito della cultura
di coppia, aumentano proporzionalmente anche inclusione, coinvolgimento,
appartenenza e attivazione al lavoro. Il dilemma è tuttavia dato dalla diffusa
carenza di educazione alla pluralità, che corrisponde a una mancanza di capacità
operative nel favorire inclusione e praticità, qualità quasi ovunque mancanti. Se
l’educazione alla pluralità stenta è anche dato dalla persistente e antica idea
monistica129 di dominio130, fondata tutt’oggi sull’uomo al comando e
sull’individualismo.
Gli strumenti che facilitano. Gestire buone riunioni è difficile e facile al tempo
stesso. Tra gli strumenti presentati nel libro svetta comunque la sezione dedicata
a stare con gli altri, imparare il gruppo in F1, dove in particolare sono utili fare
gruppo e la parola che gira, quali strumenti concreti per alimentare pluralità e
collettivo. Molto attinente anche la sezione dedicata a fare buone riunioni, in cui
si illustra la riunione a tre fasi, il metodo davvero innovativo che tiene conto di
tre tipi di velocità.
Questo metodo l’ho messo a punto ormai più di otto anni fa, proprio osservando
le trappole delle riunioni negative e inconcludenti. Vedevo le persone che
aggiungevano e aggiungevano problemi, complessità, come in una somma
algebrica, attitudine che non collimava con una proporzionale capacità di
snellimento e alleggerimento. Notavo come ogni partecipante avesse una
tendenza tacita di mettere nel calderone, non darsi limiti, non capaci di
sintetizzare e portare a conclusioni i singoli argomenti.
Per le riunioni sono altamente indicati anche gli strumenti dell’intera sezione
“connettersi con gli altri (F2)”, da cui possiamo estrarre rispettivamente l’abilità
dialettica, la filosofia del rispetto, l’ascolto buono, il cambio di turno, lo
scongelamento, il feedback negoziale. Come non aggiungere anche tutta l’area
del “gestire la negatività e trasformarla in positività (F3)”, con il gestire i conflitti,
la parola chiave e direzionale.
Soluzione: fare riunioni più concrete e coinvolgenti. Ricordo il principio su cui
poggia la pratica delle riunioni concrete e coinvolgenti: la necessità di curare
congiuntamente sia i contenuti, l’ordine del giorno e sia le persone con le loro
caratteristiche.
Per compiere questa integrazione ci adoperiamo per coinvolgere le persone
(fase espressiva), canalizzare e facilitare persone e contenuti (fase regolativa),
concludere nell’agire e concretizzare, questa ultima parte da esercitare in forma
schietta e diretta131 (fase performativa).
Alla riunione a tre fasi (a imbuto) provo qui a collocare gli strumenti lungo il suo
asse tripartito.
Fase espressiva
accendere- - stare con gli altri – imparare il gruppo – fare buone riunioni
(coinvolgere e
includere
– la parola che gira – filosofia del rispetto – scongelamento
includere le
persone)
Fase regolativa
- connettersi con gli altri – cambio di turno – ascolto buono –
canalizzare(collegare le
abilità dialettica – gestione negatività – gestione conflitti –
facilitare
persone ai
feedback negoziale
contenuti)
Fase performativa
- saper essere concreti – piani di azione – piani di
agire(concretizzare il
piano di contenuti e concretizzare
azioni)
miglioramento – chiusura-avanzamento – fare accordi,
negoziare
Se nelle organizzazioni si apprendessero solo una piccola parte di questi nostri
metodi le riunioni si svolgerebbero in maniera più agevole e con maggiori
risultati, un agio che riverbererebbe anche sulle condizioni delle organizzazioni
stesse, che in un’epoca di restrizioni e difficoltà economiche di ogni genere,
potrebbero acquistare nuovi slanci a loro favore.
La vita dunque diventa più facile se in un qualsiasi gruppo di nostra
appartenenza, riusciamo a “far girare” gli scambi in modo meno faticoso
prevenendo un senso diffusissimo di sfinimento per le riunioni.
Per sfinimento molti enti non fanno più riunioni, se le fanno sono già tutte
regimentate, oppure per sfinimento non si va più alla riunione di condominio o
quella dei genitori di classe, per demoralizzazione non si frequenta più il comitato
o l’associazione che porta avanti buoni principi.
Tu che leggi malgrado ciò potrai farti la domanda: «Sì, è vero la vita può essere
più facile, ma non so utilizzare questi strumenti pratici che il libro presenta…
come faccio?».
Propongo intanto che ti ponga il problema per cui senza educazione e strumenti
non si va da nessuna parte, anche in questa materia che sembrerebbe più
naturale e spontanea.
È invece una materia ad alta complessità, che necessita come le altre materie di
saperi e strumenti aggiornati. Preso atto di questo punto, puoi poi fare un passo
alla volta, farti un programmino graduale, sfruttando al massimo questo libro.
Adulti: aiutarsi in maniera buona e per giunta
gratuita
La vita che scorre. Come comprendere la grande varietà di problemi che ci
possono affliggere e che disturbano il nostro equilibrio? Uno soffre della
mancanza di stima personale, l’altro della sfiducia nelle persone, un altro di ansia
e fragilità nel farsi valere, una del senso di colpa, un’altra ancora dei momenti di
panico, ecc. Con tutto ciò, con un mondo intorno ricco di stimoli, di nuove
tecnologie mirabili, rischiamo spesso di sentirci come da soli nella nostra
“cantina”.
Altri disagi frequenti, una donna pensa: «Se non ho un uomo nella mia vita, non
sono come gli altri, gli altri sono normali, ma io no»; un cinquantenne che ha
perso il lavoro rimugina: «Mi sento un “niente”»; la studentessa che da tre anni
non riesce a dare la laurea: «Sono anormale, tutti ce l’hanno fatta, io no e penso
che chi mi vede pensi proprio a questo». Tante parti interne che patiscono e stati
d’animo che tribolano per “deviazioni” da una presunta “normalità”. Pensieri
ripetitivi e stati d’animo infelici di vergogna, paura, amarezza, che portiamo
dentro come fosse una “cantina” in cui l’accesso è dato solo a noi.
Per una vita più facile l’impegno è far crescere capacità personali e relazioni di
reciprocità, che ci possano rinforzare su questo terreno così delicato e instabile,
un terreno che abbiamo tutti dal primo all’ultimo. Altri esempi di vita difficile:
- «Mi sento ansiosa che qualcosa può succedere», paura;
- «Una piccola offesa e vado fuori di testa», rabbia;
- «Mi ha deluso, non posso più avere fiducia in nessuno», relazioni rotte;
- «Non posso fare niente, sono un blocco di cemento», inibizione;
- «Non ho voglia di niente, tutto è giù, come svuotato», energia spenta.
Cosa fare? Per ognuno, il passo più efficace è condividere il vissuto nascosto (in
cantina) con un’altra persona che offre un ascolto profondo132.
Le complicazioni. Il “vissuto in cantina” sta a significare tutti quei pensieri intimi
che abbiamo quando siamo soli. Questi pensieri sono automatici, si ripetono,
coinvolgono il nostro senso di sé e sono intimamente intrecciati alle nostre
emozioni: rappresentano una nostra parte profonda. Abbiamo pensieri stupendi e
positivi, e fin qui tutto bene. Ma ne abbiamo altri strazianti. Spesso questa
sequenza di pensieri ripetitivi si conclude con un’impasse: «Non ce la faccio», «È
impossibile!», «Sono fallito! rovinato!», «Mi sento perduto!». E dopo questo
rimuginio di parole interne sentiamo una sensazione di contrazione, un nodo, un
netto calo di vitalità, un sospiro di agitazione, o altre sensazioni poco gradevoli.
Nella prima parte del libro abbiamo toccato il tema dei due cervelli, in cui quello
razionale ha una sua logica e quello emotivo un’altra. Durante il giorno domina il
cervello razionale, la corteccia: precisa, orientata verso scopi e strategie,
riflessiva. I pensieri sono chiari, ordinati, canalizzati nella realtà, ecc. Durante la
notte e anche in un giorno di riposo in cui si stacca dalla routine, cresce e talvolta
domina la logica del cervello emotivo, il limbico: i pensieri diventano confusi, si
sovrappongono l’uno sull’altro, scappano dal senso di realtà, ma allo stesso
momento, contengono gli impulsi viscerali e riflettono i veri sentimenti verso sé e
verso l’altro. In ogni momento della nostra giornata c’è una dinamica razionalitàemotività: se stiamo calcolando la retta delle mense di nostra figlia, l’influenza
maggiore è della corteccia (dominanza del cervello alto). Ma quando siamo in
un’offesa ricevuta in ufficio, l’invidia per un collega che ha avuto la promozione di
carriera, un fratello che non ci chiama mai, ecco che la dominanza diviene quella
del limbico (dominanza del cervello basso). Che cosa ci manca nella solitudine
dolorosa? Ci manca il contatto con un’altra persona, l’espressione e il poterne
parlare, l’elaborazione come sviluppo da dare a pensieri ed emozioni.
Complessità/1. Possiamo considerare tre momenti in cui “carichiamo” vissuti
facili e difficili:
- tutte le interazioni normali della vita quotidiana;
- i momenti e periodi di solitudine in cui riflettiamo e che ci servono per
ricaricarci, una “solitudine buona”;
- i momenti di solitudine, in cui entriamo in alcuni pensieri fissi dolorosi che ci
conducono a un’impasse, una “solitudine dolorosa”.
Per vivere un po’ più facile possiamo ascoltarli un po’ e non eluderli facendo di
tutto pur di distrarci (un gioco davvero poco felice).
Complessità/2. Le interazioni nella vita quotidiana. Andiamo al lavoro, parliamo
con un collega, apriamo il computer, ritorniamo a casa, ci relazioniamo con la
famiglia ecc., tutto ciò rappresenta esperienze che poi vogliamo comunicare, per
la sequenza di aneddoti, pensieri, emozioni, percezioni e memorie che abbiamo
provato, capito, sentito. Questo bagaglio è il più semplice da raccontare e da
ascoltare, anche se a volte può riguardare anche episodi quotidiani difficili, che
diventa più complicato comunicare.
Complessità/3. Nella “solitudine buona” i nostri pensieri possono viaggiare in
diverse direzioni, fluttuano come nuvole: bollette da pagare, orario di chiusura
dei negozi, la spesa di verdure, le telefonate da fare, sistemare la cucina, piove o
nevica, una barzelletta ricordata, ricordi antichi, un’offesa, o qualcosa di
indefinibile che non ha parole, ecc. Anche qui ci può essere agevole parlarne e
venire ascoltati.
Complessità/4. Pensieri intimi di sé che si ripetono nella “solitudine dolorosa”.
Sono i pensieri che coinvolgono la nostra esistenza, che sono “importanti”, che
vengono con un carico di emozione (negativa o anche positiva), che si ripetono
con poche variazioni nel tempo. Sono quelli della nostra “cantina” impolverata e
con poca luce.
Alcuni esempi: «Devo riuscire, è la mia ultima possibilità», «Non ho detto niente,
come un idiota», «Sarei più amata se fossi più bella», «Ma cosa faccio lo lascio?
non lo so», «Vedranno chi è il più bravo, mi verranno a cercare», «Non voglio più
questo stress», «Questo qua non lo posso sopportare!», «Mi troveranno
all’altezza?». Questi sono esempi di pensieri intimi di sé, pensieri che si
concludono ogni volta in un’impasse, un nodo, una buca che ci fa bloccare133.
Gli strumenti che facilitano. Del nostro vissuto quotidiano, che sia quello
dell’interazione normale, quello in solitudine buona o quello in solitudine
dolorosa, il punto cruciale è volerlo e poterlo esprimere, portarlo fuori: parlarne,
scrivere, disegnarlo, metterlo in gesti corporei (chi praticasse una disciplina
sportiva o psicofisica). Qui possiamo aggiungere l’importanza di imboccare due
strade nell’esplorazione e approfondimento: la prima è chiedendo cose
dell’evento negativo e difficile; la seconda su come sente il problema lui/lei
quando è nella solitudine dolorosa.
Esempio, Carla: «mi sento ansiosa che qualcosa possa succedere», vediamo le
domande di esplorazione che il “facilitatore pratico” può formulare all’amica o alla
moglie.
«Mi sento ansiosa che qualcosa possa succedere».
Livello “vita quotidiana”
Livello “solitudine dolorosa”
«Quando sei sola, quali pensieri ti vengono riguardo a
«Cosa è successo in questi giorni?»
questo sentirti ansiosa?»
«Dove senti di più questa sensazione, al «Hai provato a sentire anche che stato d’animo ti
lavoro o a casa?»
viene?»
«Quando sei sola hai delle immagini di cose fatte in
«Hai pensieri particolari?»
questi mesi?»
«Che cosa potrebbe succedere?»
«Come ti senti quando sei sola con questi pensieri?»
Insomma, la positività è alla nostra portata ed è anche per giunta gratuita,
basta avere un po’ di metodo e conoscenza. Perché la positività è alla portata e
in questo esempio invece Carla sembrerebbe navigare nelle difficoltà?
Credo molto che un regalo, forse il più bello, che possiamo fare a un altro è
l’ascolto profondo, libero da giudizi e consigli.
È un regalo per noi che ascoltiamo,perché ci fa sentire più umani e vicini alle
sorti dell’altro, ma per chi riceve, la positività è data da calore umano, vicinanza,
nodi che si allentano e diventano più affrontabili, non sentirsi la più strana e
ultima del mondo, senso di maggior forza nel corpo e tanto altro ancora.
Tramite l’ascolto buono, attivo e profondo possiamo dare un grande conforto
all’amico o alla moglie, a un figlio, un semplice e mero ascolto, che invece ha il
grande effetto dell’aiuto. Possiamo dirci facilitatori di relazione di aiuto: l’arte di
aiutare ascoltando. Aiutare l’altro ad adottare le sue stesse difficoltà, non
soffocarle, prendersene cura, provare ad aiutarlo nelle sue parti difficili.
Questo è a mio avviso il germe della vita facile, è provare a crescere nelle
nostre parti difficili, oltre a godere e gioire delle parti facili, ma lì siamo tutti
buoni e l’inghippo è che semmai dopo un po’ stare solo nel facile ci fa sentire
distratti, cerchiamo altro.
Sintetizzo quali sono gli strumenti pratici per aiutarsi. Troviamo strumenti molto
utili nel “connettersi con gli altri (F2)”: certamente il permesso, l’ascolto attivo, la
richiesta parere, l’empatia corporea.
Altri strumenti fondamentali nel “gestire la negatività e trasformarla in positività
(F3)”: parola chiave e parola direzionale e l’intero dispositivo della capacità
negativa.
Un mio vissuto personale che aggiungo: a volte dopo un ascolto profondo con
allievi o amici, ho notato che il terreno dei pensieri e dell’umore è come
rigenerato, rinfrescato e permette un salto imprevisto verso un po’ di umorismo,
ci si prende un po’ in giro, si sente un senso di leggerezza molto bello.
Ecco, due ultimi strumenti che suggerisco sono in F4, nella sezione costruire una
buona persona e sono a fari spenti e leggerezza.
Un ultimo esempio che vede protagonista Paolo: «Una piccola offesa e vado
fuori di testa».
«Una piccola offesa e vado fuori di testa».134
Permesso
Ascolto attivo
Richiesta
parere
«Ti va di parlarne?»
«Sì, comprendo, mi immagino come ti puoi sentire…»
«Un’offesa di questi giorni?» (vita quotidiana)
«Quando sei solo come ti senti?» (solitudine dolorosa)
Empatia
corporea
Parola chiave
Parola
direzionale
Imitazione parziale di piccoli segni gestuali e corporei di Paolo
«Offesa dici…»
«Offesa… in merito a cosa?»
A fari spenti
Leggerezza
L’ascoltatore non teorizza dicendo “parliamone”, ma lo fa concretamente senza
enfasi
«Chissà con un leone allo zoo, cosa faresti e, di più, cosa farei anch’io… siamo
sullo stesso barcone!»
Soluzione: ascolto profondo, il regalo più bello da fare. Parto con una citazione
che ho molto a cuore, dal libro di Jerome135.
Chi è in grado di offrire ascolto profondo? «L’ascolto profondo è una potenzialità
universale. Psicologi, consulenti e operatori sociali offrono ascolto profondo per aiutare i
propri clienti. Un insegnante può aiutare gli studenti in difficoltà. Un operatore del
volontariato può aiutare una persona che soffre di solitudine, di malattia, per un lutto in
famiglia […]
Vi sono innumerevoli situazioni in cui l’ascolto profondo è necessario. […] È una facoltà
del cui sviluppo beneficiano tutti! […] L’ascolto profondo è un processo in cui,
potenzialmente, ognuno viene arricchito! Se parlo dei miei problemi, delle mie sensazioni
di suscettibilità, delle mie delusioni e dei miei risentimenti, me ne sento liberato provando
un certo sollievo.
Al tempo stesso l’altro viene arricchito dalla comprensione di come gli esseri umani sono
vulnerabili alla sofferenza, alla confusione, alla precarietà delle relazioni e alle umiliazioni
sociali. L’ascoltatore ne trae una visione prospettica e profonda per capire la sua stessa
vita».
L’ascolto profondo nelle realtà di oggi lo possiamo offrire al cellulare, su Skype,
meglio se in presenza faccia a faccia. Lo possiamo offrire in uno spazio in cui ci
dedichiamo solo all’altro, oppure in uno spazio di reciprocità in cui un tempo parla
l’altro e un tempo parliamo noi.
Qui la proposta che avanzo per aiutarsi è quella di creare un colloquio di ascolto
profondo con una persona della nostra cerchia, sui temi reali propri e dell’altro.
Questo momento a due prevede un tempo per sé e un tempo per l’altro136.
È un metodo di colloquio orientato condotto senza giudizio su vissuti ed
emozioni, basato sull’uguaglianza.
Un incontro ha la durata di un’ora, di cui trenta minuti parla il soggetto A e
trenta minuti il soggetto B. Cerchiamoci un partner tra gli amici e conoscenti che
pensiamo possa avere caratteristiche buone di ascolto!
Accorgimenti per il colloquio di ascolto profondo. Alcuni buoni spunti:
- scelgo una persona e le avanzo la proposta per un primo colloquio, così ci
mettiamo un po’ alla prova;
- prima del colloquio è bene ricordare le piccole regole che insieme si cerca di
rispettare;
- regola uno: si ascolta con attenzione senza interrompere l’altro e senza dare
giudizi, consigli, ricette, o alleviare (vedi barriere comunicative);
- regola due: mettere una sveglia con trenta minuti più trenta minuti, rispettare i
tempi;
- regola tre: alla fine del tempo è buono dare un proprio parare, che avrà
l’accortezza di concludere in positivo, con incoraggiamento e apertura, fare e
ricevere apprezzamento per le cose dette e per l’impegno profuso;
- il protagonista: di cosa parlare? Di come stiamo, di come è andata la giornata,
iniziare da un argomento e svilupparne poi un altro, nel proprio tempo;
- l’ascoltatore: come ascoltare? Fare silenzio, annuire, imitare un po’ i gesti
dell’altro (empatia corporea), ogni tanto è buono fare qualche domanda di
approfondimento (come da esempio di Paolo).
Ricordo quali sono le leve cruciali del colloquio di ascolto profondo, che ci
aiutano a passare dal negativo al positivo:
1. il contatto con l’altro;
2. l’espressione della parola ad alta voce;
3. l’elaborazione dei pensieri.
Nella “solitudine dolorosa”, nella nostra “cantina” infatti, l’altro non è presente,
non parliamo ad alta voce e non elaboriamo con pienezza i nostri pensieri.
Benessere: il ventaglio delle attività buone
1. Essere ottimisti (ma anche un po’ pessimisti)
È scaduta l’enfasi sul ruolo del pensiero positivo, la crisi in corso segna la fine
della superiorità dell’ottimismo. Molti studi ci dicono che un eccessivo ottimismo
indebolisce la nostra capacità critica, reprime le paure, ci può rendere ebeti. Non
si tratta quindi di tornare al più bieco pessimismo, bensì di sviluppare un
atteggiamento flessibile e attento al valore delle emozioni sia positive che
negative, entrambe ci fanno assolutamente bene nell’aiutare noi e gli altri.
2. Stare nei gruppi
Le relazioni con gli altri e nei gruppi rappresentano un allenamento mentale, del
cervello, del corpo, proprio perché si è alle prese con problemi complessi, scambi
di informazioni, l’arte di immedesimarsi nell’altro, reagire a stimoli belli e brutti,
l’elasticità necessaria per tollerare altre personalità, l’efficienza di condividere
spazi fisici e risorse materiali comuni e spesso limitate.
3. Cooperare
La cooperazione è tanto indispensabile per ottenere risultati di livello assoluto
quanto difficile da realizzare. Per riuscirci, abbiamo bisogno di abilità sociali
specifiche e la chiave da giocare è facilitare la cooperazione (to ease) e da
questa idea è nato l’acronimo “face” (facilitazione esperta) che comprende
quattro capacità espresse: coordinarsi, coinvolgersi, aiutarsi, attivarsi137.
4. Essere affettuosi, avere cura del cuore
Diventiamo un po’ monchi quando nelle relazioni prendiamo la china di stare
“senza-l’altro” o di “stare sull’altro”, perdendo il filo invece di stare “con-l’altro” e
muoverci “per-l’altro”. Coltivare l’arte del sentire, avere a cuore il cuore, coltivare
un io tenero. Sono d’accordo con Fromm quando dice che il nuovo rapporto che
consente a noi umani di sentirci a nostro agio nel mondo “è il rapporto armonioso
della fratellanza”, aumentando il nostro essere affettuosi.
5. Gestire l’ansia da tecnologie
È evidente che l’uso abbondante di tecnologie informatiche ci reca distrazione e
tensioni diffuse, se non nuove forme di dipendenza. Negli ultimi tempi stanno così
nascendo siti che provano a facilitare la concentrazione e limitare l’ansia da
Internet. Il tecnostress sembra che possa essere un rischio per la salute:
proviamo ad alternare l’uso delle tecnologie virtuali con attività concrete e fisiche,
non virtuali ma virtuose.
6. Ridere e prendersi in giro
L’umorismo è buono e fa anche bene. Un esercizio possibile è cercare
volutamente umorismo, prendersi in giro, ironia, paradosso, i lati insoliti, bizzarri,
curiosi, giocare con le parole, ribaltare il senso delle cose, vederle dal lato
opposto, fare pantomime, imitazioni, caricature. L’umorismo riduce il cortisolo,
l’ormone dello stress, abbassa la pressione sanguigna, genera endorfine (gli
ormoni del buon umore e della resistenza al dolore).
7. Andare per musei, l’arte e la bellezza
L’arte è un’esperienza etico-estetica che crea miglioramento di sé, perché
quando il cervello percepisce il bello tutto l’organismo si rigenera. Molti studi
confermano che il tempo libero orientato verso cultura e arte contribuisce
fortemente al mantenimento della salute. Apprezzare un’opera d’arte presuppone
conoscenza e interesse e quindi rappresenta un’esposizione a stimoli complessi.
L’assorbimento emozionale che si verifica davanti a un’opera d’arte è davvero
speciale, tanto che molte ricerche lo hanno definito come un flusso (flow) o
esperienza ottimale.
8. Ascoltare e fare musica
La musica produce dopamina, la sostanza chimica che dal cervello infonde
piacere nel corpo, un senso di appagamento come quando si assumono sostanze
stupefacenti. Alcuni studi hanno riscontrato che sin dai primi giorni di vita esiste
nel nostro cervello una specializzazione musicale, capace di riconoscere la
musica. L’ascolto di musica ha quindi effetti positivi sul corpo (circolazione
sanguigna, movimento) e sulla mente (umore, linguaggio).
9. Ballare
La danza è un’arte del linguaggio corporeo, una sopraffina elaborazione
armoniosa dei movimenti, qualsiasi sia la sua fonte e modalità. Ballare risponde a
un bisogno importante per gli umani, tra cui quello espressivo, aggregativo e
anche di cura. La danza infatti favorisce la modulazione delle emozioni, il divenire
consapevoli e il comprenderle a livello mentale.
10. Cantare
Il canto regola, rafforza e intensifica la respirazione, favorisce lo sviluppo del
sistema uditivo, fa vibrare il corpo e tonifica e calma il sistema nervoso, rivitalizza
gli organi interni e vivifica tutto il sistema ghiandolare endocrino, amplifica e
ottimizza il campo elettromagnetico. La voce cura lo stato fisico, emotivo e
spirituale, quindi lo stato di salute globale.
11. Correre, fare attività fisica
L’attività fisica fa stare molto meglio il nostro corpo, riduce lo stress e migliora
l’umore, riduce la pressione sanguigna mantenendo i vasi elastici, tiene sotto
controllo il peso, regolarizza l’attività intestinale, sollecita i centri del piacere,
rallenta l’invecchiamento, fa vivere meglio. Attività ideali sono corsa, nuoto,
ciclismo, camminata veloce. L’attività fisica migliora anche le funzioni del nostro
cervello, che agendo come un muscolo, cambia a seconda degli esercizi a cui lo
sottoponiamo.
12. Donare
Sulla strada del valore del legame e della solidarietà ci viene incontro la forza
del dono, un evento reale già presente nella nostra quotidianità: quando persone
offrono gratuitamente ad altri il proprio tempo e la propria professionalità, il
proprio lavoro o i propri oggetti. Donare ci permette di uscire dall’opposizione
egoismo/altruismo e poter essere con l’altro solo per il piacere di una vicinanza e
di una convivenza.
13. Facilitarsi
Si intende quell’insieme di competenze da mettere in atto in forma intenzionale
e proattiva, con atteggiamento vigile, con l’obiettivo di migliorare sé e
l’ambiente, aumentare le risorse in gioco. Si tratta di una capacità nuova
orientata alla pluralità, al saper unire nelle diversità.
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P. Zimbardo, L’effetto lucifero, Cortina, Milano 2008.
Ringraziamenti
Erano almeno cinque anni che avevo in animo di scrivere questo libro. Dalla
ricerca e dagli approfondimenti compiuti in passato, volevo scrivere qualcosa per
un pubblico più vasto, per gente comune che vive ancor di più della comunità
professionale la scabrosità di certe storie e situazioni. Non so se ci sono riuscito,
ma in queste pagine ho messo il mio massimo impegno e la mia massima
competenza, per “tradurre” concetti e metodi a volte per loro stessa natura un
po’ astratti, in un linguaggio più semplice e divulgativo.
Sto cercando anche con me stesso quello che qui scrivo, quando spiego il senso
dell’unire e dell’integrazione di parti proprie e di parti nelle relazioni di coppia e di
gruppo. Davvero, in prima persona vivo momenti negativi e momenti positivi,
come del resto si potrebbe non viverli, nel bene e nel male, rispetto a ciò che
stiamo attraversando tutti quanti insieme.
E davvero credo nell’arte della facilità, facilitando il difficile, il complesso, l’altro.
Su questa strada, entusiasmante e anche faticosa, sono stato aiutato da molte
persone. Jerome Liss, che tanto sapere complesso mi ha donato, un sapere a due
facce, quello del giorno e della notte. Mia moglie Diana, che mi sostiene
costantemente nelle mie difficoltà e aspirazioni. I miei allievi e i miei studenti,
che seguono con meticolosità quanto vado loro proponendo. Alcuni autori,
fondamentali per il sapere che con rigore e concretezza ho ripropongo anche in
questo libro. I miei amici, coloro che frequento nel tempo libero, che mi vedono
come a volte sono, con tutte le mie forze e tutte le mie debolezze.
A tutti un grazie.
Sommario
Prefazione
PARTE PRIMA. Premesse, trappole e opportunita’: un nuovo “polmone educativo”
Siamo naturalmente differenti e conflittuali
Isolamenti e altre indolenze quotidiane
La chiave dell’arte: trasformare il negativo in positivo
Pienezza e travagli, l’integrazione di ragione ed emozione
Unire le parti e unire le persone: la “ruota di facilitazione”
Il “facilitatore pratico”: l’adulto che mira a facilitarsi e facilitare
PARTE SECONDA. Mettere in pratica
Gli strumenti concreti per l’arte della facilità
Integrare le parti (F1)
Connettersi con gli altri (F2)
Gestire la negatività e trasformarla in positività (F3)
Allenare la mente (F4)
PARTE TERZA. Vivere più facile
Nelle esperienze di tutti i giorni
Coppia: nelle divisioni un amico che facilita
Genitori: comunicare e gestire la negatività
Lavoro: tra capi e collaboratori, apprezzamento e critica costruttiva
Gruppi: fare riunioni più concrete e coinvolgenti
Adulti: aiutarsi in maniera buona e per giunta gratuita
Benessere: il ventaglio delle attività buone
Bibliografia
Ringraziamenti
1 John Cacioppo, William Patrick (2009), Solitudine, Il Saggiatore,
Milano 2009.
2 La genetica è quella parte della biologia che ha sviluppato più di tutte
l’analisi matematica del vivente, in merito in particolare alla trasmissione
dei caratteri ereditari da individui di una generazione ai discendenti.
3 Gli spunti di base sono ripresi da Jerome Liss, Cartellone integrato,
materiale interno, Roma 2009.
4 Steven Porges, Reciproche influenze tra corpo e cervello, Mimesis,
Milano-Udine 2011.
5 John Bowlby, La base sicura, Cortina, Milano 2009.
6 Cacioppo e Patrick, op. cit.
7 Jonah Lehrer, Come decidiamo, Codice, Torino 2009.
8 Daniel Kahneman, Pensieri lenti e veloci, Mondadori, Milano 2012.
9 Jerome Liss, L’ascolto profondo, La Meridiana, Molfetta (Ba) 2004.
10 Daniel Kahneman, op. cit.
11 Manfred Kets de Vries, Danny Miller, L’organizzazione nevrotica,
Cortina, Milano 1992.
12 Come essere indulgenti per sé e duri con gli altri.
13 Piero Amerio, Fondamenti di psicologia sociale, Il Mulino, Bologna
1995.
14 Il termine scientifico è attivazione, arousal.
15 Antonio Damasio, Emozione e coscienza, Adelphi, Milano 2000.
16 Daniel Goleman, Intelligenza emotiva, Rizzoli, Milano 1996.
17 Thomas Gordon, Relazioni efficaci, La Meridiana, Molfetta (Ba) 2005.
18 Kurt Lewin, Teoria dinamica della personalità, Giunti, Firenze 1965.
19 Le situazioni hanno anche il potere di migliorare le persone, diciamo
che sono ambivalenti.
20 Philip Zimbardo, L’effetto lucifero, Cortina, Milano 2008.
21 James Reason, L’errore umano, Il Mulino, Bologna 1994.
22 Nassim Taleb, Il cigno nero, Il Saggiatore, Milano 2009.
23 Pino De Sario, Il potere della negatività, Franco Angeli, Milano 2012.
24 In particolare è l’amigdala, organo presente nel centro del nostro
cervello, nella parte emotiva, a innescare allarmi negativi per la
sopravvivenza, clic repentini per fronteggiare le insidie dell’ambiente. In
questa parte minuta del cervello, ma determinante, la maggior parte
delle cellule nervose è sintonizzata su stimoli spiacevoli, piuttosto che
quelli piacevoli.
25 Antonio Damasio, Alla ricerca di Spinoza, Adelphi, Milano 2003.
26 Jonah Lehrer, op. cit.
27 Nel linguaggio scientifico si chiama impasse, conflitto, stress, risorse
personali bruciate (burnout), rigidità, ruminazione, passività, ansia,
collera eccessiva.
28 Già Ippocrate distingueva quattro temperamenti base: 1) collerico
(fuoco, caldo e secco); 2) sanguigno (aria, caldo e umido); 3)
flemmatico (acqua, freddo e umido); 4) malinconico (terra, freddo e
secco).
29 Daniel Siegel, La mente relazionale, Cortina, Milano 2001.
30 Francesco Dogana, Uguali e diversi, Giunti, Firenze 2002.
31 Philip Zimbardo, L’effetto lucifero, Cortina, Milano 2008.
32 Lucifero, prima di diventare Satana, il principe del male, era il
portatore di luce, l’angelo prediletto da Dio.
33 Nella prima parte dello studio, i ricercatori parcheggiarono un’auto
nella periferia di New York rimuovendone le targhe e lasciando il cofano
aperto: era importante osservare la reazione dei passanti. Già dopo dieci
minuti, complici moglie e figlio, un uomo rubò indisturbato la batteria e
il radiatore; nelle successive ventiquattro ore altre persone prelevarono
antenna, tergicristalli, ruote; a quel punto altri iniziarono l’azione di
demolizione, con rottura di lunotto, fari e parabrezza. Risultato: ventitré
episodi di vandalismo in tre soli giorni. Seconda parte, la stessa auto,
riparata, fu spostata in una cittadina della California; qui dovette
passare una settimana per vedere qualcuno avvicinarvisi: fu un uomo
che, preoccupato per la pioggia, chiuse il cofano così da evitare danni al
motore. I ricercatori erano convinti di poter osservare gli stessi atti
vandalici anche nella pacifica regione californiana, bisognava però
aumentare gli stimoli fisici in grado di innescarli. Loro stessi il giorno
dopo iniziarono a colpirne alcune parti col martello, facendo da iniziatori.
Il gesto stimolò un primo passante che incominciò a battere forte, poco
dopo un ragazzo salì sul tetto e altri due strapparono via gli sportelli.
Intervistati i protagonisti dichiararono che era stata un’esperienza assai
piacevole. Una buona folla radunata intorno fece il resto per la
demolizione dell’auto. Conclusioni: a New York bastava poco per
innescare vandalismi, nella città di provincia occorreva qualche stimolo
in più, ma i risultati erano identici.
34 Antonio Damasio, L’errore di Cartesio, Adelphi, Milano 1995.
35 Joseph LeDoux, Il cervello emotivo, Baldini Castoldi, Milano 1998.
36 Jonah Lehrer, op. cit.
37 Qui si tratta di semplice stanchezza che lambisce tuttavia lo stress.
38 Joseph LeDoux, op. cit. In questo libro l’autore approfondisce molti
funzionamenti. LeDoux, assertore di quanto la paura sia importante
nella nostra vita, ha stilato una lista di termini che esprimono questo
concetto: allarme, spavento, preoccupazione, inquietudine, ansietà,
affanno, disagio, diffidenza, nervosismo, agitazione, apprensione,
trepidazione, timore, angoscia, panico, terrore, orrore, costernazione,
soggezione, angustia, sgomento, sentirsi minacciati, snervati, sconvolti,
sulla difensiva.
39 Antonio Damasio, op. cit.
40 Jonathan Haidt, docente di psicologia alla Virginia University.
41 Antonio Damasio, op. cit.
42 Louis Cozolino, Il cervello sociale, Cortina, Milano 2008.
43 Gli spunti ci vengono dalla fisica, dalla matematica, dalle
neuroscienze.
44 Daniel Siegel, 2011, op. cit.
45 Per il noto neurologo portoghese Antonio Damasio, «una piena
comprensione della mente umana richiede una prospettiva integrata,
che metta insieme un organismo intero, in possesso di cervello e di un
corpo in piena interazione con un ambiente fisico e sociale».
46 Edgar Morin, Etica, Cortina, Milano 2005.
47 Questa nuova capacità prende il nome di “semplessità”, da Alain
Berthoz, La semplessità, Codice, Torino 2011.
48 Pino De Sario, Professione facilitatore, Franco Angeli, Milano 2005;
id., Far funzionare i gruppi, Franco Angeli, Milano 2010.
49 Un vasto movimento di ricerche, denominato “neurobiologia
interpersonale”, studia il cervello come organo sociale, costruito tramite
l’interazione e l’esperienza, di cui uno dei più illustri ricercatori è Daniel
Siegel. Vi è un doppio centro, il cervello e l’esperienza, che richiede un
continuo spostamento dell’attenzione dal cervello al comportamento
sociale e nuovamente al cervello.
50 La domanda che può venire da parte vostra è: «I camorristi o i
politici corrotti allora?» Resta un quesito complesso a cui giorno per
giorno mi adopero studiando le cose del mondo sotto questa lente della
giustizia antropologica ed evoluzionistica.
51 Questo concetto proviene dagli studi della “teoria dei giochi”,
Thomas Schelling, La strategia del conflitto, Bruno Mondadori, Milano
2006.
52 Solo le azioni estreme – violenza, omicidio – rispondono a un giudizio
tutto negativo.
53 Lavoratori indefessi, in dialetto milanese.
54 Bisogno di chiusura cognitiva: bisogno di ordine e struttura,
intolleranza all’ambiguità, decisionalità, chiusura mentale per evitare che
le conoscenze vengano messe troppo in discussione.
55 Detti anche ruoli psicologici.
56 Come per quella rappresentativa (una persona-un voto), anche per
questa forma di democrazia, specifica del versante comunicativo, può
esistere un pari connubio “una persona-una parola”.
57 La forza centripeta è diretta verso il centro, è quella forza infatti che
tende ad avvicinare le singole parti al centro; i monologhi viceversa,
azionano la forza opposta, la forza centrifuga che si direziona verso
fuori.
58 Solitamente gli eventi sono invece all’insegna dell’ordine, della
sistematicità, di una certa piattezza normativa, dove anche piccole
soglie di confusione e dinamismo sono viste come inopportune.
59 Serge Moscovici, Willem Doise, Dissensi e consensi, Il Mulino,
Bologna 1992.
60 Esempio tipico di apprezzamento manipolativo: «Sai così bene
l’inglese, che ne diresti di tradurmi un articolo importante?».
61 Franco Nanetti, L’arte di dialogare, Quattro Venti, Urbino 1998;
Jerome Liss, La comunicazione ecologica, La Meridiana, Molfetta 1992;
Ludovica Scarpa, Senza offesa, fai schifo, Ponte alle Grazie, Milano
2011; Alessandra Faiella, Toglimi quel piede dalla testa per favore, Il
Sole 24 Ore, Milano 2010.
62 Howard Gardner, Formae mentis, Feltrinelli, Milano 1987.
63 Edward de Bono, Sei cappelli per pensare, Rizzoli, Milano 1991.
64 Carl Rogers, Un modo di essere, Martinelli, Firenze 1983.
65 Pino De Sario, Buone parole, Equilibri, Viterbo 1998; id., Non solo
parole, Franco Angeli, Milano 2002.
66 Mèta vuol dire “sopra”, metacomunicazione sta a indicare “una
comunicazione su un atto di comunicazione”. Tutti gli atti comunicativi
che qualificano l’interazione vengono considerati metacomunicazione, la
“comunicazione sulla comunicazione” (parlare su come intendiamo
parlare). Questo metodo (molte volte anche spontaneo) si concentra
sulla definizione della relazione fra i soggetti. La metacomunicazione può
essere verbale e anche corporea.
67 Ronald H. Laing, La politica dell’esperienza, Feltrinelli, Milano 1968.
68 Da bambino c’era un gioco dal nome curioso: il “piccolo chimico”. Per
analogia mi viene da dire che chi emette giudizi e interpretazioni a
tamburo battente si guadagna a pieno titolo l’appellativo di “piccolo
psicologo”.
69 Due definizioni. Attenzione fisica: postura rivolta all’altro, offrire la
faccia, corpo proteso e inclinato in avanti, ridurre la distanza fisica.
Attenzione psicologica: uso caldo degli occhi nel contatto oculare,
immedesimarsi mentalmente mettendosi nei panni, controllo di sé (non
arrossire, non impallidire).
70 La parola inglese feedback indica la funzione di scambio di dati nel
processo interpersonale, è una funzione fondamentale volta a: riscontro,
risposta, verifica e controllo.
71 Danilo Dolci, Dal trasmettere al comunicare, Sonda, Torino 1988; id.,
La struttura maieutica e l’evolverci, La Nuova Italia, Firenze 1996.
72 Dal latino communicare, mettere in comune, derivato di commune,
che compie il suo dovere con gli altri, composto di cum insieme e munis,
ufficio, incarico, dovere, funzione.
73 Il monologo è il format del singolo in solitudine pur nell’interazione
con altri, il dialogo quello di una coppia dove entrambi sono attivi, il
trilogo quando a comunicare sono tre persone, il polilogo è l’interazione
di gruppo, da tre persone in su.
74 In inglese probing, to probe, sondare, tastare, esplorare, indagare.
75 È chiaro che molte delle cose che riportiamo qui quando stiamo
molto bene ci vengono naturali e spontanee. E fin qui siamo tutti felici!
Il punto è che siamo raramente in quello stato di grazia, sono maggiori
le giornate in cui siamo stonati e distratti, vaghi e un po’ rivoltati. Per
questo abbiamo bisogno di qualcosa di intenzionale, il “polmone
educativo”, da provare e allenare.
76 Piero Ferrucci, La forza della gentilezza, Mondadori, Milano 2005.
77 Serge Moscovici, Willem Doise, op. cit.
78 Ogni parte in gioco prova a percepire gli interessi degli altri come
legittimi e simultaneamente non considera a rischio la propria
dignità/identità e i propri principi.
79 Roger Fisher, William Ury, Bruce Patton, L’arte del negoziato,
Corbaccio, Milano 2005.
80 In molte controversie in famiglia e nella coppia, ci si può anche far
aiutare da un amico, un conoscente, che in maniera però solenne
prende il ruolo del “facilitatore pratico”, semplicemente colui che non
parteggia e si mantiene mediano con l’unico obiettivo di far dialogare le
parti, che da sole, non ce la farebbero. Altro discorso il mondo del
lavoro, dove i consulenti-facilitatori sono fondamentali e attrezzati delle
migliori metodologie e professionalità. Come il mondo della coppia, dove
per una minaccia di separazione è bene ricorrere alla psicoterapia e a
professionisti specifici.
81 Di solito un “fuoco incrociato” denso e intrecciato come lava nel
vulcano: bisogni, interessi, emozioni, pregiudizi, sentimenti e percezioni,
necessità, aspettative andate deluse, culture e convinzioni.
82 È infatti per me un errore che il mediatore, ancora nel vivo della
reciproca squalifica e avversione, voglia propendere per la pace tra le
parti.
83 Qui occorre prestare attenzione a ogni falsa percezione che i soggetti
possono sviluppare sull’altro; quando si identifica una possibile falsa
percezione è bene chiedere alle parti «come ti arriva quello che lui sta
dicendo?», «ti trova d’accordo?».
84 Oltre che fisiologica (è nel gioco delle parti, un po’ come per il ciclo
delle ventiquattro ore composto dal giorno e dalla notte) è evidente ed
è sotto gli occhi di tutti che la negatività diventa spesso e volentieri
anche patologica, ovvero, intenzionale, insistita, morbosa.
85 Thomas Gordon, Relazioni efficaci, La Meridiana, Molfetta 2005.
86 Emanuele Arielli, Giovanni Scotto, I conflitti, Bruno Mondadori,
Milano 1998.
87 Una forma di uguaglianza deleteria, detta simmetrica, che in questo
caso è da vedersi come inopportuna, infatti tendiamo a copiare l’altro.
Se uno ci dice «non sai lavorare» la nostra risposta rischia di essere «ma
anche tu non sai lavorare», anzi il ricevente è come risucchiato in un
appesantimento, detto escalation, in cui rincara la dose, tipo «ma anche
tu non sai lavorare, che vuoi da me, guardati te!».
88 È l’insieme dei due movimenti che crea l’efficacia: prima si indaga
stazionando nel problema e quindi si procede cercando le soluzioni
possibili.
89 La ricetta solitamente viaggia su un piano opposto a riconoscimento
e ascolto, in cui i nostri circuiti cerebrali liberano noradrenalina e
cortisolo, sostanze chimiche rispettive della fretta e dello stress. Il
risultato è che la negatività può anche aumentare: dunque altra
opposizione, altra chiusura, altra distruttività. Così, manifestiamo più
facilmente forme di impegno altalenante, comportamenti spropositati,
sbotti di rabbia, eccessiva delusione, attaccamento a cose minute,
cambio di umore frequente.
90 Il “perché” è meglio lasciarlo come ultima possibilità, visto che è una
domanda motivazionale, che mira ai motivi dell’accadimento negativo,
quindi, di non facile risposta. Il “perché” è poi a mio avviso la somma
delle cinque direzioni. Il punto infatti non è sapere tutto subito, ma
trovare uno spiraglio.
91 Il sats è la molla presente nella postura di base con le ginocchia
appena piegate, tecnica usata nel teatro d’avanguardia; oppure è la
postura di base che si ritrova nello sport: tennis, pugilato, scherma,
quando si deve essere pronti a reagire.
92 Il termine grounding, ripreso dalla bioenergetica, vuol dire avere i
piedi saldamente piantati a terra e un pieno contatto col suolo; non
indica un terreno solo fisico ma energetico.
93 La ritirata viene solitamente vista come debolezza, invece qui la
consideriamo come un’alta funzione di maturità e anche di moralità, per
via di non sprecare risorse, non peggiorare ciò che è già negativo, non
cadere nel comportamento fuorviante. In questa lettura la ritirata è
quindi una forma di alto controllo consapevole e competente.
94 Molti scambi slittano su aggressività, “io ho ragione e tu hai torto”, o
anche su passività, “io ho torto e tu hai ragione”.
95 Thomas Gordon, Insegnanti efficaci, Giunti e Lisciani, Firenze 1991.
96 Solo qualche esempio: migliora la vitalità, stima di sé, competenza,
soddisfazione della vita, ottimismo, capacità di autonomia, oggettività
positiva, empatia, buona disposizione d’animo, coscienziosità, flessibilità
mentale, duttilità dell’attenzione, aumento del gusto della vita, riduzione
del senso di isolamento, riduzione di mal di testa, problemi digestivi,
senso di stanchezza, aumento delle emozioni positive.
97 Suggerisco: Kabat-Zinn (1997), Dovunque tu vada ci sei già, Tea;
Kabat-Zinn (2005), Vivere momento per momento, Corbaccio; Siegel D.
(2009), Mindfulness e cervello, Cortina.
98 Albert Bandura, a cura, Il senso di autoefficacia, Erickson, Trento
1996.
99 Michael Argyle, Il comportamento sociale, Il Mulino, Bologna 1974.
100 James Pennebaker, Scrivi cosa ti dice il cuore, Erickson, Trento
2004.
101 Bioenergia, energia vitale a base biologica: le sue proprietà
includono la capacità di fluire attraverso i tessuti, talvolta con regolarità
e talvolta con movimenti ritmici, la tendenza ad accumularsi e quindi a
scaricarsi, e la propensione a creare sofferenze e malattie quando il
flusso e la scarica sono completamente bloccati. Nel corpo umano esiste
questa energia fondamentale, comunque essa si manifesti, in fenomeni
psichici e in movimenti corporei.
102 David Boadella, Jerome Liss, La psicoterapia del corpo, Astrolabio,
Roma 1986.
103 Cicli esterni infradiani (mensili e stagionali), cicli circadiani
(giornata) e cicli interni ultradiani (più volte in un giorno).
104 Contrariamente alla cultura diffusa che vede ancora il riposo solo
come ozio e come spreco.
105 Antidepressivi e psicostimolanti, tipo anfetamine, speed, o il Ritalin,
troppo facilmente prescritto per bambini o anche adulti che difettano di
concentrazione.
106 Per entrare in un argomento tanto complesso segnaliamo due testi:
Michael Argyle, Il corpo e il suo linguaggio, Zanichelli, Bologna 1992;
Marino Bonaiuto, Fridanna Maricchiolo, La comunicazione non verbale,
Carocci, Roma 2003.
107 Di solito lo chiamo “corpo esperto applicato”, ma qui per semplicità
di informazione chiamo “corpo espressivo”, un repertorio intenzionale
per gli adulti e i facilitatori, il quadro completo si trova in Pino De Sario,
Il codice che vince, Franco Angeli, Milano 2014.
108 Desmond Morris, I gesti nel mondo, Mondadori, Milano 1995.
109 Il corpo tende a rifare sempre le stesse cose e posizioni, ma anche
la mente lo segue in una danza fondata sulle abitudini, in cui corpo e
mente a turno amano stare nelle abitudini certe e consolidate.
110 «Ovviamente è inutile attendersi da questo la guarigione di una
profonda tristezza, ma una cosa è certa: una costante espressione
accigliata non farà che buttarvi ancora più giù di morale. Sorvegliate
quindi la mimica facciale, ha anch’essa il suo potere sul vostro stato
d’animo», in André Lelord, La forza delle emozioni, Corbaccio, Milano
2002.
111 Sono tre le fonti scientifiche: la Società Italiana di Biosistemica con
l’opera del prof. Jerome Liss; l’Università La Sapienza di Roma, con le
ricerche del prof. Marino Bonaiuto; l’Università di Roma Tre, con gli studi
della prof.ssa Isabella Poggi.
112 Pino De Sario, Il facilitatore dei gruppi, Franco Angeli, Milano 2006;
id., La riunione che serve, Franco Angeli, Milano 2008.
113 Per via naturale quando siamo al telefono usiamo i marcatori vocali,
cosa che invece non avviene nel faccia a faccia in presenza.
114 Il grounding implica che una persona si “lasci scendere”, che
abbassi il suo centro di gravità, che si senta più vicina alla terra; il
risultato più immediato è di aumentare il suo senso di sicurezza;
“lasciarsi scendere”, visto che inconsciamente noi ci teniamo su di
continuo; abbiamo paura di cadere e di non riuscire e perciò di lasciarci
andare e abbandonarci alle nostre sensazioni.
115 Con questo spirito e con questa “missione” ho fondato nel 2007 la
Scuola Facilitatori per promuovere la “facilitazione esperta” e la figura
del “facilitatore” nei contesti organizzativi e sociali, nelle situazioni difficili
e disfunzionali, negli enti di produzione e apprendimento. La Scuola
promuove una linea di corsi per le organizzazioni (facilitare il lavoro) e
una linea per la persona (competenze per vivere). I metodi impiegati nei
corsi sono centrati su apprendimento attivo, cooperativo ed
esperienziale, in cui si impara facendo. Per info www.scuolafacilitatori.it
e pagina Facebook.
116 Enrico Cheli, Relazioni in armonia, Franco Angeli, Milano 2004.
117 Semir Zeki, Splendori e miserie del cervello, Codice, Torino 2010.
118 Vedi F1: saper essere concreti.
119 Vedi F3: gestire i conflitti.
120 Vedi F4: essere riflessivi, autocriticarsi, valorizzarsi.
121 Vedi l’intera parte F2: fare accordi, negoziare e mediare.
122 Si veda tutta la parte prima del libro.
123 Cosa importante, se la coppia mostra problemi e bisogni complessi
è del tutto conveniente farsi aiutare da professionisti psicologi e
psicoterapeuti.
124 Jerome Liss, 1992, op.cit. e Pino De Sario, 2002, op. cit.
125 Daniel Siegel, Mary Hartzell, Errori da non ripetere, Cortina, Milano
2005.
126 Walter Passerini, Marco Rotondi, Che capo vuoi?, Guerini e
Associati, Milano 2008.
127 Serge Moscovici, Willem Doise, op. cit.
128 Un mio libro l’ho dedicato interamente alle riunioni, si veda Pino De
Sario, La riunione che serve, Franco Angeli, Milano 2008.
129 Il monismo è un tipo di pensiero che appiattisce a un unico
principio la molteplicità di un’esperienza.
130 Enzo Spaltro, Conduttori, Franco Angeli, Milano 2005.
131 Preciso cosa intendo: spesso, se aspettiamo che le persone si diano
spontaneamente alla concisione, alla concretezza, al senso attivo non ne
veniamo fuori, esse perlopiù vanno sollecitate e a volte anche un po’
spinte (gentilmente) in queste buone direzioni.
132 Jerome Liss, L’ascolto profondo, La Meridiana, Molfetta (Ba) 2004.
133 Momenti di solitudine sono necessari per tutti, bambini e adulti, per
distanziarci dagli stimoli degli altri e quindi ci servono per ritrovare il
nostro centro, la nostra identità e per autoregolare il nostro cervello e le
complessità dei suoi circuiti. Qui comunque si parla di un’altra
solitudine, quella vissuta in eccesso, nel nostro isolamento più profondo.
134 Ti insegno un trucchetto, quando un collega o il marito dice
«parliamone», otto volte su dieci è proprio la volta che non se ne parla
affatto; questa è infatti una formula linguistica finta e qualunquista,
come tante che in società alimentiamo per il gusto di tirarcela e fare
finta.
135 Jerome Liss, 2004, op. cit.
136 Questa forma di colloquio a due per l’ascolto profondo si chiama
“collaborazione reciproca”, in Jerome Liss, Insieme per vincere
l’infelicità, Franco Angeli, Milano 1996. La stessa forma di colloquio è
stata anche chiamata di “counseling amicale”, in Luisa Lugli, Marina
Mizzau, L’ascolto, Il Mulino, Bologna 2010.
137 Tutti gli strumenti completi e aggiornati in Pino De Sario, Metodi e
tecniche della Facilitazione esperta, Pisa University press, Pisa 2013.