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Deleuze-Guattari, Berkoff, Testori.
Percorsi anti-edipici tra filosofia
e teatro contemporaneo
Viviana Verdesca
Sommario
Come funziona una macchina “anti-edipica”? Quale ne è la cifra?
Chi conosce l’opera filosofica elaborata dalla coppia DeleuzeGuattari, sa che l’aggettivo “anti-edipico” è come un marcatore che segna la natura anti-idealistica di ciò cui si abbina.
Ma, specificamente, quale idealismo passa per la figura edipica? Lo studio, che si propone, traccia un percorso trasversale
che, passando attraverso la tragedia di Sofocle, la dialettica di
Platone e la storia dell’enigma, forte della riflessione filosofica di
Deleuze-Guattari come anche di contributi teorici di altra provenienza, chiarisce in cosa consista l’idealismo che il programma anti-edipico avversa. Messa a nudo la struttura connaturata
all’idealismo, il saggio passa a testare alcune strategie di rovesciamento che, già funzionanti entro i testi di Deleuze-Guattari,
orientano le leve interne fondanti la meccanica testuale di due
autentici ordigni anti-edipici: Alla greca di Berkoff e Edipus di
Testori.
c 2009 ITINERA (http://www.filosofia.unimi.it/itinera)
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al 1972 (anno che corrisponde alla data di pubblicazione de L’AntiEdipo, ovvero della prima opera scritta dalla coppia Deleuze-Guattari1 ) l’espressione “anti-Edipo” ha preso a circolare negli ambienti
filosofici deleuziani e non, assumendo il valore di una parola d’ordine dichiaratamente rivoluzionaria. Con la diffusione di quel testo l’espressione
“anti-edipo”, che campeggia apertamente nel titolo, si è via via affermata
come l’immediato sinonimo di un’avversione all’idealismo radicale ed esplicita. Coloro che conoscono l’opera deleuziana nel suo complesso sanno che
è nel segno di tale opposizione che Deleuze ha sviluppato il proprio lavoro
di filosofo: il rovesciamento dell’idealismo è infatti ciò su cui fa leva il programma filosofico che Deleuze ha enunciato una volta per tutte, senza mezzi
termini, in Differenza e ripetizione2 (opera prima e inaugurale del suo proprio pensiero originale) e al quale egli è rimasto fedele negli anni a seguire.
Tra questi, a quanti hanno fatto “un certo orecchio” alla particolare vocazione che muove la filosofia deleuziana marcandone l’intenzione, sarà talvolta
capitato di riconoscerne i toni anche altrove, magari frequentando le tavole
di un pittore, immergendosi nelle pagine di uno scrittore, o anche ponendosi all’ascolto di componimenti musicali fino a quel momento mai ascoltati.
Oppure incrociando lungo il proprio percorso opere teatrali congegnate come vere e proprie macchine rivoluzionarie. Occorrenza, quest’ultima, in
cui rientra il presente caso. Che Alla Greca di Berkoff3 e Edipus di Testori4 rispondano alla medesima vocazione, caratterizzante l’opera filosofica di
Deleuze e di Guattari, e che, in tal senso, consistano in ordigni anti-edipici
perfettamente architettati è infatti quanto ci si propone di chiarire nel corso
di questo studio.
Nel rispetto di tali propositi, ciò che occorre innanzi tutto specificare
è la natura dell’anti-idealismo di cui si fa carico l’espressione anti-edipica.
Formulando altrimenti, se la preposizione anti, tradotta dal greco, ha valore di “contro”, “avverso”, Edipo che valori si porta? Quali idee passano
attraverso Edipo e con Edipo? Quali ideali o idealismi? Per argomentare
una risposta soddisfacente è necessario battere tre vie che corrispondono,
nell’ordine, all’esplicitazione di un determinato modello logico-concettuale,
alla chiarificazione di uno specifico modello politico e alla evidenziazione di
D
1
Qui di seguito l’elenco delle opere realizzate nel corso degli anni dalla coppia DeleuzeGuattari: G. Deleuze, F. Guattari, L’Anti-Edipo. Capitalismo e schizofrenia (1972), trad.
it. di A. Fontana, Einaudi, Torino 1975; id., Kafka. Per una letteratura minore (1975),
trad. it. di A. Serra, Quodlibet, Macerata 1997; id., Millepiani. Capitalismo e schizofrenia
(1980), trad. it. di G. Passerone, 4 voll., Castelvecchi, Roma 1996-1997; id., Che cos’è la
filosofia? (1991), trad. it. di A. De Lorenzis, Einaudi, Torino 1996.
2
Cfr. G. Deleuze, Differenza e ripetizione (1968), trad. it. di G. Guglielmi, Cortina,
Milano 1997.
3
S. Berkoff, “Alla Greca” in id., Alla Greca / Decandenze, trad. it. di G. Manfridi e
C. Clerici, Gremese Editore, Roma 1991.
4
G. Testori, Edipus, Rizzoli, Milano 1977. Quest’opera fa parte della cosiddetta Trilogia
degli Scarrozzanti, che comprende oltre all’Edipus, L’Ambleto (1972) e Macbetto (1974).
2
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un modello psicoanalitico. Fare emergere, portare alla luce tali modelli è il
lavoro preliminare che bisogna svolgere affinché sia possibile, successivamente, comprendere e valutare la cifra rivoluzionaria dei testi teatrali di Berkoff
e di Testori, che per vocazione e intenzioni possono essere accomunati alla filosofia elaborata dalla coppia Deleuze-Guattari. Nell’imbastire le premesse,
ci si avvarrà degli strumenti filosofici di cui, di volta in volta, ci armeranno
Deleuze e Guattari, ma non solo: come sarà presto evidente, molti contributi
ci perverranno anche da altre parti.
Questa nostra analisi del paradigma edipico comincia, pertanto, affrontando il primo modello enunciato in testa alla serie che passa attraverso/con
Edipo: il modello logico-concettuale. L’accesso più agevole alla questione
(che è piuttosto complessa e che avrà funzione di “apripista” rispetto alle
altre che seguiranno) lo ricaviamo incrociando due differenti studi: il primo
studio, dedicato alle forme di sapere rintracciabili nell’Edipo re di Sofocle,
ha come autore Mario Vegetti5 , il secondo saggio è La nascita della filosofia
di Giorgio Colli6 . Nel suo breve studio, Vegetti, basandosi sulla lettura della
tragedia di Sofocle, riconosce attraverso il personaggio di Edipo l’affermarsi
di un modello di sapere più moderno rispetto al modello di sapere arcaico
che si trasmette nella forma dell’oracolo; secondo Vegetti, con Edipo prende
forma un genere di sapere conseguito con metodo, organizzato, ricavato percorrendo le vie della razionalità e indagando il vero. In particolare, sono due
gli episodi, legati alla nota vicenda di Edipo, in cui tale modello di sapere
ha occasione di emergere chiaramente: l’indagine condotta da Edipo circa
l’assassinio di Laio e la soluzione dell’enigma della Sfinge, che vede Edipo
vincere sulla creatura mostruosa.
Senza discostarci dallo studio di Vegetti, concentriamoci sul primo episodio e analizziamo il modo in cui Edipo sviluppa la sua inchiesta, provando
a mettere in evidenza gli aspetti di modernità caratteristici della sua indagine. In primo luogo, come Vegetti più volte sottolinea, l’indagine di
Edipo si svolge nel segno della coppia ricerca/scoperta; termini, questi (“ricerca” e “scoperta”), che orientano l’intero testo dell’Edipo re, imponendo
conseguentemente un repertorio terminologico consono7 , e che la nostra sensibilità moderna riconosce come inizio e fine di ogni indagine che si voglia
dire scientifica. La ricerca è condotta razionalmente: parte dalla necessità di
esiliare l’assassino di Laio e viene svolta raccogliendo testimonianze indirette e dirette, nonché vagliando con metodo ogni genere di indizi; al termine
dell’indagine sopraggiunge la scoperta, con la quale la ricerca si conclude. E
con la scoperta viene il momento della trasparenza, della visione chiara, che
produce un sapere certo, stabile, e vero: nulla a che vedere con l’oscurità
5
M. Vegetti, “Forme di sapere nell’Edipo re” in id., Tra Edipo e Euclide. Forme del
sapere antico, Saggiatore, Milano 1983, pp. 23-40.
6
G. Colli, La nascita della filosofia, Adelphi, Milano 2007.
7
Vegetti nel corso del suo saggio presenta una buona campionatura di queste ricorrenze
terminologiche (cfr. M. Vegetti, op. cit., p. 24).
3
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dei responsi degli oracoli e dei veggenti, che annoverano il vecchio Tiresia
tra le loro schiere. Altro aspetto da non trascurare è il carattere pubblico
dell’inchiesta che Edipo conduce sotto gli occhi di tutti: tutti partecipano
del sapere e della chiarezza che vi si fa, che vi si produce. Passando oltre, il
risultato, cui Edipo perviene, è un sapere che non solo si presenta come frutto di indagine, basato su indizi empirici e conseguito grazie a un metodo, ma
si rivela anche capace di districare la progressiva sequenza temporale degli
eventi. In questo senso, il sapere di Edipo si delinea con il tempo della storia;
un tempo, quello della storia che è tutt’altra cosa rispetto all’intemporalità
che si abbina agli oracoli, dove quegli stessi eventi sono annunciati ma senza
rispettare alcun rapporto con il tempo del vivere. Gli oracoli sono irrimediabilmente intempestivi; basti pensare all’oracolo di Delfi che con i suoi
responsi determina la fuga di Edipo da Corinto, mettendo, per ciò stesso,
Edipo sulla strada del parricidio e dell’incesto. Infine, il sapere, che Edipo
rappresenta, si rivela efficace e per questo vincente. Il metodo di ricerca di
Edipo non conosce il fallimento. Nonostante il risultato nefasto per lo stesso
Edipo8 , l’indagine si conclude con successo, ossia si conclude positivamente,
in quanto produce un sapere positivo, conseguito scientemente, con criterio
e metodo. Quanto è efficace il sapere ottenuto da Edipo al fine di salvare
Tebe dalla sua ennesima ora nera, tanto sono inutili le rivelazioni di Tiresia,
che anticipano sì a Edipo quello che sarà poi il risultato della sua stessa
indagine9 , ma intervenendo “fuori tempo”, a cose fatte, quando parricidio e
incesto sono già stati consumati anni addietro.
Questi, dunque, in sintesi, i caratteri di modernità della ricerca di Edipo.
In ogni caso, ciò che a noi importa è che tali aspetti testimoniano un cambiamento, un progresso (se così vogliamo intenderlo) rispetto a un modello
di sapere più arcaico, che nella tragedia di Sofocle è incarnato dal vecchio
Tiresia10 . Ora, per ben comprendere in cosa consista effettivamente questo
cambiamento, bisogna coglierlo “da dentro”, entro i due termini che lo trattengono, individuando anzi tutto il punto di partenza e il punto di arrivo,
che segnano inizio e fine del processo di mutamento. Per fare questo occorre
passare a valutare il secondo episodio della vicenda di Edipo che avevamo
già indicato: quello della soluzione dell’enigma della Sfinge. Il cambiamento, che stiamo cercando di studiare, si può infatti cogliere seguendo le sorti
stesse dell’enigma, rintracciandone comparsa evoluzione e superamento nelle
maglie della storia del pensiero.
8
Come sottolinea Vernant, Edipo, suo malgrado, si trova a essere contemporaneamente
soggetto e oggetto d’indagine, investigatore e indagato. Cfr. J.P. Vernant, Mito e tragedia
nell’antica Grecia, trad. it. di M. Rettori, Einaudi, Torino 1976 (del medesimo autore si
ricorda anche Mito e tragedia due. Da Edipo a Dioniso, trad. it. di C. Pavanello e A. Fo,
Einaudi, Torino 2001).
9
Sofocle, “Edipo re”, trad. it. di M. Valgimigli, in C. Diano (a cura di), Il teatro greco.
Tutte le tragedie, Sansoni, Firenze 1980, pp. 292-295.
10
Sulla forma di sapere impersonata da Tiresia si rinvia a M. Vegetti, op. cit., pp.
31-33.
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Se è attraverso il filone di vicende, entro cui il manifestarsi e scomparire
dell’enigma si inseriscono, che diverrà leggibile il cambiamento che abbiamo riscontrato nel testo sofocleo, allora risulta evidente per quale ragione
non potremo fare a meno di affidarci allo studio di Colli, precedentemente
citato. Infatti, ne La nascita della filosofia Colli descrive una serie di tappe
precise dalle rivelazioni degli oracoli e della mantica alla sapienza antica,
fino alla filosofia, indicando, in particolare, proprio nell’enigma, nella sfida
che l’enigma rappresenta per il raziocinio, il nodo critico da cui ha preso
le mosse la sapienza antica per poi, successivamente, piegare nella filosofia. Si potrebbe dire che l’enigma ha come provocato con la sua formula di
sfida la nascita della sapienza antica. Ora, limitandoci all’essenziale, Colli
fissa nell’enigma arcaico la prima tappa del percorso, che sviluppa nell’arco
del suo saggio: enigmatica è la parola del dio che si esprime per il tramite dell’oracolo. Per interpretare la parola divina intervengono gli esperti
nella divinazione, che nel mondo greco corrispondono a figure rispettate come sacre del calibro di Tiresia, per fare un esempio. Secondo la lettura di
Colli, all’oscurità del responso spetta manifestare l’eterogeneità di mondi
che tiene separata la dimensione divina dalla dimensione umana. La sapienza divina calandosi, discendendo nel linguaggio degli umani precipita
nell’ambiguità, nell’allusività, nell’oscurità. Il messaggio del dio è come una
luce che manifestandosi agli uomini si stempera, arrivando quasi spenta.
Sempre secondo lo studio di Colli, già in età arcaica l’enigma tende a
separarsi dalla sfera divina di provenienza e dalla sfera religiosa di competenza, per divenire oggetto di una disputa tutta umana per la sapienza.
Questo progressivo umanizzarsi dell’enigma, questo suo diventare una questione tutta umana, è stato contemporaneo alla nascita dei sapienti, che ha
sostituito alla dimensione divina della manifestazione dell’enigma il carattere agonistico di una competizione tra due o più sapienti (non più interpreti
divini, dunque), coinvolti nella risoluzione di un rompicapo enigmatico: nel
saperlo risolvere consiste a tutti gli effetti la loro sapienza. Da non trascurare che sullo sfondo di tale competizione comincia a prendere corpo il
concetto di un sapere, di una conoscenza che non è oscuramente trasmessa,
data, ma che deve essere costruita, deve essere frutto di un qualche tipo di
ricerca, oggetto di una qualche conquista. L’enigma, in questa seconda fase
in cui si culla la sapienza antica, si caratterizza per la forma contraddittoria
nella quale è enunciato11 .
11
Colli, a questo proposito, menziona la definizione dell’enigma data da Aristotele, per
cui l’enigma consiste nel dire cose reali collegando cose impossibili (cfr. G. Colli, op. cit.,
p. 56). A sua volta la definizione di Aristotele suona enigmatica: come è possibile infatti
che, mettendo insieme degli impossibili, si possa ricavare l’indicazione di qualcosa di reale,
ossia trovare, indovinare una corrispondenza con un che di reale? Ciò che è impossibile,
non appartiene difatti al reale; ciò che è impossibile non è nulla di reale. Ebbene, l’allusione
è possibile architettarla facendo ricorso alla metafora, grazie alla quale si spiegano i ponti
apparentemente irreali tra impossibili.
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Rispetto alla competizione tra sapienti, che prende spunto dall’enigma,
il passaggio successivo, descritto da Colli, segna l’avvio verso l’elaborazione
di un pensiero astratto, razionale, discorsivo. Tale passaggio è reso possibile
dalla comparsa della dialettica, intesa come arte della discussione tra due
o più persone. È alla pratica della dialettica che, stando a Colli, si deve
il progressivo maturare di una ragione sempre più formata, articolata, di
una logica sempre meno elementare, accompagnata da una crescente capacità teoretica. Ora, in cosa consiste l’arte dialettica che si sviluppa nella
fase matura dell’età della sapienza? Cosa prevede? Perché si dia un confronto dialettico, occorrono innanzi tutto un interrogante e un rispondente:
l’interrogante propone una domanda in forma alternativa, presentando cioè
i due corni di una contraddizione (per esempio: l’esistenza dell’individuo è
predeterminata o libera?). Il rispondente, interpellato, formula una sua tesi,
ossia sposa un corno dell’alternativa che gli è stata proposta (per esempio: è
predeterminata). A questo punto, il compito dell’interrogante è dimostrare
la proposizione che contraddice la tesi del rispondente (per esempio: dimostrare che la vita dell’individuo è libera). L’interrogante assolve il proprio
compito mediante una serie articolata e incalzante di domande, le cui risposte devono portare il rispondente a contraddire la propria tesi. Se questo non
succede, significa che a vincere è il rispondente (allora risulterà vincente la
tesi per cui la vita dell’individuo è predeterminata). In sintesi, la dialettica
intesa come arte della discussione consta in una serie incalzante di domande e risposte articolata fino alla vittoria di una tesi tra due opposte, messe
in competizione. È importante osservare la parentela stretta che vincola
la dialettica all’enigma: entrambe, infatti, si fondano su una sfida e fanno
perno sulla contraddizione. Nel caso dell’enigma si tratta di vincere risolvendo una contraddizione; nel caso della dialettica si tratta di non perdere
cadendo in contraddizione. Questo dato comune serve a Colli, nell’economia
della sua ricerca, per comprovare la derivazione della dialettica dall’enigma
dei sapienti.
Ciò che a noi occorre, in ultimo, osservare è che il carattere agonistico della dialettica comporta una potente carica distruttiva: l’interrogante,
infatti, mira a demolire la tesi dell’avversario rispondente, quale ne sia il
contenuto. Il che equivale ad ammettere che qualunque giudizio può essere
confutato (secondo l’esempio che abbiamo di volta in volta proposto, sia la
tesi per cui la vita individuale è predeterminata, sia la tesi per cui quella
stessa è definita libera possono essere argomentate come false). A seconda
delle circostanze, a seconda della bravura dei dialettici a confronto, l’esito
di una medesima disputa (predeterminazione o libero arbitrio) può essere
rovesciato. Emerge, pertanto, la necessità di volgere in costruttiva quella
logica dialettica che si era rivelata onnidistruttiva. Semplificando, è entro
questo quadro che Parmenide interviene fissando, una volta per tutte, che
6
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ciò che è, è; mentre ciò che non è, non è12 (per cui, tornando al nostro
esempio, ciò che è predeterminato, è predeterminato; mentre ciò che non è
predeterminato, non è predeterminato, ma è libero).
Dopo l’intervento di Parmenide, la dialettica da arte della discussione
tout court muta con Platone nello strumento per mezzo del quale giungere
a definire ciò che è, vale a dire ciò che, in quanto tale, resta immutato, non
soggetto al cambiamento. In altre parole, con Platone la dialettica è promossa a metodo; il metodo con cui ricercare il reale, il vero (che, per sua
natura, non può essere oggetto di contraddizione, né pertanto può essere
falsificato). Ebbene, nella dialettica platonica intesa come metodo razionale
di indagine e di ricerca volta a conseguire un sapere certo, chiaro e chiarito
rispetto a eventuali e presunte contraddizioni, ritroviamo compiuto e formalizzato quel modello di sapere incarnato dal personaggio di Edipo nell’Edipo
re sofocleo13 . Possiamo, quindi, tirare una prima conclusione riconoscendo
nella dialettica platonica il punto di arrivo di quel cambiamento riguardante
la forma del sapere, iniziato con la sapienza greca e partito ancor prima
dalla parola divina. Ora, poiché per i nostri fini la dialettica platonica si
rivela cruciale, occorre dedicarle un approfondimento particolare.
La dialettica platonica consiste in un procedimento definitorio, volto a
determinare (definire, per l’appunto) ciò che è. Come è risaputo, si tratta
di un metodo gnoseologico, ossia finalizzato a regolamentare e a produrre la
conoscenza del reale, il quale, corrispondendo a quanto resta perennemente
immutato, non soggetto al cambiamento, si traduce in un sapere a sua volta
stabile, immutabile, inconfutabile, in una parola: definitivo. E, del resto,
come già poc’anzi si scriveva, il sapere che si consegue stando alle regole
metodiche della dialettica, si produce, si fa attraverso la definizione, ossia
tracciando letteralmente dei confini, dei limiti tra ciò che è e ciò che non è. La
conoscenza, che deriva dalla dialettica, è pertanto una conoscenza definitiva
nella misura in cui definisce ciò che è, distinguendolo da ciò che non è.
Descrivendone più specificamente il funzionamento, occorre precisare che la
dialettica prevede due momenti: quello noto come unificazione sinottica e
quello conosciuto come analisi diairetica. Il primo momento consiste, per
così dire, nell’individuare il campo semantico in cui cade genericamente ciò
di cui occorre dare definizione; il secondo momento prevede che si proceda
entro quella stessa area semantica progressivamente secondo tagli nel mezzo,
fino a giungere a un termine ultimo che, pertanto, chiude l’analisi14 .
Volendo guardare più praticamente a un esempio, può essere di qual12
Cfr. Parmenide, I frammenti, trad. it. di F. Trabattoni, Marcos y Marcos, Milano
1985.
13
Senz’altro di questa maturazione rende conto anche il tempo, la cronologia: Sofocle
nacque nel 495 a.C. e morì nel 406 a.C.; mentre l’anno di nascita di Platone è il 427 a.C. ,
e l’anno di morte corrisponde al 347 a.C. Giusto per avere un ulteriore riferimento, Edipo
re è datato approssimativamente intorno al 430 a.C.
14
Cfr. Platone, Fedro, 265 C – 266 C.
7
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che utilità considerare la celebre prova, che Platone dà del proprio metodo
nel Sofista, dove viene articolata la definizione della pesca con la lenza. In
questa occasione, la prima demarcazione di confine, tracciata da Platone,
si gioca all’interno di una massimamente generica arte, divisa tra arte di
produzione e arte di acquisizione, che nella fattispecie porta a escludere la
prima a favore della seconda; il taglio successivo suddivide l’arte di acquisizione in acquisizione mediante caccia e acquisizione mediante cattura: di
nuovo Platone procede escludendo la prima opzione e tenendo come buona
la seconda; in ultimo si ritaglia il genere di acquisizioni mediante cattura in
due sezioni, distinte secondo il movimento che descrive il gesto di predazione:
la cattura, infatti, può avvenire con un colpo dall’alto verso il basso oppure
con un colpo dal basso verso l’alto. Il primo movimento, quello di sinistra,
descrive la pesca con la fiocina; il secondo movimento, quello di destra, è
quello riconosciuto come “buono”, in quanto definisce la pesca con la lenza,
che era l’obiettivo di mira. Ripercorrendo la serie di selezioni, operate sul
fronte della definizione, la pesca con la lenza si delinea nei termini di un’arte
di acquisizione esercitata mediante cattura sfruttando un movimento di predazione dal basso verso l’alto15 . Così, il procedimento dialettico attraverso
i suoi bivi e i suoi scarti verso destra consegue in ultimo l’essenza invariante
di ciò che definisce (in questo caso la pesca con la lenza), esaurendo con la
conoscenza logico-dialettica, che in tal modo si acquisisce, tutto ciò che c’è
da sapere al riguardo di quanto lì si determina. L’intero procedimento dialettico si schematizza in un diagramma definitorio, che è concluso quando la
diairesi raggiunge il termine ultimo, il termine che non può essere sottoposto
a un ulteriore processo divisorio. Per ragioni di chiarezza, si propone qui di
seguito lo schema cui si è fatto cenno, portando nuovamente a esempio la
definizione della pesca con la lenza riportata nel Sofista platonico:
Arte
arte di produzione
arte di acquisizione
acquisizione mediante caccia
acquisizione mediante cattura
con un colpo dall’alto al basso con un colpo dal basso all’alto
Non solo la dialettica è un metodo che mira alla definizione, ma la dialettica è il metodo per definizione, in quanto, come è stato ben esemplificato, la
15
Cfr. Platone, Sofista, 218 E – 221 C. Volendo affiancare a questo celebre esempio
un ulteriore caso, proponiamo di costruire dialetticamente una definizione dell’uomo: innanzi tutto ritagliamo entro il più generico “essere vivente” le due opzioni regno vegetale
e regno animale; procedendo nel verso di quest’ultimo, distinguiamo l’animale acquatico
dall’animale terrestre; quindi, dividiamo l’animale terrestre in quadrupede e bipede; lavorando su quest’ultimo gruppo, distinguiamo tra bipede piumato e bipede non piumato;
infine tra i non piumati riconosciamo quelli dotati di artigli e quelli muniti di unghie larghe. Raccogliendo le opzioni “di destra” (quelle proposte per seconde), ciò che si ottiene
corrisponde a ciò che l’uomo è.
8
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dialettica (ovvero il discorso definitorio) si ritaglia la sua via (odòs) tagliando
nel mezzo (metà).
Ora, continuando a frequentare la filosofia platonica, ciò che si definisce tramite il metodo dialettico equivale all’Idea. Per cui, definendo, per
esempio, ciò che l’uomo invariabilmente è, quanto si delinea corrisponde alla
sua Idea, ovvero a nient’altro che alla realtà e alla verità dell’uomo. Infatti, la realtà e la verità dell’uomo consistono in ciò che l’uomo da sempre
è, e pertanto riguardano l’umanità intera, l’innumerevole schiera degli uomini passati, presenti e futuri. In questo senso, l’Idea di uomo si impone
come universale e trascendente, superando, come fa, i vari uomini in carne e ossa, e raccogliendoli sotto la propria imperitura unità. A proposito
della popolazione di individui, questi ultimi sono indicati da Platone come
copie, riproduzioni, incarnazioni sensibili dell’Idea di uomo, che invece è
unica e intelligibile (ossia oggetto di ragionamento, di pensiero). Considerata l’eterogeneità che sussiste tra copie sensibili (gli uomini) e Idee (l’Idea
di uomo), Platone introduce la ben nota distinzione tra il mondo sensibile
(che è il mondo delle copie) e il mondo sovrasensibile o intelligibile (che è
il mondo delle Idee). Tra la copia e l’Idea (che quella medesima copia ricorda) Platone evidenzia un rapporto di somiglianza: è lecito affermare che
il singolo uomo riproduce e incarna l’Idea di uomo a sua immagine e somiglianza. Ne deriva che, quando due copie sensibili riproducono la medesima
Idea, queste si dicono simili e risultano somiglianti; questo, fermo restando
che la somiglianza tra due copie simili si determina in rapporto all’Idea che
entrambe imitano (pertanto, se per esempio riconosco in due oggetti distinti
due sedie è perché in entrambe riconosco l’Idea di Sedia, alla quale senz’altro
corrisponderà una definizione precisa).
Se la cosa (la sedia) è una copia (ossia la riproduzione sensibile dell’Idea
di sedia), va da sé che la parola che designa la cosa (la parola “sedia”) è
copia di copia, ovvero simulacro. La parola non coincide con la cosa, né
si colloca al suo stesso livello: nella gerarchia platonica la parola rappresenta un ulteriore scadimento rispetto all’Idea16 . Questo perché se è vero
che ogni cosa sensibile riproduce l’Idea di cui è copia, non è sempre vero
che chi indica la cosa con la parola, ne riproduca conoscendola anche l’Idea.
Esemplificando17 : il falegname che produce un letto, nel costruirlo deve per
forza di cose attingere dal concetto di letto, deve inevitabilmente rifarsi a
quel sapere, a quell’Idea; diversamente, chi parla (come anche chi, il letto,
lo dipinge), può simulare un sapere che non possiede. In linea di massima,
è possibile parlare di qualunque cosa senza nulla saperne (a sua volta, di16
Stando a Deleuze, l’autentica linea di frontiera, che Platone traccia a fondamento del
proprio sistema filosofico, non corrisponde alla separazione tra mondo sensibile e mondo
sovrasensibile, ma coincide con la differenza stabilita tra copia (icona) e simulacro (fantasma). Cfr, G. Deleuze, Differenza e ripetizione, cit.; id., “Platone e il simulacro”, in
Logica del senso (1960), trad. it. di M. de Stefanis, Feltrinelli, Milano 1997, pp. 223-234.
17
L’esempio, che segue, si richiama a Platone, Repubblica, X, 597 D sgg.
9
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pingere non implica una cura conoscitiva maggiore riguardo all’oggetto delle
proprie opere). Ebbene, in queste poche righe, in cui si è raccolta sinteticamente la differenza tra la ricerca logica del sapere e la sua simulazione, si
gioca la diversità che separa il filosofo e il sofista (che, come è noto, Platone
acremente avversa). Per cui, a seconda dei casi la parola può avere valore
di mero simulacro, designando semplicemente la cosa (sorta di copia di copia, pressoché incorporea), oppure può esprimere il concetto (ossia l’Idea),
che attraverso la parola è significato. La necessità, sostenuta da Platone,
di sviluppare un discorso intorno a ciò che è, ispirato al vero e tendente al
reale, e pertanto finalizzato al conseguimento di un sapere certo e stabile,
ci consente l’occasione di un rapido ritorno a ritroso attraverso le tappe del
lavoro di Colli, incentrato sugli sviluppi dell’enigma, fino a giungere in vista dell’Edipo re, dove quella stessa esigenza è stata colta nel suo affiorare
attraverso il modello di sapere incarnato da Edipo18 .
«Sta bene. Ricomincerò io da principio; farò io la luce»19 , così interviene
Edipo dopo aver ascoltato da Creonte il verdetto di Apollo. Il metodo razionale che Edipo applica nel corso della sua indagine, tesa a rivelare l’identità
dell’assassino di Laio, non funziona in maniera diversa rispetto alla dialettica platonica: come quest’ultima, infatti, si incarica di fare chiarezza, di
scoprire il vero (ossia come sono realmente le cose) e si basa sul principio
di non contraddizione. Così, Edipo diviene incompatibile con il destino di
parricida (nonostante la predizione dell’oracolo), quando, essendogli annunciata la morte di Polibo, ritenuto fino a quel momento suo padre naturale,
egli riconosce di non esserne in nessun modo responsabile. Né Edipo può
riconoscersi come assassino di Laio, fintantoché resta valida la testimonianza
del servitore, unico testimone, secondo cui è stato un un gruppo di ladroni
a commettere il delitto. «Che furono più ladroni a uccidere Laio: così tu
mi assicurasti che quell’uomo diceva. Se dunque egli dirà ancora allo stesso
modo, che erano più persone, l’uccisore non sono io, perché uno non potrà
mai essere eguale a più»20 : nelle parole, che Edipo rivolge a Giocasta, non
può passare inosservata l’esplicitazione finale della contraddizione in termini
di Uno e Molti. Sulla scorta di ragionamenti simili a questi, tenendo sempre ben fermi i principi di identità e di non contraddizione, Edipo procede
nella sua indagine scartando quelle ipotesi che si rivelano contraddittorie,
incoerenti rispetto a dichiarazioni e fatti, fino a giungere, in conclusione, a
conoscere il vero. Ed il vero è ciò che resta al termine di tutti gli scarti di
ipotesi, al termine di ogni eliminazione di contraddizione, ossia al termine
di ogni e-purazione dal falso.
18
In ragione di quanto è stato precedentemente illustrato, si ribadisce che la dialettica di
Platone si sviluppa in continuità rispetto al modello di sapere portato in scena dall’Edipo
di Sofocle. Difatti, in entrambi i casi si risponde alla necessità di sviluppare e formalizzare
un metodo logico di conoscenza vera e certa.
19
Sofocle, “Edipo re”, in op. cit., p. 289.
20
Ibid., p. 301.
10
ITIN E RA – Rivista di F ilosofia e di Teoria delle A rti e della Letteratura
Gli stessi criteri valgono nell’episodio della soluzione dell’enigma della Sfinge, che secondo la sua formulazione più diffusa recita così: qual è
l’animale che al mattino ha quattro zampe, a mezzogiorno ne ha solo due
e alla sera tre? Ora, per definizione, non si dà essere vivente avente contemporaneamente quattro, due e tre zampe. Pertanto, fuori di metafora, si
tratta di riconoscere ciò che resta identico una volta sciolta ogni apparente contraddizione: l’uomo. Egli infatti al mattino (da piccolo) cammina a
gattoni, a mezzogiorno (da adulto) cammina sulle due gambe, e alla sera
(da vecchio) cammina con il bastone. La chiave dell’enigma risiede nella
definizione dell’uomo, che fa cerchio attorno all’oggetto-uomo adulto, ossia
all’uomo compiuto. In questo senso, l’uomo preso nella sua età adulta costituisce il parametro rispetto al quale si valuta l’infante (che ancora non ha
raggiunto la posizione eretta) e il vecchio (che difficilmente riesce e mantenerla). Nel caso della soluzione dell’enigma, si tratta dunque di chiarire la
contraddizione, ossia di scioglierla, eliminando nel corso della ricerca ogni
falso indizio fuorviante.
Ora, tornando all’Edipo re di Sofocle, proviamo a considerare alcuni passi
tratti dalla tragedia sulla base delle riflessioni finora sviluppate. Di ritorno dall’oracolo, ecco alcune parole pronunciate da Creonte: «anche le cose
difficili, se infilano la via dritta, possono riuscire a bene tutte quante [corsivo mio]»21 . Tiresia, rivolgendosi a Edipo: «tu hai gli occhi per vedere, ma
in che punto sei di miseria non vedi [. . . ] te che ora vedi chiaro e dritto,
e dopo vedrai tenebra solamente [corsivo mio]»22 . Coro (primo stasimo):
«[. . . ] ma non sarà mai che io, prima di giudicare dritta al vero la parola
di uno, se colui è malèdico mi arrenda alla sua maldicenza [corsivo mio]»23 .
Ebbene, la via dritta che porta al vero, al sapere stabile e certo non è forse
la linea metodica che si perfeziona nella dialettica? Ossia quella stessa che
è stata evidenziata nel diagramma definitorio che è stato riportato proprio
allo scopo di sottolinearla? E ancora, non si tratta forse della medesima
via che Edipo traccia e segue nel corso della sua indagine come anche nella
risoluzione dell’enigma? Guardando, infatti, al tragico epilogo della vicenda
di Edipo, osserviamo come la tragedia si consumi quando il quadro delle
parentele si chiarisce una volta per tutte, per cui Edipo si scopre marito e
figlio della propria madre, padre e fratello dei propri figli24 . Se si riprende il
21
Ibid., p. 288.
Ibid., p. 294.
23
Ibid., p. 295.
24
Nel testo dell’Edipo re di Sofocle non si contano le ripetizioni e le ridondanze che
esprimono la complicata situazione familiare di Edipo. Ne riportiamo qui di seguito solo
alcune. Tiresia, rivolgendosi a Edipo: «e poi c’è una turba di altri guai che tu non conosci
ancora, i quali faranno eguale te a te stesso, e te ai tuoi figli» (Sofocle, “Edipo re”, in
op. cit., p. 294); sempre Tiresia: «e anche si scoprirà che egli è al tempo stesso fratello
e padre dei figli coi quali vive, e insieme figlio e marito della donna da cui nacque, e che
fecondò col suo seme lo stesso grembo fecondato dal padre» (ibid., p. 295); Coro (terzo
stasimo): «ahimè, insigne capo di Edipo! Te accolse, figlio e marito, il medesimo porto
22
11
ITIN E RA – Rivista di F ilosofia e di Teoria delle A rti e della Letteratura
diagramma definitorio tagliato sull’esempio della pesca con la lenza, si può
constatare come la prima divisione, la prima articolazione dello schema si
faccia tra acquisizione e produzione; applicando tale circostanza dialettica
al caso familiare di Edipo, risulta corretto constatare che, rispetto alla vita,
marito e moglie (in quanto genitori) cadono dalla parte della produzione,
mentre il figlio cade dalla parte dell’acquisizione: è sufficiente questo ragionamento per mostrare logicamente escluso il caso di un individuo marito e
figlio della medesima donna (moglie e madre), accadendogli di stare dall’una
e dall’altra parte dell’alternativa dialettica relativa alla generazione. Lo stesso ragionamento, lo stesso criterio vale a proposito della dissonante coppia
padre/fratello: il padre, infatti, cade dalla parte della produzione della vita; diversamente, il fratello cade dalla parte di chi la vita l’acquisisce (nello
specifico dai medesimi genitori). Ancora una volta l’identità di Edipo si
esplicita come logicamente insostenibile, inaccettabile, in contraddizione; e
questo proprio in forza degli stessi procedimenti logici che Edipo promuove
e rappresenta.
Certo, bisogna ricordare che i gravi delitti di Edipo (parricidio e incesto)
sono stati compiuti involontariamente, anzi proprio nel corso di una strategia
di comportamento deliberatamente rivolta a evitare il compimento del fato
che gli oracoli avevano annunciato. L’errore e, quindi, la colpa di Edipo
consistono in un difetto di conoscenza, ovvero nel fatto di non aver saputo
“vedere”. Così infatti si esprime Edipo, rivolgendosi alle figlie: «io fui, o
figlie, che cieco allora della mente, senza vedere e senza cercare di sapere,
mi scoprii di avere fecondato quel grembo da cui ero stato generato io stesso
[corsivo mio]»25 . Ora, una mente cieca è una mente che non vede; ma che
la mente possa vedere è una faccenda affatto trascurabile, in quanto con
l’ammissione di tale specie di visione diviene immediatamente scontato che
agli occhi della mente spetti osservare uno specifico oggetto, su cui puntare
la propria attenzione (che, va da sé, non corrisponde all’oggetto di visione
comune, ossia l’apparenza sensibile). Secondo Platone, è agli occhi della
mente che tocca di diritto cogliere il reale, scorgere il vero, afferrare ciò che
è al di là delle comuni apparenze. E, ovviamente, è con tali occhi mentali
che si procede dialetticamente, nel corso del ragionamento che definisce ciò
che è; quegli stessi occhi che Platone ha aperto al centro dell’anima perché
fosse possibile accogliere la visione delle Idee26 (è risaputo che il termine
greco idea deriva dal verbo greco che significa vedere). L’accecamento, con
cui Edipo rabbiosamente si punisce, può dunque ben indicare il ripudio di
nuziale che accolse il padre tuo. [. . . ] tu che fosti, e da anni, generato e generatore»
(ibid.); Servo: «[. . . ] la sciagurata [riferito a Giocasta], duplice prole aveva partorito, dal
marito un marito e figli dal figlio» (ibid., p. 309); Edipo: «o nozze, o nozze! Voi [. . . ]
mostraste alla luce del giorno padri che sono fratelli dei propri figli e figli che sono fratelli
del proprio padre, [. . . ] e spose che sono mogli e madri del loro marito» (ibid. p. 311).
25
Sofocle, “Edipo re”, in op. cit., p. 312.
26
Cfr. C. Sini, I segni dell’anima, Laterza, Bari 1989.
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ITIN E RA – Rivista di F ilosofia e di Teoria delle A rti e della Letteratura
Edipo nei riguardi di quella contraddizione che, nonostante le abilità logiche
che gli sono state riconosciute, non può certo risolvere. E proprio perché
rimane fedele al suo metodo logico, alla fine Edipo se ne esce di scena come
innocente; colpevole di incesto e prima ancora di parricidio, eppure puro di
fronte alla Legge della logica, e alle sue regole. Quelle stesse leggi e regole
logiche che si sono affermate con Edipo, subito dopo l’evento sanguinoso
dell’assassinio di Laio, quasi a suggerire che la ragione dialettica, col suo
fare chiarezza e col suo imporre la purezza, altro non cela se non un’origine
violenta.
Del modello logico-concettuale, che passa con e attraverso il “sistema
Edipo”, si è ampiamente detto; pertanto, è venuto il momento di analizzare il
secondo modello che avevamo incluso nell’elenco d’esordio (successivamente
toccherà al paradigma psicoanalitico, che, come è facile intuire, si incentra
sulla scoperta freudiana del noto “complesso di Edipo”).
«Figli miei, ultimi nati dall’antico Cadmo, perché siete qui presso questi
altari, e avete con voi supplichevoli rami incoronati di bende? [corsivo mio]»,
domanda Edipo, aprendo così la tragedia di Sofocle; e subito dopo, ancora:
«figli miei, quanta pena mi fate e quanta pietà! [corsivo mio]»27 . Re Edipo
utilizza un linguaggio esplicitamente paterno nei riguardi dei suoi sudditi.
Il potere che incarna, ossia il potere della Legge, fa sì che Edipo si riconosca
nel ruolo del padre, attribuendo ai suoi sudditi il ruolo dei figli. Ebbene, che
cosa passa attraverso quelle poche e precise parole: figli miei? Una risposta
a tale quesito, per essere argomentata, non può evitare di intraprendere una
brevissima incursione tra le pagine del Timeo di Platone. Come è risaputo, in questo dialogo platonico dell’età matura, il filosofo greco racconta in
quale modo abbia avuto origine il mondo. In breve, si tratta di spiegare in
quale modo le cose sensibili, di cui abbiamo esperienza, siano state formate,
generate. Se infatti le Idee sovrasensibili sono primarie (ossia corrispondono
a ciò che sempre è), in quanto tali, non possono che risultare ingenerate;
tutt’altro discorso vale per le copie sensibili, che invece, soggette come sono
al mutamento e alla variazione, derivano essendo generate. Nel raccontare
come il mondo e la sua popolazione di copie abbiano avuto generazione,
Platone distingue tre generi, tre nature: il genere soprasensibile, che riguarda la natura delle Idee (che non sono altro che principi intelligibili, sempre
identici a se stessi); il genere sensibile che riguarda quanto risulta generato
(ossia le copie sensibili delle Idee); e infine un genere terzo (la chora) così
detto perché non appartenente né al genere delle cose sovrasensibili né al
genere delle cose create. Il terzo genere è, infatti, puro sostrato materico,
materia amorfa, senza forma. Detto questo, cosa accade con la generazione?
Secondo il racconto di Platone, l’Idea segna come un sigillo tale sostrato di
pura materia (che assolve una funzione analoga a quella della cera) imprimendogli la propria forma; ciò che così risulta è la copia sensibile dell’Idea,
27
Sofocle, “Edipo re”, in op. cit., p. 287 e p. 288.
13
ITIN E RA – Rivista di F ilosofia e di Teoria delle A rti e della Letteratura
che pertanto si forma in base al modello ideale28 .
Platone paragona la chora alla cera della tavoletta di scrittura, all’oro
che fondendo passa da una forma all’altra, alla base inodore del profumo;
oltre a queste analogie ne aggiunge anche un’altra, quella con l’utero della
femmina29 . Rimanendo su quest’ultimo riferimento analogico, che si riferisce alla generazione tout court, non è difficile riconoscere negli elementi
coinvolti i tre generi, di cui parla Platone: ciò che è generato corrisponde
infatti al figlio; ciò in cui il figlio è generato corrisponde alla madre; e «ciò
da cui ricevendo somiglianza si genera ciò che è generato [corsivo mio]»30
corrisponde evidentemente al padre. Ciò che attraverso questo modello si
afferma è indubbiamente il principio maschile; ma cosa significa, cosa comporta tale modello? L’affermazione del principio dell’Uno e del Simile. Da
tali principi deriva che il figlio, per essere riconosciuto come legittimo, deve
somigliare al modello, ossia al padre (un po’ come questa sedia, per essere riconosciuta come tale, deve somigliare all’Idea di sedia). Secondo tale
prospettiva, il figlio è a tutti gli effetti nel segno (e nel nome) del padre, la
cui autorità è fuori discussione in quanto il padre stesso è l’indiscusso autore
(ovvero il creatore).
«Figli miei», recita Edipo. E quando pronuncia queste parole, Edipo è
il re indiscusso di Tebe: i suoi dettami sono Legge31 e, in quanto tali, sono
principio di giustizia. Giusto è il decreto di Edipo; “buoni” sono, invece, i
sudditi nella misura in cui gli obbediscono, ossia nella misura in cui si adeguano all’ordine del re Edipo32 . Occorre notare che il verbo “adeguarsi”,
nel rispetto della derivazione latina (ad-aequo), indica un indirizzarsi, letteralmente un tendere verso l’equo, verso ciò che è giusto; per estensione, più
genericamente adeguarsi significa rapportarsi a un parametro. Ed è proprio
in questo senso che, nella misura in cui si rapportano alla legge, obbedendole (ossia prendendola a modello, a riferimento), i cittadini di Tebe, il loro
comportamento possono essere definiti giusti (sia ben chiaro che ciò che è
giusto, ciò che è bene – il Giusto, il Bene – spetta alla legge definirlo; mentre
ai cittadini tocca il dovere di adeguarsi a quanto decreta la legge). Ora, i
figli rispettano l’autorità del Padre così come i cittadini rispettano l’autorità
28
Cfr. Platone, Timeo, 47 E – 50 C.
Ibid., 50 C – 50 E.
30
Ibid., 50 D.
31
Vale come esempio l’ordine che Edipo impartisce ai suoi sudditi, nel momento in cui
si fa carico della ricerca dell’assassino di Laio al fine di liberare Tebe dalle sue sventure:
«il colpevole dell’omicidio, chiunque egli sia, a tutti i cittadini di questa terra dove io
ho trono e potere, faccio divieto che lo accolgano in casa, che gli rivolgano la parola. . . »
(Sofocle, “Edipo re”, in op. cit., p. 291).
32
Edipo, dopo aver pronunciato il suo ordine e lanciato la sua maledizione: «a coloro
che non faranno questo, prego gli dei che nessun frutto venga su dalla terra, nessun figlio
dalle loro donne, e muoiano distrutti dal morbo che ora ci affligge e da una calamità anche
peggiore. Agli altri Cadmei, a quanti di voi approvate le mie parole, sia sempre alleata
Giustizia, siano sempre benigni tutti gli dei» (Sofocle, “Edipo re”, in op. cit., p. 292).
29
14
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della Legge. Nell’uno come nell’altro caso si tratta di somigliare a un modello che si impone come “autore”: i cittadini, dal canto loro, sono, esistono
in rapporto alla Legge (è la Legge che forma la comunità dei sudditi); i figli,
dal canto loro, sono tali in virtù di un padre da cui sono riconosciuti. I figli
illegittimi (quelli che non somigliano al padre) sono esclusi dal nucleo familiare, non diversamente da quanti, non obbedendo alla legge, sono espulsi
dalle mura della città, o reclusi entro le mura carcerarie. La famiglia come lo
Stato si epurano dai non conformi. E nel rispetto di quanto si è argomentato, aggiungiamo che al termine della vicenda di Edipo non è solo il metodo
razionale di indagine adottato ad affermarsi come valido, ma anche il principio di autorità della Legge non fallisce. Edipo, colpito dall’ordine e dalla
maledizione pronunciata contro l’assassino di Laio, quando ancora parlava
da re, decidendo di adeguarsi alla condanna dell’esilio, conferma l’autorità
sovrana della Legge.
Mentre il modello logico-concettuale e quello politico sono stati ricavati
attingendo dalla tragedia di Sofocle e intrecciando tra loro tradizioni filosofiche e contributi saggistici di varia provenienza, il modello psicoanalitico
ovviamente non può che rinviare al lavoro di ricerca di Freud, costringendoci
così a un salto temporale che ci precipita alla fine del XIX secolo e alle soglie del XX secolo33 . Ciò che è noto come “complesso di Edipo” descrive un
triangolo di relazioni familiari, che nell’economia della teoria psicoanalitica
di Freud, serve a spiegare il processo di maturazione del bambino maschio;
processo di maturazione che prevede come fasi l’identificazione con il padre, al quale il bambino desidera sostituirsi, e il desiderio di possesso della
madre34 . Secondo tale lettura, il parricidio e l’incesto commessi da Edipo,
protagonista tragico dell’opera di Sofocle, rappresentano in scena i desideri
inconsci dai quali il figlio si deve emancipare. Ora, detto questo, quando
nel 1972 Deleuze e Guattari intitolano il proprio testo L’Anti-Edipo, esattamente cosa hanno di mira? L’assunzione del “complesso di Edipo” a valore
di schema. Nell’attacco feroce che Deleuze e Guattari conducono contro la
psicoanalisi, ciò che essi denunciano è la funzione che “il complesso di Edipo”
assolve in qualità di parametro, di schema di riferimento assoluto rispetto
alle produzioni dell’inconscio, valendo per tali manifestazioni come codice
interpretativo assoluto e per la psicoanalisi come dogma di portata universale35 . Semplificando la critica mossa dalla coppia Deleuze-Guattari, il trian33
Un quadro estremamente dettagliato del dibattito scaturito intorno all’interpretazione
freudiana di Edipo è tracciato nel corso del primo capitolo del seguente saggio: G. Paduano, Lunga storia di Edipo Re. Freud, Sofocle e il teatro occidentale, Einaudi, Torino 1994,
pp. 15-70.
34
La rimozione, la censura di tale desiderio parricida e incestuoso è ritenuta da Freud la
causa determinante e scatenante delle nevrosi; pertanto è facile comprendere l’importanza
focale che tale teoria assume nell’ambito della riflessione di Freud e nell’ambito della storia
della psicoanalisi in genere.
35
Cfr. G. Deleuze, F. Guattari, L’Anti-Edipo. Capitalismo e schizofrenia, cit., p. 54
sgg.
15
ITIN E RA – Rivista di F ilosofia e di Teoria delle A rti e della Letteratura
golo papà-mamma-bambino si cristallizza con Freud nello schema che spiega
i sogni, i comportamenti, le nevrosi, per dirla in una parola: l’inconscio. In
altri termini, quanto Deleuze e Guattari denunciano, guardando ai principi
fondanti della psicoanalisi, è la manovra in base alla quale “il complesso di
Edipo” è assunto da Freud in qualità di regola (leggi: Idea) che governa
l’inconscio. Ogni caso clinico si risolve, si chiarisce, diviene leggibile una
volta che sia stato rapportato al modello, ossia una volta che sia stato ricondotto al triangolo edipico. In pratica, le manifestazioni dell’inconscio
risultano trattate al pari di ogni cosa sensibile che, secondo quanto prescritto dall’ordinamento filosofico platonico, si risolve necessariamente nella sua
Idea modellante.
Stando a quanto sostengono Deleuze e Guattari, se è vero che a Freud
si deve la scoperta dell’inconscio, sempre a Freud si deve la Legge che lo
regolamenta, il Principio su cui si modellano i suoi fantasmi. Accade così
che l’inconscio, giusto scoperto, si trasformi subitaneamente in teatro, un
teatro dove continuamente va in scena lo Stesso (vale a dire: innumerevoli copie, riproduzioni, versioni dello Stesso copione). Ciò che la coppia
Deleuze-Guattari avversa nel L’Anti-Edipo è, dunque, l’affermarsi come dominante del principio dell’Uno e del Simile anche nei territori dell’inconscio.
Si ricorda, infatti, che, nel corso di questo stesso lavoro, il medesimo dominio dell’Uno e del Simile è stato individuato nel modo di procedere logicoconcettuale che affiora nell’opera tragica di Sofocle, ossia nel modo di operare del personaggio Edipo, fino a maturare nei dialoghi di Platone. Inoltre
abbiamo riconosciuto il principio dell’Uno e del Simile come operante anche nel modello politico che emerge nell’Edipo re e che tutt’oggi fonda ogni
Stato di diritto, perché costituisce e regola il rapporto tra i cittadini e la
Legge. Quando si affermava che l’espressione “anti-Edipo” doveva essere
intesa come una decisa avversione all’idealismo, ebbene ciò che attraverso
quella formula si dichiarava di voler sovvertire è proprio l’imposizione del
principio dell’Identico (dell’Uno, del Medesimo) come ideale, ossia come valore di riferimento36 . E, come è stato illustrato, tale idealismo permea ogni
dimensione, ogni livello: quello del ragionamento, quello del metodo, quello
del linguaggio, quello politico, finanche quello dell’inconscio. Conosciamo,
parliamo, ci esprimiamo a voce e per iscritto, viviamo in comunità puntellandoci, rapportandoci, facendo riferimento a ciò che rimane fermo, identico;
questo perché, concomitantemente, è l’identico, ossia l’invariante, che detta
la regola, la legge, lo schema su cui ci si forma e a cui ci si conforma.
Deleuze singolarmente e la coppia Deleuze-Guattari concordemente hanno elaborato delle strategie di rovesciamento dell’idealismo; quell’idealismo
che abbiamo cercato sommariamente di denudare e di denunciare come sommessamente onni-operante. Mostrare tali strategie è quanto attualmente ci
36
Rispetto al principio dell’Uno, dell’Identico, la stessa somiglianza non è che un
immediato derivato: infatti, due cose si somigliano in rapporto a un identico.
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proponiamo di fare, visitando quelle macchine-testo che sono Alla Greca di
Berkoff e Edipus di Testori37 , veri e propri ordigni anti-edipici, come presto
vedremo.
Alla Greca è un ardito riadattamento della tragedia di Sofocle, Edipo
re; anche in questo testo di Berkoff, come del resto nel testo sofocleo, il
parricidio e l’incesto aleggiano sulla scena come presenze invisibili ma cionondimeno determinanti. Dimenticata Tebe, è Londra, e per estensione
l’Inghilterra di Margot (leggi: Margaret Tatcher), a fare da sfondo alla vicenda di Eddy/Edipo; una capitale, quella londinese, percorsa da violente
ondate di scioperi e stretta nel pugno delle forze dell’ordine schierate in campo con i manganelli alzati; il tutto condito dalle deflagrazioni assordanti dei
ripetuti attentati irlandesi e dalle irruente incursioni di frotte di hooligans
scozzesi. Venendo alla trama, è possibile sintetizzarla in questi termini: una
coppia in gita in barca sul Tamigi perde il proprio bimbo in fasce a causa di
un’esplosione che rovescia tutti i gitanti in acqua. A raccogliere il neonato
ancora vivo, sottraendolo alle acque fluviali, una coppia che in riva al Tamigi
si godeva la bella giornata. La coppia decide di allevare il piccoletto, senza
denunciarne il ritrovamento. Dopo molti anni, i genitori di Eddy (così la
coppia chiama il bambino), impressionati dalle nefaste premonizioni di uno
zingaro indovino, una delle tante attrazioni della consueta fiera di Pasqua,
spingono il figlio ad abbandonare le desolanti mura domestiche e ad andare
in cerca di fortuna. Eddy si trasforma presto nel ricco gestore di un bar;
questo, dopo averne ucciso il proprietario e sposata la moglie. Trascorre una
decina di anni; sulla città si abbatte la peste: Eddy, eroicamente, si offre di
debellarla nell’unico modo possibile, ovvero sfidando la Sfinge e risolvendo il
suo difficile enigma. Per festeggiare la vittoria e il ritrovato benessere, Eddy
e la moglie decidono di invitare in casa propria gli anziani genitori che Eddy
non incontrava dal suo allontanamento. È in questa occasione che la coppia
svela a Eddy quanto era rimasto fino allora celato, raccontando le circostanze del suo fortuito ritrovamento; quindi, segue precipitosamente la scoperta
del vincolo incestuoso che lega Eddy alla madre/moglie. Naturalmente, non
è questa la successione con cui gli eventi della vicenda si dispiegano nel testo;
Alla Greca comincia con l’allontanamento da casa di Eddy e, a partire da
qui, l’opera dipana lentamente la matassa della sua trama: come nel testo
di Sofocle, nulla è chiaro fino alla fine.
Abbozzata sommariamente la trama, è utile passare ad analizzare tre
episodi specifici, che si rivelano significativi nella prospettiva di quel rovesciamento dell’idealismo che connota questo testo come peculiarmente “antiedipico”. Il primo degli episodi, che ci interessano, riguarda l’uccisione da
parte di Eddy del proprietario del Caffè; uccisione che avviene nei termini
37
Paduano dedica al testo di Berkoff alcune pagine del saggio precedentemente citato
(G. Paduano, op. cit., pp. 239-24), senza mancare di occuparsi anche dell’Edipus firmato
da Testori (ibid., pp. 227-230).
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che seguono:
Padrone Che diavolo succede, si può sapere cos’hai da alzare la voce
merdosissimo coglione / vaffanculo!
Eddy Prego come? Nessuno mi ha mai parlato in questo modo!
Padrone L’ho appena fatto io.
Eddy Ti cancellerò dalla faccia della terra.
Padrone Ti ridurrò a una pastafrolla e ti servirò come dessert.
Eddy A pezzi ti farò: a pezzi / ti strapperò gambe e braccia e le darò
in pasto ai porci.
Padrone Ti piglierò a calci fino alla morte ti calpesterò punto per
punto ti sventrerò con coltellacci per scarnare ti scorticherò vivo
(i due mimano la lotta).
Eddy Colpire fendere smembrare far soffrite accoltellare pugnalare.
Padrone Fracasso scasso ammazzo strazio squarcio stronco uccido.
Eddy Stronzo scazzo strappo spezzo.
Padrone Spruzzo offendo arrendo stendo orrendo smoccio.
Eddy Esplodo grido furia affogo rogo stacco stocco.
Padrone Smerdo lordo stronzo smorzo fiacco sangue acciso.
Eddy Emorragico svenato tumefatto frantumato fendo schianto le mascelle sbriciolate il collo rotto.
Padrone Mollo crollo ah il costolame schiodo ah l’agonia lo scalpello
per il ghiaccio mi si pianta crocefigge.
Eddy I testicoli strappati scucchiaiati i begli occhietti son palline da
ping pong ping pong spezzo i fili dei nervetti strappo strappo le
unghie strappo.
Padrone Morde inghiotte succhia tira.
Eddy Più colpisci più hai potere più colpisci più hai potere.
Padrone Più son fiacco.
Eddy Più son forte.
Padrone Debolissimo.
Eddy Potente.
Padrone Moribondo.
Eddy Vittorioso.
Padrone Si è così.
Eddy Whow è fatta.
Cameriera Dio l’hai ucciso / mai mai mi ero resa contro che le parole
potessero uccidere, così mai!38
38
S. Berkoff, op. cit., pp. 41-43.
18
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Come è evidente si tratta di un duello verbale, che vede fronteggiarsi
Eddy e il gestore del Caffè (alias il padre naturale di Eddy), il quale se ne
esce sconfitto e ucciso. Letteralmente ucciso, perché il proprietario del Caffè
è di fatto massacrato a parole. Una raffica di parole si lancia e ricade, ora
sulla testa dell’uno, ora sulla testa dell’altro, come una tempesta di colpi:
sono parole, ma sono anche armi affilate, corpi contundenti che offendono e all’occorrenza difendono nel corso di questo straordinario accanimento
“fisicoverbale”. Educati all’incorporeità della parola, di norma si dà per
scontato che la parola, quando ferisce, non possa che farlo metaforicamente,
quasi fosse uno sparare a salve. Ora, per uccidere a colpi di parole, del tutto
fuor di metafora, occorre che il linguaggio “faccia corpo” con la cosa o con
l’azione che dice; dunque, ciò che subentra al posto del consueto gioco di
rimandi linguistici di parola in cosa e di cosa in parola, ciò su cui si fonda
il duello “fisicoverbale”, di cui Berkoff dà prova, è l’indistinzione tra parola
e cosa, tra verbo e azione, una reciproca aderenza speciale e anomala (nota
bene: l’a-nomalia implica di per sé la negazione della regola, la violazione
della norma). «Tu dici “carro”, e un carro passa attraverso la tua bocca»39
recita un noto paradosso stoico. Ebbene, che la parola faccia corpo con la
cosa, che il verbo abbia la stessa efficacia dell’azione che esprime, causandone i medesimi effetti, rappresenta un doppio senso: duplice è, infatti, il
senso dello scontro che avviene nel Caffè coinvolgendo parimenti Eddy e il
proprietario, “fisicoverbale” per l’appunto.
Se è vero che è connaturata al paradosso l’affermazione simultanea di
due sensi40 , allora il duello, che determina la morte violenta del padrone del
Caffè, può essere detto a ragione paradossale. E come il paradosso, anche il
duello, che si svolge a parole sulla scena teatrale, presenta un funzionamento
anomalo. In cosa consista tale anomalia è presto chiarito: la norma cui il
testo contravviene è la regola dell’idealismo dialettico, che si muove a senso
unico sul binario dell’alternativa o. . . o. . . (o parola o cosa). Affermando
due sensi contemporaneamente e superando d’un salto la coppia di criteri
vero-falso, il paradosso si chiama fuori dal dominio del principio di non
contraddizione; così anche il duello tra Eddy e il gestore del Caffè, che non
vale per ciò che è detto o per ciò che è fatto, ma per ciò che è dettofatto
e fattodetto (nulla che possa essere ponderato secondo i parametri del vero
e del falso, essendogli del tutto estraneo). Funzionando nel modo che si è
descritto, l’ordigno del paradosso scompagina la via dritta (e unica) che il
logos traccia puntando al vero ed eliminando il falso (viaggiando, come si
scriveva, sul binario ristretto dell’alternativa “o. . . o. . . ”); si comprende,
pertanto, come tale episodio possa costituire un primo attacco all’idealismo,
39
Cfr. Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, VII 187.
Ricaviamo tale definizione del paradosso da: G. Deleuze, Logica del senso, cit.; testo, questo, che Deleuze sviluppa secondo serie di paradossi, preferendo la proliferazione delle serie all’organizzazione classica e sistematica del saggio filosofico, che prevede
un’articolazione secondo capitoli e paragrafi.
40
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ITIN E RA – Rivista di F ilosofia e di Teoria delle A rti e della Letteratura
destabilizzando la scena con il paradosso di un duello davvero inedito.
Il secondo episodio, che s’intende porre all’attenzione, riguarda la soluzione dell’enigma della Sfinge. Occorre innanzi tutto premettere che la
Sfinge, «la Cantatrice ambigua»41 di Sofocle, incarna sulla scena il femminile (per “femminile” si intende la capacità di generare che dalla donna
si estende fino alla Terra, ossia fino all’incommensurabile grembo di tutte
le cose generate)42 . Ciò che nello specifico a noi interessa è che la Sfinge
rappresenta quanto resta emarginato nel racconto che Timeo narra sulla
generazione del creato. A proposito di tale narrazione, precedentemente è
stato osservato come il principio, che dà la forma, coincida con il maschile
e come il generato (ovvero il prodotto, il figlio) nasca conformandosi a tale
principio. Rispetto alla generazione o, meglio, rispetto al tema dominante
della forma (del principio che nel corso della generazione in-forma), la donna,
diversamente, è descritta nei termini di un ricettacolo amorfo (ossia privo
di forma) in cui il generato si genera. Dalla gerarchia, che si instaura tra il
vertice-principio (il padre) e la sua copia (il figlio), la madre resta, pertanto,
esclusa, neutra com’è rispetto a qualunque forma, del tutto impossibilitata
a rapportarsi al principio di forma. Berkoff è molto abile nel sottolineare
riguardo al femminile, al materno, la dimensione altra che gli appartiene.
Sembra quasi che proprio in ragione di tale estraneità, di tale eterogeneità,
la Sfinge nello sfidare l’uomo (il maschile) rifiuti di adeguarsi alle sue regole.
Difatti, la Sfinge ricorre alla formulazione oscura dell’enigma, evitando di
combattere l’uomo dialetticamente, ossia sul terreno delle sue proprie armi logico-discorsive. Addirittura il testo di Berkoff induce a credere che
la Sfinge si prenda deliberatamente gioco delle leggi, della logica dell’uomo,
giocando innanzi tutto con la definizione stessa di uomo. Rispetto alla logica
dominante (che è di segno maschile), l’indovinello, l’enigma scatena, infatti,
percorsi non convenzionali, itinerari di senso altri, finanche metaforicamente
contraddittori.
Posta tale premessa, veniamo dunque all’enigma.
Eddy Voglio rispondere al tuo indovinello.
Sfinge Allora sappi che tutti quelli che ci provano e non rispondono
poi muoiono. [. . . ] Allora fa così: cos’è che cammina su quattro
gambe al mattino su due al pomeriggio e su tre alla sera?
Eddy L’uomo! Nel mattino della vita procede a quattro zampe, nel
pomeriggio adulto ed ancora giovane ne usa solo due, di sera
41
Sofocle, “Edipo re”, in op. cit., p. 289.
Sfinge: «[. . . ] sono la terra, io/io sono il movimento degli spazi/io sono l’acqua il
fuoco e tutti gli elementi» (S. Berkoff, op. cit., p. 59). La Sfinge, nel corso del confronto
verbale con Eddy, precedente la soluzione dell’enigma, rievoca il tempo in cui a dominare
era il femminile, passando poi a descrivere la successiva sottomissione del femminile al
maschile nella generazione. Cfr. ibid., pp. 57-60.
42
20
ITIN E RA – Rivista di F ilosofia e di Teoria delle A rti e della Letteratura
quando è eretto in ossequio alla sua donna eccola lì che spunta
pure la terza gamba.43
Risolvendo l’enigma, Eddy vince il confronto con la Sfinge. Ma, a ben
guardare, come vince? Facendo ricorso a un doppio senso. Doppio senso,
che, volgare quanto si vuole, comunque proprio in ragione della sua particolare costituzione non può collimare con la logica maschile dominante,
che si ordina ritagliando sensi unici da alternative e bivi mediante l’accetta
dell’esclusione. Pertanto, il doppio senso di Eddy è lecito che sia inteso
come un’ulteriore provocazione avverso l’idealismo dialettico. Tant’è che
Eddy, più che un avversario della Sfinge, alla fine pare piuttosto un suo
imprevedibile alleato, che ne provoca sì la morte, ma logicamente si schiera
dalla sua parte. La Sfinge è presto decapitata, ma, seppur vinta, non muore
sconfitta.
Ora, saltando all’epilogo, che costituisce il terzo episodio per noi significativo, non guasta anticipare che vi si troverà confermato questo sovvertimento della logica dominante, già due volte evidenziato, e che forse
rappresenta l’effettivo avversario nel mirino di Berkoff.
Eddy ’ffanculo a tutto questo. Piuttosto intero rifarei il cammino di
corsa a senso inverso mi ficcherei di nuovo al calduccio dentro
il letto a venerare la sposa mia dal corpo d’oro, di nuovo salirei
ad arrampicarmi in vetta al suo santuario in eterno al sicuro e
confortato. Sì ecco ciò che voglio: arrampicarmi ancora dentro
alla mia mamma. Che c’è di male a farlo?
[. . . ] è deciso torno indietro. E così corro e corro e corro, e
correndo le pulsazioni aumentano e i miei piedi percuotono la
terra in modo barbaro, è amore io lo sento che tutto questo è
amore, che cosa importa quale forma prende, è amore lo sento
per il tuo seno e i tuoi capezzoli che ho succhiato e risucchiato /
per il tuo ventre due volte frequentato / per le tue mani due volte
carezzare / per il tuo fiato due volte respirato, per le tue cosce, la
tua figa due volte conosciuta, la prima spingendo con la testa la
seconda spingendo col cazzo, amorosa figa sacra madre sposa /
amorosa fonte del tuo stesso esistere / uscita del paradiso entrata
per il cielo [corsivo mio].44
E figlio e marito: di fronte a tale duplice evidenza, l’Eddy di Berkoff
non si acceca45 . E figlio e marito della moglie e madre, Eddy afferma e
rivendica per sé entrambi i ruoli contrariamente alle prescrizioni della regola
logica dominante che vuole che sia o figlio o marito della donna in questione.
Parrebbe proprio che i doppi sensi precedenti non abbiano altra funzione se
43
S. Berkoff, op. cit., p. 60.
Ibid., p. 81.
45
Eddy, rivolgendosi alla moglie/madre: «semplicemente noi ci amiamo e allora mamma
cosa importa? Niente proprio. Perché dovrei strapparmi gli occhi a mò dei greci e tu perché
dovresti appenderti ad un laccio ed impiccarti?» (S. Berkoff, op. cit., p. 80).
44
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ITIN E RA – Rivista di F ilosofia e di Teoria delle A rti e della Letteratura
non quella di spianare la strada all’epilogo, dove emerge chiaramente ciò che
si intende rovesciare (vale a dire l’idealismo logico-concettuale) e come lo
si intende fare (ossia sovvertendo la legge dell’esclusione “o. . . o. . . ” nel
rovescio della congiunzione “e. . . e. . . ”). È sotto questo profilo e per le
ragioni, che sono state dette, che Alla Greca si rivela un perfetto congegno
anti-edipico.
Le rivendicazioni rivoluzionarie di Eddy nei confronti della logica e della
legge dominanti introducono a quelle che Deleuze e Guattari chiamano “sintesi congiuntive”46 , dove per “sintesi” occorre intendere un “porre insieme”
e per “congiuntive” il modo in cui tale “con-posizione” avviene. Per cui, per
farla breve, “sintesi congiuntive” equivale a porre insieme mediante congiunzione. “E. . . e. . . ”: non serve aggiungere altro per comprendere come tali
sintesi funzionino e che cosa producano. Operando congiunzioni mediante
“e. . . e. . . ”, ciò che in sintesi si macchina non è altro che un concatenamento.
Qualunque cosa può divenire un elemento del concatenamento: la formula
“e. . . e. . . ” non contempla esclusione. Mancando sia la possibilità di escludere sia un criterio di esclusione, non esiste riscontro in termini di vero e di
falso, di giusto e di sbagliato per questo modo di operare. Proseguendo con
le osservazioni che si possono ricavare semplicemente a partire dalla formula espressiva di tali sintesi (“e. . . e. . . ”), a ben guardare, ogni elemento si
mantiene indipendente dall’altro, come ogni tessera di un mosaico che da
singola partecipa all’opera senza fondersi nel disegno in cui rientra. Inoltre,
rispetto al concatenamento ogni elemento vale quanto ogni altro; ciò significa che in nessun modo può subentrare, intervenire una qualche gerarchia.
Questo aspetto suggerisce che le sintesi congiuntive si accrescano secondo
una prospettiva orizzontale, incompatibile con qualsivoglia verticalizzazione gerarchica. E ancora, il concatenamento sviluppato secondo la formula
“e. . . e. . . ” non può avere né capo né coda; la sua rete resta costantemente
aperta a nuove connessioni. Del resto, non vi è direzione nella quale non
possa espandersi. Nessun indirizzo escluso, la formula “e. . . e. . . ” esprime,
difatti, la massima disponibilità. A sua volta, il fatto che il concatenamento sia sempre disponibile ad accrescimenti e, quindi, a variazioni di sorta,
comporta che il suo disegno muti continuamente, sottraendolo a un’identità.
Per questa ragione, concludiamo questa serie di osservazioni aggiungendo a
quanto finora detto, che il concatenamento ha la natura di una somma; quest’ultima, infatti, è un che in nessun modo riconducibile all’Unità, perduta
o promessa che sia.
Se si confronta quanto appena esposto con le riflessioni sviluppate in precedenza a proposito dell’idealismo logico-dialettico, impossibile non rendersi
conto del fatto che l’idealismo con i suoi principi dell’Uno e del Simile è qui
46
Cfr. G. Deleuze, F. Guattari, L’Anti-Edipo. Capitalismo e schizofrenia, cit. La
trattazione delle sintesi congiuntive ricorre in più luoghi de L’Anti-Edipo; per tale motivo,
il rinvio a questo testo non può che essere generico.
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ITIN E RA – Rivista di F ilosofia e di Teoria delle A rti e della Letteratura
soppiantato da una macchina funzionante in maniera completamente differente. Il procedere secondo esclusioni della dialettica si rovescia in una rete di
congiunzioni; l’ordinamento gerarchico che pone in vetta il Principio, ovvero
l’Uno, è vinto da un concatenamento acefalo e orizzontale; l’uniformità al
Principio unico si scontra con la frammentarietà dell’eterogeneo; l’interezza
e la compiutezza dell’Uno sono scalzate da molteplicità aperte.
Il desiderio funziona alla maniera del concatenamento47 ; Deleuze e Guattari sostengono che si desidera macchinando sintesi congiuntive, né più né
meno. Del resto, un qualunque desiderio non comporta forse un’immediata
lega con un elemento altro, estraneo e straniero, comunque eterogeneo (una
persona, un viso, un quadro, un vestito, un dettaglio, un oggetto)? Secondo
la prospettiva della coppia Deleuze-Guattari, ogni singolo (qui, a ragione,
non si parla più di individuo) funziona come un concatenamento, ossia corrisponde a una costellazione desiderante. Ciascuno si congiunge, fa lega con
ciò che desidera, o meglio: si fa di ciò che desidera, è fatto di ciò che ha
desiderato, e continua desiderando. È interessante notare come la macchina anti-edipica del desiderio contrasti con la teoria canonica del desiderio
(di derivazione platonica), per cui l’oggetto del desiderio è concepito come
lontano, separato, staccato, spesso irraggiungibile da chi lo brama; sideralmente lontano, potremmo dire, visto che il desiderio nella sua etimologia
segna effettivamente una distanza dalle stelle incolmata. Equivalente al desiderio è il rizoma, che in Millepiani ricopre la medesima funzione svolta
ne L’Anti-Edipo dalla macchina desiderante48 . Rizoma è un termine preso
a prestito dalla botanica. Secondo la descrizione che ne fa la botanica, il
rizoma rassomiglia a una radice, che si sviluppa orizzontalmente rispetto al
terreno, ed è dotato di gemme, dalle quali si dipartono fusti che fuoriescono
dal terreno e possiedono vita annuale; propagandosi ad libitum alla stregua
di un’infestazione, di una colonizzazione del territorio, il rizoma incentiva la
nascita di una rete di getti sempre nuovi, tra loro indipendenti ed equiparati. Queste poche indicazioni, mutuate dalla botanica, già bastano perché
si possa comprendere senza sforzo che il rizoma, in quanto somma aperta
e operante di elementi tra loro equivalenti e indipendenti, funziona secondo la formula congiuntiva “e. . . e. . . ”; la medesima sintesi che macchina il
desiderio, muovendo le costellazioni dei singoli. A sua volta, riconosciamo
al grembo materno della Terra, dove di luogo in luogo e di tempo in tempo
si genera e un fiore e un animale e un uomo e un minerale e. . . , il modo di
47
Ricordiamo che il desiderio, che costituisce una questione centrale ne L’Anti-Edipo, è
una delle parole chiave dell’Abecedario di Gilles Deleuze, progetto che raccoglie le videointerviste condotte da Claire Parnet e divulgate, secondo la volontà di Deleuze, postume.
Cfr. C. Parnet (video-intervista a cura di), Abecedario di Gilles Deleuze (2004), trad. it.
dei sottotitoli di I. Bussoni, F. Del Lucchese e G. Passerone, 3 dvd, DeriveApprodi, Roma
2005.
48
Per un’introduzione al rizoma cfr. G. Deleuze, F. Guattari, Millepiani. Capitalismo
e schizofrenia, cit., vol. I, pp. 14-54.
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operare di una macchina rizomatica e desiderante, che funziona mosaicando
l’esistente.
Ora, se Alla greca è stato il testo che ci ha consentito un accesso alle sintesi congiuntive, ovvero al rizoma, alla macchina-desiderio, è con l’armamentario
filosofico appena acquisito che ci accostiamo all’Edipus di Testori. «Sdervisciate il siparium!»49 urla da fuori lo Scarrozzante. Ultimo rimasto di
una compagnia di attori, è lo Scarrozzante che presta corpo e voce a tutti i
personaggi del racconto edipico (Laio, Iocasta, Edipus) riscritto da Testori.
Non è questa l’unica nota originale dell’opera di Testori, che prevede anche
che la recitazione della vicenda greca sia più volte interrotta da monologhi
dello Scarrozzante sulle sue tristi vicende personali: tali interventi costituiscono la metacornice entro cui si sviluppa come a tratti, come per getti la
storia di Edipus. La prima finestra su Tebe si apre su Laio, che nel testo
di Testori gioca la parte del Re sovrano di uno stato illuminato e fortificato
dall’alleanza tra socialismo e chiesa cattolica. La scena è presto satura del
delirio mistico-politico, in cui Laio si profonde. A più riprese Laio esalta
[. . . ] la gloria de ’sta Unità ordenatissima, de ’sto regno esemplarissimo
in de cui viviamo e indove nissuno pode far niente che sia no stabilito,
decretato, deciduto, scegliuto, voruto, consigliato, ordenato, perentoriato dai Sacri Libbri Evangelichi, dai Codex socialighi e dalla devina
Maestà del Monstrum Uno e Duico che sta settato in sul trono.50
Considerato che il delirio mistico-politico di Laio esaurisce ciò che il Re
di Tebe dice, passiamo a valutare ciò che invece Laio è intento a fare. Re
Laio ordina e assiste al supplizio pubblico di tre deviati di Tebe accusati
di gravi reati contro la legge, contro la natura, contro la società (uno di
questi ha disertato la Santa Messa per tre settimane di seguito e pare abbia
bestemmiato contro la Chiesa, un altro è reo di essere omosessuale).
[. . . ] fuit, disevo, quarche anema antapolitega, antasocialiga e antacristiga la quale ha osato desvelgere i cardini istessi della Lex. Sì, mio
poppolo! Sì, mie pegore! La Lex dei nostri Statuti et, insieme, la Lex
dei nostri Libbri!
Desvelgere? Poari, illussionatissimi illusionati! Chè la Lex è iscritta
bronzamente e imperìturamente in delle Tavole mosaiche et in quelle
civiliche et socialighe. Non dunque han desvelto, ma cercato; anzi,
tentoriato.51
Laio condanna i tre ribelli a una morte atroce forte della sua autorità
decisionale, che si fonda sull’identità del Re con la Legge (questione, questa,
che di colpo ci riavvicina a quanto scritto a proposito dell’idealismo politico,
frequentando l’Edipo re di Sofocle).
49
G. Testori, op. cit., p. 7.
Ibid., p. 35.
51
Ibid., pp. 14-15.
50
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ITIN E RA – Rivista di F ilosofia e di Teoria delle A rti e della Letteratura
[. . . ] tutto quanto è ’rivato qui, stasira, e il nel àltero che poderà e
doverà ’rivare in questo Regno e in questa Giesa nell’andare dei tempi, est, fuit et seràt nel mio pienissimo, politego e pontifigante deritto
d’unifigatore e coincarnatore delle solissime Verità e dei solissimi Poteri
che sian sortiti, secondo regola et giustizia, dai moti, visserali et ventrali, della longa e tribolatissima storia pancreatica et spirituale degli
umani.52
Laio stesso ricorda ai sudditi di aver sacrificato alla Legge il proprio discendente appena nato, in quanto gli era stato predetto che il figlio, in futuro,
avrebbe portato il disordine entro il regime di Stato, sovvertendo l’ordine
costitutito. Per questo motivo, Laio racconta di aver strappato il neonato
dalle braccia della madre (che, pur non volendo, finisce per sottomettersi alla
volontà del Re) e narra di aver ordinato di abbandonare il figlio sul monte Citerone con i piedi legati in modo che fosse certamente sbranato dalla
fiere. Come poi rivela l’epilogo del testo testoriano, accade l’imprevisto: il
piccolo non muore ma, nutrito dalle fiere che ebbero per lui quella pietà che
il padre non ebbe, viene trovato e allevato da un pastore. Edipus cresce ed
è adulto quando fa irruzione nel testo di Testori e, conseguentemente, sulla
scena teatrale intenzionato ad assaltare il palazzo del Padre Re, il palazzo
del Potere. Scovato il Padre, Edipus lo aggredisce, lo sodomizza, lo evira
e lo lascia morire dissanguato. Quindi, Edipus si avventa sulla madre che
violenta spinto, più che dal desiderio, dalla volontà di dissacrare la donnaproprietà del Padre Re e, con essa, il suo proprio territorio di potere. Così
facendo, in realtà Edipus libera Iocasta da una sudditanza cui era costretta
con la forza; per questo, una volta consumato il rapporto incestuoso, la madre decide di non suicidarsi e di restare al fianco di Edipus come amante e
compagna. Edipus, rovesciando il Principio paterno, con la sua rivoluzione
finisce per liberare dal giogo del maschile la madre, ossia la donna, il femminile: in ragione di ciò, Iocasta riconosce in Edipus, nella creatura, il suo
proprio creatore, fautore di una nuova nascita nella liberazione53 .
Evidentemente, anche nell’Edipus di Testori il rovesciamento dell’idealismo
(dell’idealismo “unifigatore”, che con la Legge unifica, ovvero produce e impone l’Unità) la fa da protagonista. In precedenza si è visto come la Legge
possa essere ugualmente intesa come norma logico-dialettica, piuttosto che
come legge politica, schema linguistico o schema psicoanalitico (là dove a
dettare legge è il complesso di Edipo). Qui si tratta della Legge dello Stato
e della Legge della Chiesa. Ma che si tratti dell’una o dell’altra Legge è
sempre la Stessa Legge (ovvero è sempre la Legge dello Stesso) a imporsi
come dominante. A questo proposito, non deve stupire il sadismo con cui
Laio descrive i supplizi che comanda e ai quali assiste: non sono pochi gli
esempi, offerti dalla storia, di pervertimenti sadici derivanti dall’imposizione
52
Ibid., p. 23.
Iocasta, rivolgendosi a Edipus: «viegni, sì, viegni, te che sei el mio creato ma, in
dell’insieme, el mio creatoro!» (G. Testori, op. cit., p. 71).
53
25
ITIN E RA – Rivista di F ilosofia e di Teoria delle A rti e della Letteratura
della Legge54 . Già a proposito dell’Edipo re si commentava di sfuggita che
la violenza è connaturata all’affermazione di un ordine, di una legge: sono violente, si diceva, le origini del Potere e della Legge. Sempre restando
sui supplizi decretati da Laio, emerge con forza anche un altro aspetto: attraverso le accuse mosse contro i condannati a morte si palesa, infatti, il
conformismo che la Legge esige e pretende. Il cittadino non conforme al
Principio, alla Legge (lo si chiariva anche a proposito dell’Edipo re) è come un figlio illegittimo, bastardo, che non somiglia al padre, che non si è
adeguato all’ideale; pertanto, in quanto tale, deve essere eliminato, escluso,
emarginato. Dal non-conforme la società si deve necessariamente e-purare55 .
Il rovesciamento dell’idealismo non si gioca solo a livello del contenuto,
a livello della storia raccontata nel corso del testo: la decapitazione della
Legge, lesa al vertice, non si riduce ipso facto nell’atto esplicito della sodomizzazione e dell’evirazione del Re, del principio maschile. Il rovesciamento
dell’idealismo avviene anche tramite la lingua, attraverso il bizzarro idioletto di Testori, frutto di un vero e proprio sperimentalismo linguistico: il
sovvertimento dell’idealismo logico-dialettico passa anche attraverso quello. L’idioletto di Testori rassomiglia a un dialetto lombardo. Ma tendendo
l’orecchio si avvertono assonanze che lo avvicinano ora al latino, ora allo spagnolo, ora al francese e raramente parrebbe all’inglese. Dunque, l’idioletto di
Testori è del genere misto56 , ovvero risulta composto da elementi linguistici
eterogenei, non uniformi. Spingendoci oltre, non è fuori luogo attribuire
all’idioletto di Testori il modo di funzionare, di macchinarsi che Deleuze e
Guattari riconoscono alle lingue minori. Come è noto, Deleuze e Guattari
si riferiscono a una lingua minore per distinguerla dalla lingua maggiore o,
meglio, parlano di un uso minore della lingua per differenziarlo da un uso
maggiore della stessa. La lingua maggiore corrisponde alla lingua ufficiale,
alla lingua-struttura che si studia gradualmente a partire dalla grammatica
dei singoli elementi per arrivare alla sintassi delle frasi. È la lingua costruita
sull’invariante, su ciò che nel tempo e negli usi resta tale. Diversamente, la
lingua minore parla e si muove entro la maggiore, mettendola in variazione.
Parlare una lingua minore è come creare una propria lingua singolare entro
la struttura della lingua alla quale ci si deve adeguare e uniformare. Non si
tratta tanto di opporre la lingua della maggioranza alle lingue delle minoranze (quest’ultime sono pur sempre lingue, pertanto strutturate e determinate
come le lingue delle maggioranze). Quindi, non si tratta del minore e del
maggiore in rapporto alla quantità di persone che in un luogo, in uno stato
parla la lingua in questione. Piuttosto si tratta di deviare, di far funzionare
54
Sul nesso tra il sadismo e l’imposizione della Legge vedi G. Deleuze, Il freddo e il
crudele, trad. it. di G. De Col, SE, Milano 1996.
55
Laio: «Tebe, ’desso, è più libera, e più pura de prima» (G. Testori, op. cit., p. 22).
56
Diversamente da quanto accade nella mescolanza, dove gli elementi-ingredienti fondono in quella risultanza che è la miscela, nel misto si mantiene una somma composita di
eterogenei.
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la lingua cosiddetta maggiore in maniera rizomatica, macchinarla in tono
minore, discostandola dalla lingua per così dire ideale. In questo senso, Deleuze e Guattari a proposito di Kafka, ebreo di Praga che scriveva in tedesco
e nel tedesco, evidenziano nel saggio che gli dedicano la capacità di Kafka
di far balbettare la lingua maggiore, nella fattispecie la lingua tedesca57 .
Ma vediamo come termina la vicenda di Edipus narrata, tra mille interruzioni, dallo Scarrozzante.
Tebanichi! [. . . ] Noi tutti, indelsieme, ’me na foresta de cedri, de lìbani
e de seminazioni, faremo refiorire i marciapiedi e i trottuari! Indelsieme, a furi de oggiade, de basi, de leccate e de sborate, spaccheremo la
crosta dei catrami e dei ciamenti e refaremo saltar fuori le erbe, le più
versi e le più tenare che ghe siano!58
Il racconto si conclude con un vero e proprio inno al desiderio. Se tornassimo alle parole con le quali avevano sinteticamente introdotta la macchinarizoma, riconosceremmo in queste esclamazioni un vero e proprio inno al
desiderio, che è un suo equivalente. Non si scriveva, infatti, che il rizoma
rassomiglia a una radice, che si sviluppa in orizzontale rispetto al terreno e
dalle cui gemme si sviluppano fusti come getti, che qua e là bucano il terreno
e così si sviluppano per tutto il loro durare? Quasi li possiamo immaginare
questi fusti mentre emergono dal cemento, dal catrame dell’asfalto, negli
interstizi inospitali dei marciapiedi, e così facendo colonizzano il territorio,
random, anarchicamente, senza rispondere a un disegno, a un qualche ordine, ma frammentariamente. Un po’ come l’irrompere dell’erba, lo spuntare
imprevisto e imprevedibile dei suoi fili sull’orizzonte-terreno.
Ora, poiché il rovesciamento dell’idealismo logico-concettuale è la cifra
di ciò che è anti-edipico, e poiché i percorsi che si sono tracciati sono stati
indicati come anti-edipici fin dal titolo, è nostra volontà terminare questo
studio senza concluderlo. Rispettando il modo in cui il rizoma funziona,
macchina e produce, proviamo dunque a operare un’ulteriore connessione.
E Deleuze e Guattari e Berkoff e Testori e. . .
Che cos’è l’erba? Mi chiese un bambino, portandomene a piene mani;
Come potevo rispondergli? Non so meglio di lui che cosa sia.
[. . . ]
forse l’erba stessa è un bambino, il bimbo generato dalla vegetazione.
O un geroglifico uniforme
Che voglia dire, crescendo tanto in ampi spazi che in strette fasce di
terra,
Fra bianchi e gente di colore,
Canachi, Virginiani, Membri del Congresso, gente comune, io do loro
la stessa cosa e li accolgo nello stesso modo.
57
Cfr. G. Deleuze, F. Guattari, Kafka. Per una letteratura minore, cit.; sulla “lingua
minore” cfr. anche id., Millepiani. Capitalismo e schizofrenia, cit.
58
G. Testori, op. cit., pp. 76-77.
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[. . . ]
Ed ecco, sei tu il ventre materno.59
. . . e Walt Whitman, poeta cantatore del sé, della singola persona, della
frammentarietà degli Stati americani, dell’umanità mista delle razze, poeta
delle Foglie d’erba.
59
W. Whitman, Foglie d’erba, trad. it. di A. Marianni, Rizzoli, Milano 1988, pp. 115,
117.
28