«Autopsia del presente»: Marco Peano L`invenzione della madre
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«Autopsia del presente»: Marco Peano L`invenzione della madre
«Autopsia del presente»: Marco Peano L’invenzione della madre di Claudio Cherin Marco Peano, ne L’invenzione della madre1, racconta l’inesorabile scavare del cancro nel corpo di una madre, la lenta erosione della vita di coloro che assistono alla sua agonia, il dolore del figlio Mattia, che non sa dirle addio. Con lucida distanza, con una scrittura sottile, non solo Peano riesce a raccontare quello che altri prima di lui hanno già raccontato e dove fermarsi, trova il giusto modo di raccontare, di eludere ‘il mondo del già detto e dello già scritto’, ma anche il mondo del dolore. Mattia, protagonista insieme alla madre, de L’invenzione della madre, ascolta, guarda, cerca su internet, chiede ai medici cosa sia il cancro, accudisce la madre, cerca di vivere la sua vita di ventiseienne ai margini, cerca di comprendere il proprio padre, che, disperato, reagisce con distacco a quello che succede in casa. Sarà proprio Mattia – un Mattia logorato e distrutto, che forse non vorrebbe far altro che gettare la propria vita alle ortiche –, non solo a gestire la malattia, ma anche la morte della madre. È lui infatti a prendersi cura del corpo di sua madre, somministrandole le medicine, entrando in contatto con il suo corpo muto, che i figli molto spesso non conoscono. Questo mentre cerca di vivere la sua vita sbiadita di ventiseienne cercando di entrare nel mondo del cinema, con modesti risultati, finendo come commesso in una videoteca, quando ormai il VHS sta scomparendo soppiantato dai cd. Mattia – apatico, disperato, impaurito – cerca di tenere in vita un rapporto con la sua fidanzata con cui condivide la lenta e progressiva degenerazione della madre, ha paura di sostenere gli ultimi esami universitari, vorrebbe andare a fare un master, che rimanda nel tempo con la scusa dell’impossibilità di lasciare sua madre da sola. Insomma, ad un certo punto, Mattia sembra chiudersi come una chiocciola nel dolore e nella routine della malattia, che diventa uno schermo da cui vedere il mondo, un angolo tranquillo nel quale trovare serenità e rifugio, perché immagina e spera che «il cancro sia in realtà il legame, ciò che li tiene uniti»2. Questo racconta Peano attraverso descrizioni brevi, attraverso la trasparenza con cui rappresenta i momenti lenti del dolore, attraverso la descrizione dell’umano assuefarsi alla malattia. Ma anche attraverso l’estraneità, attraverso il non cadere, narratologicamente, nei limiti della narrazione in prima persona. Oltre all’uso di un lessico specifico, che, di volta in volta, lo scrittore porge e spiega ai propri lettori, mettendoli alla stesso livello del protagonista. Facendo loro scoprire, come a lui, le difficoltà e le soluzioni via via che i medici o internet o gli altri pazienti gliele forniscono. Il tempo 1 2 M. Peano, L’invenzione della madre, Roma, Edizioni minimum fax, 2015. Ivi, p. 36. che si dilata e che sembra essere sempre presente, nonostante il suo scoccare, permette di vedere Mattia attraverso un gelido vetro che lo distanzia, lo allontana, e poi, ad un tratto, lo avvicina. Peano, fortunatamente, non cede mai allo stucchevole buonismo. In lui non c’è consolazione. Il dolore è un freddo spessore che non fa piangere. Mattia agisce, ma non sembra soffrire. Si immerge nell’oceano tranquillo dell’eternità che giunge dalla madre morente – quella strana sensazione che la avvolge e che Mattia descrive come «una patina d’eternità»3 –, che inganna i malati e i loro familiari, facendogli credere che, tra alti e bassi, la vita di un malato di tumore possa durare in eterno. Mai Mattia piange, mai finisce in un angolo a sperare o pensare, maledire, sperare di sconfiggere il cancro. Mai si lamenta. Solo ad un certo punto – e qui si sente un leggero, leggerissimo disappunto ironico del narratore estraneo, solo tramite tra il lettore e il personaggio– il composto Mattia decide di mandare una email carica di rabbia a una psicologa svizzera che ha illustrato nelle sue ricerche la psicotanatologia, ovvero le cinque «fasi che attraversa il paziente cui è stata diagnosticata una malattia mortale»4. Per scoprire poi, quasi Mattia fosse un pronipote di Zeno Cosini, che la psicotanatologa è morta qualche anno prima e che il suo grido di rabbia è caduto nel vuoto. Se Mattia potesse piangere, se riuscisse a piangere, la sua vita potrebbe affrontare il lutto, che presto lo attanaglierà. Mattia, invece, diventa estraneo alla sua stessa vita. Non piange mai, anzi finisce per rendere il disagio della malattia la base della sua vita, l’unica cosa che lo fa sentire vivo, o quanto meno occupato. Il resto è un lento aspettare, non sa neanche lui cosa. Questo finisce per renderlo capace di amare solo il corpo morente della madre. E ad addentrarsi dentro la malattia di sua madre. Come, se ad un certo punto, la condividesse. Nodo centrale del racconto è il momento in cui Mattia si spoglia nudo davanti alla madre morente come fosse uno «sposo»5 e dorme con lei, immergendosi nelle acque limacciose della malattia e della prossima morte. Consapevole che il suo gesto vuole essere un complesso atto d’amore, un riunirsi alla madre, come può fare un neonato. Questo momento lungo è il solo che permetta alla madre di vedere il proprio figlio «come quand’er[a] appena nato»6. Quando giunge a questo punto, Mattia ha già impresso in sé il ricordo delle ferite del corpo materno, dalle quali ha imparato quei segreti «che nessun altro avrebbe potuto confidargli»7, si è accorto che la malattia ha reso sua madre simile ad una «chiocciola […] col guscio a spirale»8, e forse anche per questo ha 3 Ivi, p. 34. Ivi, p. 118. 5 Ivi, p. 154. 6 Ivi, p. 154. 7 Ivi, p. 72. 8 Ivi, p. 78. 4 iniziato a «inventare per sua madre nuove vite»9, oltre a diventare «una videocamera di carne e sangue che registra incessantemente la madre»10. Questo oltrepassare il limite lo rende molto simile all’Heathcliff, di Cime tempestose, che scava nella terra nella quale è sepolta la sua amata Catherine. Ai personaggi ossessivi e cupi che vivono ne La madre o ne La storia dell’occhio di Bataille11, in cui si intreccia l’ossessione con la blasfemia, o il vedovo del racconto La donna della cappa nera di Moravia12, o Mickey Sabbath di Roth13, che cercano di superare il lutto per la perdita della propria compagna attraverso l’onanismo. Mattia è anche un personaggio che si avvicina ai personaggi inventati e descritti da Strout, per complessità psicologica e perché incapaci di sapere cosa fare. Si intuisce che Mattia non sarà colto dalla nostalgia della madre morta, raccontata da Coehen14, o dalla nevrosi raccontata dall’ironico Berto15, ne Il male oscuro, ma da quella più dura e più amara incapacità ad amare la vita che è propria del reverendo di Tyler Caskey, descritta dalla Strout in Resta con me16. Perché è inconsolabile come il reverendo vedovo, e come lui condannato a perdersi nei meandri del lutto. . A pensarci bene Mattia non è forse molto diverso da quell’Isabelle che ha un complicato e non ben definito rapporto con sua madre, Amy, che ama e che allo stesso tempo rifiuta, che la Strout descrive in Amy e Elisabeth17. Quanto più Mattia ama sua madre, fino a identificarsi nella sua malattia e voler giacere con lei nel ricordo del soffio che gli diede vita, così Amy, preoccupata, addolorata dall’allontanamento di sua figlia, innamoratasi di un suo professore di matematica, taglia i capelli alla figlia per renderla brutta e legarla di nuovo a sé. Si è parlato di estraneità, di distanza: Mattia è distante dai lettori, non esiste empatia, ad un certo punto si comprende come dietro a questa scrittura sicura e distaccata ci siano i preziosi scritti della Sontag18, quelli in cui riflette sulla malattia che si fa metafora e sulla difficoltà che si prova davanti al dolore altrui19. E anche quell’intenso libro, intitolato Senza consolazione, che David Rieff20, figlio della Sontag, scrisse a pochi mesi di distanza dalla morte della scrittrice, raccontandola. Torna il desiderio di consolare e il difficile rapporto con il lutto. E il desiderio di morire al posto della propria madre. Pornografia del dolore? Pornografia della sofferenza? No, forse il bisogno di raccontare come le cose possano accadere. Come un figlio si possa estraniare dal mondo, colpito da 9 Ivi, p. 149. Ivi, p. 146. 11 G. Bataille, Tutti i romanzi, Torino, Bollati Boringhieri editore, 2004. 12 A. Moravia, La cosa e altri racconti, Milano, Bompiani, 1983. 13 P. Roth, Il teatro di Sabbath, Torino, Einaudi, 2006. 14 A. Coehen, Il libro della madre, Milano, Rizzoli, 1992. 15 G. Berto, Il male oscuro, Milano, Rizzoli, 2006. 16 E. Strout, Resta con me, Fazi editore, 2010. 17 E. Strout, Amy e Isabelle, Fazi editore, 2000. 18 S. Sontag, Malattia come metafora, Milano, Mondadori, 2002. 19 S. Sontag, Davanti al dolore degli altri, Milano, Mondadori, 2003. 20 D. Rieff, Senza consolazione, Milano, Mondadori, 2009. 10 un lutto profondo. Peano conosce molto bene il limite che separa la descrizione, il desiderio di narrare e di raccontare ciò che diventa breve anomalia, breve tensione, e ciò che significa esibizione, il perdere il rispetto di sé, l’abbassarsi nel fango. L’estraneità, il suo essere distante come narratore, l’avvicinarsi e l’allontanarsi di Mattia dai lettori, sono tutte strategie per rendere una materia umana e dolorosa, qualcosa di narrabile. È il punto di arrivo di una scrittura che ha al suo interno e si nutre di cinema – i riferimenti al cinema abbondano – e che cerca in qualche modo di dare una possibile lettura al dolore di un figlio, che «resterà a lungo cristallizzato nella sua adolescenza»21. 21 M. Peano, op. cit., p. 251.