e-book natalizio

Transcript

e-book natalizio
buone feste da
manifest
un blog collettivo di amici scrittori
Nota:
Questo e-book vuole essere un semplice regalo per tutti. Un regalo per gli
oltre quaranta amici, ragazzi, appassionati di scrittura che da quasi un anno
ormai hanno popolato questo piccolo blog creato quasi per gioco, e un regalo
– ovviamente – per coloro che ci seguono, che ci han seguito e che ci
seguiranno ancora.
I nostri obiettivi, alla fine (ma non fine), sono stati raggiunti: la diversità non
ha fermato nessuno, anzi, ci ha permesso di agire con più volontà e più forza
in un comune processo di condivisione, lettura, scrittura, comunità e libero
pensiero. Ne sono sicuro. Ne ho avuto l’ennesima conferma in questo
momento, ora che ho raccolto almeno uno scritto per ogni autore. E di
bellezza ce n’è.
Il mio augurio è dunque per voi.
Buon Natale, buon 2015 e… buon tutto.
Domenico
LA SPERANZA DI UN BUON GIORNO
Aldo Tomaino
Vedo una profumata alba
fredda, muta.
Dissetante la luce del mare
che si colora sempre più.
Alle mie spalle
solo ombre e fantasmi,
davanti a me solo luce:
Sboccia un nuovo giorno.
SEMPRE LI’
Andrea Icardi
“Al paese tutto sembra procedere nella normalità. Il tempo sembra scorrere
inesorabilmente lento in quel piccolo angolo di mondo in mezzo alle colline, abitato da
poche centinaia di anime. La gente ogni giorno vive immersa nelle proprie faccende
quotidiane, nella propria routine che va avanti da sempre. Gli anziani sempre lì, seduti
sulle stesse panchine, estate ed inverno a ricordare la loro gioventù ed il tempo che non
ritorna. Qualche giocata a carte davanti ad un bicchiere di vino nello stesso bar dove i
giovani passano il loro tempo a sorridere alla vita che li aspetterà. Fuori dalla porta
l’innocenza dei bambini che, sempre lì, tra un calcio ad un pallone ed un morso ad un
gelato, a cavallo della loro bicicletta credono di conquistare il mondo con la loro
innocenza. Beata innocenza, fatta di eroi animati, che poi sparirà. Tutto finisce, prima o
poi. Tutto ricomincia.
Al centro del paese la piazza con la Chiesa, dove ogni giorno il parroco celebra la Santa
Messa per quelle poche vecchiette, che, sorrette dal loro bastone sono sempre lì,
immerse nella contemplazione del Crocifisso di legno e di un antica Madonna di pietra.
Accanto alla Chiesa la Scuola, ed ancora nelle varie strade che si intrecciano nel piccolo
borgo come un labirinto senza fine, vari negozi e botteghe che sono sempre lì,
racchiudendo il fulcro della vita quotidiana e non fanno mancare nulla a nessuno.
Un piccolo mondo racchiuso in una collina, dove il buio della notte si schiarisce ogni
mattina, la vita scorre apparentemente lenta ed il sole del giorno prende il posto della
luna spenta.
Un piccolo paradiso, tra una lacrima ed un sorriso, tra l’armonia della natura ed un velo
di malinconia sul viso.
Tutti pensano che lassù stiamo bene, come una grande famiglia dove ci aiutiamo tutti.
Siamo tutti altruisti, pronti a dare una mano, pronti a dare consigli e riceverli anche
quando non li chiediamo.
Tutti sanno tutto, tutti hanno una soluzione ai problemi. Tutti sanno comportarsi in ogni
situazione. Beati quelli che hanno capito alla perfezione come funziona il mondo senza
essere mai usciti di casa, beati quelli che sanno tutto senza avere mai aperto un libro,
beati quelli che pensano di aver capito tutto dalla vita, beati coloro che, schiavi delle loro
convinzioni non dubitano di niente e non sanno guardare oltre il proprio naso.
Beate illusioni che trainano questo mondo, fatto di grandi avvenimenti e di piccole cose;
amicizie e amori, paure e timori, gioie e dolori ed imparare dagli errori.”
Queste sono le righe di un racconto iniziato, e che forse mai continuerò. Potrei scriverci
tante storie sopra, ma forse più nulla scriverò, e lascerò tutto com’è. E quelle poche righe
già scritte sbiadiranno, o forse rimarranno sempre lì. Sempre uguali. Come il borgo in
collina. Senza un’evoluzione o una continuazione, fino a quando non mi verrà voglia di
prendere la penna e continuare a scrivere, oppure ricominciare.
E se la vita fosse come questo racconto?
I MIEI GIORNI CHE PASSANO
Ilaria Molinaro
Claude,
mi ritrovo a scrivere di te di nuovo, così forse ti aspetto senza farmi troppo del male.
Scendo dall’autobus una fermata prima della mia, cosa stranissima dal momento che non
vado mai contro le mie abitudini, ma stasera avevo voglia di camminare nel buio del
viale. Come un’anarchica distratta, attraverso la strada senza badare agli automobilisti che
mi maledicono, perché il semaforo segna il rosso per i pedoni. Hanno provato a
strapparmi via i sogni, sai Claude, questi automobilisti stronzi; forse anche tu. Ora sono
controvento, l’aria fredda mi sferza le guance arrossate, mi stringo forte nella mia giacca
nera, mi tengo e mi mantengo, da sola finché non tornerà l’Aurora.
Io non ho paura.
La chiamano Speranza, ma a volte è essere avvolti nell’illusione.
Sono sangue e futuro, maledizione e coraggio, che si tengono in una mano, perché il
tempo che passa non c’entra in un cuore come il mio. Inforco gli occhiali, dopo aver
pulito, come da prassi, le lenti; li sistemo bene sul naso, così copro anche le lentiggini,
queste macchie di ruggine che risalgono da un cuore ossidato dalle lacrime non versate,
come il mio.
Un periodo tanto infame non pensavo sarebbe mai arrivato nella mia vita: nulla mi
soddisfa, nulla mi trattiene, mi sento irrisolta e sospesa fuori dal mio tempo. Chissà se
trent’anni fa si soffriva in modo differente, chissà se era meno pressante e denigrante.
Ma il dolore è sempre uguale, come il tempo. Due percezioni, due spasmi, due sogni
tramutati in incubo.
Tengo la testa bassa, il peso dei pensieri; vorrei chiamarti e dirti: “Sai, Claude, ti ho
perdonato. Sai, Claude, non conta nulla quello che è successo.”. La tua mancanza si fa
sentire ogni giorno sempre di più, in ognuno dei miei giorni che passa e che mi
appartiene; mi pugnala alle spalle furtiva e spietata, ma il dolore è l’unico aspetto della
vita che mi ricorda che tu c’eri davvero, che sei esistito sul serio e non sei solo
un’immagine lontana. E la ragnatela del tempo intrappolerà i ricordi, il ragno della mia
mente ne farà un bozzolo di seta e li conserverà per quando tornerò a sentirmi viva. Per
ora resto qui, in mezzo alla notte che incombe e, davanti agli occhi di qualche passante,
sarò una ragazza che cammina di spalle in questo immenso boulevard parigino lasciando
dietro di me una scia di profumo, una luce contro il buio.
MI MUNDO… TU MUNDO… NO EXISTE TAL COSA.
Giorgia De Paola
Mi mundo… Tu mundo…No quiero involucrarme con las personas como tú porque no
parteneces a mi mundo…
En serio sigues creyendo que existe tal cosa? Hay diferencia entre mi mundo y el tuyo?
Para mí el mundo es algo compartido, y no partido.
Además, por mucho que lo intente un satélite nunca podrá alejarse de su planeta y el uno
depende del otro… El satélite siempre estará al alcance de su planeta y no se separarán.
Así que, porfavor, permíteme quedarme a tu lado como si yo también fuese el satélite de
un planeta tan excepcional como tú. Mirémonos a los ojos y creemos nuestro mundo.
Trad.
Il mio mondo... Il tuo mondo... Tale cosa non esiste.! Il mio mondo... il tuo mondo...
Non voglio avere a ché fare con le persone come te perché non appartieni al mio
mondo... | Ma davvero continui a credere che esistano queste differenze? C'è differenza
tra il mio e il tuo mondo? | Inoltre, nonostante i tentativi, un satellite non potrà mai
staccarsi dal suo pianeta e l'uno dipende dall'altro... Il satellite sarà sempre alla portata del
suo pianeta e non si separeranno mai. Dunque, per favore, permettimi di rimanere al tuo
fianco come se anche io fossi satellite di un pianeta eccezionale come te. Guardiamoci
negli occhi e creiamo il nostro mondo.
IL SOLE RISPLENDE
Simona Barba Castagnaro
Il sole splende.
Splende come ha fatto ieri.
Come ha fatto un mese,
un anno, un secolo fa.
Il sole risplende.
Risplende, esattamente,
come ha fatto sempre.
Eppure, ora, “suona” diversamente.
Suona in quanto suona, letteralmente.
Suona come se, in esso, un’ arpa si celasse.
Il suo colore giallo,
la sua luce,
il suo fulgore,
è forte,
a tratti, invitante.
Tra il persuadente e il convincente.
Il sole splende.
Splende come non notavo ieri.
Come non notavo un mese,
un anno, un secolo fa.
Il sole risplende.
Risplende, esattamente,
come ha fatto sempre.
Eppure, ora, è cieco, incredibilmente.
Acceca in quanto acceca, ma contrariamente.
Acceca come se, in esso, Santa Lucia si nascondesse.
Il suo colore giallo,
il suo bagliore, il suo brillio,
è assimilabile,
a tratti, incontenibile.
Tra l’ intellegibile e il razionale.
Il sole splende.
Splende come farà domani.
Come farà tra un mese,
tra un anno e tra un secolo.
Il sole risplende.
Risplende, esattamente,
come farà sempre.
Eppure, ora, si oblia, nuovamente.
Si oblia in quanto si oblia, ambiguamente.
Si oblia come se, in esso, un meccanismo si azionasse.
Il suo colore giallo,
il suo riverbero,
il suo sfavillio,
è indigeribile.
a tratti, inscrutabile.
Tra lo sfuggente e il declinabile.
Nota:
Non è ciò che è intorno a noi a variare la sua prospettiva, ma siamo noi a farlo e a
considerare la medesima cosa in un diverso modo a seconda del nostro umore e a
seconda della nostra apertura o chiusura nei riguardi del mondo.
UNITÀ DI MISURA.
Teresa Borgia
Te l’ho mai detto di quando seduta su di una panchina, al parco, ho iniziato a guardare le
foglie che, leggiadre, danzavano con il vento?
Sì, danzavano.
Era una danza speciale, durava solo pochi secondi e profumava di cose leggere. Volevo
fotografarlo quel momento, ma lo perdevo sempre. Dopo qualche tentativo ci ho
rinunciato: le sensazioni non si possono fotografare, se non con il cuore. Le puoi anche
fotografare – passami il termine- con gli occhi, sviluppare nel cuore e mostrarle, poi, solo
a te stessa. Puoi provare a descrivere agli altri cosa hai visto e sentito, ma ti mancherà
sempre quel piccolo particolare che sfuggirà alle parole.
Sempre.
Le sensazioni.
Quelle son momenti di una danza interiore che parte all’improvviso e subito ti trascina e
ti fa dimenticare ogni cosa. Non saprai mai quando avrà inizio e mai quando avrà fine.
Un momento quanto dura?
Un battito di ciglia
Un respiro
Un sorriso.
Un silenzio.
Una nota musicale.
Qual è la sua unità di misura?
Io, per esempio, le sensazioni (ma un po’ ogni cosa) le misuro con i battiti del cuore. Ma
non quando si accumulano, no.
Misuro le sensazioni, (e un po’ ogni cosa), con i battiti del cuore che perdo. Il cuore
sobbalza e manca un battito. Sorrido, so che è la sensazione giusta che mi porterà un
pensiero positivo.
La mia unità di misura è: battito del cuore mancante.
E tu, dimmi, quale unità di misura hai?
SITUAZIONI BAGNATE
Franz Tropea
Mentre un ascensore saliva al terzo piano ed un bambino strillava bestemmie contro Scar
mentre Mufasa moriva, c’erano, assoggettate alla loro solitudine circoscritta, due gocce
d’acqua. L’una venuta fuori da cento frustate di parole e l’altra lasciata cadere da un
capello che non aveva abbastanza forza nelle mani.
- Ciao.
Dice quest’ultima, arrossendo timidamente.
La goccia, quella che stava sull’angolino destro del marciapiede giro’ di scatto gli
occhietti languidi e si pose in un cipiglio raggelante.
-Non salutarmi, io sono una nobilgoccia. Tu soltanto un mix di sali, tossine ed acqua.
La perla di sudore la guardò con aria stralunata non comprendendo appieno la frase.
-Nobilgoccia? E che vuol dire?
-Non è che voglia dire, è uno stato di fatto, è cosi. Non è una cosa da bene parlare con
chi è tuo sottoposto.
- Io? Tuo sottoposto? Ma se nemmeno ti conosco. . Volevo semplicemente scambiare
due chiacchiere, giusto per non passare questo poco tempo che ci rimane a fissare i fasci
d’erba bruciata.
-Io sono nata dal dolore di una giovine, ho volato tra le sue foglie di via ed i baci rubati.
Tu sei nato da un poro di pelle, da una corsa contro il grasso. Sento la puzza da qui!
Scostati per favore, o quantomeno mettiti dall’altra parte!
L’altra goccia la guardò perplessa, poi, aspettando un soffio di vento, iniziò a muoversi
con forza.
Tentò di avvicinarsi quanto più possibile alla nobilgoccia, e lei lo capì.
- Stai lontano da me! Siamo diversi!
Si leggeva nei suoi minuscoli occhi il terrore della vicinanza.
- Ma ché! Siamo gli stessi, e guardati, non hai nulla che non richiami la mia di figura.
Procedette a testa alta nell’avanzata e toccando l’altra goccia con una manina bagnata la
inglobò in sé formando una goccia più grande, nella quale non si distingueva più l’una e
l’altra. Come un diamante posato sul marciapiede che si staglia luminoso alla luce del
sole esse evaporarono in parole taglienti ed emozioni discordanti. Insieme.
AMARTI
Domenico D’Agostino
Amarti
è toccare con mano
il fascino intangibile a volte
del silenzio del mondo.
È il divieto profondo
di ogni pettinata bambola linguistica:
se le tengano insieme alle parole vuote
ché sulle parole
commettono il delitto più atroce;
parla e lascia parlare.
Amarti è giocare di fantasia
quando so per certo
quanto la fantasia
giochi a dadi con me.
È aver voglia di fermare il tempo
per incastonare la storia in una lacrima di sale.
È esser certi di poco, quasi di nulla,
ed essere realisti è una cosa così bella
che mi fa credere in ogni cosa.
Amarti è farti la mia Arianna
pensarti la mia sposa
in un delirio bacchico
di antica mistura,
è volerti salvare
dalle fredde catene
e dal gelido mare
io novello Perseo
tu Andromeda
ma Venere
stella del mattino
che splende come l’amarti
e come il divino
chiamando in causa
quella misteriosa forza del sole
che taluni
nella storia
hanno spesso chiamato amore.
IL MIO PAESE
Rossella Provenzano
Sei l’abitacolo
del ventunesimo secolo;
le polveri sussultano
e si riempiono
se apri il finestrino,
gli pneumatici sussultano
e si riempiono
se rinunci alla strada sterrata,
il viaggio sussulta
e si riempie della tua anima
se impavida di perderti
lo ignoro.
Sei la biforcazione
di una strada sterrata;
i profumi della natura
sono novelle di un profumato dappoco…
se inspiri con le narici
dei tuoi nonni e rinunci
alle essenze cosmopolite.
Puoi impregnarti dell’odore
di erba fresca e terra
dal momento che letame,
violetta, rugiada, separano
il passato dei tuoi vecchi
dal nostro presente privo
di gioventù.
Puoi abbandonare la strada sterrata
se scegli fra aratro, lacrime, letame,
la strada battuta al burrone…
o il macinino, l’odore materno del latte,
il sudore,
la strada lastricata alla chiesa
di Maria Santissima, in piazza…
Sei la piazza lastricata
di mio padre
che si nascondeva dalle guardie.
Se porti con te “Il Corriere dei Piccoli”
guardie e ladri “orfani” faranno la pace.
Sei i gradini della chiesa,
le mani bonarie del nostro don,
il campanile, le ante magniloquenti
di un altro don,
la casa floride,
la ragazzona, sua figlia, florida
e una buffa ristrettezza mentale.
Sei il garzone
di ogni variegata e nascente ricchezza,
bussi a don “Fasto”
e ne costelli il tinello
con panieri di sangue, stenti,
provviste per l’inverno
della tua famiglia scarna.
Tua madre provvederà
a cinquanta grammi di crusca al giorno.
Sei il panettiere, il fruttivendolo, il barbiere
del santissimo suddetto don.
Il tuo garzone ha la pancia gonfia
col nome della fame
ma le tue mani sono incise e legate
dalla paura.
Sei tutte le rughe
di mia nonna,
la suggestione del profumo caldo
del pane, delle mele grosse come i seni
della figlia di don.
Digradano dalla piazza, le rughe,
odorano di stalla, escrementi, minestra,
di catarro, la rogna, il parto,
di lumino, seni smunti, caffè amaro.
Sei il bambino impaurito di un lustro,
fidati,
fra dieci di questi lustri tornerai
vestito a festa, dottor…
Non ti schermirai nell’antro di una stalla
per galline, te lo prometto!
Sarai mio padre, mio zio, suo cugino,
e ti voglio tanto bene.
Sei finanche quello che viene
dopo la strada battuta al burrone.
Sei mia madre,
madre di un generico poetante
alla sua migliore tragicommedia,
mi butterò o non mi butterò
nel giorno della processione
di Maria Santissima?
Mamma, accarezzami e dimostrami
che ho la faccia imberbe
di un bambino;
Non ho sesso, anzi, siamo la stessa persona.
Arresi ci commuoveremo
ai fuochi d’artificio vespertini
nel giorno della processione
di Maria Santissima.
“Sai, per la morte c’è tempo”, mi dirai.
Sei il mio paese,
la mia anima.
Pensi di esser nato prima
di me?!
Penso di esser nata prima
di te?!
non credo,
sarebbe come sottrarre al contadino la zappa,
siamo nati insieme, mi sa.
E tu paese incantevole,
concreto fra i miei sogni,
commuovi e smorzi
la mia lotta millenaria.
A casa pongo il ferro nel fodero,
impasto il pane.
Fuori il mio tripudio di millenni
intona orgoglioso una filastrocca:
“vivi la tua anima, riempi il lievito”,
grida.
“vivi la tua anima, riempi il lievito”,
sussulta.
“vivi la tua anima, riempi il lievito
della tua anima”, sussurra.
Sei il mio paese,
il pane sussulta
e si riempie della tua anima
se impavida di perderti
lo ignoro.
ALLA PIU’ BELLA FRA LE IDEE
Cristiana Monterosso
In un cantuccio assolato dell’Iperuranio riposa un Amore abbandonato.
Ha la fragranza vermiglia di una rosa matura, due gote di mirto, dita di sole e caviglie di
sale.
Nessuno lo importuna, niente lo turba.
Egli siede lontano dalle altre Idee, umilmente superbo.
Alla sua vista, Lealtà e Letizia provano imbarazzo e la stessa Verità allatta Invidia appena
nata.
Quella visione è dolce come miele e amara come fiele.
Niente lo turba, nessuno con lui compete.
Egli è lì dalla notte dei tempi, attende di riunire al suo cospetto le destre di due cuori
distanti.
Laggiù siederà ancora un po’, sempre puro.
In un cantuccio assolato dell’Iperuranio giace il nostro Amore, abbandonato.
TERRA MIA
Anna Rachele Capolingua
Sorridi amico muto,
non vedi con gli occhi
spenti che t’hanno dipinto
la speranza svanire dalla terra?
Dondola la barca, senti?
Quel sorriso non è sincero,
nasconde una rivoluzione
mancata, una sciagura,
una condanna.
Quanto mare hai visto,
sempre uguale come noi uomini:
onde uguali che si inseguono
senza ricongiungersi.
Quanto mare ancora
dovrà passare sotto i tuoi occhi
immobili prima che la parola
possa cambiare gli animi?
Prima che un moto vero, un’azione,
cambi il destino di una terra
fatta di giallo e arancione?
Sorridi, amico, e guarda
la terra che le voci
non possono cambiare.
AMETISTA
Elisa Longo
Io non ho giorni dall’alito leggero,
sono come mi vedi,
con il mio capo cinto
di ametiste e corolle ingenue,
con le mie liturgie
di sguardi nomadi
e baci benedetti dal mio nome.
Io non ho richieste di comodità,
mi perdo nelle sere
tra le ombre delle tue preghiere
e le fiaccole accese
a scoprire le mie nudità,
che l’inchiostro sottrae
alla mia volontà.
Io sono l’etrusca dipinta
che trascina i piedi
sulla terra bagnata
mentre la danza
maltratta le membra.
E tremo per il tuo soffio leggero
mentre tu godi
al tentennare impaurito
delle mie gemme.
DREAMING ABOUT THE RAIN
Eugenia Raffaele
Sarebbe bello se la pioggia fosse una ricarica d’amore
donata dal cielo alla terra.
Invece di bagnarsi l’anima di tristezza,
le persone annuserebbero l’amore nell’aria.
Al posto degli ombrelli colorati nel grigiore della città,
ci sarebbero cuori spalancati e occhi lucidi.
Ognuno si lascerebbe attraversare la pelle dalle emozioni
e avrebbe l’anima fradicia di sentimenti da riversare nel cuore del prossimo.
CALABRIA MIA, CALABRIA BELLA
Giulia Pileggi
La schiena inizia già a farmi male, scrocchio il collo prima a destra e poi a sinistra, mi
giro per controllare chi c’è e fortunatamente mi fa cenno con la manina una graziosa
bambina con i capelli biondi e la pelle bianchissima. ‘Meno male’ penso, ‘almeno posso
sdraiare un po’ il sedile’. Sprofondo con la testa all’indietro e tiro un sospiro di sollievo
un po’ più forte del solito, tanto che, la signora al mio fianco mi lancia un’occhiataccia…
‘iniziamo bene’. Giro il capo verso il finestrino e il mondo inizia a correre, veloce,
sempre più veloce. ‘E’ lui che accelera o io che rallento?’ Questa è una domanda a cui
provo a rispondere da tempo.
Chiudo gli occhi lentamente mentre quella marea di segnali stradali e guard-rail mi passa
davanti.
La mente vola, ma più che sognare, Ricorda.
Giusto l’altro ieri ero uscita di casa dopo aver finito di fare la lista delle cose da portare
su, all’università; così inizio a fare un gioco, sola, ma insieme alla mia città. Ogni strada,
ogni palazzo, ogni cespuglio che mi ricordasse qualcosa veniva impresso nella mia
memoria attraverso una fotografia mentale.
Fotografia: s.f. Processo fotochimico per mezzo del quale l’immagine di un qualsiasi
oggetto, ottenuta con la camera oscura, viene fissata e resa permanente su un supporto
di materiale sensibile ai raggi luminosi.
Mentale: agg. Relativo alle possibilità e funzionalità della mente, eseguito o formulato
con la mente, cioè senza proferir parola.
Spiegata e appresa la teoria, che poi, secondo me, non serve mai a niente, (ma vallo a dire
alla mia professoressa di matematica…va beh, questa è tutta un’altra storia) posso
passare al racconto vero e proprio.
Ho fatto funzionare i miei occhi proprio come funziona una macchina fotografica.
Lo scopo del diaframma, è quello di regolare la quantità di luce che entra nella macchina
fotografica per far sì che una foto non sia né troppo chiara né troppo scura, un filtro
quindi. Il suo posto l’ha preso il Cuore: il filtro delle mie foto mentali. Un posto con
troppi ricordi positivi, gioia e felicità avrebbe reso la mia foto troppo chiara, quasi
bruciata; allo stesso modo un posto cupo, tetro, dai ricordi poco piacevoli, ma
comunque tanto significativi, avrebbe reso la mia foto scura, tutta nera. Il centro del
diaframma coincide con l’asse ottico della lente e in quel caso combaciava perfettamente
col centro del mio cuore. Il mirino è il dispositivo che permette di scegliere e comporre
l’inquadratura che ora coincideva con i miei occhi. Voltavo la testa fino a trovare ciò che
mi interessava, mettevo a fuoco e… tac: scattavo. Proprio come si apre e si chiude
l’otturatore della macchina fotografica, allo stesso modo facevano i miei occhi. Li tenevo
chiusi il tempo necessario per far sì che riuscissi a prendere tutti i dettagli che mi
interessavano…il tempo di scatto, dunque! Più il mio posto era importante, più le mie
palpebre rimanevano ben serrate a cercare di ricordare e imprimere bene.
Spalanco gli occhi e davanti a me c’è l’autostrada.
Ogni posto, ogni odore, ogni sapore verrà con me e non c’entra niente l’essere terroni.
E’ che siamo attaccati, senza possibilità di staccare questo cordone ombelicale, alla
nostra terra, alle nostre origini. La maglietta a mezze maniche ad ottobre inoltrato; i suoi
780 km di costa che comprendono spiaggia bianca finissima, scogliere da cui tuffarsi,
spiaggia desolata o anche piena di divertimenti; il cibo che farebbe resuscitare i morti,
compreso di Cleopatra, Papa Celestino V, Guido Cavalcanti e tutto il resto dell’inferno
Dantesco; i Bronzi di Riace, il Parco Nazionale del Pollino e la tranquillità della Sila.
I viaggi sono la cosa più bella del mondo, e conoscerlo tutto ci arricchisce come
nessun’altra cosa, soprattutto se lo si fa studiando, ma purtroppo non ci sarà mai una
valigia tanto grande per contenere tutta la Calabria, Lamezia Terme, la mia Nicastro!
LA VITA DEL POETA
Giulia Vismara
La vita del poeta non può essere eccessiva, superba, lussuriosa.
Il poeta si nasconde tra la gente comune, cercando di celarsi tra mille altri occhi, tra mille
altri volti.
Il poeta può rimanere fermo in silenzio per ore, seduto ad un tavolo qualunque, in
disparte ad osservare la vita che passa fino a quando non nota un particolare, un piccolo
dettaglio che scatena mille idee, mille pensieri, mille sensazioni.
Quel tavolo non sarà più un tavolo qualunque ma il suo tavolo, il suo punto di vista da
cui spia silenzioso, guarda con occhi attenti quel particolare in mezzo ad un mondo, ad
universo costituito da mille particolari.
Quel particolare, quella briciola, quel cucchiaio, quello sguardo sarà uno per sé stesso ed
infiniti per ciascuna persona esistente.
Quel momento durerà un secondo nella vita reale ma in eterno per la sua mente e per la
sua poesia.
Quel poeta rimarrà seduto ad aspettare per ore, fermo e silenzioso, un momento preciso
che già conosce nel profondo del suo animo ma che non sa quando verrà.
Ma quando quel momento, quel particolare, quella briciola, quello sguardo, quella risata
arriverà seppur avrà il poeta aspettato per ore ne gioirà, si stupirà come se fosse un
bambino, ne coglierà la più piccola sfumatura.
Quel momento lo riconoscerà tra mille altri momenti come se stesse aspettando solo lui,
solo questo incontro di una briciola, uno sguardo, un luogo, un profumo.
La vita del poeta è costruita solo su questi piccoli momenti quotidiani, che la gente
comune si lascia scivolare addosso come una goccia di pioggia durante un temporale.
Il poeta invece riuscirà a raccogliere quella goccia, vivendola e analizzandola come se
fosse l’ultima goccia rimasta al mondo, l’unica goccia mai esistita sull’universo, sulla
terra, sulla sua mano.
Ne gioirà di questo, rimarrà sorpreso ed esterrefatto, riempito di pensieri ed emozioni
fino a scoppiare nella sua poesia.
La vita del poeta non può essere eccessiva, superba, lussuriosa.
Egli non sarebbe più un vero poeta.
Poesia è modesta , particolare, piccola ed infinitamente eterna.
Poesia è la vita di ogni giorno.
VERSO LA DUREVOLE FELICITA’
Ilaria Perri
Non esiste aspetto della vita umana che non sia stato usato per spiegare le cosiddette
anormalità: le colpevoli caratteristiche che si discostano da ciò che i più considerano
giusto e tollerabile. L’umana specie tende a seguire, come fanno le pecore, il gregge di
coloro che li precedono, non per confrontare idee ma piuttosto per adeguarsi senza
fatica ai meccanismi sociali, gli stessi che ci portano non dove dobbiamo arrivare ma
dove arriveranno tutti, senza nessuna distinzione di pensiero o di ragionamento. Si tratta
di una grande massa di uomini che cita leggi e percorsi universali per poter arrivare alla
giusta meta, seguendo la giusta via, adornandosi di giusti pensieri, seguendo giusti dogmi.
Unica regola fondamentale? Seguire le leggi di Natura ma affidando a Dio tale compito.
Le leggi di Natura citate da questa grande massa di uomini non contemplano nessun tipo
di fattore biologico o di teorie psicologiche bensì temi religiosi carichi emotivamente, ciò
significa che non si può mantenere un atteggiamento neutrale di fronte ad essi eppure,
questi temi o leggi religiose vengono imposte prepotentemente da coloro i quali si
professano rispettosi verso il prossimo.
La grande massa di uomini bada all’apparenza delle vesti, ed è per questa ragione che io
ed i miei amici oggi siamo qui e lo saremo in futuro perché crediamo che bisogna
educare a non giudicare un uomo con gli occhi, che bisogna aiutare le persone a cercare
una luce migliore e più sicura che possa distinguere ciò che è giusto da ciò che non lo è.
La grande massa di uomini afferma che la legge naturale è scritta nel cuore di ogni uomo
ragionevole e di buona volontà, ma noi non troviamo nessuna ragione e nessuna buona
volontà nel voler a tutti i costi reprimere l’evoluzione del tempo presente, un tempo
fatto di rivoluzione e di disgregazione di antichi pregiudizi e di falsi perbenismi.
La grande massa di uomini non può affermare di agire secondo ragione e poi insieme
dire di fare un qualcosa solo perché piace, non farla se va invece contro i propri interessi
personali, ed è per questa ragione che io ed i miei amici oggi siamo qui e lo saremo in
futuro perché riteniamo che se loro usassero davvero la ragione sarebbero vincolati da
qualcosa che trascende la loro particolare soggettività.
La grande massa di uomini afferma di servirsi del silenzio per poter ottenere le pari
opportunità e per difendere i propri pensieri. Fanno appello ad aspetti di vita umana che
potrebbero facilmente essere sconvolti dal negativismo generale della società e non dal
singolo caso da loro preso in considerazione. Il singolo caso rappresenta quella malsana
fetta di minoranza che attraverso la sua affermazione pubblica mette in crisi chi non ha
armi per adattarsi al cambiamento. Il diverso, purtroppo, ha sempre fatto paura a chi
non può comprenderlo, ed è così che vengono presi in considerazione termini come
“famiglia” o come “felicità” per poter ribellarsi contro chi considerano una minaccia, ed
è per questa ragione che io ed i miei amici oggi siamo qui e lo saremo in futuro per
affermare che dinanzi alla felicità non possiamo comportarci come nelle votazioni
seguendo la maggioranza, perché proprio per essere tale è ciò che di peggiore possa
esistere. Non possiamo ritenere che il meglio stia dalla parte dei più numerosi,
sforziamoci, dunque, di seguire non i comportamenti più comuni , non ciò che è
approvato dalla massa ma ciò che possa condurre tutti alla durevole felicità.
SIAMO ESSERI RAZIONALI (?)
Domenico Longobardi
Siamo esseri razionali… passiamo tanto tempo a pensare, ma alcune volte siamo proprio
stupidi, non me ne capacito. Alcune situazioni sono così chiare, è tutto ben delineato, sai
cosa sta succedendo, sai qual è la cosa giusta da fare, sai bene qual è, eppure ti dirigi nella
direzione opposta. Cosa ci spinge a farci del male? Forse non possiamo sopportare di
aver creduto nelle persone o nelle idee sbagliate? Non riusciamo ad accettare il crollo di
quelle mura instabili che abbiamo decorato con un mosaico di illusioni, brillanti, vivaci,
ammalianti..
Era un ambiente così confortevole…e così lottiamo per evitare che venga distrutto...e
finiamo col perdere ogni energia, crolliamo insieme alle mura, sepolti tra illusioni
dall’aspetto così leggero, così ingannevole. Tra quel cumulo di macerie si può trovare la
forza di uscirne fuori, ma non è detto che si trovi la volontà di farlo, smarrita chissà dove
all’interno di noi stessi. E allora vi dico, se notate una crepa, non copritela con
l’ennesimo incantevole pezzo del mosaico, cercate riparo altrove, abbiate coraggio e non
fatevi intimorire dall’ignoto, non cedete alla vostra debolezza...io non so se mai qualcuno
troverà un senso in quel che scrivo, non posso saperlo, ma mentre io giaccio qui sul
suolo, in cerca della mia volontà dispersa, tu potresti avere l’opportunità di metterti in
salvo. Fallo e le mie parole acquisiranno valore.
E se siete arrivati fin qui, con grande stupore vi ringrazio per non aver vanificato i miei
pensieri e al contempo mi scuso per gli innumerevoli ticchettii di orologio che vi ho
sottratto.
IL PESO DELLE MATRIOSKE
Irene Barba Castagnaro
Penso che l’infelicità segua il meccanismo delle matrioske. Un incastro di bambole
apparentemente identiche ma che via via aumentano le proprie dimensioni. La
bambolina più interna è la più piccola e viene chiamata “seme”. E’ il seme dal quale
hanno origine e si susseguono una serie di bamboline incastrate una dentro l’altra via via
sempre più grandi, fino ad arrivare a quella di dimensioni più modeste: la bambolina
“madre”. Quest’ultima è l’unica che riusciamo a vedere ad occhio nudo, quella più
grande, la più possente. La osserviamo ignari di tutto ciò che cela al suo interno. E’
pesante in quanto al suo interno grava il peso di tutte le altre bamboline. La tocchiamo e
manipoliamo fino a quando non ci rendiamo conto che è composta da due pezzi e così
decidiamo di aprila. Aperta questa così ne troviamo una identica ma di dimensioni più
ridotte, aperta questa poi un’altra più piccola e poi un’altra e un’altra ancora. Risultano
così collegate da un legame consequenziale l’una dall’altra, così come le cause che ci
portano all’infelicità. Non è infatti isolata la causa del nostro malessere, non è il penso di
una singola sconfitta che grava sul nostro piccolo e fragile corpo. Il nostro malessere
deriva da un insieme di piccolezze apparentemente di poco conto che col tempo si sono
accumulate perché non abbiamo avuto il coraggio di affrontarle. Tutto nasce da un
“seme”, come quello delle bamboline, dal quale germoglia ogni nostra angoscia e
preoccupazione. Un germoglio che cresce a dismisura fino a quando noi diventiamo
incapaci di padroneggiarlo e così prende il sopravvento, lasciandoci incapaci di compiere
ogni cosa.
(IN)CONTRO
Laura Fazzari
Ad un certo punto nella tua vita, ogni passo che fai lontano dagli altri, è un passo che ti
avvicina a te stessa.
Pensi di non averne il coraggio, la forza e soprattutto la necessità. Poi invece succede che
ti trovi a voltare le spalle al mondo, senza sfuggire da nessuno, ma soltanto con il grande
desiderio di andarti INcontro.
E quando pensi che la cosa ti lascerà senza fiato, quando pensi che ad un certo punto
non avrai le forze per reggerti da sola, perché non l’hai mai fatto, ti accorgerai che i tuoi
piedi, invece, con costanza ed impegno lottano per coordinarsi e farti stare in piedi. Con
pazienza ed amore si piantano sulla strada e permettono al tuo corpo di stare in
equilibrio. Ed allora respiri, senza più quel peso nel petto e con un leggero tremore allo
stomaco, che serve alla realtà per distinguersi dal sogno.
Non esiste nessun viaggio più bello ed avventuroso, se non quello nel quale siamo
disposti a scoprire noi stessi. Non ci sarà destinazione, non ci saranno valigie, non ci
saranno biglietti di ritorno. Ma soltanto un grande ed entusiasmante salto nel vuoto.
Ed è adrenalina quella che senti e ti fa correre veloce verso il domani.
Mentre il vento ti accarezza i capelli e ti porta a non cercare nessuna mano, oltre la tua.
Ed impari che la felicità si costruisce. E non è mai un traguardo, ma la costante delle tue
scelte e delle tue passioni. Per raggiungerLA, devi prima raggiungerLE.
Perché ogni rivoluzione inizia da qui.
SETTEMBRE
Laura Curcio
Inizio
Risveglio
Le braccia
Amore rimani qui con me
Intreccio
Basta
Mai più
Stai qui
con me
Paura
Forza
Il mare: onde alte nella notte.
Tra un po’ qui non ci sarà più nessuno.
È nuovamente estate
UNTITLED
Elena Guercio
Il frinire d’una cicala,
unica mia compagna in questo anonimo
meriggio inoltrato,
richiama il fruscio del vivo fogliame,
che danza sulla melodia composta dal fiero maestrale.
E il girasole, che ancora
e ancora si rivolge al suo astro,
in silenzio, tinge con la sua corona
la verde distesa;
e uno dei suoi stessi petali,
scortato dal vento,
trova riposo sul mio palmo.
E d’autunno profuma.
SICULIANAMENTE
Margherita Puzzo
Ogni volta che torno a Milano dalla Sicilia, scopro che ho perso peso. Arrivo, salgo sulla
bilancia (costretta dalle fatidiche e preoccupate parole paterne che risuonano puntuali ad
ogni mio ritorno: “Mi sembri dimagrita. Ma ti davano da mangiare?”) e tadam!
(abbreviazione di tatatadam, per chi non lo sapesse, come ho recentemente appreso dal
dottor Sheldon Cooper), due kili in meno. Lasciati a Siculiana come un gentile pensiero
di ringraziamento. C’è chi lascia dediche strappalacrime e chi dediche succinte, chi si
crede in dovere di raccontare ai posteri, oltre all’esito personale di un’esperienza come
quella dei Campi Estivi Siculiana (vedi “tirare le somme”, seguito da dichiarazioni di
amore eterno e ringraziamenti da tutta Italia), anche il suo prologo, perché melius
abundare quam deficere; chi lascia schizzi compromettenti ma altamente realistici, chi
poi sarebbe veramente da conoscere, perché una bottiglia di vodka lasciata come ricordo
(a uso, consumo e abuso dei futuri campisti) vale più di mille parole, e chi ha questi
pensieri verso il prossimo merita davvero tanto; chi ha perso un cappello e chi un
cerchietto da Playboy con finte orecchie (mosce) da coniglio (o coniglia). Io ho lasciato lì
qualche kiletto per non smentirmi e perseverare nella mia alterità e alternatività. Che poi,
come succede chi lo sa. Sarà l’aria, saranno i lacrimoni che partono al momento tragico
dei saluti, sarà il mare, lo iodio e l’acqua salata. Sarà la birra (e qui ho l’occasione di
sostenere il mio credo contro chi afferma che “la birra sono tutti carboidrati, fa
ingrassare e basta”: per me la birra ha anche un alto contenuto di fibre, antiossidanti ecc.,
cose che fanno bene insomma! evviva la birra), sarà la birra a un euro (e non è un
dettaglio da poco), saranno i ritmi sveglia-sonno che si sovvertono al principio di un
Southern Comfort (grazie!) con ghiaccio (per favore!). Sarà il metabolismo accelerato,
saranno le granite del Corso, e il limone che ti depura, e la ricotta che ti ispira, e lo
zucchero che rimane in bocca, e l’amaro del caffè. Sarà che quando la gente è ospitale,
accogliente, calorosa, allora ti si scalda il cuore, ed emani calore anche tu, e bruci tutto
quello che c’è da bruciare, perché ardi dentro, ardi di amore e di familiarità, perchè
Siculiana ormai è casa, e io sono di casa. O sarà, e questa è la versione che mi piace di
più, da romanticona come sono, il peso frammentato dell’anima che si posa
arrogantemente sui resti dell’antica civiltà Angiò, sulla spiaggia di Torre Salsa, sul
pullmino di Totò, tra le caprette di Nino e i super cannoli del signor Mimmo, sulla
terrazza della casa del popolo, sulla parmigiana di Federico; sarà l’anima che scalpita e si
eccita e si perde un po’ alla caffetteria Charme, un po’ all’Oasi Bar di Totò (un altro), un
po’ (tanto) al Bar Smile (dove tutti prima o poi ci lasciano un ricordo, della serie Mi
Ubriaco E Son Felice Anche Se Poi Vomito); sarà l’anima che si cristallizza ed evapora
tra mille gocce di sudore, e, scusate se prendo a prestito una mia citazione, “le gocce di
sudore sono perle di vita, e non c’è niente di più bello”. Insomma, sono più leggera, e
non è solo una sensazione. Siculiana si è mangiata la mia pancetta senza nemmeno
accorgersene. Ma la Sicilia non è solo uno spazio dove perdersi o perdere qualcosa,
troppo spesso volutamente: in cambio ti sazia come se non ci fosse un domani, e a volte
sono più le cose che porti a casa che quelle che lasci. Per esempio, a me Siculiana ha
dato: due carrube mature che non mangerò, la voglia di aprire i fichi d’india sul terrazzo
rimasta insoddisfatta, capelli più biondi, la rosa di Nino che ha affrontato con coraggio
ed estrema sopportazione l’interminabile viaggio di ritorno Siculiana-Milano, sabbia nel
sacco a pelo, il Southern Comfort, la trasgressione, le memorie e gli insegnamenti di
Mastru Ninu, la vera ricetta delle panelle (che ricordo) e quella della pizza (che non
ricordo), autostima a gogò grazie alle avances e gli ammiccamenti di Moglie Jessica, tanto
amore per il Presidente, un incontro ravvicinato del terzo tipo con la Vecchia Romagna,
amiche fantastiche che ti incitano a bere (giù giù giù!) per poi soccorrerti nel momento
del bisogno, lividi (quest’anno pochi in realtà), foto che mi sto impegnando a pubblicare,
probabilmente un futuro lavoro e una futura cittadinanza, lo spunto per la tesi di laurea
magistrale, una perenna linea nera sfumata sotto gli occhi leggasi mascara sbavato che
secondo me mi dona, la possibilità di scrivere su un blog (per la precisione questo), un
abbraccio intenso ma sudato, un buon motivo per ritornare il prossimo anno, la felicità
di mangiare cuddiruni e pizza il primo giorno, un sorriso che non se ne va ancora adesso,
l’anima gemella che non credevo di avere, aumentate capacità di sopportazione
dell’alcool grazie a un allenamento intensivo di bevute pericolose, un bacio da Gerlando
della RNO di Torre Salsa che si ricordava di me, tantissimi shottini che non ho pagato
(grazie Paola grazie Nino grazie Francesco grazie Jessica grazie Luca grazie a tutti),
l’accento siciliano, la melanina commossa, la famelicità (solo se mangi puoi dimagrire).
Tantissime altre cose, che vorrei scrivere e non scrivere, per non rovinare tutto, perché a
volte i silenzi sono meglio delle parole e le cose non dette si sentono comunque. Grazie
ALT, grazie Siculiana, grazie Sicilia, grazie Italia per essere così bella e varia, così storica
e colta (nella doppia accezione di cultura e coltura), così ricca di storie da raccontare e di
storie da stare a sentire, di abitudini diverse, di tradizioni da conservare. Grazie a chi
partecipa ai Campi Estivi, perché mi date la possibilità del confronto e l’occasione, per
una volta, di attivare una modalità di vita alternativa pur rimanendo me stessa;
scoprendo cose che non sapevo, o cose che avevo scordato di avere perché messe a
tacere nell’anonimia generale di Milano con i suoi ritmi mondani ma deleteri. Conoscere
persone, paesi, territori, storie è il modo più bello per iniziare a costruirsi un’identità, ma
soprattutto per educarsi a conoscerla e a ri-conoscerla.
CHE PROFUMO HA L’AMORE?
Mariella Matera
Un albero baciato dal vento.
Il diario
Rileggo le pagine di quel diario scritto in un’età che non ricordo nemmeno più, mentre le
ore scorrono troppo veloci per rimanere impresse tra pagine a righe e fogli a quadri.
Il vento scompiglia questi fili di cenere che il tempo mi ha posato sul capo, incastrandoli
tra le rughe dell’età e fa cadere in terra brandelli di fogli ritagliati.
Come mai lo conservo ancora, dopo tanti anni, non so più, forse per non lasciare alla
brezza del mare quei volti incancellabili che mi riempiono l’anima, per la paura di non
ricordare.“Quando Iddio porrà le Sue dita sulle mie palpebre dovrò aver avuto la
certezza di esser stato uno scritto, un testo che qualcuno rileggerà…” – è questo che
volevo della mia vita, imprimere parole e parole ché le parole non finissero mai. Forse
per questo mio gonfio egoismo posai per la prima volta la penna sul foglio, per essere
ricordata io.
La carta
All’età che non sai mai mi ritrovai ad essere un tutt’uno con inchiostri impressi su carta,
non solo delle mie parole, ma per qualche strano gioco del destino, ad esserlo anche per
altro poetare. Sin da bambina vedevo un mondo da creare quando qualcuno mi dava un
foglio bianco (quasi sempre un’uso mano bianca, 80 gr) e il mio mondo era sempre stato
tutto lì, tra quei fogli pronti per la stampa e parole scritte in modo errato nella lingua che
era stata di mio padre e che probabilmente infangavo ogni volta che posavo l’inchiostro
per scriverne una prima parola.
Le radici
Ero come un vaso di terracotta completamente vuoto. Senza ciciari e senza suriaca. Un
cuore calabrese e un’anima siciliana mi misero al mondo nel mese dei fichi, quando il
sole coce ardente. Probabilmente mentre ero in petto a quella luce santa di mia mamma,
desiderosa di sole si toccò le mani, perché di certo non ho voglie ma le mani mie
bruciano ardenti, come se l’avessi tra le mani quel sole d’agosto. Restammo qui, a
goderci la salsedine che scheggia i balconi appena tinti e le hjiumare che si gonfiano a
schiattare nelle piogge. Mentre crescevo, di pari passo, le mie radici si interravano in
questa Santa Calabria Mia, scordata sì dai figli, ma di certo non da Dio.
Sapevo di essere impastata, a mo’ d’artigiano, di Sud ma che ne sapevo di titoli di libri e
grandi poeti a quell’età? …eppure le mani ardevano, scrivevano e cantavano la mia terra.
“Non sarai mai nessuno..” mi dicìanu – e chi mai avrei dovuto essere? Da ‘ste radici
interrate a Sud del mondo, la mia terra era la mia linfa e le mie parole erano frutti. Ed io,
io che ero? Ero un albero baciato dal vento.
E sfoglio ancora le pagine ingiallite di quel diario, la carta consumata dal ricordo…ho
scritto per essere del mondo perché ero del mondo. Per essere un albero d’ulivo e
portare i volti di tutti tra le schegge della mia corteccia. Non ho scordato un volto, non
ho scordato un nome. Vi ho scritto perché vi ho amati. Vi ho amati perché ho vissuto.
Perché la vita è vita se lascia un solco nella terra. Morirò e sarò sradicata ma porterò tra
gli alberi per sempre un profumo di carta da stampare, un profumo d’amore.
GIOCHI D’OMBRA
Matteo Caputo
Lasciate che tuoni il silenzio.
Qui,
su un fiordo d’infinito,
ammiccami, follia.
Io.
Io mi tuffo…
SENSAZIONI DECRESCENTI DI UNA FASE DELLA
MIA VITA
Marco Cavaliere
La goccia che cola sul dito quando porti un biscotto alle labbra, dopo averlo inzuppato nel tè.
Una signora anziana che avvolge meglio lo scialle intorno al collo, mentre sale verso casa.
Il riflesso delle nuvole sul vetro del finestrino, umido per la piovuta della mattinata.
Le foglie che stanno in bilico sul ramo, sebbene si siano già staccate.
La lampada sulla veranda che dondola, mossa da vento freddo.
L’arcobaleno che appare e scompare, su sfondo giallo/grigio.
L’odore sulle mani dopo aver sbucciato un mandarino.
Le prime castagne, da mangiare a fine cena.
Accenni di Natale nelle vetrine del centro.
Il caminetto di casa acceso la sera.
La nostalgia di qualcosa.
Tutti i baci non dati.
Coperta calda.
Autunno.
“AMORE SI FA E BASTA”
Miriana Martino
Ma cos’è?
Tu lo sapresti spiegare?
Ci hanno provato in tanti ma hanno ‘floppato’ quasi tutti.
Eppure son convinta che pur volendo non si potrebbe neppure disegnare. Anche perché
da dove si inizierebbe, che tipo di disegno si potrebbe fare…un cuore? Due omini che si
prendono per mano? Oppure un fiore? Ecco, è qualcosa di così intimo e privato che
potrebbe cambiare rappresentazione da persona a persona.
Amore non ha disegni, non ha linee, non ha immagini….ha solo sensazioni, emozioni.
Tra i sentimenti credo sia quello più vile, più distruttivo, più maledettamente
straordinario. Parlo di qualsiasi tipo di Amore. Non si fanno distinzioni. Non ci può
essere una distinzione. L’amore si fa e basta.
E lo senti scorrere nelle vene come una droga che ti logora, che ti smangia ogni organo.
Amore è un batterio trasmissibile e quando meno te ne accorgi ne vieni colpito e non
riesci a trovare il giusto medicinale per guarirne perché non esiste medicinale. L’unico
medicinale possibile è la causa di quel tuo batterio.
Amore è un orologio. Un orologio immaginario che ti fa arrivare continuamente in
ritardo sull’altro. Non ci si trova mai nello stesso momento, allo stesso modo. O se si ci
trova si sta ancora guarendo dagli ultimi effetti del batterio precedente.
Può capitare però, che alle volte quell’orologio sia difettoso e allora in quel caso si arriva
in tempo sull’altro e si diventa ingranaggi perfetti di un unico motore. Ci si trova
perfettamente collegati in ogni minimo bullone ed ogni minimo particolare sembra aver
valore solo con l’esistenza dell’altro. Una parte del tutto. L’insieme del tutto.
Tutto è perfettamente in armonia, assoluta armonia.
Le lancette corrono da secondo a secondo, minuto a minuto, ora ad ora…e tu neanche
te ne accorgi. Stai talmente bene in quel tuo ingranaggio perfetto che il tuo unico
pensiero è che possa esserci batteria illimitata e funzionare per sempre…
Ma questa è tutta un’altra storia.
UN ORDINARIO POMERIGGIO DI INIZIO AUTUNNO
Vincenzo Fiore
Quel giorno lui, pensieroso, aprì la finestra e ricordò alcune cose del suo passato. Di
fronte casa sua vedeva il maestoso monte e, ai suoi piedi, il fiume con le sue fresche
acque dove nuotava nei giorni dell’infanzia. Il fitto bosco vicino la città era il luogo delle
passeggiate nella natura incontaminata.
Dopo quel piccolo viaggio nella sua mente, ritornò alla realtà e decise di andare a fare
quattro passi. Si preparò e uscì, lasciando la casa vuota e silenziosa in attesa del suo
ritorno. Camminando per la via notò una frenesia generale, forse per la festa. I locali
erano molto più luminosi, più pieni del solito e nelle vicinanze riusciva ad ascoltare
musiche familiari, ma lui continuava a camminare. Vide cadere una foglia gialla da un
albero, era il segno che l’autunno stava arrivando con i suoi primi freddi e i suoi colori
spenti.
Muovendosi ancora, senza neanche accorgersene, arrivò davanti al solito bar e gli venne
voglia di prendere qualcosa. Si sedette ad un tavolino all’esterno del locale e da dentro
poteva sentire il gracchiare della radio accesa. Mentre beveva il caffè, diventò
nuovamente pensieroso e si guardava attorno. Di fronte a lui c’era la stazione, alcune
persone erano intente a fare i biglietti per partire e andare chissà dove, magari dovevano
viaggiare per lavoro o semplicemente per godersi una vacanza. Poi, notò una persona
seduta su una panchina lì vicino, intenta a osservare un album di vecchie fotografie che
gli ricordavano il passato e i momenti felici.
Finito il caffè, mentre tornava dentro per pagare, si accorse che stava per rivivere i
momenti che lo avevano portato al bar, infatti camminò di nuovo per la stessa via
osservando i locali, ritornò a casa sua che finì di essere vuota e il suo sguardo si posò
nuovamente sulla natura che lo circondava.
IL MIO NOME È FATHI
Monica Posca
Il mio nome è Fathi.
Ho il nero negli occhi, il bronzo sulla carne, il rosso dentro al sangue.
Mi sento un germoglio di sale, ho gattonato sulle rive di Zarsis, sudando sole a ogni mio
passo.
E l’orizzonte, son cresciuto detestandolo.
L’ho preso spesso a sassate, ma non s’è mai frantumato, non s’è mai dilatato. E’ sempre
stato limitato. Ha da offrirti o solo il cielo, o solo il mare.
Mi son dovuto adeguare, decidendo di farmi trovare in ogni tramonto, e lì iniziavo a
contare. Giocavo a nascondino col sole, che si stringeva dietro alla notte e mi
costringeva ad aspettare. M’ha sempre battuto lui, però, raggiungeva la tana prima dei
miei occhi, prima dei miei passi, prima dei miei risvegli. Il mare, invece, l’ho dovuto far
arrabbiare per incitarlo a gareggiare. E mai ce l’ha fatta ad acchiapparmi, son sempre
stato troppo svelto, vero, ma per niente forte, perché ogni volta che lo agguantavo, mi
cadeva sempre addosso, facendomi inciampare, facendomi sprofondare.
Il mio nome è Fathi.
E puzzo di pesce, di sale, di mio padre. Affiancato al suo respiro, l’ho osservato lavorare,
fino al giorno in cui l’ho provato a imitare.
E gli anni han marciato su queste mani, sporche di acqua e di raccolto, di questo mare
che sforna e di queste braccia che reggono. E dal sud fino al suo cappello, i nostri piedi
hanno inghiottito chilometri, polvere, pesci e speranza, quella pavida, che sonnecchia in
Tunisia.
Una volta giunti a Tunisi, si avverte il cuore che oscilla, perché tra un baratto e qualche
inganno, tra una manciata di dinari e un paio di cassette di pesce, te la trovi lì, sopra
l’orizzonte, quell’Italia che raccoglie il sole. E lo stupore ti scivola in bocca, quando
comprendi che qualche pietra è arrivata, che quella linea s’è fratturata, che sotto al cielo
non v’è solo quell’acqua salata.
Il mio nome è Fathi.
Ho attraversato ventitré primavere e il doppio degli inverni. Uno mi sta piovendo
addosso proprio adesso, in mezzo a questa torrida estate.
Un paio di sandali, pantaloni e una maglia. Son dentro alla stoffa, ma non mi sento al
riparo. Sarà per questa mia etnia, che mi strappa le vesti. Sarà per questa spessa distanza,
che mi raffredda il sorriso.
Tempo fa Labib s’è aggrappato al mio ventre, nell’abbraccio m’ha confessato i suoi
sogni. Non erano salati, non erano bagnati, non erano vicini.
“Sai cosa vorrei fare da grande? Il medico, Fathi, il medico. Così potrei curare la mamma
di Khalib, che sta morendo. Ha un brutto male, sai Fathi? Lo stesso della mamma,
uguale a quello lì.”
Lo ha detto alla mia pancia, lo ha sussurrato alle emozioni. Alla mia testa nemmeno ha
puntato.
Mia madre è morta dieci anni fa. Labib aveva un anno, io molti di più.
Solo dentro a quel dolore sono riuscito a vincere sul sole. Lui contava, si sporgeva, mi
cercava. Ma no, quella volta là non mi trovava.
Il mio nome è Fathi.
Tre notti fa ho insaccato la speranza e ho raggiunto l’orizzonte. Ho messo all’asta la mia
vita e mi sono scaricato su questa nave, tra questi corpi, in questa puzza.
In mezzo ai piedi, alle mani, alle ascelle e ai capelli, te la senti addosso, quella massa di
desideri. Ti cammina sopra, ti schiaccia il torace.
Sei assetato di sete, sei esausto di stanchezza.
L’Italia è a pochi giorni, il futuro è a poche ore. Labib è a pochi anni, il suo sogno è a
qualche sacrificio in più.
Il mare, invece, è a un tuffo da me. Gorgoglia, mi chiama. Stanotte, però, non rispondo.
Non ho conchiglie nelle tasche, non lo riesco ad ascoltare. Eppure so che lui vuol
giocare, e che crede che io ce la faccia a scappare. Perciò si arrabbia, si gonfia, si apre. E
non corro sulla riva, non salto a un passo dalla schiuma. Questa volta m’ha preso, e mi
tira, e mi mangia, e si vendica.
Con un urlo di terrore, do sfogo al mio dolore.
Mi getto nella paura, con questi uomini che cadono, con queste bocche che gridano, con
questi cuori che si spengono.
Il silenzio riemerge dall’acqua, in questo inferno bagnato, in questo cimitero di futuro.
Il mio nome è Fathi.
A te mi presento, ragazzo siciliano con ai piedi i miei sandali, e a te mi affido. Cogli
questo nome e portatelo appresso. Fanne ciò che vuoi, camminaci per strada.
Hai l’età di Labib, la mia vita era per lui. Ma adesso è in braccio a te, vai nel tuo futuro,
guarda all’orizzonte e vedici il tuo mondo.
Con in spalla la speranza, alzati e raggiungilo. E anche se faticherai a conquistarlo,
l’averci provato ti farà sentire pieno. Come lo sono io, in questo momento. Pieno di
coraggio, pieno di Labib, pieno di Italia.
LA FINE DI UN EROE
Piergiorgio Vasta
Questo documento che sto per trascrivervi è stato ritrovato una decina d’anni fa sul
fondo di un manufatto greco in terracotta. Si tratta di un vaso con raffigurazioni sulla
parte esterna che rappresentano un duello tra due soldati con armatura in cuoio e
bronzo, lancia, scudo in mano, spada nel fodero.
Il tessuto sul quale è stato scritto il testo mostra i segni inevitabili del deterioramento nel
tempo che ne hanno cancellato alcune lettere, nel migliore dei casi, intere frasi nel caso
peggiore.
Questo il suo contenuto:
Ricordo gli ulivi, argentati, la nuda terra, calcarea, il calore del sole, l’odore del mare.
Ricordo gli unguenti all’olio d’oliva, il riecheggiar costante di cicale, il vino, il profumo
inebriante dei banchetti, la musica e le danze di splendide fanciulle.
Ma più di ogni altra cosa ricordo te, le labbra tue, la tua espressione sul viso prima che
andassi, la voce che mi fermava l’anima. I tuoi gesti convulsi per bloccarmi in un
abbraccio parevano prendere per mano i fili della trama del tempo e squarciarli
rabbiosamente facendo trapelare l’essenza eterna di quel momento che, già lo sapevo,
non avrei mai più dimenticato.
Questo io ricordo adesso, mentre mi preparo ad andar incontro al mio destino.
L’avversario che mi incalza è più forte di me nelle armi, questo lo so, ma so anche che
non posso non credere di poterlo battere, non posso almeno non provare ad immaginare
di vederlo cadere sotto i miei colpi, non posso credere di non poter, con ultimo gesto
estremo, a costo della vita stessa, salvare la patria.
Mentre penso queste cose improvvisamente mi trovo faccia a faccia con il nemico, il
quale ha preso le sembianze di un guerriero che riflette la luce di questo pomeriggio con
la sua armatura divina, fulgente, mi abbaglia la vista. Pare un astro che velocissimo sta
per piombarmi addosso.
Sono pronto ad uccidere un uomo, ne ho uccisi molti in questa lunga guerra, molti abili
combattenti hanno assaggiato il freddo metallo della mia lancia prima di andarsene, sono
pronto ad uccidere un uomo. L’ultimo di questi stava per sopraffarmi, proprio quando
alzò il braccio che impugnava la spada pronta a fendere le mie carni, non so bene come,
da terra, riuscii ad afferrare la parte superiore della mia lancia spezzata.
Con un gesto fulmineo, all’ultimo momento lo colpii proprio sotto al braccio armato.
Perforando la corazza gli bucai un polmone. Appena la punta della mia lancia squarciò le
sue carni, la sua mano lasciò cadere la spada, e mentre le forze lo stavano abbandonando
il suo urlo di guerra divenne di dolore, soffocandosi lentamente in un lamento.
E mentre esalava aria inspirava sangue, fin quando questo non riempì le sue cavità
uscendo schiumoso dalla gola. Cadde a terra per sempre, nello stesso punto in cui, un
attimo prima, c’ero io.
Sono pronto ad uccidere un uomo. Ma non ho mai ucciso un figlio di un dio.
Il cuore mi sobbalza nel petto, raccolgo tutte le mie forze, tutto ciò che sono, impugno
saldamente la mia lancia, mi preparo…
E adesso il tempo sembra dilatarsi, e cose che normalmente si svolgono nel giro di
secondi, ora sembrano durare secoli…Appena sollevo la lancia per scagliarla, sento un
rumore, che non avevo mai udito prima. Sembrava quel suono fragoroso che si avverte
poco prima che scoppi un tuono…tolgo lo sguardo dalla mia mano che alza la lancia, lo
porto di fronte a me e istintivamente mi piego sulla sinistra…
Ora io non so quando Achille abbia avuto il tempo di trovarsi così vicino a me, di
afferrare la sua lancia e scagliarmela addosso con quella forza mentre io, nello stesso
tempo, avevo potuto soltanto sollevare da terra la mia, ma così ha fatto quell’uomo, o
quel dio, così ha fatto…
La lancia dalla punta di bronzo l’ho sentita passare così vicino al mio corpo da averne
udito tutto il suo fragore mentre squarciava l’aria, e avrebbe squarciato anche la mia vita
se non mi fossi piegato, l’ho fatto un attimo fa, l’ho realizzato adesso.
Tremo, sudo, non mi arrendo, dovrà pur arrivare il turno suo, dovrà pur piegarsi col mio
metallo!
In qualche modo, prendo coraggio, la mano che aveva afferrato la mia lancia è ancora lì,
pronta. La scaglio… La scaglio con tutte le mie forze, finalmente…
Il cuore mi sobbalza di nuovo, affanno, l’elmo si sposta con il lancio, ora copre parte
della mia visuale, e lì in quella parte oscurata ai miei occhi, si dirige la mia lancia… Perdo
l’attimo per capire se il tiro sia andato a segno o meno. Un suono metallico rimbomba
fortissimo, devo averlo colpito, è sicuro!
Sistemo lo sguardo, vedo e gelo.
La lancia si è conficcata al centro del suo scudo, trapassando due strati di bronzo ma
fermandosi all’oro.
Istintivamente mi giro come ad afferrare la seconda lancia che un attimo prima avrei
giurato fosse qui accanto a me. Non ho più lancia, lui ne ha due: è finita.
Non ho nulla da perdere ormai, sento che prima di andarmene devo tentare quell’ultimo
gesto estremo che immaginavo di poter compiere prima, devo colpirlo, deve morire
anche lui. E così correndo sguaino la spada e vado ad ucciderlo!
Solo pochi passi ancora ed è fatta, vedo Achille mollare lo scudo ed afferrare l’altra
lancia, la punta di bronzo cerca già di trovare un varco, prima di affondare, tra la
armatura… sento che sto per morire ma voglio colpirlo anch’io, devo colpirlo…a mi
Una sensazione di calore mi avvolge il petto e le spalle, la mia mano perde la forza e la
spada diventa troppo pesante…Non sento dolore, non riesco a rendermi conto quando
mi ha colpito al collo, metà del mio sangue è già andato via a bagnare il campo, lo vedo
soltanto adesso.
Vedo il mio sangue, la mia fine, la vista si offusca, l’odio svanisce, una sensazione di pace
mi avvolge. Sento la vita finire.
Improvvisamente tuto mi pare più chiaro e ogni cosa acquista significato.
Perché tanta fretta? Perché abbiamo bisogno di sprecare la vita, di assaggiare la morte,
per renderci conto che ogni istante che ci è stato donato è tutto ciò che abbiamo? Non
raccogliamo nulla di questa vita, nulla! Non lo blocchiamo il tempo, non riviviamo due
volte lo stesso momento. Piuttosto sprechiamo un momento pensandone un altro già
avvenuto! Oppure ne immaginiamo un altro che dovrebbe venire, lo immaginiamo…ma
non lo viviamo mai o quasi mai. Non si può accumulare la vita come si fa con il danaro.
Non sta scritto quanto ci è dato di vivere!
Vivere veramente, mi rendo conto adesso che la mia vita finisce, richiede un grande
coraggio. Ci illudiamo che, con i nostri pensieri possiamo controllare la vita, preferiamo
stare con questa illusione, abbiamo paura di perdere tutto ma in realtà non possediamo
nulla, siamo noi quel tutto!
Come possiamo amare veramente qualcuno se non percepiamo a nostra volta l’amore
che ci tiene in vita? Se non vediamo l’inestimabilità di tutto questo, un senso di vuoto ci
accompagnerà, e cercheremo di colmarlo accumulando qualsiasi cosa, qualsiasi
esperienza o ricordo di essa, qualsiasi persona. Avremo sempre bisogno di avvicinarci
alla morte per capire, anche solo per un attimo, la vita.
La mia l’ho ricevuta in dono e dopo una manciata di anni la restituisco così. La vista si
oscura, l’udito svanisce, non sento più nulla e così mi abbandono…
Ricordo gli ulivi, argentati, la nuda terra, calcarea, il calore del sole, l’odore del mare.
Ricordo gli unguenti all’olio d’oliva, il riecheggiar costante di cicale, il vino, il profumo
inebriante dei banchetti, la musica e le danze di splendide fanciulle.
Ma più di ogni altra cosa ricordo te.
LE COSE CHE DIMENTICO DI FARE
Marilena Valenti
Le cose che sempre dimentico di fare
scaldare i piedi al temporale, ascoltare
il sole che non bruci, come i desideri
che non ci raccontiamo si fanno dolorosi.
Le volte che non dici le tue favole,
la porta socchiusa per non arrivare,
non aspettare
sta in tutte le cose che dimentico di fare.
SIMILITUDINI
Raffaella Gigliotti
Stringimi
come rosa rossa con spine
perché faccio male.
Porgimi le tue labbra
come su una ferita
perché sono viva come sangue intenso.
Accarezzami
come fossi tua
perché sono una calda lacrima.
PIAZZA ARDITO – FUOCHI
Robert Tarzia
Il Corso è pieno: le luci della strada sono accompagnate dalle luci delle decorazioni per la
festa del santo; i colori della notte sono resi più allegri dai colori caldi dei camioncini dei
giochi; padri che trasportano un passeggino e madri che tengono per mano i loro
bambini; ragazzini che comprano caramelle alla bancarella, anziani che si raccontano
qualcosa, innamorati che passeggiano mano nella mano e amici che mangiano insieme il
consueto panino della fiera.
Quanta vita ha questa città, oggi!
Un botto raccoglie l’attenzione di tutti. Non è un colpo di arma da fuoco, ma il richiamo
per avvisare che tra 5 minuti inizieranno i fuochi di artificio in onore del protettore della
Città.
E’ incredibile come una festa religiosa, di una Chiesa sempre più diffamata da più lati,
ora faccia sembrare tutti più uniti, più “cristiani”.
Forse, in realtà è solo la tradizione portata avanti negli anni, dagli antenati di questa città.
Certo, però, è che la devozione di alcuni abitanti per Sant’Antonio è qualcosa di magico
e per certi versi incomprensibile: solo chi è credente davvero, può capire tanta
devozione.
Ancora una volta, quest’anno, la processione del Santo per le vie di Lamezia, è stata
seguita da un numero considerevole di fedeli ed il sentimento che sprigiona questa festa
nei lametini, è ancora più grande di quelli che in realtà sono i veri patroni della città, Ss.
Pietro e Paolo.
Checché se ne dica, questa festa è magica e questo spettacolo rimane ogni anno unico.
Ora sono tutti con il naso all’insù, a sentire esplodere i fuochi e vedere le scintille
colorate sprigionarsi in un cielo stellato. Un bambino ride ed un’altra piccola bimba
piange. Due innamorati si stringono ancora di più, una famiglia sorride.
La cosa più straordinaria sono gli occhi pieni di stupore di un bambino, ammaliato da
quello spettacolo nel cielo.
Sembra me stesso, più di 20 anni fa.
NOTTE CHE NON SI SPEGNE…
Sara Maruca
Potrei stare così tutta la notte…sdraiata sulle coperte a guardare il soffitto; come
qualcosa che non può essere conservato, come qualcosa che non ho ancora voglia di
perdere in fondo ad un cassetto o sotto ad un piumone.
Le scarpe ancora ai piedi, sdraiata su un letto che sembra appena rifatto. Il buio della
notte può far sfuggire i ricordi, mentre questo soffitto….no, lui no…lui ce li ha appesi
tutti lì i miei ricordi...a volte come mille lampadari accesi, che bruciano a toccarli o
spesso, come innocue ragnatele in un angolo. Cerco sulla vernice bianca la risposta al
perché non dormo...ed è lì, patetica, mentre prova a farsi spazio in un posto in cui non
ce n’è più.
Eppure sono qui, come un oggetto lasciato su un mobile perché in un cassetto ha paura
di essere dimenticato…
…perché in un cassetto, ha paura di dimenticare…
UN DOLORE UNISCE E CREA PACE
Pierluigi Cuccitto
Può accadere, ed è uno dei miracoli della vita. Sabato mattina, finita quella tremenda
situazione, ho subito pensato alla frase dell’Elfo Haldir, nel Signore degli Anelli:
“Quantunque l’amore sia mescolato al dolore, esso cresce comunque più forte”.
Un dolore immenso, la perdita di un buon amico per me e un fratello per lei, può unire
ancora due persone, che per un breve attimo sono state tutto, e che come succede
spesso in questi casi, sembrano diventare un niente.
Cose della vita. Ma l’affetto era stato sincero, e dentro di me sentivo che prima di partire
avrei dovuto fare pace. Sentivo che era una cosa giusta.
Un abbraccio e un saluto, uniti in questo dolore assurdo e tremendo, può cancellare tutte
le incomprensioni e i risentimenti.
E partire, ognuno per la propria strada.
Anche questo è amore: perdonare, e dimenticare. Ma non cancellare, perché le cose belle
ce le portiamo sempre dietro, senza rimpianti o nostalgie. Ci rendono persone migliori e
più serene.
MADRE
Valeria D’Agostino
Madre,
perdonami
per tutte le volte che t’ ho pianto.
Madre,
sollevami
dimmi che non è tardi.
Madre,
sorreggimi
quando mi parrà di cadere.
Madre,
fa’ che il tuo sole sia forte
più forte, che ho freddo.
Madre,
addomesticami
addomesticami come il piccolo principe.
Che un piccolo principe
impaurito e solo
son io.
Che non sa parlare,
non sa camminare.
Madre,
svegliati!
Svegliati, madre
e mostrami l’ amore.
Madre,
rivendicami
com’ io faccio
com’io faccio per te
in ogni mia ora.
Speranza regalami.
Speranza e sale,
O Madre.
LA NAVE DEI FOLLI – GLI AMMUTINATI DELLA
RAGIONE
Vincenzo Costabile
Spiegate le vele!
Cazzate la scotta!
Che il fium dell’intelletto
è ancor lungi
dall’essere alla foce
Abbattete l’albero maestro!
Date fuoco alla cambusa!
Oh capitano
non siete più
il nostro capitano
Noi siamo i Folli. Gli ammutinati della ragione.
(Non più disonorati di chi conosce amore
Non più stolti dei martiri del progresso)
Irrequieti!
Saremo più forti
Insaziabili!
Non avremo più fame
Disperati!
…saremo disperati per scelta
Angeli della morte cerebrale
Profeti di una storia già avvenuta
di visioni già viste
Profeti privi di profezie
Oh capitano
quale oracolo beffardo
ti ha indicato la rotta della necessità
come unica rotta percorribile?
Abbattete l’albero maestro!
Date fuoco alla cambusa!
LE MIE PARETI
Vincenzo Giuseppe Mancinelli
Non preoccuparti
Quando dipingo le mie pareti
del testo di quella canzone
in grado di dirmi come mi sento
o degli Autori
che nel tempo e nel cuore
hanno sostituito le persone:
Avrò sempre cura di lasciare
al centro del soffitto
uno spazio bianco
su cui dipingere il tuo sorriso.
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