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RASSEGNA STAMPA
martedì 29 aprile 2015
L’ARCI SUI MEDIA
ESTERI
INTERNI
RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
BENI COMUNI/AMBIENTE
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CULTURA E SPETTACOLO
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LEFT
IL SALVAGENTE
INTERNAZIONALE
L’ARCI SUI MEDIA
Da Repubblica.it del 28/04/15 (Genova)
Profughi, settecento arrivi in Liguria
Sono attesi entro la fine di dicembre: il Comune di Genova si prepara ad
ospitarne almeno un terzo L'assessore Fracassi: "Bisogna evitare
emergenze sanitarie e offrire a tutti subito l'assistenza di base"
di MICHELA BOMPANI
Arriveranno circa cinquecento profughi in Liguria, entro l'anno. Oltre i duecento già
annunciati nei giorni scorsi. E Genova ne accoglierà altri centocinquanta, entro dicembre,
oltre al centinaio già previsto.
L'assessore comunale ai Servizi Sociali, Emanuela Fracassi, fa le stime e prepara la
macchina di Tursi a reggere l'impatto. E convoca a un nuovo tavolo Comune, Asl3 e Terzo
settore, per sventare eventuali emergenze sanitarie, come ha annunciato ieri in
commissione consiliare: «È necessario - ha detto Fracassi raccogliendo una proposta
della consigliera Clizia Nicolella - che chi arriva possa accedere all'assistenza sanitaria di
base, senza ricorrere all'emergenza dei pronto soccorso. Per pesare meno sulle casse
sanitarie e garantire una continuità dell'osservazione dei pazienti».
Fracassi detta la linea: gli arrivi sono imminenti e la macchina deve funzionare.
«Dobbiamo incrementare l'ufficio "Persone senza territorio" del Comune, servono più
operatori, così come è organizzato non può reggere con l'aumento del carico di lavoro
previsto». Per il Comune, spiega l'assessore, questo tipo di azione non ha costi aggiuntivi,
perchè è finanziato dal ministero dell'Interno, ma i costi che sostiene sono in termini di
personale, risorse umane impegnate ad affrontare l'emergenza, negli uffici. «Ecco perchè
va potenziato il servizio», ribadisce Fracassi.
«Il ministero dell'Interno ci chiede di aumentare posti, ma noi rispondiamo con le
disponibilità certe che abbiamo», spiega l'assessore.
Attualmente ci sono 183 posti nel Comune di Genova, 205 nell'intera città Città
metropolitana, e la percentuale di persone che sono scappate da paesi in guerra è, a
Genova, del 9 per mille. Si abbassa al 7 per mille nella Città metropolitana. «Possiamo
arrivare all'uno per mille - dice Fracassi - ma occorre un impegno capillare e omogeneo di
tutti i territori, di tutti i comuni liguri, così come sostiene anche l' Anci: i profughi sono
meglio seguiti e accuditi in strutture piccole e in piccoli nuclei, piuttosto che in grandi spazi
con grandi numeri, come invece preferirebbe il ministero dell'Interno».
E tra qualche settimana aprirà in Prefettura un nuovo ufficio valutazione, in collaborazione
con Comune, Prefettura, Questura e Unhcr: «Finora chi doveva affrontare la trafila per il
riconoscimento dello status di profugo doveva andare a Torino, dove c'era l'ufficio
specifico più vicino. Si aspettava anche un anno. Adesso speriamo che tutto si abbrevii»,
spiega Claudia Lanteri, responsabile area immigrazione del Comune. L'accoglienza, nel
Comune di Genova, si appoggia alla rete dei centri Sprar, dodici cooperative sociali che di
fatto mettono a disposizione i posti, per lo più in appartamenti e piccole strutture. Suona
l'allarme Stefano Kovach, Arci Genova: «La coperta è corta e spesso dobbiamo scegliere
se dare da mangiare alle persone che ospitiamo o costruire un progetto per loro». E
Husein Salah, della cooperativa Saba: «Ogni profugo ha a disposizione 2,50 euro - dice neppure bastano per comprare due biglietti dell'autobus. E i minori non hanno diritto
neppure a quelli»».
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http://genova.repubblica.it/cronaca/2015/04/28/news/profughi_settecento_arrivi_in_liguria112999587/
Da La Nazione.it del 27/04/15 (Viareggio)
In arrivo i primi profughi: sono in fuga dalla
guerra alla ricerca di posti sicuri
Dieci persone alloggiate in hotel del Marco Polo
Viareggio, 28 aprile 2015 - Dovevano arrivare ieri sera, accolti dal temporale che ha
bagnato questa primavera. E dal proprietario di Villa Lea, una piccola pensione al Marco
Polo a cui il Comune ha chiesto la disponibilità di qualche stanza per ospitare i rifugiati
approdati in Sicilia dalla Libia. Dieci persone, non sappiamo se uomini o donne, per lo più
originarie delle regioni subsahariane infiammate dagli scontri civili; persone in fuga da un
presente incerto, con un futuro. E con un progetto di vita da rincorrere. Al massimo
arriveranno oggi, la prefettura è in costante contattato con la Regione che sta incanalando
gli ultimi arrivi. Come un fiume, che sorge altrove, con una corrente così forte - la fuga
dalla guerra o dalla dittatura - che è difficile - oltre che disumano - solo immaginare una
diga.
Sono 10mila i profughi attesi in Toscana e per i quali molti comuni stanno organizzando
progetti di micro accoglienza, proprio per evitare quelle disastrose esperienze dei maxi
ghetti saturi di umanità prima accolta e poi abbandonata. E Viareggio non s’è tirata
indietro, il commissario prefettizio Valerio Massimo Romeo ha dato la propria disponibilità,
facendosi forza anche sull’esperienza già attiva in città con il progetto Sprar dell’Arci da
oltre un anno. Un protocollo che ha coinvolto oltre 40 persone, e 15 attualmente stanno
seguendo un percorso di integrazione. Che passa inevitabilmente dalla lingua, insegnata
nelle aule del liceo Scientifico Barsanti e Matteucci, primo importante muro da sfondare
per partecipare alla vita della comunità; in attesa che un commissione riconosca la loro
storia e il loro status di rifugiato politico. E gli conceda l’opportunità di viaggiare, invece di
scappare. Solo una piccola percentuale dei richiedenti infatti resta in città, e in Italia. La
maggior parte migra ancora. Sono 47mila infatti le richieste di permesso di soggiorno nel
nostro Paese, contro le 530mila della Germania. E questo per rispondere a chi, ogni
giorno, agita lo spauracchio dell’«invasione».
Martina Del Chicca
http://www.lanazione.it/viareggio/profughi-1.897141
Da Rassegna.it del 27/04/15
Scuola: 28 aprile sindacati in piazza a Firenze
Manifestazione serale nel centro del capoluogo toscano promossa da
Flc Cgil, Cisl Scuola, Uil Scuola, Snals e Gilda
In vista dello sciopero generale della scuola del 5 maggio, martedì 28 aprile i sindacati dei
lavoratori della conoscenza della Toscana daranno vita alla manifestazione serale "Cala la
notte sulla scuola-Riaccendiamo la vera scuola!", con un corteo che dall'ex stazione
Leopolda, alle 19, si sposterà verso il centro storico di Firenze, con presidio finale in
piazza Duomo, davanti alla presidenza della Regione Toscana. Lì, di fronte a palazzo
Strozzi Sacrati, interverranno le associazioni Mce, Cidi, Proteo Fare Sapere, Arci, Anpi,
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Legambiente, Libera, Tavolo Regionale per la difesa della scuola statale, Rete degli
studenti, Sim, insegnanti precari (Ande) e genitori ("L'infanzia non si appalta").
"La scuola di Renzi - sottolineano Flc Cgil, Cisl Scuola, Uil Scuola, Snals Confsal e GildaUnams - non è buona" perchè "non c'è nessuna equa soluzione al precariato"; si tratta di
un "modello di scuola conflittuale e non più partecipativo"; il personale Ata "è assente con
sorveglianza e pulizia a rischio"; riguarda "pochi posti in più per tanta qualità in meno" per
"opportunità formative non garantite in modo equo".
http://www.rassegna.it/articoli/2015/04/27/121148/scuola-28-aprile-sindacati-in-piazza-afirenze
Da Redattore Sociale del 27/04/15
Scuola, domani corteo a Firenze contro la
riforma Renzi
Contro la riforma della scuola del governo Renzi, la cosiddetta Buona
Scuola, Cgil, Cisl, Uil, Snals Confsal e Gilda-Unams, daranno vita
domani 28 aprile a "Cala la notte sulla scuola-Riaccendiamo la vera
scuola!", corteo che dall'ex stazione Leopol...
Contro la riforma della scuola del governo Renzi, la cosiddetta Buona Scuola, Cgil, Cisl,
Uil, Snals Confsal e Gilda-Unams, daranno vita domani 28 aprile a "Cala la notte sulla
scuola-Riaccendiamo la vera scuola!", corteo che dall'ex stazione Leopolda, alle 19, si
spostera' verso il centro storico di Firenze, con presidio finale in piazza Duomo, davanti
alla presidenza della Regione Toscana. Li', di fronte a palazzo Strozzi Sacrati,
interverranno le associazioni Mce, Cidi, Proteo Fare Sapere, Arci, Anpi, Legambiente,
Libera, Tavolo Regionale per la difesa della scuola statale, Rete degli studenti, Sim,
insegnanti precari (Ande) e genitori ("L'infanzia non si appalta"). "La scuola di Renzisottolineano i sindacati- non e' buona" perche': "non c'e' nessuna equa soluzione al
precariato"; si tratta di un "modello di scuola conflittuale e non piu' partecipativo"; il
personale Ata "e' assente con sorveglianza e pulizia a rischio"; riguarda "pochi posti in piu'
per tanta qualita' in meno" per "opportunita' formative non garantite in modo equo". (DIRE)
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ESTERI
del 28/04/15, pag. 2/3
Nepal, quasi cinquemila vittime
Quattro morti italiani, 40 irreperibili
Cresce il numero delle persone uccise dal sisma di sabato Migliaia i
feriti nei campi dell’Himalaya e a Katmandu
GIAMPAOLO VISETTI
DAL NOSTRO INVIATO
BHAKTAPUR .
Il Nepal e il resto del mondo scoprono ora dopo ora la dimensione di una catastrofe
umanitaria di cui si continuano a ignorare i contorni reali. Le vittime ufficiali del terremoto di
sabato, secondo il governo di Katmandu, sono 4800, i feriti 7 mila. Altre fonti locali
sostengono che si sono già superati i 6 mila, che presto potrebbero salire fino a 10-15
mila. Decine di migliaia i feriti. L’area più colpita dal sisma è la valle di Katmandu e la zona
nord-ovest, fino a Pokhara e alla regione himalayana di Langtang. La mancanza di acqua,
cibo, medicine e corrente elettrica, in una delle nazioni più povere del pianeta, ha già fatto
scattare l’allarme epidemie. I soccorsi restano lenti, in ritardo e insufficienti. Centinaia di
villaggi rurali non sono ancora stati raggiunti e risultano rasi al suolo. I sopravvissuti non
hanno alcun genere di assistenza e non possono muoversi a causa delle strade interrotte
e della mancanza di carburante. Migliaia di bambini e di vecchi sono abbandonati.
Il meteo assicura che nelle prossime ore, con l’arrivo del monsone, comincerà a piovere: i
nepalesi hanno un disperato bisogno di tende, coperture rigide, prefabbricati. Alla tragedia
umanitaria dei nepalesi si somma quella alpinistica degli stranieri, delle guide locali e degli
sherpa che accompagnano spedizioni e trekking. Decine i morti sotto le valanghe, ma
all’appello mancano quasi cento persone. Tre elicotteri ieri hanno potuto alzarsi in volo e
fare la spola tra il campo base dell’Everest e gli ospedali di Katmandu. Gli evacuati
dall’Ottomila più alto della terra e dalla valle del Kumbu sono 400, altrettanti gli alpinisti
ancora ad alta quota. La primavera è la stagione d’oro delle ascese e sui due versanti
dell’Everest, quello tibetano a nord e quello nepalese a sud, sabato si trovavano poco
meno di mille appassionati di montagna.
Pesante il bilancio dell’Italia. Mentre cresce l’apprensione per i connazionali dispersi — la
Farnesina dice che «risultano irreperibili » almeno 40 persone — le vittime accertate sono
quattro, tutte impegnate in un trekking nella regione di Langtang, a nord di Katmandu, ai
piedi del Settemila Langtang Lirung. L’accademico del Cai, Renzo Benedetti, 60 anni
trentino, e l’alpinista Marco Pojer, cuoco pure trentino, sono morti sotto una valanga nella
Rolwaling Valley, mentre andavano a trovare amici di una famiglia nepalese. Avevano
appena lasciato altri due compagni di escursione, la trentina Iolanda Mattedi e Attilio
Dantone, gestore di un rifugio tra le Dolomiti, che si sono salvati per miracolo. Ferita non
grave la Mattedi, ricoverata in un ospedale di Katmandu. Le altre due vittime sono Oskar
Piazza, speleologo e membro del soccorso alpino del Trentino, e Gigliola Mancinelli, 50
anni, cardiologa dell’ospedale di Ancona. Quando sono stati travolti da una frana, stavano
attrezzando la discesa in una grotta. Sopravvissuti altri due speleologi che si trovavano
con loro: Giuseppe Antoni, marchigiano, e il ligure Giovanni Pizzorni. All’appello, come
detto, mancano però tanti altri italiani: le segnalazioni pervenute alla sala operativa
dell'Unità di crisi della Farnesina nelle ore successive al sisma hanno consentito di
rintracciare sinora più di 300 italiani erano presenti nell'area colpita dal terremoto.
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Nei campi degli sfollati ai piedi dell’Himalaya e negli ospedali di Katmandu continuano ad
arrivare migliaia di feriti: contadini dei villaggi, nepalesi rimasti intrappolati nei «palazzi di
cartone» delle città, alpinisti e turisti. Negli ospedali si viene ricoverati per terra e all’aperto,
i farmaci scarseggiano e sono riservati ai casi più gravi. Tra sabato e ieri il Nepal è stato
sconvolto da oltre 200 scosse, 45 con una magnitudo di oltre 4.5 gradi, 2 sopra i 6 gradi.
Un terzo della popolazione nazionale è senza casa e i danni a edifici e infrastrutture sono
incalcolabili. Senza un massiccio intervento internazionale il Paese rischia una catastrofe
umanitaria che può durare anni e il ritorno ad un’agricoltura di pura sussistenza. Sotto
accusa il governo guidato dal Partito del congresso. Mai così inadeguati i soccorsi, assenti
i piani di assistenza: e sforzi concentrati, a beneficio dei network occidentali, solo su
alpinismo estremo e località turistiche.
Del 28/04/2015, pag. 10
«Nepal, mancano acqua e viveri Un milione di
bambini in pericolo»
Bilancio ufficiale: 4.200 morti. Ma per la Caritas le vittime potrebbero
essere 6 mila
Una giovane madre, sfinita, parla alle telecamere con un filo di voce. «Sono due giorni che
io e miei figli non mangiamo, a stento troviamo da bere, sopravviviamo con l’acqua
piovana. Soprattutto non sappiamo dove andare: ci siamo costruiti un riparo di fortuna ma
non potremo resistere con i monsoni in arrivo».
Kathmandu, 48 ore dopo il terremoto che l’ha ridotta in macerie, appare ancora
abbandonata a se stessa. Gli aiuti sono in arrivo, molti Paesi hanno inviato squadre di
soccorso, viveri, tende. La Farnesina ha annunciato la prossima partenza di un volo
umanitario della Cooperazione italiana dalla base Onu di Dubai. Ma nell’immediato si
moltiplicano gli allarmi che corrono paralleli al bilancio di vittime, sempre crescente. I morti,
ieri, secondo i numeri ufficiali, erano 4.252, 7.500 i feriti. Ma per la Caritas «le vittime
potrebbero essere 6 mila». La paura ora è per le possibili epidemie: manca l’acqua,
mancano i viveri, il governo del Nepal appare in difficoltà nel gestire una situazione di
distruzione pressoché totale. Soprattutto, c’è grande preoccupazione, denuncia l’Unicef,
per quasi un milione di bambini esposti più degli adulti alle conseguenze del sisma. «Lo
staff in Nepal — riferisce l’Agenzia Onu — registra il progressivo esaurimento di forniture
di acqua e alimenti, interruzioni di corrente e il blocco della rete mobile. Centinaia di
migliaia di persone hanno trascorso la notte dormendo all’aperto, per paura di ulteriori
scosse. Si segnalano piogge battenti che peggiorano le condizioni. Questa crisi lascia i
bambini particolarmente vulnerabili: l’accesso limitato all’acqua potabile e ai servizi igienici
mette i bambini a grave rischio di malattie trasmesse dall’acqua, mentre alcuni sono
rimasti separati dalle loro famiglie».
L’Oms, l’Organizzazione mondiale della sanità, spiega che sono «almeno venti» le
squadre di medici che altrettanti Paesi hanno deciso di inviare nei luoghi colpiti dalla
catastrofe. Ma raggiungere le valli più remote sarà un’impresa: intanto le prime squadre di
soccorso hanno raggiunto il Tetto del mondo ieri notte, cominciando senza esitazione il
lavoro di assistenza. Si scava ancora tra le macerie, ma le speranze di ritrovare qualcuno
in vita si fanno più esili di ora in ora. Ieri, un ragazzo è stato riportato alla luce, sotto choc,
ferito, ma ancora vivo dopo oltre 48 ore trascorse sotto la sua casa, crollata come un
castello di carta. Uno dei problemi più evidenti, è in effetti, la fragilità delle costruzioni. Nei
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prossimi giorni, molti edifici che ora appaiono solo lesionati potrebbero crollare, facendo
altre vittime. Un problema che affligge un Paese fiero ma povero quale è appunto il Nepal.
Intanto, mentre gli esperti fanno sapere che il sisma potrebbe aver «spostato» Kathmandu
di «almeno tre metri verso sud», fa sapere all’ Afp James Jackson, sismologo
dell’Università di Cambridge, mentre l’Everest, secondo l’esperto «non dovrebbe aver
guadagnato o perso metri: è troppo lontano dall’epicentro del sisma» .
Paolo Salom
Del 28/04/2015, pag. 10
Da Roma aiuti per recuperare il patrimonio
d’arte
Il ministero per i Beni culturali è già pronto ad agire, lo ha annunciato ieri il ministro Dario
Franceschini: «L’Italia dispone delle migliori professionalità sia per la gestione
dell’emergenza che per il successivo recupero e restauro del patrimonio artistico e
monumentale ed è per questo che, tramite il console generale del Nepal, abbiamo offerto
tutta la nostra disponibilità ad intervenire direttamente».
Se c’è un settore in cui l’Italia è leader indiscussa, è davvero la capacità di affrontare le
emergenze del Patrimonio d’arte. Lo sa benissimo, solo per fare un esempio tra i tanti
possibili, l’Iran che ha subito accolto i nostri tecnici dopo il terremoto che il 26 dicembre
2003 ha devastato la cittadella fortificata di Bam, splendida quanto fragile. Non siamo
tecnicamente lontani dai problemi che dovrà affrontare il Nepal. La macchina del ministero
è in movimento, una partenza sarebbe possibile anche entro dieci giorni: tecnici, esperti in
emergenza sismica, ovviamente restauratori, sistemi informatici per la catalogazione
immediata. Sarà fondamentale spiegare, per esempio, che le macerie non vanno subito
gettate via ma, per quanto possibile, devono essere conservate in vista di un possibile
riuso durante il restauro. L’operazione sarà condotta in parallelo tra il ministero degli Esteri
e quello dei Beni culturali, probabilmente sfruttando alcuni fondi destinati alla
cooperazione e alle missioni estere. Ed è giusto che sia così, l’Italia guida la lista dei Paesi
col maggior numeri di siti Patrimonio dell’Umanità dell’Unesco. Intervenire è una nostra
precisa responsabilità.
del 28/04/15, pag. 6
Fino a sabato scorso erano le località storiche più visitate
dell’Himalaya. Centinaia di corpi sono rimasti sotto i palazzi crollati:
“Non ci saranno mai i soldi per ricostruire tutto”
Tra i templi distrutti di Bhaktapur e Patan
tesori perduti del Nepal
Delle città d’arte più famose restano solo macerie La rabbia: “Adesso
qui è sparita anche la bellezza”
GIAMPAOLO VISETTI
DAL NOSTRO INVIATO
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BHAKTAPUR
LO SQUILLO di un cellulare arriva improvviso dalle rovine del tempio di Dattatreya. Per
costruirlo, nel 1427, i falegnami della dinastia Malla usarono il legno di uno solo albero. «È
il telefono di mia moglie — dice un uomo — era venuta qui a pregare con i nostri tre
bambini». I loro corpi sono intrappolati sotto la macerie: il marito da solo non può alzare
travi e massi. Nessuno lo aiuta così non gli resta che comporre all’infinito il numero dei
suoi cari dispersi.
Per arrivare a Bhaktapur, serve una moto. Appena fuori Kathmandu un ponte è crollato, la
strada ora corre su due piani ed è interrotta. Nella città-tesoro del Nepal restano solo gli
abitanti sopravvissuti. Fino a sabato era la località storica più visitata dell’Himalaya, un
gioiello della grandezza medievale dell’Asia. Quasi trent’anni fa era stato dichiarato
patrimonio dell’umanità. Ora per la città vecchia si cammina quasi da soli, scavalcando
montagne di calcinacci, di statue e di fregi. Al suolo giace l’irrecuperabile tesoro della
civiltà nepalese. Il palazzo reale, affacciato su quella che è stata una delle piazze più
emozionanti del mondo, è semi-sventrato. L’accesso è sbarrato da un filo che regge
alcune bandiere della preghiera. Tra cortili, stupa, bahal e santuari si aggirano soltanto un
paio di galline, che beccano tra i mattoni ammassati. La piscina del re, con le bocche dei
cobra che spruzzavano l’acqua, è colma di statue spaccate. «Ora abbiamo perduto anche
la bellezza — dice Ritish, giovane custode — ossia l’ultima risorsa che ci dava da vivere».
Le ali sventrate del palazzo sono occupate da una divisione di soldati. Dormono e
mangiano sugli altari dedicati a Shiva e Vishnu: preziosi capitelli, scolpiti con colorate
divinità, vengono bruciati per cuocere le uova. La gente teme l’ultima razzia dei capolavori
artistici. La povertà e la disperazione spingono i nepalesi ad arrangiarsi: ciò che può
essere venduto agli antiquari viene recuperato prima di morti e feriti. Il passaparola
popolare non mentiva: il terremoto ha inferto il colpo definitivo al cuore antico di
Bhaktapur. I templi, i santuari e gli antichi edifici della città sono stati disintegrati da oltre
duecento scosse. I crolli continuano e ad ogni schianto dai vicoli si alzano nuvole di
polvere. I residenti stanno a guardare al centro delle piazze. Non piangono, non gridano,
non scavano tra le macerie e aspettano. «Sotto — dice Kabindra, tessitore di tappeti — ci
sono centinaia di persone. Non possiamo più salvarle, dobbiamo prima riuscire a
sopravvivere».
È una corazza emotiva forgiata nei secoli da centinaia di drammi quotidiani. Non c’è tempo
per i morti, contano i vivi. Le stime ufficiali parlano di oltre 4000 vittime e migliaia di feriti. I
nepalesi temono che i cadaveri potrebbero arrivare a 10, forse 15 mila. Le campagne
verso Pokhara e l’Annapurna risultano rase al suolo. Gli edifici inagibili superano il 90%.
Nel Paese c’è una disperata necessità di acqua, cibo, medicine e tende. L’arrivo del
monsone, con le sue piogge torrenziali, incombe. Pochi giorni, forse poche ore, e il Nepal
si trasformerà in una distesa di fango, frane, campi allagati nei fondovalle e valanghe di
neve in montagna. Senzatetto e sfollati sono oltre 7 milioni, nessuno dice come faranno ad
affrontare le alluvioni dell’estate e il ge- lo dell’inverno. I superstiti cercano di mettere al
sicuro sottoterra i tesori storici devastati, di proteggere i muri pericolanti delle loro
abitazioni, di recuperare i morti e di trovare un luogo aperto su cui trasferirsi. Il totale
disinteresse verso ciò che il potere fa e dice, per un occidentale risulta impressionante. Il
vecchio primo ministro Sushil Koirala è sotto accusa per essere rimasto due giorni fermo
in Indonesia, mentre qui la gente moriva. Domenica sera è rientrato, ha riunito il
parlamento a Kathmandu, ha promesso fondi, ma piani e appelli sono accolti con
indifferenza e con disprezzo. «I nostri politici — dice l’ingegnere informatico Manish
Sedahi — sono stupidi, inetti e corrotti. Sappiamo che per tirare avanti dovremo
arrangiarci».
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Dalla prima scossa sono trascorsi tre giorni, ma il Nepal appare sempre più in ginocchio.
Mancano elettricità e combustibile, non funziona Internet, il carburante scarseggia e gli
ospedali sono senza fermaci. I distributori mettono all’asta la benzina in bottiglia. Un litro
costa più dello champagne: il gasolio è necessario per scappare, per cercare di trasferire
in India i parenti feriti, per alimentare i generatori domestici. Le colonne di moto, davanti
alle pompe, raggiungono chilometri. Sui tetti delle auto in attesa, vengono montati
megafoni collegati alla radio. Le trasmissioni televisive sono interrotte da sabato, la radio è
l’unico mezzo per sapere cosa sta succedendo. La rabbia monta quando il governo
annuncia di aver ordinato cremazioni di massa per scongiurare epidemie. Il ministro
Bamdev Gautam spiega che ogni cadavere sarà prima fotografato per permettere
l’identificazione. «Bruciano i nostri figli — grida una donna — senza lasciarceli onorare».
Se ne va tirando con una corda una grossa vacca nera: «Mi resta solo lei», dice.
Risulta difficile immaginare come e da chi il Nepal possa essere ricostruito, in quanto
tempo possa immaginare un futuro. Anche Patan, in sanscrito la mitica «città delle
bellezza», è distrutta per sempre. I templi dedicati a Shiva, a Krishna a Vishnu e a
Ganesh, il palazzo del re sulla piazza Durbar, si sono accartocciati. Alcuni edifici medievali
restano in piedi, ma i loro muri sono bombati e percorsi da crepe profonde, pronti a
collassare. All’interno le stanze sono crollate. Studenti e volontari raccolgono i tesori
distrutti e catalogano pezzo dopo pezzo. «Non ci saranno mai — dice lo storico Lila Tapa
— i soldi per ricostruire. Abbandonare tutto agli sciacalli è però una responsabilità che non
vogliamo assumere davanti al mondo».
La folla assiste commossa alla rimozione dei detriti di santuari che frequentava ogni
giorno, come partecipasse al funerale della propria civiltà. Ogni volta che i corvi e i piccioni
si alzano in volo, o che i cani abbaiano, centinaia di persone gridano e fuggono nelle
risaie, temendo nuove scosse. Ferma ogni attività economica, si è cominciato così a
scavare anche davanti al vecchio palazzo reale e al Basantapur di Kathmandu. L’esercito
è intervenuto quando ha visto alzarsi il drone di una tivù americana, accolto da applausi
scroscianti e da migliaia di foto scattate con i cellulari. Sotto le macerie gli abitanti
assicurano che ci sono ancora decine di corpi. Un agente solca la folla con un megafono
intimando di fare attenzione: tre tigri, a digiuno da tre giorni, sono fuggite dallo zoo della
capitale. «Non camminate da soli — grida — questa notte accendete il fuoco e non
lasciate i campi tendati».
Al quinto piano del ristorante “Kasthamandap”, al bordo della piazza Kot, un vecchio
invoca aiuto da una terrazza. Le scale sono crollate, è in trappola e ha bisogno di acqua.
Alcuni ragazzi cercano di lanciargli invano una bottiglia, poi se ne vanno. I quattro stupa
bianchi più antichi del Nepal, risalenti al periodo buddista di re Ashoka, sono usati da
un’agenzia di trekking per affittare uso-cucina le bombole di gas degli alpinisti diretti verso
gli Ottomila. Il «tetto del mondo» è una distesa immobile di rovine, in gran parte ancora
inesplorate, abbandonate a stesse: non c’è tempo per piangere, per aspettare i soccorsi di
Stato, o per sperare nella generosità degli stranieri. I nepalesi provano a resistere, hanno
fame e sete, ma entrano nei templi pericolanti per offrire frutta e bibite alle divinità. Dio si è
preso tutto e le sue immagini sono a pezzi per terra: ma qui la fede resta l’ultima,
misteriosa speranza.
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Del 28/04/2015, pag. 17
Assalto ai poliziotti e auto in fiamme dopo i
funerali del ragazzo nero ucciso
Baltimora, sette agenti feriti nella protesta per Freddie Gray. Chiuso il
campus
DAL NOSTRO INVIATO BALTIMORA (Maryland) Prima il funerale nel ghetto nero di West
Baltimore. Freddie Gray, morto per le fratture vertebrali patite dopo un arresto che la
polizia deve aver condotto in modo molto violento, aveva 25 anni ma sembra un bambino:
magrissimo nella grande bara bianca. Lo seppelliscono col suo cappello di baseball bianco
e, sui piedi, un cuscino sul quale è stampato il suo volto sorridente. New Shiloh, la chiesa
battista della cerimonia, è un’astronave di luce, pulizia e ordine in un universo urbano
devastato. Centinaia di persone celebrano con rabbia, ma anche grande compostezza, la
morte violenta di questo ragazzo che non era un santo (due arresti per spaccio dall’inizio
dell’anno) ma che nel caso specifico non aveva minacciato nessuno, aveva solo cercato di
sottrarsi a un controllo della polizia.
Centinaia di persone, leader politici e religiosi, anche una delegazione della Casa Bianca
mandata da Barack Obama. Tutti chiedono giustizia ma invitano alla calma, anche la
famiglia di Freddie. Ma l’elogio funebre del pastore-attivista Jamal Morrison Bryant è un
invito alla mobilitazione, sua pure non violenta: «Tirate fuori il vostro spirito e cambiate
questa città. Non è più tempo di essere neri in America e restare in silenzio». Baltimora è
già una pentola in ebollizione e comincia a tracimare. E’ una delle capitali americane delle
tensioni razziali e del crimine: 640 mila abitanti e 100 mila arresti solo durante la
campagna della «tolleranza zero», a metà dello scorsi decennio, condotta dell’allora
sindaco democratico Martin O’Malley (ora sfidante di Hillary Clinton per la Casa Bianca).
Un’ora dopo il funerale cominciano i disordini: non nel ghetto, ma in diverse zone
commerciali della città dove bande di teppisti attaccano le auto della polizia, quando ne
trovano una isolata. Il primo assalto, vicino a un centro commerciale, Mondawmill Mall,
non è del tutto imprevisto: vengono intercettati messaggi su Internet che invitano a
lanciare un attacco a sorpresa nella zona di North Avenue per poi trasferirsi in centro,
verso il municipio. Il mall viene chiuso a tempo di record, ma le pattuglie che lo proteggono
diventano bersaglio di un fitto lancio di pietre e mattoni: sette poliziotti restano feriti. Alcuni
con fratture, uno perde conoscenza. Subito dopo cominciano i saccheggi di banche e
farmacie in varie zone della città. Scene che ricordano la notte di fuoco di Ferguson. Ma
allora, appunto, le bande aspettavano l’oscurità per agire. Qui, invece, tutto avviene in
pieno giorno. Alle due del pomeriggio anche la Baltimore University decide di chiudere il
suo campus. I poliziotti si radunano in nuclei per presidiare i punti strategici della città, ma
in altre zone le bande non trovano resistenza. C’è grande allarme perché, secondo alcune
infomazioni che la polizia giudica credibili, tre delle gang più pericolose si sarebbero
alleate per tendere agguati agli agenti che vengono che vanno in giro isolati.
In rete chi invita alla rivola evoca «The Purge», un film del filone social-horror che
immagina un’America scivolata in una dittatura che, come misura di pulizia sociale,
stabilisce che una volta l’anno per un giorno ogni crimine sia ammesso, con la polizia che
si ritira nelle caserme. La situazione rischia di sfuggire di mano in una grande città nera a
40 chilometri da Washington, la capitale: una città anch’essa al 70 per cento nera. Gli
appelli alla calma sbattono contro la determinazione delle bande ad attaccare la polizia (e
quella del Maryland è una delle più violente d’America). Eppure Baltimora non è Ferguson:
qui la famiglia non ha fatto proclami incendiari e i leader della comunità nera, pur
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esprimendo rabbia, dicono di avere fiducia nel capo della polizia e nel sindaco Stephanie
Rawlings-Blake, figlia di un eroe nero dei diritti civili, che ha promesso punizioni severe e
una rivoluzione culturale nel modo di perseguire i reati. La polizia ha gravi responsabilità
per la morte di Gray, denunciate anche dal suo capo, un afroamericano. Ma adesso la
priorità è ristabilire l’ordine. Gli agenti potrebbero non bastare. Non è ancora calato il sole
su una città improvvisamente deserta quando il governatore Larry Hogan annuncia di aver
messo in stato d’allerta la Guardia nazionale.
Mentre gli Orioles, la locale squadra di baseball, sospende i play off coi Red Socks, la
gente si chiude in casa sperando che la notte non porti scene da sommossa come quella
che sconvolse la città nel 1968 .
Massimo Gaggi
del 28/04/15, pag. 10
Summit in Ucraina. I leader europei respingono la richiesta di
Poroshenko ma promettono una missione civile
Kiev non avrà truppe dalla Ue
Merkel convinta che in giugno le sanzioni a Mosca saranno prorogate
Le speranze europee di Petro Poroshenko volano alto, ma non sembrano destinate a
realizzarsi nel breve termine. A cominciare dall’adesione alla Ue: se il presidente ucraino è
fiducioso di poter raggiungere tra cinque anni i requisiti necessari per inoltrare la richiesta
di ingresso, «obiettivo chiave» e «aspirazione strategica» del governo ucraino, ieri a Kiev i
suoi ospiti non hanno risparmiato gli elogi ma non hanno neppure preso impegni.
L’adesione all’Unione Europea, ha detto il presidente della Commissione Jean-Claude
Juncker, «non è questione di immediata attualità». Anche se l’Ucraina «fa parte della
famiglia europea» ed è «un grande Paese amico, con cui faremo grandi cose. E non
accetteremo che qualcuno ci impedisca di farle».
Al summit Ue-Ucraina ieri a Kiev l’ombra della Russia ha dominato, nel timore che il
cessate il fuoco si stia sbriciolando un’altra volta: gli osservatori dell’Osce
(l’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa) riferiscono di un
intensificarsi degli attacchi intorno a Shyrokyne, l’ultima città controllata dagli ucraini sulla
costa del Mar d’Azov, vicino a Mariupol. Il portavoce militare ucraino Oleksandr
Motuzyanyk ha parlato di attacchi separatisti “non stop” vicino all’aeroporto di Donetsk, e
ha citato una perdita tra le fila ucraine, e tre soldati feriti. Mentre l’autoproclamata
Repubblica di Donetsk denuncia il «fuoco massiccio» di artiglieria e tank ucraini contro il
territorio separatista.
«Gli osservatori dell’Osce - ha detto a Kiev Donald Tusk, presidente del Consiglio Ue - non
possono verificare il rientro delle armi pesanti. Secondo le informazioni che riceviamo,
veicoli militari continuano a entrare in Ucraina attraverso il confine con la Russia». In base
agli accordi di Minsk, in vigore da metà febbraio, le armi pesanti avrebbero dovuto essere
ritirate dalla linea del fronte entro due settimane.
Tusk ha detto che la Ue è compatta dietro alla politica di sanzioni contro la Russia, che
resteranno in vigore «fino all’implementazione totale degli accordi». Ma così come
riemergono dubbi pesanti sulla tenuta del cessate il fuoco, immaginare entro giugno
progressi convincenti sugli altri punti - dal decentramento alla ripresa dei servizi sociali
nelle zone separatiste - sembra irrealistico. Per questo ieri anche Angela Merkel, da
Varsavia, si è detta convinta che i 28 decideranno di estendere la durata delle sanzioni.
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«L’Ucraina ha bisogno del nostro costante sostegno», ha detto il cancelliere tedesco.
Eppure il sospetto che i russi abbiano ripreso a inviare armi e truppe non ha indotto la Ue
ad accogliere la seconda grande richiesta di Poroshenko, l’invio di peacekeeper a
monitorare il rispetto degli accordi di pace. Una missione militare Ue «è impossibile», ha
detto Tusk, che ha però promesso una missione civile di esperti, incaricati di valutare un
ruolo per la Ue nell’area del fronte. Per ora, gli aiuti restano in ambito finanziario: ieri
Juncker ha ribadito la promessa di un pacchetto di 1,8 miliardi di euro. Mentre, sul fronte
del debito, la statale Ukreximbank (terza banca ucraina) si è vista approvare dai creditori
l’estensione di tre mesi sulla scadenza di una delle sue emissioni in Eurobond, del valore
di 750 milioni di dollari.
Del 28/04/2015, pag. 17
Quel freddo tra Bruxelles e l’Ucraina
L’ Ucraina continua a bussare ma la porta dell’Europa resta soltanto socchiusa. E
Bruxelles esclude senza esitazioni un coinvolgimento più diretto nella crisi fra Kiev e
Mosca. Insomma, se non è gelo, non è un incontro che scalda i cuori quello che si è svolto
ieri fra il capo della Commissione Ue, Jean-Claude Juncker, il presidente del Consiglio
europeo Donald Tusk e il capo dello Stato ucraino Petro Poroshenko. Il leader di Kiev ha
affermato che entro cinque anni il suo Paese sarà pronto a chiedere l’adesione all’Unione:
ma Juncker, pur riconoscendo che l’Ucraina «fa parte della famiglia europea», lo ha
rintuzzato dicendo che la questione non figura nell’agenda immediata. L’unico passo
avanti è l’attuazione dell’accordo di associazione, che entrerà in vigore dal prossimo primo
gennaio. Meglio che niente: ma molto poco rispetto alla voglia di Europa che risuona a
Kiev nei palazzi della politica, fra i giovani attivisti e nelle strade della capitale, dove gli
edifici pubblici si fregiano, accanto alla bandiera nazionale, del vessillo blu a dodici stelle.
Quello stesso innalzato dai manifestanti di piazza Maidan l’anno scorso, che si sono fatti
sparare adosso pur di sognare un futuro diverso da quello di satellite dell’ex Unione
Sovietica. Prospettiva, quest’ultima, che Vladimir Putin ha in serbo per l’Ucraina se
dovesse riuscire a ridurla al rango di Stato fallito attraverso un mix di pressioni
economiche e aggressioni militari. È anche per questo che a Kiev continuano a chiedere
l’invio di una missione di caschi blu europei che possa realmente garantire la tregua
nell’Est e permettere l’avvio della ricostruzione. Ma anche su questo punto gli inviati di
Bruxelles hanno mostrato di non sentirci: al massimo, ha spiegato Tusk, sono disposti a
discutere di una missione di assistenza civile, non certo militare. È vero, negli ultimi tempi
la Ue si è mostrata impaziente verso il ritmo delle riforme in Ucraina e ha fatto pressione,
specialmente attraverso la diplomazia tedesca, perché anche Kiev applicasse pienamente
gli accordi di Minsk sul cessate il fuoco. Ma non è voltando le spalle dall’altra parte che si
fa un servizio alla causa dell’integrazione europea.
del 28/04/15, pag. 17
L’accordo ora è più vicino ma i duri di Syriza
preparano la resa dei conti con il premier
MILANO .
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Alexis Tsipras ha deciso. Bisogna stringere per un accordo con i creditori. E il rimpasto del
team di negoziatori con l’ex Troika è il primo segno che Syriza ha deciso di rinunciare a
qualcuna delle sue “linee rosse”, i punti del programma su cui non sembrava disposta a
fare marcia indietro. Il ridimensionamento di Yanis Varoufakis — che in patria godeva
ancora di una popolarità ben superiore al 50% — è il primo ramoscello d’ulivo teso ai
creditori. Non sarà l’ultimo. Lo ha spiegato Yannis Dragasakis, vice-ministro e nuovo uomo
forte del team economico di Atene: “Non escludo che saremo costretti ad adottare misure
che non avremmo voluto prendere”, ha confessato in un’intervista. Ribadendo che per la
Grecia “è necessario arrivare a un accordo entro i primi giorni di maggio” per non finire con
le spalle al muro per la drammatica crisi di liquidità.
La partita — lo sa anche Tsipras — non sarà facile. Ogni passo in direzione di Ue, Bce e
Fmi è anche un passo che lo allontana dal Piattaforma di sinistra, l’ala più radicale di
Syriza. Una trentina di parlamentari i cui voti saranno necessari per dare il via libera a
qualsiasi intesa. Finora la minoranza interna ha tenuto i toni bassi, confrontandosi con il
premier a porte chiuse e limitandosi a ribadire il suo “no” secco ai temi a lei più cari:
privatizzazioni, pensioni e lavoro. Il redde rationem con i creditori potrebbe però
surriscaldare il confronto. Un aperitivo c’è stato già quando Panagiotis Lafazanis, ministro
dell’energia e leader dei radicali, ha contestato la decisione di Tsipras di confiscare la
liquidità degli enti locali. Schermaglie finite in nulla, ma che il presidente del consiglio non
sottovaluta visto che a febbraio – per evitare sorprese in Parlamento – ha evitato di far
votare il primo accordo con la Ue.
Le prossime settimane saranno decisive e Tsipras sa che in ballo c’è il suo futuro politico.
Syriza è ancora in testa nei sondaggi con 14 punti di vantaggio sul centrodestra di Nd. Ma
il dato è in calo e la luna di miele post-elettorale sta esaurendo la sua forza propulsiva. La
strada del compromesso sembra essere quella preferita dal paese: il 72% dei greci vuole
rimanere nell’euro, il 51% sostiene (dati Alco) che va trovata in ogni caso un’intesa con i
creditori mentre il 44,2% crede che — in assenza di sostegno parlamentare — il premier
dovrebbe puntare a un governo di unità nazionale piuttosto che andare alle urne.
Si vedrà fino a che punto Tsipras è disposto a spingersi per tenere Atene nella moneta
unica. I candidati a un governo “europeista” di coalizione — come sognano a Bruxelles —
in teoria ci sono. To Potami è pronto a partecipare con i suoi 17 deputati. Lo stesso vale
per i 13 del Pasok. Difficile però che il presidente del Consiglio si imbarchi in un’avventura
così lontana dalle promesse elettorali. Più probabile che usi fino all’ultimo carisma e doti
negoziali per tenere uniti i suoi. E il nuovo capo-negoziatore Euclid Tsakalotos, veterano di
Syriza che conosce benissimo i quadri del partito, è molto più indicato del professor
Varoufakis per far digerire a tutti il bagno di realismo cui si dovrà (forse) dire di sì. (e. l.)
del 28/04/15, pag. 19
Libia, ecco la road map dell’Onu per l’intesa
VINCENZO NIGRO
ROMA . Dalla Libia continuano ad arrivare notizie di violenza brutale e fuori controllo. E
nonostante questo, le Nazioni Unite provano a mandare avanti la mediazione fra le fazioni
politiche. Ieri l’inviato Onu Bernardino Leon ha distribuito ai negoziatori libici la bozza
definitiva dell’Accordo Politico per la Libia che dovrebbe creare un «Governo di Accordo
Nazionale» e ridisegnare le istituzioni transitorie della Libia post-gheddafiana. Nelle stesse
ore la polizia della Cirenaica ha confermato che vicino a Beida, nella “montagna verde”,
sono stati ritrovati i corpi di 5 giornalisti scomparsi da mesi. Sono 4 libici e un egiziano,
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hanno la gola tagliata, non è chiaro quando siano stati trasportati nella foresta in cui sono
stati scoperti. «E’ un massacro dello Stato Islamico », dicono i capi della polizia di Beida,
la città che fu la capitale della monarchia: lavoravano per una tv che sostiene le idee dei
federalisti della Cirenaica che vorrebbero staccarsi dalla Tripolitania.
Nelle prossime ore il mondo politico libico si concentrerà sull’accordo stilato dall’Onu dopo
i negoziati andati inscena da mesi fra Tripoli, Ginevra, Algeri e Marrakesh. Il documento di
16 pagine contiene una premessa di impegni già concordati dalle parti, seguita da un
elenco di 61 articoli che regolano la formazione del Governo di Accordo Nazionale.
L’intesa proposta dall’Onu conferma la creazione di un “Consiglio Presidenziale” composto
da primo ministro, dai due vice-premier che faranno parte del governo e da altri due
ministri. Il Consiglio Presidenziale sarà quindi una guida del governo collettiva: prenderà le
sue decisioni solo se ci sarà l’unanimità fra il presidente e i due vice-premier, ma avrà
poteri abbastanza forti, come quello di selezione, di revoca e di sostituzione degli altri
ministri che faranno parte del governo “normale”. Avrà sede a Tripoli, «la capitale», ma
potrà lavorare anche dalle altre città libiche, e dovrà tener conto dei fattori geografici e
culturali nella scelta dei ministri. Non è scritto da nessuna parte, ma chiaramente si chiede
di rispettare le diverse regioni e anche le etnie del paese. Molti prevedono che fra premier
e i 2 vice-premier ci sarà modo di rappresentare le tre regioni del paese, Tripolitania,
Fezzan e Cirenaica.
L’Articolo 8 specifica che il presidente sarà anche il Capo dello Stato, mentre i 3 del
Consiglio presidenziale saranno il Comandante Supremo delle forze armate; non un
comandante “individuale”, quindi, ma anche in questo caso un ufficio condiviso fra più
leader politici. Il Consiglio Presidenziale nominerà e sostituirà i capi delle forze armate,
dell’intelligence, gli ambasciatori e i massimi dirigenti dello Stato, con l’eccezione del
governatore della Banca di Libia e di altri funzionari di controllo finanziario, che saranno
nominati con 2/3 dei voti del Parlamento libico.
Un altro punto centrale, che non mancherà di suscitare reazioni negative nella parte legata
al governo di Tripoli, è quello che riconosce come unico Parlamento della Libia la House of
Rapresentatives che oggi si riunisce a Tobruk.
Da Avvenire del 28/04/15, pag. 12
Altro orrore in Libia: decapitati 5 reporter
Luca Geronico
Torna l’incubo delle decapitazioni di massa in Libia, che questa volta prende a bersaglio i
dipendenti di una televisione locale. Il Paese, devastato dalla guerra civile del dopo
Gheddafi, è la nuova frontiera del jihad globale che cerca di radicare anche in quel Paese
la sua presenza.
Un tweet dell’emittente “Barqa”, il nome arabo della Cirenaica, affermava che i corpi
decapitati di sei libici erano stati trovati «vicino alla città di Bayda », una delle due sedi del
governo di Tobruk. La troupe televisiva libica, riferisce la stessa emittente, «era stata data
per dispersa otto mesi fa» e uno dei decapitati «è un cameraman egiziano che si chiama
Mohamed Galal ». I decapitati, hanno precisato più tardi fonti locali, sono cinque e
sarebbero stati «sgozzati»: oltre al cameraman egiziano, gli altri quattro erano libici
(Khaled el Hamil el Sobhi, Younes el Mabrouk el Nofali, Abdallah el Qarqaii e Youssef
Elmoudy Gaderbou). Nessuna notizia del sesto rapito.
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L’uccisione non è stata rivendicata, ma la tecnica dello sgozzamento lascia supporre che
la responsabilità sia dello Stato islamico. A Bayda, la città del ritrovamento situata
un’ottantina di chilometri a ovest del «califfato » di Derna, in mano allo Stato islamico, si
svolgono alcune riunioni del Parlamento e del governo di Tobruk. La cittadina è anche
sede dell’Assemblea per la stesura della Costituzione.
Così, dopo le decapitazioni dei 28 etiopi cristiani dello scorso 19 aprile, con una serie di
foto dell’orrore pubblicate sulla rete web lo scorso 19 aprile, torna l’incubo delle esecuzioni
di massa. I cinque giornalisti e cameraman uccisi non sono le prime vittime tra gli operatori
dei media in Libia. Un operatore free lance di 33 anni, noto per il suo impegno antijihadista anche a livello politico, era stato ucciso con due colpi di arma da fuoco a Bengasi.
In febbraio un rapporto dell’organizzazione per la tutela dei diritti umani Human Right
Watch aveva indicato in otto il numero di reporter uccisi in Libia fra la metà del 2012 e lo
scorso novembre. I casi di rapimenti e detenzioni arbitrarie soprattutto ad opera di
sedicenti 'milizie' sono stati una trentina.
Intanto, nella notte fra domenica e lunedì, nuovi scontri a fuoco si sono verificati tra le
milizie libiche di «Alba» e quelle dello Stato islamico a Sirte. Le milizie della brigata 166,
fedeli al Congresso nazionale di Tripoli, hanno attaccato postazioni dell’Is e negli scontri si
sono contati diversi morti e feriti causati da armi pesanti. Altri scontri sono avvenuti invece
nella zona di Ghariyan, intorno a Tripoli, dove le forze di «Alba» stanno tentando di
respingere l’avanzata delle truppe del generale Khalifa Haftar.
Del 28/04/2015, pag. 6
Golan ad alta tensione
Israele/Siria. Tel Aviv nega di aver compiuto un nuovo attacco in Siria
ma conferma uccisione quattro uomini armati lungo le linee di armistio
sulle Alture che occupa dal 1967. Al Jaazera: druso arrestato per aver
documentato rapporti tra Israele e i qaedisti di al Nusra
Michele Giorgio
Israele nega di aver compiuto domenica notte un nuovo attacco aereo in Siria. Smentisce
quanto hanno riferito ieri le televisioni al Jazeera e al Arabiya a proposito di postazioni dei
combattenti sciiti di Hezbollah, alleati di Damasco, sulle montagne di Qalamoun, a ridosso
del confine libanese, ripetutamente prese di mira dall’aviazione con la stella di Davide e di
un numero imprecisato di morti e feriti. Conferma solo che suoi velivoli hanno ucciso quattro uomini che, secondo Tel Aviv, stavano posizionando un ordigno dal lato siriano delle
linee di armistizio nel Golan occupato. Per le autorità israeliane gli attacchi sarebbero stati
compiuti dai qaedisti di al Nusra, contro depositi di armi dell’esercito siriano. Nella stessa
zona Israele aveva bombardato, almeno due volte la scorsa settimana, presunti convogli
e depositi di missili Scud destinati, secondo la sua versione, ad Hezbollah. Questo tipo di
raid aerei non sono nuovi, vanno avanti da oltre due anni. Lo scorso gennaio, nel Golan,
elicotteri da combattimento israeliani avevano ucciso una dozzina di persone tra le quali
un generale iraniano dei Guardiani della Rivoluzione e alcuni ufficiali di alto rango di Hezbollah. A questo blitz, qualche settimana dopo, il movimento sciita ha risposto lanciando
un attacco sulla frontiera israelo-libanese.
In questi giorni di rinnovata tensione lungo le linee tra Israele e Siria, al Jazeera ha portato
alla luce un caso che sembra avvalorare la tesi sostenuta da più parti di rapporti sempre
più intensi tra Israele e i jihadisti siriani che combattono contro le forze armate governa15
tive, inclusi quelli di al Nusra. La televisione qatariota riferisce che Sidqi Maqt, un druso
siriano residente a Majdal Shams, nel Golan occupato, è stato arrestato lo scorso febbraio
dagli israeliani e accusato di aver spiato per conto del “nemico”. Maqt, secondo la tv,
avrebbe documentato con video e foto i contatti lungo la frontiera tra l’esercito israeliano
e miliziani di al Nusra, mettendo poi tutto su Facebook. In uno dei suoi filmati si vedono
due autobus bianchi, con a bordo quelli che l’autore descrive come combattenti di alNusra, entrare in una base dell’esercito di Tel Aviv. Nella vicenda è implicato anche un
soldato israeliano, anch’egli druso, Hilal Halabi, che avrebbe condisivo con Maqt informazioni riservate sulle attività dell’esercito lungo le recinzioni con la Siria. Una Corte militare
israeliana ha posto la censura su tutta la faccenda.
Amici e conoscenti dicono che Maqt faceva tutto alla luce del sole e che non sarebbe una
spia. In realtà, spiegano, le autorità israeliane intenderebbero punirlo. La documentazione
raccolta dall’uomo infatti confermerebbe i contatti che i militari dello Stato ebraico mantengono con le formazioni islamiste radicali che operano nel sud della Siria e a ridosso del
Golan riferiti dai rapporti delle Nazioni Unite e presentati lo scorso dicembre al Consiglio di
Sicurezza. L’Undof, la Forza di disimpegno degli osservatori dell’Onu, che monitora le
linee di armistizio tra Israele e Siria, ha documentato colloqui tra soldati israeliani e miliziani attraverso le recinzioni, del passaggio di autocarri dalla parte siriana a quella israeliana e della consegna, in almeno due occasioni, di scatole e pacchi ad uomini armati sul
versante siriano. Al-Nusra, assieme al cosiddetto “Fronte Meridionale”, dallo scorso agosto
controlla la zona del valico di Quneitra e di fatto l’80% del territorio siriano a ridosso del
Golan. Tel Aviv da parte sua parla di “operazioni umanitarie” a favore di feriti siriani nei
combattimenti. Nel frattempo proprio al Nusra, che più a nord guida l’Esercito della Conquista, la coalizione di forze jihadiste e islamiste radicali alleate del cosiddetto Esercito
libero siriano (la milizia dell’opposizione siriana finanziata e armata dall’Arabia saudita, il
Qatar e altri paesi arabi e occidentali), continua ad avanzare nel distretto di Iqlib costringendo ad arretrare l’esercito governativo siriano. Un’azione che di fatto è parallela a quella
dello Stato Islamico nelle regioni settentrionali. Nei giorni scorsi al Nusra – che è il ramo
siriano di al Qaeda – ha conquistato l’importante cittadina di Jisr al Shughur, un successo
persino più importante della presa di Idlib, poichè apre la strada ai qaedisti verso la
regione di Latakiya, sul mar Mediterraneo, storica roccaforte dei governativi. Fonti locali
hanno riferito di decine di corpi di soldati e miliziani filo Damasco sparsi per le strade di
Jish al Shughur e anche dell’esecuzione di oltre 20 prigionieri da parte dei militari siriani
prima di ritirarsi dalla cittadina. Gli esperti giudicano i recenti successi di al Nusra e dei
suoi alleati frutto di un maggiore coordinamento tra le varie forze jihadiste e chi le finanzia
e le arma. Ma anche degli addestramenti dei miliziani anti-Damasco avviati dagli Stati Uniti
in territorio turco.
Del 28/04/2015, pag. 6
Football Intifada per la sospensione dalla Fifa
di Israele
Chiara Cruciati
Mahmoud Sarsak che bacia sul velo la madre in lacrime è un’immagine impressa nella
memoria di tanti in Palestina. Era l’ottobre 2012: il portiere gazawi, all’epoca 25enne,
aveva rifiutato di mangiare dietro le sbarre di un carcere israeliano per 90 giorni. Protestava contro la sfilza di ordini di detenzione amministrativa che lo tenevano prigioniero da
16
tre anni. Nessuna accusa, nessun processo e il sogno di una carriera sportiva fatto
a pezzi. Sarsak era portiere della nazionale palestinese. Dopo il rilascio ha appeso i guanti
al chiodo, il suo fisico distrutto dallo sciopero della fame. Stesso destino per due giovani
promesse del calcio palestinese: Jawhar Nasser, 19 anni, e Adam Halabiya, 17. Hanno
detto addio al pallone quando a gennaio 2014 soldati israeliani gli hanno sparato mentre
tornavano dall’allenamento a Al Ram, vicino Ramallah. Colpiti ai piedi e alle gambe, una,
due, sei volte. Queste e tante altre violazioni sono alla base della richiesta
dell’Associazione Calcio Palestina (Pfa) che il 29 maggio si presenterà al cospetto della
Fifa per chiedere la sospensione di Israele dall’organizzazione fino a quando non garantirà
liberta di movimento agli sportivi palestinesi e lo sviluppo delle infrastrutture nei Territori:
dal 2007 alla nazionale palestinese è impedito di ritrovarsi tutta insieme per allenamenti
e partite. La lista delle violazioni israeliane è lunga: divieti di viaggiare imposti ai giocatori,
a cui è impedito di muoversi liberamente da Gaza e Cisgiordania e all’esterno; divieto di
dare vita a squadre palestinesi ufficiali a Gerusalemme Est (per il diritto internazionale, territorio occupato al pari della Striscia e della Cisgiordania); visti di ingresso negati a delegazioni straniere in visita ai team palestinesi; divieto di importare attrezzatura sportiva; raid
dell’esercito nella sede della Pfa. La mozione sarà presentata ai 209 membri Fifa a Zurigo
dal capo della Pfa, Jibril Rajoub, vecchio falco di Fatah. Se la richiesta di sospensione
dovesse essere accolta, Israele sarebbe l’unico paese al mondo ad essere sospeso dalla
Fifa. Fuori dai tornei internazionali, a cui invece la nazionale palestinese continuerebbe
a prendere parte. Una minaccia non da poco all’immagine democratica che Israele vuole
dare di sé, investendo milioni di dollari nella propaganda all’estero. La «football Intifada»,
l’hanno ribattezzata nei Territori Occupati: «Gli israeliani godono dello status garantitogli
dall’appartenenza alla Fifa mentre deprivano l’amministrazione vicina del suo diritto di giocare a pallone – ha detto Rajoub la scorsa settimana – Per anni abbiamo chiesto alle confederazioni di Asia e Europa di intervenire.
Visto che non ha funzionato, abbiamo deciso di andare direttamente all’assemblea generale della Fifa». Nonostante gli sforzi palestinesi è difficile che la mozione passi per
l’aperto contrasto all’iniziativa del presidente-padrone della Fifa, Sepp Blatter. Il suo dissenso lo ha espresso pochi giorni fa anche Michel Platini, presidente Uefa. Israele non
nasconde, però, la preoccupazione: nel prossimi giorni la Ifa, Federazione Calcio israeliana, sarà impegnata in incontri faccia a faccia con le controparti europee, la Uefa e la
stessa Fifa. Rajoub promette di proseguire: «Continueremo a combattere le politiche razziste israeliane fino a quando non avremo il diritto di fare sport come il resto del mondo».
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INTERNI
del 28/04/15, pag. 10
La tentazione del premier: “Senza la fiducia la
minoranza scoppia”
FRANCESCO BEI
GOFFREDO DE MARCHIS
IL RETROSCENA
ROMA .
Aspettare il voto di oggi sulle pregiudiziali di costituzionalità. Assistere allo sfarinamento
della minoranza per verificare la tenuta del Pd. La tentazione di Matteo Renzi è la vittoria
piena sulla legge elettorale. Ovvero, superare lo scoglio senza mettere la fiducia,
affrontando senza scudi le forche caudine dei voti segreti e dimostrare l’irrilevanza dei
dissidenti. «Così la minoranza finisce davvero al tappeto, scoppiano », è il ragionamento
del premier. La voce di Bersani, Bindi, Fassina e Civati diventerebbe più debole, in
Parlamento e nel partito. E nessuno potrebbe accusarlo di fare come Mussolini con la
legge Acerbo.
La decisione finale sarà presa solo oggi, alla luce dei primi voti segreti, quelli che
verificano l’aderenza dell’Italicum alla Carta costituzionale. «Scommetto che arriveremo
anche sopra quota 400, avremo più voti di quelli della maggioranza », pronosticava ieri in
Transatlantico il capogruppo facente funzioni Ettore Rosato. Un calcolo basato sulle voci
di uno smottamento di Forza Italia, ma anche sui ripensamenti in corso in una parte della
minoranza dem. A palazzo Chigi si sta monitorando minuto per minuto ciò che avviene
nell’opposizione interna. Si prende atto con soddisfazione che Roberto Speranza, ormai
capofila del dissenso, sta perdendo dei pezzi anche tra chi considera più vicino. I
bersaniani Matteo Mauri e Maurizio Martina, ministro dell’Agricoltura, hanno fatto sapere di
non voler mettere a rischio il governo e quindi la legge elettorale. Francesco Boccia,
sempre molto critico con le politiche renziane e sostenitore delle preferenze, ha fatto di
più: nel week end ha riunito la sua base in Puglia, ha messo ai voti le varie ipotesi in
campo compreso il voto di fiducia. A maggioranza hanno vinto i sì a favore dell’Italicum e
soprattutto del governo. Boccia si adeguerà all’indicazione dei suoi elettori.
La lettera aperta di 20 segretari regionali su 21 è un altro messaggio per chi ha ancora
voglia di sfidare il leader dem. Renzi lo interpreta in questo modo: «Significa che anche la
base sostiene la mia battaglia. Ormai, fiducia o non fiducia, è chiaro che non siamo
attaccati alla poltrona. Se vogliono ci possono mandare a casa». Ma quella lettera aperta
ha anche riflessi sulla sopravvivenza dei parlamentari in carica. In caso di elezioni, le liste
elettorali le fanno i dirigenti locali. Quindi chi sgarra avrà la vita difficile sul territorio, non
solo a Largo del Nazareno dove regnano i renziani. È vero che molti segretari provinciali si
sono rifiutati di sottoscrivere il testo del documento. È anche vero che i capi Pd delle
regioni sono stati eletti insieme al segretario nazionale perciò riflettono il risultato delle
primarie largamente (70 per cento) favorevole a Renzi. Ma l’accerchiamento nei confronti
della minoranza, tra minaccia del voto di fiducia, la lettera ai circoli e la missiva dei
regionali, ha ormai raggiunto l’apice. Per isolare ancora di più gli irriducibili, Renzi gioca
anche la carta del nuovo capogruppo. Speranza, secondo a Palazzo Chigi, ha scelto di
«stare con la vecchia guardia». Ma si può cercare dentro la minoranza il suo sostituto,
allargando la frattura tra dialoganti e l’ala dura. Ne farebbe le spese Rosato, il candidato in
pectore che da mesi svolge la funzione di capogruppo delle tesi “renziane” a Montecitorio
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durante la gestione di Speranza. Rosato è vicinissimo sia a Lotti sia al vicesegretario
Lorenzo Guerini. Il gioco però vale la candela, se l’obiettivo è evitare il voto di fiducia e
vincere la sfida dei voti segreti, sfida che segnerebbe sul serio un colpo mortale per le
voglie di rivincita del mondo anti-Renzi. Si corteggiano Enzo Amendola, responsabile
Esteri, e Cesare Damiano, decisivo nella mediazione sul Jobs Act. E se ci sarà bisogno,
Renzi procederà all’elezione del nuovo presidente dei deputati prima del voto sull’Italicum,
certificando il patto con le colombe. Altrimenti sarà Rosato a guidare il gruppo di 310 dem
nella battaglia in aula. Dunque, Luca Lotti e lo stesso Rosato aggiornano la lista dei sì e
dei no, aggiungendo nomi alla prima colonna. A Renzi vengono spediti via mail gli elenchi
in tempo reale con i passaggi da un fronte all’altro. Si può immaginare il successo
dell’Italicum senza fiducia calcolando gli 80 voti di margine di cui gode la maggioranza di
governo alla Camera. E il premier sogna una vittoria piena, che non lasci spazio a
polemiche. Ma, avverte Roberto Giachetti, «in questo clima l’incidente è sempre in
agguato. Non è solo un problema politico». Per questo il premier continua a pensare che
«non si possono prendere rischi sui voti segreti. Non ho ancora deciso: non escludo nulla
». Quello che conta è il risultato finale, cioè portare a casa la legge elettorale entro
maggio. Sapendo che al Quirinale hanno deciso di non intervenire. La posizione di Sergio
Mattarella, sull’ipotesi della fiducia, è quella della assoluta neutralità. Se i regolamenti la
consentono, se sul piano formale non c’è alcuna forzatura, il Colle non interverrà.
Del 28/04/2015, pag. 3
Renzi vuole stringere in settimana: con
l’ostruzionismo ci sarà la fiducia
di Maria Teresa Meli
ROMA
«È arrivato il momento di decidere: ognuno si dovrà prendere le proprie responsabilità,
avanti tutta»: è un Matteo Renzi determinato quello che ieri ha mobilitato il partito
sull’Italicum. A dargli manforte il ministro Boschi, Luca Lotti, sempre fondamentale, per il
premier, nei passaggi difficili, Lorenzo Guerini, che ha ottenuto il sì all’Italicum di 20 su 21
segretari regionali, e il vicecapogruppo vicario a Montecitorio Ettore Rosato.
Con questa squadra il presidente del Consiglio affronta la partita dell’Italicum, scegliendo
di prendere di petto la situazione. Oggi ci sarà la prova fedeltà — le votazioni sulle
pregiudiziali — dopodiché, se andranno come Renzi spera, si procederà per tutta la
settimana a ritmo serrato. L’idea del rinvio, sebbene tecnico, è stata archiviata dallo stesso
premier per non dare impressione di «arrendevolezza». «Io — ha spiegato ai suoi Renzi
— credo sul serio alla riforma e perciò non mi fermerò, perché non si può sottostare alla
dittatura di una minoranza della minoranza».
Il che non significa che, sotto traccia, non vi siano delle mediazioni in corso con l’area
riformista (uno dei più attivi nelle trattative è il ministro della Giustizia Andrea Orlando) per
limitare il numero degli emendamenti. Ma questo non cambia di una virgola gli
intendimenti del segretario: la legge va mandata in porto speditamente. «Alla fine — dice
Renzi ai fedelissimi — vedrete che il Pd apparirà più compatto di quanto possa sembrare
ora. Quelli che si schiereranno con noi saranno più del previsto. I numeri ci sono tutti e più
alcuni esasperano lo scontro, più aumentano quelli che stanno con noi. Senza contare che
Forza Italia sta esplodendo e che quindi è fisiologico che alcuni di loro ci supportino nel
voto». I numeri ci sono, ma il premier non rinuncia all’idea di mettere la fiducia. Anche se
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deciderà probabilmente oggi se utilizzare questo strumento. «Fosse per me — ha
confidato l’inquilino di Palazzo Chigi ad alcuni parlamentari — non porrei la fiducia, ma se
parte l’ostruzionismo diventa l’unica scelta possibile per evitare la paralisi. Certo non
possiamo rischiare di essere risucchiati dalla palude».
Dunque, il premier non sembra temere di dividere il partito in modo clamoroso, andando
avanti e mettendo nel conto la fiducia e una serie di votazioni a ritmo incessante per tutta
la settimana, rinviando alla prossima la fiducia e lo scrutinio finale. Nella minoranza, Renzi,
vede anche tanti giochi di «posizionamento» e alcune «finte», oltre che la volontà «dei più
di non rompere con la linea del partito e con il vincolo di lealtà che esiste nella nostra
comunità». Il premier non sembrerebbe temere nemmeno una scissione, sulla scia
dell’Italicum: «Io non ci credo», continua a ripetere ai collaboratori, sottolineando che la
linea dei pasdaran anti-riforma elettorale «è minoritaria». «Anche tra i militanti del partito
— è il succo dei ragionamenti che Renzi fa in questi giorni — questa resistenza all’Italicum
non c’è, anzi viene vista come una cosa incomprensibile, frutto dell’atteggiamento di alcuni
che sono prevenuti nei confronti del governo e che prescindono dal merito della legge
elettorale». Perciò quello che gli premeva (di qui la lettera ai circoli del Pd) era di
«spiegare bene al Partito democratico la posta in gioco e mi pare che i segretari regionali
lo abbiamo compreso perfettamente». Nessuna ansia di rottura, nessuna «prova di forza
tanto per farla», quindi, piuttosto, «la consapevolezza che, dopo mesi di lavoro e dopo
aver accettato alcune delle migliorie proposte dalla minoranza, non si può indugiare oltre»:
«Allora si che la gente non ci capirebbe più». Oggi si vedrà quanti, in Parlamento, sono
dalla parte di Renzi: una verifica importante anche se, secondo il premier, «la
maggioranza del nostro elettorato ha già scelto con chi stare».
Del 28/04/2015, pag. 1
Italicum, il fondato pregiudizio
La Consulta e la riforma Renzi. Può accadere ora con l’Italicum ciò che
poteva accadere con il Porcellum? Certamente sì
Massimo Villone
Renzi scrive ai democratici che è in gioco il futuro del partito. Può darsi. Ma non dice che
tutto viene dalla sua continua e arrogante prevaricazione per riforme istituzionali utili al suo
populismo plebiscitario, e non al paese.
Minaccia questioni di fiducia a raffica per mettere la mordacchia al dissenso Pd, ha ipotizzato di imbavagliare persino le pregiudiziali. Una pregiudiziale di costituzionalità
sull’Italicum è giustificata, perché il testo del senato non tiene conto dei principi stabiliti
dalla Corte costituzionale nella sentenza 1/2014, ed anzi ancor più se ne allontana.
Quanto alla rappresentatività e al voto eguale, il 40% invece del 37% di soglia per il premio di maggioranza lascia un megapremio del 15%. E in ogni caso è decisiva
l’introduzione del ballottaggio. La sentenza 1/2014 aveva inteso fulminare la possibilità —
si badi, non la certezza — che un ridotto consenso nei voti si traducesse in una maggioranza assoluta di seggi. Dunque la domanda è: può ora accadere con l’Italicum ciò che
poteva accadere con il Porcellum? Certamente sì, perché al ballottaggio si arriva senza
soglia. Accedono le due liste più votate al di sotto del 40%, quale che sia la percentuale
conseguita. Anche se, per esempio, fosse il 15 o 20%. E se per ipotesi tutti gli aventi diritto
al voto confermassero nel ballottaggio la scelta fatta nel primo turno, quel 15 o 20% si tradurrebbe magicamente nel 55% dei seggi. Il tutto è aggravato dal premio alla singola lista
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e non alla coalizione. Che il ballottaggio curi i difetti del Porcellum è un ingannevole gioco
di specchi. Quanto alla libertà degli elettori di scegliere i rappresentanti, non basta limitare
il blocco ai capilista. Già rileva che sarebbero di fatto un’ampia maggioranza degli eletti.
Ma ancor più conta che ogni elettore vota necessariamente anche il capolista. E se non lo
vuole? Non può volere per una parte, e disvolere per un’altra.
Il voto di tutti è inevitabilmente condizionato ex lege, e quindi per definizione non è libero.
Con argomenti analoghi la Corte costituzionale richiede un quesito univoco, omogeneo
e ispirato a una matrice razionalmente unitaria come requisito per l’ammissibilità del referendum abrogativo ex articolo 75 della Costituzione.
Le opposizioni hanno dunque motivo per la pregiudiziale, e possono chiedere il voto
segreto. Può il governo alzare il muro della questione di fiducia?
Nel gennaio 2014 la Camera discuteva la legge elettorale. Partivano la scalata di Matteo
Renzi a Palazzo Chigi, ancora occupato da Enrico Letta, e la stagione del Nazareno. Sulla
pregiudiziale a prima firma Migliore (allora capogruppo di Sel, ora Pd) si votò a scrutinio
segreto, su richiesta dello stesso Migliore (AC, 31.01.2014, p. 9–11). Nessuno parlò di
fiducia. Un precedente si trova nel 1980, con la fiducia posta da Francesco Cossiga sulla
reiezione della pregiudiziale di costituzionalità a un decreto legge (AC, 26.08.1980, p.
17291). Ancora oggi val la pena di leggere l’opinione contraria di Stefano Rodotà
(p. 17293). Ribadisco per la pregiudiziale la prevalenza della richiesta di voto segreto già
argomentata su queste pagine in materia di legge elettorale. In ogni caso, la vicenda del
1980 non sarebbe un buon precedente, essendo il voto segreto per il regolamento di allora
previsione di ordine generale, e non mirata a ipotesi tassative come è oggi. Proprio dalla
tassatività dovrebbe venire un favor per la segretezza laddove richiesta. Del diverso contesto la presidenza dell’Assemblea, il cui primo dovere è garantire la libertà dell’istituzione
parlamentare e non il successo del governo, deve tener conto. E cosa è poi la questione di
fiducia se non la richiesta di un voto per appello nominale? Se è così, scompare forse
l’articolo 51.3 del regolamento della Camera, per cui «nel concorso di diverse richieste
prevale quella di votazione per scrutinio segreto»? Conclusivamente, tre punti. Il primo.
Dal gennaio 2014 Renzi si è indebolito, pur essendo oggi premier. Puntare tutto sul patto
del Nazareno fu un errore che ora gli si riverbera contro. Il secondo. Il continuo ricatto —
crisi, scioglimento anticipato — ci mostra come Renzi intende il parlamento e la politica in
generale. Il terzo. Si conferma che Renzi vuole imporre, approfittando della scalata al partito e a Palazzo Chigi, istituzioni prive di largo consenso, e persino minoritarie. Come questo dia forza e stabilità al paese qualcuno ce lo deve spiegare. E non basterebbe a tal fine
il regalo — per niente certo — allo stesso Matteo Renzi di qualche altro anno a Palazzo
Chigi. Molto dipende dai tremebondi esponenti della sinistra (?) Pd. È difficile capirli.
Ormai, il segretario ne ha dichiarato la morte politica, e la lettera è l’ultimo certificato.
Cos’altro deve fare? Passarli nel catrame e nelle piume? Per il resto, tutto il mondo già
pensa che — con eccezioni — barattano il paese e le istituzioni con qualche mese di
scranno parlamentare o pochi centesimi di vitalizio. Uno scambio miserabile. Nessuno più
compra la mistica della «ditta». Ma quale ditta, se un ex-segretario come Pier Luigi Bersani non viene nemmeno invitato alla festa dell’Unità, dove — come dichiara — sarebbe
andato anche a piedi? Se non ritrovano qui e ora, nell’ultimo momento utile, una ragione di
esistere e una dignità ormai personale prima che politica, al prossimo turno elettorale
saranno comunque merce avariata. I servizi resi non ridanno una verginità politica
perduta. Una lettera del segretario come quella di ieri attesta che un partito è mera apparenza. Qualcuno dovrebbe spiegare a Renzi che il futuro del partito se l’è già giocato. E ha
fatto tutto da solo.
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del 28/04/15, pag. 1/13
Due partiti in uno e l’arma elettorale
nell’ultima battaglia sull’Italicum
DI STEFANO FOLLI
C’È MOLTO nervosismo alla Camera intorno alla riforma elettorale. E si capisce. Se
l’Italicum nei prossimi giorni sarà legge, finisce il Pd come lo abbiamo conosciuto in questi
anni. Il Pd la cui storia remota comincia con la caduta del muro di Berlino e la
trasformazione del Pci, ma i cui padri sono molteplici: il Pds, i Ds, l’Ulivo prodiano, in parte
la sinistra cattolica. Una certa storia va a concludersi, resa obsoleta dalla crescita
abnorme e rapida del «partito di Renzi». Da cui un’ulteriore stranezza: la raffica di voti di
fiducia che il presidente del Consiglio è tentato di autorizzare contro una componente del
suo stesso partito, quel Pd di cui egli è il segretario. Una fiducia sulla legge elettorale
posta dal premier-segretario contro la minoranza interna.
Ci stiamo inoltrando, non c’è dubbio, su un terreno semi-inesplorato, almeno nella nostra
vicenda parlamentare (c’è solo il precedente, ma in tutt’altro contesto, della fiducia sulla
legge maggioritaria del ‘53, non paragonabile all’Italicum). È come se i due partiti che
ormai convivono dentro il recinto del Pd fossero arrivati alla resa dei conti finale. Questo
non significa che all’orizzonte si delinea con certezza una scissione: anche perché con la
riforma in atto lo spazio elettorale a sinistra diventa davvero esiguo. Per paradosso,
sarebbe più pratico organizzare una corrente dentro i confini del partito renziano, ma nella
consapevolezza di un campo comunque esiguo e con possibilità di condizionare il gioco
politico altrettanto modeste, per non dire nulle.
In altre parole, una trappola per le componenti «storiche» del Pd. Un esito che per certi
versi sembra assomigliare all’estinzione della vecchia tradizione del «labour» britannico,
esautorato e via via cancellato dall’irruzione sulla scena di Tony Blair. Ce n’è abbastanza
allora per spiegare il nervosismo che serpeggia a Montecitorio. Gli oppositori di Renzi nel
Pd gli hanno lasciato un margine troppo ampio e adesso si rendono conto che la battaglia
è persa, salvo sorprese sempre possibili ma poco probabili. La denuncia tardiva della
«deriva autoritaria» del premier tradisce perciò la debolezza politica della minoranza, più
che annunciare la sua riscossa.
Nel frattempo tutti, anche i meno risoluti nel dire «no» alla riforma, hanno modo di
verificarne i primi effetti. Persino in anticipo sui tempi parlamentari. La determinazione con
cui Renzi ricorda che la vita del governo e della legislatura è legata all’approvazione
dell’Italicum è significativa. È come se il premier dicesse che, in qualità di segretario del
Pd, non permetterà la nascita di altri governi dopo le sue dimissioni. Un tempo questi
orientamenti emergevano dagli uffici direttivi dei partiti e venivano comunicati al capo dello
Stato, una volta avviata la crisi, ben sapendo che le decisioni ultime spettavano a lui.
Adesso è tutto più esplicito e diretto. Con l’Italicum in tasca, è evidente che il presidente
del Consiglio si ritiene in grado di determinare la durata della legislatura: lunga o breve, a
seconda delle circostanze.
Sotto questo aspetto, la lettera inviata ai quadri del Pd costituisce un documento di
notevole interesse. È un appello ai dubbiosi perché scelgano oggi, e non domani, da che
parte schierarsi. Vi si affermano i contorni di un progetto riformatore ambizioso e si lascia
capire che dall’altra parte, nella trincea degli avversari del leader, non c’è una prospettiva.
Il sottinteso fin troppo trasparente è che il futuro di ognuno sta nella lealtà al premiersegretario nell’ora in cui questi coglie la vittoria parlamentare più rilevante.
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Il che spiega l’urgenza dell’Italicum, la fretta di mettere in cascina una riforma che
dovrebbe essere applicata per la prima volta nel 2018: cioè fra tre anni, se fosse valida la
promessa di Renzi di portare a compimento la legislatura. Ma non è un caso che la lettera
sia anche un perfetto manifesto elettorale. Un bilancio delle cose fatte e di quelle in
cantiere, un programma per chiedere agli elettori un altro mandato. Può servire quasi
subito o fra un anno, due o tre. Si vedrà strada facendo.
del 28/04/15, pag. 4
L’Anpi non cambia verso
Tutti i no all’Italicum
IL PREMIER SI VANTA DEL SOSTEGNO DEI PARTIGIANI: MA IN TANTE
PIAZZE ITALIANE IL 25 APRILE È STATO ANCHE UN GIORNO DI
RIVOLTA CONTRO LE RIFORME RENZIANE
Matteo Renzi lo ripete (ufficiosamente) da giorni: “Mi contestano sull’Italicum, ma quando
sono stato a Marzabotto i partigiani di novant’anni mi hanno detto: ‘Vai avanti”. Luca Lotti
invece lo ha promesso nero su bianco su Repubblica: “Cambieremo la Costituzione nel
solco della Resistenza”. Nel pieno dello scontro sull’Italicum, Renzi e il suo “giglio magico”
rivendicano l’appoggio di chi fece la Resistenza, come a cercare una legittimazione. Ma
l’Anpi, l’associazione nazionale dei partigiani, a gennaio ha lanciato un appello contro la
legge elettorale e l’abolizione del Senato, che già contestava da un anno. E il 25 aprile, nel
70° anniversario della Liberazione, ha ribadito il no alle riforme renzianissime in tante
piazze d’Italia.
di Luca De Carolis
Roma, Porta San Paolo: Ernesto Nassi e Tina Costa
“La legge elettorale e la riforma del Senato di questo governo sono un rischio concreto per
la nostra democrazia e la nostra Costituzione”. Ernesto Nassi, presidente dell’Anpi di
Roma, lo ha sibilato davanti al palco di Porta San Paolo: il luogo dove iniziò la resistenza
partigiana nella capitale, nel quale il 10 settembre 1943 l’esercito italiano e tanti volontari
cercarono di fermare l’occupazione tedesca della città. “Atti di autoritarismo sono già in
atto, in commissione Affari costituzionali hanno tolto dieci deputati così, in un sol colpo”
ricordava Nassi. Convinto che “con un Senato non elettivo è a rischio la Carta”. Accanto a
lui Tina Costa, 90 anni, “staffetta” sulla Linea Gotica durante la guerra: “Rischiamo che ci
tolgano la libertà, e la libertà è stata scritta con fiumi di sangue. La Costituzione non può
essere cambiata, va applicata”.
Treviso, piazza dei Signori: Umberto Lorenzoni
Quasi una parola d’ordine, lanciata dal palco: “Oggi la Resistenza va portata avanti contro
la deriva autoritaria”. Umberto Lorenzoni, 88 anni, presidente dell’Anpi di Treviso, ce
l’aveva con le riforme di Renzi: “L’I t alicum è peggio del Porcellum, e non si rispetta la
Costituzione”. Il partigiano che la guerra l’ha combattuta sulle Prealpi (nome di battaglia,
Eros) vuole stare ancora in trincea: “Non intendo offendere nessuno, ma come Anpi
saremo sempre a difesa dei valori della Costituzione repubblicana”.
Alessandria, quei no alla Boschi e alla Pinotti
Il caso è tracimato anche sulla stampa nazionale, la settimana scorsa. Perché ha fatto
rumore il veto dell’Anpi di Alessandria (e di quella nazionale) al ministro Maria Elena
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Boschi, la responsabile delle Riforme, come oratore nella celebrazione cittadina della
Liberazione. L’a v eva invitata il sindaco, Maria Rita Rossa, renziana. Boschi non avrebbe
comunque potuto accettare, avendo già scelto Sant’Anna di Stazzema per il suo 25 aprile.
Ma l’Anpi (che avrebbe voluto Sergio Cofferati) ha subito fatto muro: contro la Boschi,
come contro Andrea Orlando e Roberta Pinotti, altri nomi proposti dal sindaco. “Nulla di
personale, solo una questione di opportunità politica” ha dichiarato al Secolo XIX il
vicepresidente provinciale, Roberto Rossi, spiegando: “Non condividiamo la riforma
costituzionale che questo governo sta portando avanti, così come non ci convince il
progetto della nuova legge elettorale. Immagini cosa sarebbe successo il 25 aprile: allo
stesso microfono la Boschi avrebbe difeso le riforme e noi le avremmo contestate.”. E
sono stati fiumi di polemiche, nella Liguria dove la sinistra e il Pd sono spaccati in vista
delle Regionali. E l’Anpi, con una nota, ha optato per un no più istituzionale: “Non
possiamo accettare come oratore ufficiale per il 25 aprile un ministro che rappresenta la
maggioranza degli italiani, ma non tutti i cittadini, mentre la Resistenza è patrimonio di tutti
gli antifascisti”.
Catania, palazzo del Comune: Santina Sconza
“Si ribelli al governo Renzi”. La presidente dell’Anpi di Catania, Santina Sconza, lo ha
tuonato in faccia al deputato del Pd Giovanni Burtone, nel bel mezzo della cerimonia per i
70 anni della Liberazione, nel cortile del palazzo comunale. “Lei deve ribellarsi a questo
esecutivo che vuole stravolgere la Costituzione, frutto delle lotte partigiane” lo ha esortato
dal microfono, sotto gli occhi Santino Serrao e Nicolò Di Salvo, gli ultimi due partigiani di
Catania ancora in vita. Burtone, figlio di un altro partigiano, ha cercato una via d’uscita:
“Non sono qui in rappresentanza di un partito politico, sono qui perché qui mio padre ogni
anno faceva il suo discorso”. Ma Sconza l’ha ripetuto: “La Costituzione non si tocca”.
Piacenza, piazza Cavalli: l’oratore Bersani
Ha giocato in casa, con evidente soddisfazione. Il 25 aprile Pier Luigi Bersani l’ha
celebrato nella sua Piacenza, come oratore graditissimo all’Anpi. Contenta, di sentirgli
dire: “Davanti ai cambiamenti bisogna sapere dove mettere i piedi, con una
semplificazione della democrazia si possono indebolire la mediazione sociale e il ruolo dei
soggetti della società. Cambiamenti per adeguarsi ai tempi sì, ma nel solco di quei valori di
70 anni fa”. Parole di protesta, nel giorno della Liberazione. E dell’Anpi, non proprio
renziana.
Del 28/04/2015, pag. 3
Italicum, un voto per la Costituzione
Appello. I parlamentari ritrovino la propria dignità e la forza di
rappresentare davvero la nazione senza vincolo di mandato
L’avvicinarsi del voto in Aula sull’Italicum dà luogo, per il merito e il metodo delle scelte fin
qui praticate, a preoccupazioni e timori.
È grave che si arrivi a una legge elettorale che non cancella le storture del Porcellum,
e non tiene conto dei chiari principi posti dalla Corte costituzionale nella sentenza 1/2014,
sulla rappresentanza e sul voto libero ed uguale come pietre angolari del sistema democratico. Principi che vengono ulteriormente lesi dalla riforma costituzionale contestualmente in discussione.
È grave che si giunga alla fase conclusiva dell’iter legislativo attraverso ripetute forzature
e violazioni di prassi, regolamenti, e persino della Costituzione, che vanno dalle straordinarie accelerazioni nei lavori alle sostituzioni forzose di dissenzienti con palese lesione
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delle garanzie a ciascun parlamentare riconosciute. Forzature e violazioni che potrebbero
ora giungere alla negazione del voto segreto a richiesta sancito dal regolamento Camera
per la legge elettorale. È grave che tutto questo accada per scelta di una parte del Pd,
minoranza in Parlamento e nel paese, che attraverso i meccanismi della disciplina interna
di partito vuole imporre la propria decisione come volontà maggioritaria dell’istituzione. Per
di più approfittando di numeri parlamentari dichiarati illegittimi dalla Corte costituzionale al
fine di smantellare un’architettura democratica che fu costruita sull’amplissimo consenso di
tutte le forze antifasciste attente ai diritti e alle libertà. Chiediamo a tutti i parlamentari di
ritrovare la propria dignità e la forza di rappresentare davvero la nazione senza vincolo di
mandato, come la Costituzione loro garantisce ed impone.
Pietro Adami, Cesare Antetomaso, Giorgio Antonangeli, Gaetano Azzariti, Francesco Baicchi, Alberto Benzoni, Felice Besostri, Sandra Bonsanti, Antonio Caputo,
Lorenza Carlassare, Sergio Caserta, Giuseppe Maria Cassano, Paolo Ciofi, Claudio
De Fiores, Giovanna De Minico, Enzo Di Salvatore, Anna Falcone, Antonello Falomi,
Gianni Ferrara, Costanza Firrao, Tommaso Fulfaro, Domenico Gallo, Maurizio Giancola, Alfiero Grandi, Francesca La Forgia, Raneiro La Valle, Paolo Leonardi, Silvia
Manderino, Maurizio Marcelli, Monica Minnozzi, Ubaldo Nannucci, Giovanni Palombarini, Alba Paolini, Francesco Pardi, Paola Patuelli, Vincenza Rando, Maria Ricciardi Giannoni, Franco Russo, Giovanni Russo Spena, Cesare Salvi, Antonia Sani,
Linda Santilli, Paolo Solimeno, Lanfranco Turci, Nadia Urbinati, Massimo Villone,
Vincenzo Vita, Emilio Zecca
del 28/04/15, pag. 13
Fi, il nuovo triumvirato Rossi, Tajani e Fiori
defenestrano Verdini
Le decisioni sulle regionali sanciscono il passaggio di potere Lo
“zampino” della Pascale in Campania. Per Fitto il logo “Oltre”
CARMELO LOPAPA
ROMA .
Il triumvirato ha deciso della “vita” e della “morte” di aspiranti candidati e consiglieri uscenti
a caccia di conferma, blindato fino a ieri sera in una stanza al primo piano di San Lorenzo
in Lucina. Ultimi ritocchi alle liste di Puglia e Toscana, le regioni dei dissidenti in odor di
scisma Fitto e Verdini. Ora il più è fatto. Ma con questa operazione Mariarosaria Rossi,
Antonio Tajani e Marcello Fiori si insediano alla guida del partito, in mano loro le chiavi che
più pesano: quelle della selezione dei candidati. Coordinatori di fatto della futura Forza
Italia, mentre un leader sempre più distratto e immerso nei dossier Milan e Mediaset (di
ieri l’interesse rilanciato dai francesi di Vivendi), si terrà lontano da Roma anche in questa
settimana pur delicata, tra Italicum e chiusura liste per le regionali del 31 maggio.
Non che l’amministratrice e tesoriera Rossi, il vicepresidente del Parlamento europeo
Tajani (che per di più sogna di diventare presidente tra un anno) e il neoresponsabile enti
locali Fiori riceveranno quell’incarico formale. Di coordinatori non ci sarà più bisogno, va
ripetendo in questi giorni Berlusconi ai tanti che gli chiedono cosa sarà questo Partito
repubblicano all’americana tanto sbandierato. «Partito leggero, niente organigrammi,
funzionerà come un comitato elettorale in prossimità delle elezioni», è la sua risposta. Sta
di fatto che lo scettro che per parecchi anni è stato del plenipotenziario sulle candidature,
Denis Verdini, adesso è passato di mano, il senatore toscano è stato tenuto fuori dalla
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decision room di San Lorenzo in Lucina (dove pure mantiene un ufficio). A lui è stata
garantita, nella messa a punto di ieri, la ricandidatura dei suoi consiglieri uscenti in
Toscana, anche per evitare lo strappo definitivo, affiancati però da un certo numero di
candidati vicini a Deborah Bergamini. Ma il potere reale sta ormai altrove. Anche perché i
triumviri appena insediati sono destinati a dettare legge ormai anche alle future politiche,
integrati però da Giovanni Toti, consigliere politico del capo per adesso impegnato nella
campagna in Liguria, e dalla stessa Bergamini, responsabile comunicazione. Chi cerca i
nuovi potenti, i pochi che contano davvero in quel che resta di Forza Italia, è alla porta di
questi cinque che deve bussare.
Di candidati, i tre in questi giorni ne hanno respinti almeno dieci, perché - raccontano - il
debito nei confronti del partito era incolmabile. Altre decine di candidati sono stati graziati
da una maxi sanatoria dell’ultimora con pagamento di “una tantum” alle casse di Forza
Itadi lia o con l’impegno a organizzare incontri e appuntamenti elettorali in questo mese di
campagna. Perché l’essere in regola coi contributi al partito è una delle tre condizioni
fondamentali dettate dalla Rossi nella circolare di un mese fa. Parità di genere e tra
uscenti e volti nuovi sono le altre “svolte” introdotte nelle liste di Forza Italia che non
avranno più il nome Berlusconi a trainarle. «Mi ritengo soddisfatta del lavoro fatto » si
limita a dire Mariarosaria Rossi, che è andata avanti col lavoro nonostante le diffide e le
denunce (dal campano D’Anna) di chi la ritiene priva di legittimazione. Avvocati difensori
incaricati da Fi sono pronti a entrare in azione in queste ore per respingere eventuali
istanze last minute davanti ai giudici. Va detto che la terna dei plenipotenziari è stata via
via affiancata da pochi, fidati e interessati fedelissimi. Quando si è discusso delle liste in
Campania, per esempio, oltre al coordinatore Domenico De Siano sembra che un occhio
lo abbia buttato anche Francesca Pascale, compagna del leader. E poi Toti sulla Liguria,
Brunetta sul Veneto, Bergamini sulla Toscana.
Fitto intanto è già “Oltre”, il nome del suo listone civico che in Puglia sosterrà Francesco
Schittulli contro la forzista Poli Bortone. Se seguirà immediata scissione con nascita dei
gruppi parlamentari autonomi dipenderà dalla reazione di Berlusconi.
del 28/04/15, pag. 9
Nella scuola dei “celerini”2.0 si preparano le
giornate di Milano
PER GLI 007 L’ESPOSIZIONE SARÀ “UN NUOVO G8”, RISCHIO DI
SCONTRI CON GLI ANTAGONISTI
di Silvia D’Onghia
inviata a Nettuno (Roma)
Venite con noi, partite alle 3 di notte e fatevi tutta la giornata a Milano. Sperando che non
accada nulla. Ma, se accade, siate pronti a prendervi pietre e insulti. Mantenete la calma.
E dopo tante e tante ore così, provate a tornare a casa sereni. Poi vediamo da che parte
state”. Chi parla è consapevole del rischio che il primo maggio, Festa del lavoro e
inaugurazione dell’Expo 2015, possa diventare anche una giornata di scontri. I 490
obiettivi sensibili verranno presidiati da 3.796 uomini, di cui 2.558 tra poliziotti, carabinieri,
finanzieri. L’aria è pesante, molti siti antagonisti annunciano battaglia, la Digos lavora, i
servizi segreti parlano di un “nuovo G8 di Genova” ma alla fine chi rimane in prima linea
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con gli scudi sono loro, i poliziotti dei reparti mobili di tutta Italia, compresi quelli che sono
venuti ad addestrarsi qui.
“UNA VOLTA sono andato a cena con un giornalista e alla fine questo mi guarda e mi fa:
‘Ma lo sai che sei addirittura simpatico?’”. La distanza tra loro e il mondo, soprattutto la
stampa, sta tutta in questa battuta. Siamo a Nettuno, 50 mila abitanti 60 km a sud di
Roma, lungo il litorale pontino. Inaugurato alla fine del 2008, il centro di formazione per la
tutela dell’ordine pubblico è la scuola voluta dall’ex capo della polizia, Antonio Manganelli,
e rilanciata fortemente dall’attuale, Alessandro Pansa: si sentiva la necessità di una
riforma culturale, prima ancora che operativa, dell’attività in piazza. Genova 2001 non
sarebbe dovuta più tornare e, poco prima del nuovo G8 a L’Aquila, bisognava individuare
le strategie necessarie e, soprattutto, formare il personale. Siamo i primi giornalisti a
entrarci. “Eravamo consapevoli degli errori commessi spiega al Fatto il responsabile del
settore stampa del Dipartimento di pubblica sicurezza, Girolamo Lacquaniti – e dovevamo
ripartire da quelli per poterli superare. Ai nostri allievi mostriamo ancora le immagini più
cruente del G8, e chiediamo loro se sarebbero fieri di mostrarle ai loro figli”. Da qui
passano migliaia di uomini: tutti i reparti mobili d’Italia, i funzionari, i ruoli apicali degli
ispettori e gli istruttori di tecniche operative. Sono full immersion di due settimane o mini
corsi di due giorni. Lezioni teoriche e addestramento, per curare la formazione – anche
psicologica – e le modalità di intervento. In questa piccola città con tanto di strade coi nomi
– la scuola ospita molte specialità –ci sono campi sportivi e persino una cappella con
parroco annesso. E c’è un enorme piazzale disteso tra aule e alloggi di servizio. Quando
arriviamo, accompagnati dal direttore del centro, Stefano Valeri, troviamo già schierate le
camionette blu, quelle che si utilizzano in piazza per dividere i manifestanti dalle divise.
“Fateci caso –ci spiegano –a differenza di qualche anno fa, oggi preferiamo sacrificare i
mezzi: con quelli creiamo una barriera, per evitare il più possibile il contatto fisico. Meglio
far danneggiare una camionetta che far partire una carica”. E però, qui si prova anche
quella. Gli agenti scendono e si schierano, in pochi secondi si forma la testuggine. Si
avanza compatti, si indietreggia compatti, scudi levati e caschi in testa. Dall’al - tra parte
un gruppo di figuranti –spesso gli istruttori –aizza i poliziotti. All’improvviso il caposquadra
urla la carica. E anche se sai che è solo un’esercitazione, l’adrenalina si sente. Qui
nessuno si fa male, non ci sono sassi né teste rotte, ma gli uomini vengono portati al livello
massimo di stress per tentare di prevenire colpi di testa. La squadra è un’unità operativa e
ogni uomo ha il suo ruolo. “Per questo quando il singolo commette un errore, mette a
rischio l’incolumità di tutti”. Qui chiamano “errore” quel che la cronaca traduce con “abuso”.
“Se uno sbaglia – racconta un istruttore – noi passiamo due giorni ad analizzare l’accaduto
perché non si ripeta”. Sono tutti consapevoli che l’immagine che si ha della vecchia
“celere” non è delle migliori, complici le dirette tv, le foto, qualche “cre - tino” di troppo e i
commenti su Facebook. E allora si sta attenti persino alla terminologia: si dice sfollagente,
non manganello. Suona meglio, fa meno paura. “Lo sfollagente resta al suo posto il più
possibile – racconta Valeri –appeso alla tuta insieme con la maschera antigas”. Nelle
tasche del gilet, però, ci sono anche gli spazzolini da denti. “Persino quando stai tornando
a casa dopo 12 ore di servizio può capitare che ti dirottino a 300 km”. Non è una scelta
facile: restare tante ore in piedi, prendersi sputi e vernice e sassi e insulti senza perdere la
pazienza è un esercizio quotidiano.
L’ETÀ MEDIA degli uomini è relativamente alta: non ci sono più i pischelli, i giovani, da
quando la leva non è più obbligatoria. Qui si arriva dopo quella volontaria, nell’eser - cito, o
dopo una richiesta di cambio reparto. Qualcuno dice che si sceglie questa vita per soldi –
gli straordinari vengono pagati per intero, senza il tetto delle 25 ore che c’è negli altri
reparti – qualcun altro si arrabbia al solo sentirlo dire. L’eco del post di Fabio Tortosa su
Facebook (“Alla Diaz rientrerei mille e mille volte”) è ancora viva. “Il collega è stato
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frainteso e la stampa ha montato un caso”, questo è il sentire comune qui. Perché la
stampa travisa sempre, perciò è bene non fidarsi. “I giornalisti sono solo a caccia di
scoop”. Sono diffidenti, gli uomini di questo difficile reparto, pensano di essere i soli a
pagare, i più esposti ai provvedimenti disciplinari. Guardano con diffidenza, se ficchi il
naso tra le loro cose, e solo dopo un’ora e mezza di parole, anche dure, un punto di
incontro forse si può trovare: il dialogo fa meno male dello sfollagente. Forse anche a
Milano.
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RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
del 28/04/15, pag. 9
Ban Ki-moon: “Con l’Italia contro i trafficanti”
Il segretario generale dell’Onu insieme a Renzi e Mogherini nel Canale
di Sicilia: “Priorità dev’essere salvare vite umane” Si lavora a
risoluzione. Salvini bloccato dai migranti a Porto Recanati: “Questo
significa che lo Stato non fa il suo dovere”
ALBERTO D’ARGENIO
ROMA .
«La priorità è salvare vite umane». L’Italia trova l’appoggio del segretario generale delle
Nazioni Unite Ban Ki-moon nella lotta ai trafficanti che, stime di Amnesty International, nei
primi quattro mesi dell’anno hanno mandato a morire nel Canale di Sicilia 1.700 migranti.
Un sostegno politico che potrebbe rivelarsi decisivo per l’Italia che dopo avere
europeizzato la crisi in seguito alla tragedia di dieci giorni fa al largo della Libia, ora prova
a internazionalizzarla per trovare le risposte più efficaci alla tragedia umanitaria nel
Mediterraneo.
Ban Ki-moon è volato insieme al premier Renzi e all’Alto rappresentante dell’Unione,
Federica Mogherini, sulla nave San Giusto, impegnata al largo di Lampedusa. Prima un
colloquio tra i tre, poi un briefing con il capitano dell’unità militare italiana. Dopo la
missione Ban Ki-moon ha sottolineato che «l’Italia non può fare tutto da sola, dobbiamo
trovare una soluzione politica per gli immigrati nel Mediterraneo anche a terra, in
particolare in Libia, e per l’instabilità in Nord Africa».
Renzi saluta le parole di Ban Ki-moon: «Prima eravamo soli, ora l’intera comunità
internazionale è consapevole che si tratta di un problema globale, fermare i trafficanti per
evitare una catastrofe umanitaria è una assoluta priorità e contiamo sul sostegno delle
Nazioni Unite».
Fonti presenti all’incontro assicurano che il segretario Onu si è impegnato a includere nel
mandato di Bernardino Leon, inviato del Palazzo di Vetro in Libia, l’obiettivo di convincere
le fazioni libiche a contrastare il traffico di esseri umani, ha condiviso la necessità di lottare
contro la tratta per fermare il finanziamento dei terroristi, ha concordato sull’esigenza di
condividere i costi dell’emergenza e condiviso l’idea di contrastare l’ingresso in Libia dei
migranti rinforzando la presenza dell’Unhcr nei paesi confinanti, a partire dal Niger.
Intanto Mogherini ha sentito il russo Lavrov e da oggi sarà negli Usa dove incontrerà i
paesi Ue nel consiglio di sicurezza e il suo presidente di turno, la Giordania, mentre
settimana prossima sarà in Cina. L’obiettivo è coagulare il consenso per una risoluzione
Onu chiesta anche dal Consiglio europeo di giovedì scorso per intervenire contro i
trafficanti, anche direttamente con il sequestro e la distruzione dei barconi.
Ieri intanto Matteo Salvini è stato accolto a Macerata da un lancio di uova, bottiglie e
pomodori da parte di manifestanti dei centri sociali, poi caricati dalla Polizia. Quindi il
segretario della Lega è stato bloccato da un cordone di immigrati mentre cercava di
entrare all’Hotel House di Porto Recanati, un condominio multietnico che il capo leghista
vorrebbe «radere al suolo con la ruspa».
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del 28/04/15, pag. 8
Accoglienza. Vertice al Viminale con l’Anci: obiettivo raddoppiare la
disponibilità di posti
Nei Comuni 20mila rifugiati in più
ROMA
Raddoppio dei posti di accoglienza dei rifugiati nei Comuni: dagli attuali 20mila a 40mila.
La scommessa sta nell’intesa tra l’Anci (l’associazione nazionale dei comuni italiani) e il
Viminale alla riunione della scorsa settimana per il tavolo di coordinamento
sull’immigrazione presieduto dal sottosegretario all’Interno Domenico Manzione. L’idea è
di puntare sulla struttura già in funzione presso i Comuni (lo Sprar, sistema di protezione
per richiedenti asilo e rifugiati): per gli altri 20mila posti che dovranno essere messi a
bando serve il via libera del ministero dell’Economia.
Piero Fassino, numero uno dell’Anci e sindaco di Torino, sta facendo pressing per una
presenza più forte dei municipi nella partita immigrazione, mentre le Regioni - causa
contingente le elezioni a fine mese prossimo - sono più prudenti con alcune, Veneto e
Lombardia, proprio indisponibili all’accoglienza di nuovi immigrati. La realtà concreta è che
il ministero guidato da Angelino Alfano può, solo per ora, trattenere il fiato: i centri sono
tutti al completo ma il mare agitato impedisce il flusso intenso di sbarchi dei giorni scorsi.
Una ripresa improvvisa degli arrivi, tuttavia, è nel conto delle previsioni e i timori stanno
tutti nei numeri: se saranno alti, la probabilità di prendere decisioni contestate è alta.
Il prefetto Mario Morcone, numero uno del dipartimento Libertà civili, ha pronta una
circolare sull’accoglienza per coinvolgere nella pienezza dei loro poteri i prefetti,
soprattutto se le autorità locali saranno recalcitranti. L’idea di fondo è parcellizzare
l’accoglienza anche nei Comuni più piccoli ma davanti agli arrivi in massa tengono banco
nelle discussioni in atto altre due soluzioni, a dir poco controverse: le tendopoli o, in
alternativa, l’utilizzo delle caserme militari, a loro volta ripartite tra quelle dismesse o
ancora in uso. Chi sostiene le tendopoli argomenta che sono per definizione strutture
provvisorie, ma certo problemi numerosi già in passato ne hanno dati. Chi è a favore delle
caserme sottolinea la rapidità e l’efficacia di questa soluzione; ci sono però anche
numerose obiezioni, compresa quella che le strutture rischiano di diventare edifici
permanenti di accoglienza per immigrati.
Il 7 maggio ci sarà una riunione al ministero dell’Interno con Alfano e i vertici di Anci e
della conferenza delle Regioni. Al ministero è in corso di definizione il testo di un nuovo
decreto legislativo in attuazione della direttiva 213/33 Ue in materia di accoglienza. Un
fatto resta certo, per adesso: il no di Palazzo Chigi al ricorso a una dichiarazione di
emergenza nazionale.
del 28/04/15, pag. 9
Quingentole (Mantova) è uno delle centinaia di paesi che accolgono chi
attende una risposta “Le prefetture ci abbandonano e la gente è stufa”
“Noi, respinti da tutti e senza un futuro”
Nel limbo dei profughi che richiedono asilo
JENNER MELETTI
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QUINGENTOLE (MANTOVA) .
In piazza Italia, bella e grandissima, ci starebbero tutti, i 1.200 abitanti del paese. E anche
quelli dei paesi vicini. «Però sai — dice Haamed, pachistano, occhi che cercano di
guardarti dentro — fai il giro della piazza, torni in viale dei Tigli, arrivi all’argine del Po e
torni sulle panchine della piazza. Non c’è nient’altro da fare. Qui il giorno non finisce mai.
Aspetti e poi ti siedi sul tuo letto in hotel e torni ad aspettare. Io sono qui da un anno e 15
giorni».
«Qui» è una stanza dell’ex hotel New Garden, due letti singoli, niente comodino, niente
abat jour, niente tv. Ce n’è solo una in quella che era la sala della reception. Hanno
attraversato l’inferno, Haamed e gli altri, sui barconi o chiusi nei Tir. Non hanno trovato il
purgatorio (figurarsi il paradiso) ma solo il limbo. Né salvi né dannati, per un tempo che
sembra eterno. «Il paese? Ci sono persone brave. Una signora mi chiama quando deve
uscire di casa, perché si è fatta male a una gamba». Haamed fa finta di non sapere come
la pensino davvero gli anziani del circolo Arci, che pure lo salutano, quando passa anche
dieci o venti volte al giorno. Quingentole è solo uno delle centinaia di paesi dove «vivere »,
per chi è arrivato dall’altra parte del mondo, è una parola grossa. Si dorme, si mangia.
Soprattutto si passeggia. Non tutti, però. Solo i pachistani escono dall’hotel e magari
danno una mano all’anziano che sta spaccando la legna. Gli altri, ghanesi e nigeriani,
stanno nel cortile, al sole della primavera. «E cosa devi andare a vedere? In un posto
come questo rischi di impazzire. Vogliamo andare via».
Almeno 5 delle 20 nuove commissioni che debbono rispondere alle richieste di asilo o di
protezione non sono ancora insediate. «I 30 profughi ospitati al New Garden — dice Anna
Maria Caleffi, sindaco di Quingentole — dovevano essere chiamati in commissione a
Milano, per l’intervista, nel febbraio scorso. Poi la competenza è passata a Brescia ma lì la
commissione non è ancora operativa. Come sono viste queste persone in paese? Diciamo
che non sono accolte a braccia aperte. Con i primi pachistani non ci sono stati problemi.
Poi con molti africani ci sono state tensioni pesanti. Un’attesa troppo lunga provoca
irrequietezza e tensione. Se non vedi un futuro, perdi la speranza. La reazione dei miei
concittadini è pesante, non tanto in piazza ma su Facebook. Un africano ha avvicinato —
solo avvicinato — una donna sull’argine del fiume e qualcuno ha scritto: “questi qua
bisogna bruciarli”. Come Comune non sai come intervenire. Oggi l’accoglienza è anche
business, da parte dei privati ».
Francesco Caso, presidente della cooperativa Assistenza Serena (i soci sono fratelli e
nipoti) gestisce 5 centri con 160 posti letto tra Mantova e Verona. «Vuole la verità? Le
prefetture prima ci fanno la corte, per affidarci immigrati che non sanno dove mettere. Poi
ci abbandonano. Guardi, a Quingentole aspettano da un anno ma a Caprino, un altro
centro nostro, c’è chi è bloccato da 18 mesi. Per alcuni l’esame c’è già stato, ma chi è
stato respinto ha fatto ricorso e adesso ha ancora diritto all’ospitalità. Io ho una piccola
comunità anche in Svizzera. Là, dopo 6 mesi esatti dalla presentazione della domanda di
asilo, la polizia arriva e chiede: “Hai ottenuto il permesso? Bene, adesso vai a lavorare.
Non ce l’hai? Vieni con noi, sei espulso”. E ti espellono davvero, non come da noi, che ti
dicono: “Hai 15 giorni per tornare a casa”. E l’espulso cambia Comune o provincia e
ricomincia da capo». La cooperativa fatta in casa affitta hotel e agriturismo in crisi. «I tempi
d’attesa troppo lunghi non permettono il turnover. C’è la protesta degli abitanti dei paesi,
che vedono questi immigrati che non fanno nulla e mangiano gratis. C’è la rabbia dei
migranti che si sentono reclusi e diventano delinquenti. A Quingentole nigeriani e ghanesi
hanno rotto la cucina e fatto lo sciopero della fame. Hanno picchiato anche un ragazzo
della Guinea Bissau che invece voleva mangiare. Hanno minacciato l’insegnante di
italiano dicendo: “Vai via, a noi non interessa imparare la vostra lingua, vogliamo solo le
carte per andare nel nord Europa”. Si sentono impuniti. “Facciamo quel che ci pare e voi
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non potete farci nulla”. Purtroppo è vero. Le prefetture ce li affidano ma poi non ci
aiutano».
Trenta euro al giorno a testa dalla prefettura di Verona, 34,50 da quella di Mantova.
«Chissà perché ci sono queste differenze. Io spendo 22 euro al giorno per affitti e vitto, poi
ci sono i mediatori linguistici, i 2,50 euro del pocket money... Il business? Ai sindaci che
protestano dico: prendeteveli voi, provate voi a gestire queste persone». Gli affari
comunque non vanno male, visto che l’Assistenza Serena sta aprendo un nuovo centro
sul lago di Garda.
I pachistani continuano il passeggio nella piazza di Quingentole. «Gli stranieri qui — dice il
sindaco — sono tutti ospiti del New Garden. Avevamo tanti immigrati: sono andati via,
Francia e Inghilterra, perché hanno perso il lavoro. Dovremo cancellarli dall’anagrafe,
scopriremo di essere meno di 1.200 abitanti ». E piazza Italia sembrerà ancora più grande
e più vuota.
Da Avvenire del 28/04/15, pag. 3
I rifugiati cambiano volto: accoglienza oltre
gli Stati
di Laura Zanfrini*
La straordinaria accelerazione delle migrazioni umanitarie è certamente da ascrivere a
una situazione eccezionale, che ha visto l’incredibile proliferazione di tensioni e conflitti ai
confini dell’Europa. Ma ancor prima che il quadro internazionale evolvesse in modi così
tragici, il fenomeno della mobilità forzata appariva destinato a diventare uno dei principali
drammi contemporanei. Profughi internati nei campi in condizioni di profondo degrado
fisico e morale, donne e minori destinati allo sfruttamento sessuale, uomini sottoposti a
regimi di lavoro forzato del tutto simili allo schiavismo, fino ai bambini soldato sono alcuni
dei volti, diversi ma ugualmente turpi, di un fenomeno che si sviluppa violando in modo
sempre più spietato il principio della dignità di ogni persona, al cuore non solo del
cristianesimo, ma della stessa civiltà europea. L’incremento dei migranti forzati è da un
lato l’esito della progressiva inclusione nel sistema di protezione di nuove figure, diverse
da quella convenzionale del rifugiato; paradossalmente, però, è proprio tale estensione a
rendere decisamente lacunosi gli strumenti per prevenire il fenomeno e proteggere le
vittime. Migranti forzati e richiedenti asilo somigliano sempre meno all’archetipo cui s’ispira
la Convenzione di Ginevra, il dissidente politico perseguitato dalle autorità del suo Paese.
La migrazione forzata ha oggi di norma una configurazione collettiva, non individuale, e
riflette l’esigenza di sottrarsi da situazioni di crisi dall’evoluzione imprevedibile, con la
conseguente difficoltà per gli Stati di controllare gli ingressi e valutare le istanze di
protezione. La minaccia da cui si fugge non è più, necessariamente, lo Stato, ma può
consistere in un soggetto privato e perfino in un membro della famiglia, circostanza che
rende molto più complessa l’istruttoria delle domande e più facili gli abusi. I timori di
persecuzione non concernono soltanto l’imprigionamento, ma la più ampia sfera dei diritti
umani - per esempio la paura di subire la sterilizzazione o l’escissione, l’oppressione degli
omosessuali, la sopravvivenza minacciata da catastrofi ambientali anche solo annunciate , prefigurando situazioni in cui è sempre più difficile stabilire chi davvero merita protezione.
La 'fuga' non necessariamente approda a un territorio straniero, ma è spesso destinata ad
arrestarsi in un campo profughi in cui si sarà costretti a vivere in cattività, in antitesi a
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quell’anelito di libertà che un tempo segnava il tragitto dei migranti per ragioni umanitarie.
La migrazione è a volte non solo forzata, ma addirittura coatta, realizzata attraverso varie
modalità di tratta e riduzione in schiavitù. Inoltre, i sistemi di protezione sono stati costruiti
in ottemperanza a un modello maschile, risultando inadeguati a rispondere ai bisogni e ai
rischi specifici della componente femminile.
Infine, è la stessa accessibilità dell’opzione migratoria, oggi più facile rispetto al passato, a
concorrere alla crescita del numero di persone che fanno appello a ragioni di carattere
umanitario per sfuggire da situazioni di disagio economico e incertezza: un fenomeno che
rende il confine tra migrazioni volontarie e forzate sempre più poroso, e che alimenta la
convinzione che molti - troppi - facciano un ricorso improprio ai dispositivi di protezione.
L’emergenza di questi giorni esige certamente risposte immediate, che almeno riducano il
numero di quanti perdono la vita sulle rotte della speranza, o della disperazione. Ma uno
sguardo proiettato al futuro e alle esigenze di sostenibilità del sistema internazionale di
protezione non può esimersi dal prefiggersi una progressiva riduzione del volume dei
richiedenti asilo.
Un obiettivo che può essere raggiunto solo attivando diversi livelli di responsabilità. Quello
certamente della comunità internazionale, chiamata a ideare nuovi strumenti di protezione
e d’intervento, ma prima ancora a risolvere gli squilibri di una globalizzazione senza
regole. Quello delle autorità nazionali dei paesi di destinazione, sollecitate ad adottare
politiche migratorie più coerenti con l’attuale realtà d’interdipendenza delle economie
nazionali.
Quello delle autorità dei paesi d’origine, silenti spettatrici – o addirittura complici – dei
traffici di persone e soprattutto incapaci di offrire valide alternative alla migrazione, così
ledendo il fondamentale diritto a non emigrare. E, ancora, le responsabilità della società
civile nelle sue espressioni organizzate che, svincolate dalle incrostazioni nazionalistiche
che imbrigliano l’azione dei governi, possono svolgere un ruolo strategico nella
governance della mobilità umana, nel solco di alcune interessanti esperienze già avviate
(come le iniziative per il contrasto della tratta implementate grazie alla collaborazione delle
diocesi dei luoghi di partenza e di arrivo). Infine, la responsabilità dei singoli e delle
famiglie coinvolti nei processi migratori, spesso schiavi di modelli di comportamento e
spinte all’emulazione che fanno apparire l’emigrazione una soluzione desiderabile
indipendentemente dal suo 'prezzo' e dalle sue conseguenze.
In particolare, a essere chiamata in causa è la responsabilità di coloro che utilizzano in
maniera impropria e strumentale la richiesta di protezione umanitaria, e di quanti,
assecondando per ragioni più o meno nobili tale comportamento, sottraggono risorse e
legittimazione a un istituto che rischia di risultare inoperante proprio per i soggetti che più
di tutti avrebbero bisogno di essere tutelati e protetti.
Indubbiamente – le vicende di questi mesi lo confermano in maniera drammatica –, al di là
dei possibili interventi politici e giuridici, è l’architrave stessa del sistema di governo delle
migrazioni ad accusare i limiti di un assetto 'Statocentrico' a fronte di fenomeni che, per
loro natura, trascendono i confini delle nazioni. I migranti umanitari sono così i testimoni
viventi delle aporie di sistemi di protezione dei poveri e dei vulnerabili fondati sulla finzione
di società perimetrate dai recinti nazionali e perciò incapaci di rispondere alle istanze di
appartenenza e giustizia nell’attuale società globale. Ma proprio ciò li rende una presenza
preziosa - o addirittura profetica - per riflettere sul futuro delle nostre democrazie, abituate
a dare per scontati istituti come la cittadinanza e i diritti che essa garantisce, a partire
dall’esercizio delle libertà democratiche. Così come le comunità cristiane dovrebbero
imparare a vedere nei migranti umanitari – specie quelli per motivi religiosi – non solo dei
destinatari privilegiati di cure, ma veri operatori di testimonianza ed evangelizzazione, che
sollecitano le Chiese locali ad acquisire una mentalità più universale, più 'cattolica'.
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Resta il fatto che, nella gestione delle richieste di protezione, l’Italia e l’Europa mettono
alla prova la loro civiltà giuridica, la loro identità. Parafrasando il testo biblico, non si deve
rischiare di sopprimere il giusto insieme all’empio, poiché un giudice giusto non può
indulgere a una giustizia sommaria (Genesi, 18).
Valutazioni di ordine economico e sicuritario non possono giustificare la rinuncia ai principi
sui quali si fondano le nostre democrazie, che occorre proteggere da ogni rischio di
imbarbarimento. Le politiche per la protezione umanitaria rappresentano anzi uno
strumento con cui affermare i valori sui quali si fonda la convivenza e che meritano di
essere lasciati in dote alle future generazioni.
*Ordinario di sociologia delle migrazioni all’Università Cattolica di Milano
del 28/04/15, pag. 25
Diminuiscono gli imprenditori italiani e aumentano quelli venuti da
oltreconfine La Fondazione Moressa rivela cosa c’è dietro le eccellenze
del cibo italiano
Se mozzarella e prosciutto li producono gli
immigrati Il made in Italy a tavola parla
sempre più straniero
VLADIMIRO POLCHI
ROMA .
Cos’hanno in comune gorgonzola e mozzarella di bufala? Semplice: parlano sempre più
straniero. Così come prosecco e chianti. Sì, perché le eccellenze del “made in Italy”
dipendono sempre più dal lavoro dei migranti: in cinque anni gli occupati stranieri del
settore agroalimentare sono infatti aumentati del 62,7% e gli imprenditori del 14,8%.
Eccolo uno dei segreti che si cela dietro i padiglioni di Expo 2015.
L’Esposizione di Milano metterà sotto i riflettori mondiali il cibo italiano. Italiano certo, ma
non solo. In molte produzioni di qualità cresce infatti il peso dell’occupazione e
dell’imprenditoria straniera. A fotografarlo è una ricerca della Fondazione Leone Moressa.
I lavoratori immigrati nel settore agroalimentare sono ben 166mila, cioè il 7,2% del totale
degli occupati stranieri. Di questi, il 70% è impiegato nell’agricoltura, il restante 30% nelle
industrie alimentari. Per capire meglio: mentre mediamente i lavoratori stranieri sono il
10,3% del totale degli occupati, nel settore agroalimentare rappresentano ben il 13,2% e
raggiungono il 14,2% nel comparto agricolo. Non solo. Che questo settore sia un traino
per l’occupazione degli immigrati lo prova anche la loro crescita negli ultimi 5 anni
(+62,7%), mentre per gli italiani si assiste a un calo del 3%. Rimane però un dislivello di
qualifiche. Gli stranieri infatti sono maggiormente impiegati in professioni di basso livello (il
64,4%): braccianti e addetti alla manutenzione del verde. La maggioranza degli italiani
(55,4%) trova invece impiego in attività qualificate, come operai agricoli specializzati.
Non mancano casi particolari, che escono dalle statistiche. In Abruzzo, per esempio, il 90
per cento dei pastori è macedone. Senza di loro, dimentichiamoci il filetto sulle nostre
tavole. In Val d’Aosta, a fare la fontina sono rimasti quasi solo gli immigrati. È la fatica
dell’alpeggio: portare il bestiame sui pascoli in quota durante l’estate. Ebbene, nei trecento
alpeggi della regione gli italiani sono meno del 10%. E ancora: in Emilia Romagna, tra gli
addetti al Parmigiano Reggiano, uno su tre è indiano. Gli immigrati sono decisivi anche
nella produzione del prosciutto di Parma, della mozzarella di bufala a Caserta, del Brunello
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di Montalcino e dei vini doc della provincia di Cuneo. E la pesca? La vecchia kasbah di
Mazara del Vallo è popolata da pescatori tunisini. Se si fermano loro, addio fritture di
paranza.
Ma è nella capacità di fare impresa che gli immigrati fanno davvero la differenza. Gli
imprenditori stranieri nel settore agroalimentare sono oltre 22.500: 18mila fanno affari con
l’agricoltura, 4.500 nell’industria alimentare. Sono loro a dare vitalità al settore: tra il 2009
e il 2014 sono aumentati del 14,8%, mentre gli imprenditori italiani sono crollati del 10,9%.
«Osservando alcune delle principali produzioni Dop nazionali — scrivono i ricercatori della
Moressa — si può osservare come la componente straniera abbia contribuito negli anni
della crisi al mantenimento del tessuto produttivo, registrando aumenti in alcuni casi
superiori al 20%, contro una diminuzione della componente autoctona».
Qualche esempio: nelle aree del prosecco veneto gli imprenditori stranieri sono aumentati
del 12,3%. Nel gorgonzola ancor di più: gli immigrati sono cresciuti del 15,9%, di fronte a
un calo del 9,5% degli italiani. E ancora: nell’area del grana padano (che comprende ben
27 province) gli imprenditori stranieri sono aumentati del 22%. Anche la zona del Chianti,
tra Siena e Firenze, registra un picco del 24,4%. Perfino in Sardegna, area in cui
l’immigrazione è spesso meno visibile, gli imprenditori stranieri nelle zone del pecorino
sono cresciuti del 23,7%. Insomma, «sebbene non si raggiungano i numeri di altri distretti
manifatturieri, come il tessile — scrivono dalla Moressa — una parte crescente
dell’eccellenza italiana agroalimentare è dovuto al contributo economico degli immigrati. I
dati fanno vedere il made in Italy sotto una prospettiva nuova, sempre più multiculturale».
«I lavoratori stranieri contribuiscono in modo strutturale e determinante all’economia
agricola del Paese — conferma Roberto Moncalvo, presidente di Coldiretti —
rappresentano infatti una componente indispensabile per garantire i primati del made in
Italy alimentare nel mondo». Non mancano i lati oscuri, però. «Sul territorio — aggiunge
Moncalvo — va assicurata la legalità per combattere inquietanti fenomeni malavitosi che
umiliano gli uomini e gettano un’ombra su un settore che invece ha scelto la strada
dell’attenzione alla sicurezza alimentare. Per un chilo di arance prodotto nella piana di
Rosarno vengono pagati meno di 7 centesimi al chilo: del tutto insufficienti a coprire i costi
di produzione e di raccolta. È questa situazione ad alimentare la catena dello sfruttamento
che colpisce agricoltori e lavoratori».
Del 28/04/2015, pag. 8
Da Asmara a Lampedusa, la storia eritrea di
Yoannes
Libia. La traversata dei dannati in fuga da dittature e torture
Giuseppe Acconcia
Quasi la metà dei migranti che tentano di attraversare il Mediterraneo sono rifugiati.
Secondo i dati forniti da Frontex, siriani ed eritrei sono il 46% dei 170 mila migranti che
hanno raggiunto l’Italia via mare nel 2014. I governi europei hanno offerto pochi permessi
di soggiorno per motivi umanitari per questi rifugiati che hanno affrontato condizioni di vita
a dir poco disumane in Libano, Giordania e Turchia nel caso dei siriani, in Egitto, Libia
e Sudan per quanto riguarda gli eritrei. Molti di loro sono stati rapiti e i loro organi sono
diventati merce di scambio per i contrabbandieri del Sinai. In Libia, paese di passaggio da
cui siriani ed eritrei vengono deportati in Europa, i profughi sono esposti ai quotidiani conflitti tra milizie e diventano oggetto di scambio e fonte di reddito certo.
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Mesi di combattimenti tra miliziani di Misurata e militari di Khalifa Haftar hanno messo
a tappeto il già povero sistema assistenziale libico: scuole, ospedali, aeroporti e strade
sono spesso impraticabili, mentre medicine, benzina, elettricità, acqua e cibo scarseggiano. Nel vuoto di potere e nell’arbitrarietà delle leggi, i contrabbandieri hanno commesso
sequestri di disperati per richiedere riscatti alle famiglie nei paesi di origine, qualsiasi tipo
di abuso di diritti umani, assalti fisici, torture, detenzioni forzate, abusi sessuali, hanno
costretto molti di questi giovani, spesso minorenni, a lavori forzati. Molti cristiani copti egiziani, eritrei ed etiopi hanno subito uccisioni sommarie soprattutto per mano dei contrabbandieri libici. Sebbene molti dei paesi di origine hanno chiesto ai loro connazionali di
lasciare la Libia, il presidente eritreo — tanto per fare un nome — Isaias Afwerki, che
impone un servizio militare illimitato ed obbligatorio sia per gli uomini sia per le donne, non
ha mosso un dito per richiedere il ritorno in patria dei suoi connazionali. Nel caso questi
eritrei decidessero di percorrere al contrario la strada che li ha portati verso la Libia sarebbero, dopo torture e abusi, arrestati per diserzione.
Abbiamo raccolto la testimonianza di Yoannes, 23 anni, arrivato in Sicilia da Asmara attraverso la Libia a bordo di un barcone. «È stato uno dei viaggi più pericolosi della mia vita.
Ero su un gommone con una bambina di 3 mesi e trenta viaggiatori», inizia il giovane eritreo. «La mia barca è arrivata all’alba del 21 aprile a Lampedusa. Dei pescatori ci hanno
visti e ci hanno aiutato ad attraccare», prosegue il giovane. Arrivati a terra, increduli, i giovani eritrei sono stati accerchiati dalla polizia italiana. «Ci hanno fatti salire su un furgone:
“Va al campo”, dicevano i poliziotti. Uno per uno abbiamo raccontato la nostra storia. Alla
fine ci hanno dato del cibo, erano tre giorni che non mangiavamo». I giovani sono stati
sistemati in un centro, pienissimo di altri migranti. «Mi sono addormentato subito, ma la
mattina ci aspettava un aereo. Ci hanno chiamati uno per uno con il nostro nome e il
nostro cognome. Il volo era diretto al Centro di identificazione ed espulsione (Cie) di Crotone», prosegue. È qui che Yoannes ha incontrato un gruppo di amici, meno fortunati di
lui, che si erano imbarcati su un affollatissimo barcone dal porto libico di Sebrata. «Siamo
rimasti a largo per tre giorni, abbiamo finito cibo ed acqua. Il comandante era sempre nervoso e forse ubriaco, ci costringeva a restare sottocoperta, stipati. Alcuni tra noi hanno iniziato a masticare plastica e dentifricio», gli ha raccontato Ahmedin. «Delle decine di viaggiatori 18 persone non ce l’hanno fatta, ma non c’è traccia dei loro corpi», ha poi rivelato il
giovane alla polizia di Crotone. Yoannes è stato sconvolto dalla notizia, alcuni degli uomini
e delle donne, imbarcate sul quel barcone, venivano dal suo stesso villaggio. «Abbiamo
attraversato insieme ad Ahmedin il confine tra Eritrea ed Etiopia in un viaggio che è durato
settimane fino al Sudan», ci spiega il giovane. Ma il momento più funesto di questo viaggio
epico lo hanno affrontato il Libia. «Qui uomini armati ci hanno costretti a stare per tre mesi
in una prigione. C’erano con noi siriani, somali, ma anche africani dal Mali e dal Niger, che
venivano trattati anche peggio di noi», rivela. A quel punto Yoannes è riuscito a svignarsela e a salire su uno dei barconi in partenza grazie ai risparmi, guadagnati ad Asmara
o ai doni dei suoi fratelli, suo padre, pescatore nel porto di Massawa, è morto pochi anni
prima che Yoannes finisse la scuola. «Sono riuscito a salire su una delle barche meno
affollate perché ho pagato quasi 3 mila euro, non tutti possono permettersi un biglietto così
caro», ironizza il giovane.
Eppure è ora incorso in un altro dramma, la polizia italiana ha preso le sue impronte digitali e quindi per il Trattato di Dublino, non potrà lasciare l’Italia. Ma da «dannato ragionevole», Yoannes non si arrende di certo.
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Del 28/04/2015, pag. 9
Calais, il ghetto dove il governo francese ha
rinchiuso i migranti
Francia. La polizia ha concentrato i profughi in una zona periferica e
paludosa della città , distruggendo i campi dove vivevano
Marino Ficco, Calais
<<Ma lo sai che qui è pieno di italiani?» La domanda di Sherif, un afghano sulla sessantina che parla un ottimo spagnolo, mi sorprende. Siamo a Calais, la città portuale a 30 km
dall’Inghilterra che ormai la stampa italiana definisce come la Lampedusa francese. In che
senso, Sherif? Dove sono gli italiani? La maggior parte degli afghani e dei pakistani che si
trovano a Calais per provare a raggiungere l’Inghilterra parlano perfettamente l’italiano,
hanno vissuto nel nostro paese anche per tre-quattro anni e posseggono il permesso di
soggiorno per protezione sussidiaria, da rinnovare ogni cinque anni. Ma allora che ci fate
a Calais se avete già i documenti in Italia? Abdul e Mahmud, trentenni che non desiderano
altro se non lavorare dopo anni di sofferenze discutono con noi a lungo. Sono sicuri che se
gli italiani fossero a conoscenza dei loro problemi farebbero qualcosa per aiutarli. L’Italia
gli piace. Vorrebbero viverci e lavorarci. Ma non c’è più lavoro. Sono stati tra i primi a perdere il posto e dal 2012 si registra un vero e proprio esodo di afghani italiani verso Inghilterra, Francia e nord Europa. Ma il loro permesso di soggiorno non permette di lavorare al
di fuori dell’Italia. La situazione a Calais è stata molto tesa negli ultimi giorni. Mentre si
avvicinava la Pasqua oltre 2000 disperati che fuggono da guerre, ingiustizia e povertà
sono stati vittime di una brutale offensiva della polizia e dello Stato francese che li ha concentrati in un campo in un settore periferico e paludoso della zona industriale presso il
centro d’accoglienza diurno Jules Ferry. I campi dove vivevano fino a poco fa sudanesi,
etiopi, eritrei, afghani, pakistani, iraniani ed egiziani (Tioxide, Leaderprice e Gallo), sono
diventati una distesa di rifiuti. Quello che resta è desolante. L’atmosfera è spettrale.
Oggetti di vita quotidiana sparsi si mescolano ai numerosi falò ed al silenzio. La polizia li
ha informati dell’espulsione il giorno prima, anche se le autorità ne parlavano già da febbraio. In Francia un’ordinanza d’espulsione dev’essere notificata da un usciere giudiziario
previa denuncia del proprietario. Ma evidentemente quando si tratta di migranti la legge
non è uguale per tutti. È bastato inviare qualche poliziotto ad intimidirli e cacciarli. Da questo fine settimana tutti coloro che desiderano raggiungere l’Inghilterra da Calais vivono in
quest’area enorme e lontana dall’abitato dove mancano servizi igienici ed acqua. Dalle 14
alle 17 possono recarsi al centro Jules Ferry per sorseggiare un tè o un caffè, ci spiega
Dina, una giovane ragazza del posto che lavora qui. Oppure possono essere accompagnati da un medico, usare i servizi igienici e ricaricare i telefoni cellulari. Dalle 17 alle 19
è il momento della distribuzione dell’unico pasto a cui hanno diritto. Presto saranno attive
anche 70 docce. Inoltre un piccolo prefabbricato dalla capacità di cento posti accoglie le
donne ed i bambini in situazione di difficoltà che lo desiderano. Quaranta dipendenti
dell’associazione «La vie active» si alternano nel centro durante gli orari di apertura. Otto
di loro sono educatori sociali, gli altri non hanno una formazione specifica legata
all’accoglienza o alla mediazione. Ricapitolando, per il momento un migrante a Calais,
confinato nei pressi del centro Jules Ferry, ha diritto ad un pasto al giorno, accesso ai servizi igienici per tre ore e fra qualche giorno anche ad una doccia.
Intanto è encomiabile il lavoro delle numerosissime associazioni e dei privati cittadini che
sono al fianco dei migranti per sostenerli in questo ennesimo momento difficile. Nathalie,
una donna quarantenne di Calais, ha portato il figlio di 7 anni a passare la domenica di
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Pasqua tra i sudanesi per aiutarli a costruire la loro nuova casa. Emmaus, Secours Catholique Caritas e Calais, Ouverture et Humanité sono solo alcune delle principali realtà che
in questi giorni stanno aiutando i migranti a traslocare e a costruire nuovi ripari in un terreno sabbioso davvero indegno. Pierre ed una decina di volontari di Emmaus sono venuti
da Reims per passare la giornata di Pasqua a costruire almeno quattro baracche con intelaiatura in legno e coperte di semplici teloni di plastica per proteggersi dal freddo e dalla
pioggia. Mafioso, mafioso! Safir, egiziano sulla cinquantina, mi racconta che è stato vittima
di un imprenditore italiano con forti legami con la mafia e che sfrutta soprattutto gli egiziani
sottopagandoli nel settore della logistica. In questo momento l’imprenditore è sotto indagine a Parigi. Sayes, trentenne etiope, mi viene incontro gioioso. Dopo i riti dei saluti gli
chiedo se possiamo fare qualcosa per lui. Mi chiede una Bibbia in inglese. Nient’altro. Malgrado le difficoltà e la fatica, la fede resta l’unica forza e l’unica certezza di questi uomini
e di queste donne. Nonostante molte capanne siano ancora in costruzione, tre moschee
con una capienza di una trentina di fedeli ed una chiesa ortodossa sono già state ultimate.
È stato il loro primo pensiero.
I bambini di Asmara
Bambino, bambino! Elia e David hanno 12 e 15 anni. Gli altri eritrei con cui vivono li prendono in giro chiamandoli bambini. Vengono quasi tutti dalla capitale Asmara. Per loro
l’ottenimento dell’asilo è quasi automatico in qualunque paese europeo. Il regime dittatoriale di Afewerki, al potere dal 1993, obbliga uomini e donne ad un servizio militare semipermanente, non accetta partiti d’opposizione né la stampa libera e indipendente. Elia,
David, Daniel e gli altri hanno scelto di andare in Inghilterra perché parlano benissimo
l’inglese e gli è stato detto che lì la vita è migliore. Salutiamo Daniel, quarantenne eritreo
sposato con tre figli che non sente da un anno perché nel suo villaggio non è ancora arrivata la linea telefonica e non sa come comunicare con la famiglia. Mi dice che la prossima
volta che ci incontreremo sarà al termine del regime in un bar ad Asmara.
Dopo anni di proteste, provocazioni e populismo il sindaco ed il ministro Cazaneuve hanno
ottenuto quello che volevano. Gli oltre 2000 migranti che da Calais provano a raggiungere
l’Inghilterra vivono ghettizzati oltre la zona industriale. Qui non daranno più fastidio a nessuno. Finalmente i turisti inglesi in vacanza potranno godersi tranquilli la città e le spiagge.
Con grande lungimiranza si è deciso di tornare alla situazione del 2002, quando le centinaia di migranti di allora erano confinati in un paesino ad ovest di Calais, a Sangatte.
Lasciando Calais ci vengono in mente le parole di papa Francesco per la scorsa giornata
della pace: «La globalizzazione dell’indifferenza, che oggi pesa sulle vite di tante sorelle
e di tanti fratelli, chiede a tutti noi di farci artefici di una globalizzazione della solidarietà
e della fraternità. Le possibilità di solidarietà verso questi migranti sono numerose: andare
sul posto ed aiutare a costruire le baracche, inviare doni e denaro alle associazioni che
operano sul posto, fare pressione sui nostri governanti per arrivare a leggi sulle migrazioni
più eque. Insomma, non dimenticare di restare umani.
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BENI COMUNI/AMBIENTE
del 28/04/15, pag. 24
“Vi spiego perché un altro modo di coltivare
la terra è ancora possibile”
VANDANA SHIVA
SONO due le maggiori sfide ecologiche che dobbiamo affrontare oggi: l’erosione della
biodiversità e il cambiamento climatico, due problemi interconnessi, nelle cause come
nelle soluzioni. All’origine di entrambi possiamo infatti considerare il ruolo importante
svolto dall’agricoltura industriale. Secondo le Nazioni Unite, il 93% delle varietà vegetali è
scomparso negli ultimi 80 anni.
Le monoculture basate su fertilizzanti chimici non mettono a rischio soltanto la biodiversità
vegetale, ma hanno distrutto anche la biodiversità del suolo, contribuendo all’emergere di
patogeni e nuove malattie oltre alla necessità indotta di un sempre maggior uso di
sostanze chimiche.
Storicamente, sono state le donne le maggiori responsabili del nutrimento, ma oggi il cibo
e la sua produzione sono tolti dalle loro mani, sostituiti con prodotti tossici controllati dalle
multinazionali. La produzione agricola industriale basata su monocolture ha privato il
nostro cibo di qualità, gusto e capacità nutritiva.
Oltre a distruggere la biodiversità, l’agricoltura industriale è tra i principali responsabili
della produzione di gas serra, che ci stanno portando al cambiamento climatico e al caos
del clima. Come ho scritto in Soil, Not Oil, il 40% dei gas serra proviene dall’agricoltura
industrializzata su scala globale.
D’altra parte, l’agricoltura biologica riduce le emissioni di gas serra, e rende le coltivazioni
più resistenti ai cambiamenti climatici. Questa pratica infatti è basata sulla restituzione di
materiale organico al suolo, e per questo rappresenta il mezzo più efficace per rimuovere
l’eccesso di carbonio nell’aria e di riportarlo nel suolo. Le ricerche svolte a Navdanya
hanno mostrato che l’agricoltura biologica ha aumentato l’assorbimento di carbonio del
55%. Studi internazionali mostrano inoltre che con due tonnellate per ettaro di materia
organica applicata al terreno, possiamo rimuovere 10 giga tonnellate di anidride carbonica
dall’atmosfera, riducendo l’inquinamento atmosferico a 350 ppm.
Inoltre, il materiale organico nel suolo migliora la capacità del terreno di trattenere acqua,
riducendo l’impatto di alluvioni e siccità. Un aumento dell’1% di materiale organico del
terreno può aumentare la capacità del suolo di trattenere acqua di 100.000 litri per ettaro.
È questa la nostra assicurazione contro il cambiamento climatico, sia per i periodi di siccità
sia per le alluvioni e l’eccesso di pioggia. D’altra parte, con la cementificazione del terreno,
l’acqua tende a non restare nel suolo, con il risultato di un aggravamento di alluvioni e
periodi di siccità.
Durante il raccolto nella primavera del 2015, l’India è stata colpita da piogge inaspettate,
che hanno distrutto le coltivazioni. Più di 100 contadini si sono suicidati. Le piogge fuori
stagione, dovute all’instabilità del clima, si sono aggiunte al peso dei debiti che affliggono i
contadini, costretti a indebitarsi per i crescenti costi di produzione e la riduzione dei
guadagni.
Una risposta a questi problemi potrebbe trovarsi se adottassimo un modello di agricoltura
ecologica, basata sulla biodiversità. Questo modello è infatti libero dagli alti costi dei
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fertilizzanti chimici, e non dipende dai semi delle multinazionali, e potrebbe quindi liberare i
contadini dai debiti. L’agricoltura ecologica è inoltre più resiliente ai cambiamenti climatici.
Quattromila anni fa i nostri antichi Veda ci hanno guidato: «La nostra sopravvivenza
dipende da questa manciata di terreno. Se ne avrete cura, farà crescere il nostro cibo, il
nostro carburante, il nostro riparo, e ci circonderà di bellezza. Se ne abuserete, il terreno
collasserà e morirà, portando con sé l’umanità». ( Brano scelto dalla Lecture di Vandana
Shiva all’interno dei colloqui internazionali di Laboratorio Expo, progetto di Fondazione
Feltrinelli ed Expo)
del 28/04/15, pag. 32
IL RIFORMISMO DELL’EXPO
GAD LERNER
È GIÀ una macchia verde il podere di cinque ettari seminato a grano proprio lì sotto
all’acciaio dei nuovi grattacieli di Porta Nuova, quelli comprati dal fondo sovrano del Qatar.
Uno squarcio cromatico che riassume le contraddizioni della Milano riformista alle prese
con la benefica invasione straniera dell’Expo.
Cittadinanza universale. Diritto al cibo. Sovranità alimentare. Tutela delle biodiversità.
Sono aspirazioni globali al limite dell’utopia che, in un moto dal basso — con la temeraria
pretesa riformista di far coesistere i movimenti alternativi e i colossi dell’agroindustria —
vorrebbe sfidare dal suo interno la vetrina del commercio mondiale. Il tentativo è quello di
«dare un’anima all’Expo », raccogliendo la provocazione di Carlo Petrini, portavoce critico
del nuovo internazionalismo contadino.
Oggi nell’Aula Magna dell’Università Statale viene presentata la Carta di Milano, un
documento programmatico rivolto ai potenti della terra, ambizioso fin dall’intestazione:
«Noi donne e uomini, cittadini del pianeta…». Con la speranza che, quando verrà
consegnato il 16 ottobre prossimo al segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon, rechi in
calce milioni di firme. Un appello senza precedenti, un immenso campo di grano che
circondi i grattacieli della speculazione finanziaria.
Dietro la Carta di Milano c’è un lavoro di anni. Il filosofo Salvatore Veca, con la
Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, ha sperimentato un inedito metodo di consultazione.
Ha censito e selezionato innumerevoli rivendicazioni, suggerimenti, pratiche territoriali.
Non solo fra i teorici di uno sviluppo ecocompatibile, ma anche fra chi lo ha già messo in
pratica ai quattro punti cardinali.
Poiché si rivolge, oltre che ai governi e alle istituzioni sovranazionali, anche alle imprese
che traggono profitti dal nostro bisogno primario di nutrizione, la Carta di Milano rifugge
ogni velleità ideologica. Sarà brutto a dirsi, ma il cibo e l’acqua da che mondo è mondo
sono anche merci, prodotti commerciali. La terra che sfruttiamo, l’energia che se ne trae,
sono un patrimonio comune assoggettato a inevitabili vincoli di proprietà. Solo che il cibo,
l’acqua, l’energia, non sono merci qualsiasi. E quando la Carta di Milano ricorda che 800
milioni di persone soffrono di fame cronica, più di due miliardi di persone sono malnutrite,
mentre vengono sprecate 1,3 miliardi di tonnellate di cibo ogni anno e quasi due miliardi di
persone vivono sovrappeso o malate di obesità, diviene evidente l’urgenza di regolare
questa materia vitale con gli strumenti di un nuovo diritto internazionale.
Mentre alla Statale gli estensori della Carta radunano alcune delle menti migliori
dell’ambientalismo mondiale, Milano è tappezzata di manifesti che pubblicizzano
“Tuttofood”, la Fiera del nuovo business alimentare su cui — dopo il successo di Eataly —
investe anche un bel pezzo della finanza residua nostrana, da Tamburi a De Agostini a
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Coop. I padiglioni dell’Expo che venerdì prossimo verranno aperti al pubblico,
concederanno a McDonald’s e Coca Cola spazio non inferiore a quello di grandi nazioni,
nella certezza di venir ripagati delle decine di milioni spesi per gli allestimenti.
“Nutrire il pianeta, Energia per la vita”, il titolo altisonante dell’Esposizione universale,
diviene così oggetto delle ironie dei contestatori che hanno piantato le tende al Parco
Trenno e minacciano cinque giornate di antagonismo, si spera pacifico.
È in mezzo a questa contraddizione che si intromette l’opzione riformista della Carta di
Milano. Vuole radunare i piccoli e gli umili nella rivendicazione che il cibo «non debba mai
essere usato come strumento di pressione politica e economica». Chiede al potere
pubblico di esercitare la sua funzione normativa nei confronti delle imprese: da un reddito
adeguato per i produttori, alla preservazione delle biodiversità; dal benessere degli
animali, a nuove tecniche d’imballaggio; dall’equità nelle regole del commercio, alla
certificazione di qualità dei prodotti.
A prima vista può sembrare ingenua questa missione di addomesticamento del
capitalismo che nel corso della sua storia ha già schiacciato l’agricoltura, fino a
trasformarla nella più umile delle attività umane. Ma la scommessa dei riformisti che
cercano di dare un’anima all’Expo è proprio quella di sovvertire i rapporti di forza
confidando sui grandi numeri. Cioè mobilitando una platea mondiale che non può essere
costituita solo dai pur attesissimi visitatori. Dieci milioni di biglietti già venduti, e si spera
che raddoppino. Tra di loro, spiccheranno per importanza alcune migliaia di giovani
contadini, allevatori, pescatori e artigiani convocati fra il 3 e il 6 ottobre prossimi dal
movimento Terra Madre, che si è dato appuntamento a Milano nella speranza di cambiare
di segno la kermesse. Sono la dimostrazione vivente di un’iniziativa per il diritto al “cibo
sano, pulito, giusto” che ha iniziato a farsi sentire dalle loro contrade periferiche, con
efficacia crescente.
Così la Carta di Milano apre al mondo un città lacerata dalle contraddizioni, in cui
s’intrecciano angosce e speranze. Sabato scorso il presidente Mattarella, quando è sceso
alla Stazione Centrale dal nuovo Pendolino che brucia il tragitto Roma-Milano in due ore e
quaranta minuti, forse avrà intravisto nel grande atrio sotto i binari il bivacco dei profughi
sopravvissuti alla traversata del Mediterraneo, lì assistiti dal Comune e dai volontari nella
loro fuga dalla guerra. Anche loro sono stranieri mescolati agli altri in visita a Milano. Il
diritto al cibo come fondamento della dignità umana ci appare più evidente, quando
cammina sulle loro gambe affaticate.
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SCUOLA, INFANZIA E GIOVANI
del 28/04/15, pag. 15
Il premier apre su precari e presidi “Ora
ricuciamo poi via al decreto”
CORRADO ZUNINO
ROMA .
Alla fine Matteo Renzi si è deciso: un pezzo della “Buona scuola”, l’articolo 8 sulle
assunzioni di 101mila insegnanti, andrà avanti per decreto. Gli uomini più vicini,
sottosegretario all’Istruzione Davide Faraone innanzitutto, gli hanno evidenziato l’allarme:
il disegno di legge non potrà essere approvato prima di metà giugno. A quel punto tutti gli
allegati esecutivi dovrebbero essere scritti in piena estate, con il rischio di non riuscire a
portare maestri e prof in cattedra entro il primo settembre.
Un problema per i docenti, un esordio sbagliato per una riforma — quella della scuola — a
cui Renzi ogni giorno mostra di tenere di più. E così il premier ha deciso di imprimere un
altro cambio di marcia a un provvedimento già ritardato lo scorso settembre nella sua
presentazione e che a marzo 2015 aveva deciso di affidare invece a un iter parlamentare
lungo e condiviso lasciando stupiti il suo ministro e i più stretti collaboratori. In questi due
mesi Renzi ha sempre detto che non avrebbe voluto usare l’istituto del decreto legge e ha
chiesto a tutte le forze, innanzitutto dell’opposizione, di contribuire a cambiare la legge
senza ostruzionismi. Faraone aveva fissato per metà aprile la data ultima per
un’approvazione utile per inaugurare senza vuoti il prossimo anno scolastico. Siamo alla
vigilia di uno sciopero di massa, un milione di insegnanti fibrillano, e Renzi sceglie di
riaccelerare: «Non possiamo lasciare in sospeso centomila assunzioni, firmerò il primo
decreto sotto la presidenza Mattarella». Chiede al Pd, il premier, di fare un ulteriore sforzo:
la ricerca di un consenso politico e nella società. Il testo congiunto Guerini-Orfini, e siamo
ai vertici del partito, va in questa direzione: abbassare i toni verso i sindacati e i docenti
riottosi, e quindi anche verso i partiti che ne hanno fatte proprie le ragioni (Sel e M5s), per
poi dare un’accelerata al disegno stralciandone le assunzioni. È probabile che il decreto
legge sui 101mila sarà portato al primo Consiglio dei ministri dopo le manifestazioni del 5
maggio.
L’avvio, ieri alle dieci di mattina, della discussione sugli emendamenti alla “Buona scuola”
è iniziato con una concordia inusuale. Sel e Movimento 5 stelle hanno sì denunciato la
“ghigliottina mascherata” che, dicono, è andata in scena con l’approvazione
dell’emendamento della relatrice Pd all’articolo 1. Poi, però, sui singoli emendamenti
spesso hanno votato in sintonia con i dem. E il partito di maggioranza, a sua volta, ha
scelto di accogliere revisioni dei grillini e della Lega.
Si è lavorato fino a tarda ora, discutendo i primi tre articoli. Ma per votare i 1.856
emendamenti si scavallerà la settimana arrivando a ridosso dello sciopero. In
commissione si è già raggiunto un primo compromesso su uno dei punti caldi del disegno
di legge: il potere dei presidi. Il dirigente scolastico, si è deciso a forte maggioranza, potrà
scegliere gli insegnanti di cui avrà bisogno e proporre promozioni e premi, ma sempre “nel
rispetto delle competenze degli organi collegiali”. L’organizzazione del piano triennale i
presidi la faranno “in collaborazione con il consiglio d’istituto e il collegio dei docenti”. E
anche sulla valutazione si rafforza il progetto di una commissione che affiancherà il primo
dirigente. Come sarà composta, lo decideranno la battaglia o l’accordo sugli
emendamenti. Nei prossimi giorni si deciderà il destino della lobby esclusa più forte: i
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6mila idonei (e non vincitori) del concorso del 2012. C’è un emendamento del Pd che li
riporta dentro già per il primo settembre utilizzando la dizione “iscritti” al concorso invece di
“idonei”. Il Partito democratico è compatto per “riassumerli”, il problema è la Ragioneria
dello Stato. Il sottosegretario Faraone, che segue la discussione per conto del governo,
dice: «Sugli idonei troveremo la soluzione».
Ancora, ci sono diverse soluzioni per non tagliare le gambe ai supplenti di lungo corso
presenti in seconda fascia. O si consentirà loro di insegnare fino al concorso 2016 o si farà
partire la tagliola “tre anni e stop: hai vinto il concorso o sei fuori” a partire dalla
pubblicazione in Gazzetta ufficiale del disegno di legge. Si va verso l’abolizione di quella
parte di legge che consentirebbe a un docente di matematica di insegnare latino. Ed è
stata introdotta, insieme all’alfabetizzazione precoce alla musica e all’arte, anche quella
agli spettacoli dal vivo e al cinema. Simona Malpezzi, deputata Pd in commissione
Cultura, ha illustrato così la prima giornata: «Abbiamo rivisitato tutto l’articolo uno e
definito l’idea di autonomia che avevamo in testa: flessibilità all’interno dell’orario e
gestione del tempo pieno secondo le esigenze di alunni e genitori. È stato accolto da tutti,
ha votato contro solo Forza Italia».
Del 28/04/2015, pag. 23
La nuova mappa dei talenti mondiali
Nel 2030 verranno da Cina e India
La corsa dell’Asia. I rettori: «Spinta dalla demografia, ma l’eccellenza è
ancora qui»
Secondo l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) non c’è da
preoccuparsi per il livello dei laureati nel mondo, in crescita costante. E l’espansione
«dell’economia della conoscenza» assorbirà tutti i talenti. Intanto però, sempre l’Ocse,
c’informa che nel 2030 Cina e India avranno in due il cinquanta per cento dei talenti
mondiali. E che l’asse, Usa-Europa-Giappone, sta perdendo il monopolio dei laureati.
Le proiezioni della classifica (l’Italia è molto indietro) si basano su dati che certificano una
rivoluzione già in atto: nel 2000, nei cosiddetti «Paesi sviluppati» c’erano 51 milioni di
laureati nella fascia d’età dai 25 ai 34 anni. Nei Paesi del G20 non appartenenti all’Ocse,
ovvero il blocco di nazioni in via di sviluppo costituitosi nel 2003 (da non confondere con il
G20 dei Paesi industrializzati creato nel 1999) il loro numero era soltanto di 39 milioni.
Nell’ultimo decennio questo divario è quasi scomparso: 66 milioni dell’Ocse contro i 64
milioni del G20. Se questo trend dovesse continuare, il numero di 25-34enni con titolo
universitario in Paesi come Argentina, Brasile, Cina, India, Indonesia, Russia, Arabia
Saudita e Sudafrica supererà di quasi il 40% i coetanei dei Paesi europei e americani.
Ecco perché il pool mondiale dei talenti già nel 2020 non sarà più concentrato negli Usa,
Giappone ed Europa. C’è da preoccuparsi?
Per Stefano Caselli, Prorettore all’internazionalizzazione della Bocconi, lo scenario non è
allarmante. Il caso di India e Cina si spiega con demografia e Pil. «Hanno spinto su
crescita economica e investimenti in cultura. Il dato demografico poi fa sì che lì la
selezione sia durissima: questo forma talenti». Cita il caso di una studentesse indiana che
lamentava di avere un curriculum non esaltante. «Era arrivata quinta in una gara di
matematica con 500 mila concorrenti». Malgrado non sia difficile immaginare le
conseguenze di questa rivoluzione, Caselli è convinto che le eccellenze accademiche in
Europa e negli Usa siano tante. «Nella classifica dei 30 atenei migliori al mondo, di cinesi
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e indiani ce ne sono pochi». L’Università di Padova è stata fondata nel 1222. Il rettore,
Giuseppe Zaccaria, ricorda che già ottocento anni fa era un ateneo internazionale: «Da
tutta Europa volevano venire a studiare a Padova. Siamo abituati alla concorrenza. Detto
questo non basta più contare su tradizione e storia. Di recente firmato abbiamo firmato un
accordo a Shanghai per lo scambio di ricercatori. Ma solo di eccellenza. Fino a qualche
anno fa si puntava al cinese, qualunque fosse, tanto per dire di essere internazionali». Per
molti, è solo una questione di tempo prima che Cina ed India raggiungano il livello
accademico europeo o americano. L’evoluzione però non allarma Caselli: «L’Occidente
non è ferma: la risposta è già nella maggiore integrazione universitaria tra management e
tecnologia». Anche il rettore di un’altra Università milanese (Bicocca), Cristina Messa, è
convita che in Italia non manchino atenei e laureati di eccellenza. «Il problema è che non
si coltivano i tanti talenti nascosti». La classifica Ocse resta però un campanello d’allarme.
Ne è convinto Zaccaria: «Sorrido se penso che cinque anni fa una Fondazione di banche
aveva deciso di dare borse di studio a ricercatori stranieri. E sa cosa ci dicevano alla
Fondazione? Non prendete da Cina e India, sono Paesi poco sviluppati. Non è il caso di
fare assistenzialismo».
Agostino Gramigna
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CULTURA E SPETTACOLO
Del 28/04/2015, pag. 12
Le cento declinazioni del documentario
Cinema. Si è chiuso domenica «Art of the Real», festival ideato dal direttore della
Lincoln Center Film Society, Dennis Lim, mix di film nuovi e programmi
retrospettivi. Da due anni la rassegna prova a proporsi come antidoto alle accezioni
più letterali, giornalistico informative del cinema di non fiction
Giulia D'Agnolo Vallan
Dopo che il dibattito sulla «verità» al cinema ha dominato, in modo più o meno tendenzioso, gran parte della campagna per l’ultimo Oscar, Servire la verità con l’immaginazione
è il titolo di un lungo articolo del critico di cinema A. O. Scott dedicato (sul New York Times
di domenica) alla rielaborazione estetica delle realtà nel cinema, di fiction e non. Il pezzo
è meno interessante per le sue conclusioni (non originalissime ma condivisibili: Scott
chiede «più arte e meno giornalismo»), che come segno di una zeitgeist in cui l’ultimo film
con James Franco e Jonah Hill (True Story, un indie americano tratto da un fatto di cronaca), la serie HBO The Jinx, l’animato Waltz With Bashir e i documentari The Act of Killing (sulle atrocità del regime nell’ Indonesia anni sessanta) e The Missing Picture(la Cambogia dei Khmer Rouge) possono essere parte di uno stesso argomento.
Dai reality, ai programmi dei festival generalisti, ai palinsesti Tv, al boom del biopic, «la
realtà», oggi, sembra la moneta che tira di più. E, con essa, il cinema che l’ha sempre tradizionalmente più rappresentata. A confermare la moda del documentario, persino il trendissimo regista Noah Baumbach si è sentito in dovere di usarlo come sfondo della sua
ultima commedia, While We’re Young. Il soggetto del film è la (patetica) fascinazione di
due coniugi quarantenni (Ben Stiller e Naomi Watts) per un’iperattiva, impossibilmente
perfetta, coppia di millenials (Adam Driver e Amanda Seyfried). Ma, in osservanza del corrente dibattito culturale, Baumbach ha fatto del personaggio di Stiller un documentarista
da dieci anni idealisticamente al lavoro sullo stesso progetto, di Driver quello del giovane,
spregiudicato, arrivista che gli ruba l’idea e la gloria; e ha affidato a Charles Grodin il ruolo
di un mitico, ineffabile, pioniere della professione, una sorta di Al Maysles o D.A. Pennebaker, che alla fine –ricevendo un’onorificenza al Lincoln Center– fa un lungo discorso sul
cinema e……la verità. Che, aldilà dei circuiti di settore, un pubblico sempre più allargato
abbia accesso a un cinema (e a un’idea di cinema) complessa, ibrida, dialettica, meno
imbrigliata in categorie, è una buona notizia, oltre che un riconoscimento nei confronti di
autori come Fred Wiseman (nel 2014, il primo documentarista nella storia della Mostra di
Venezia a ricevere un Leone d’oro alla carriera) che, da sempre, si sono posti al di sopra
di quelle categorie. Da due anni, questa visione espansa, avventurosa, problematica del
documentario è oggetto di Art of the Real, un festival ideato dal direttore della Lincoln Center Film Society, Dennis Lim, proprio per proporre un antidoto alle accezioni più letterali,
giornalistico/informative del cinema di non fiction. Conclusasi domenica con la proiezione
dell’ultimo lavoro della regista di San Francisco Jenni Olson, The Royal Road, un percorso
libero nella storia della California che spazia dal porto industriale di Oakland a Pasadena,
dal missionario francescano Junipero Serra a Vertigo di Hitchcock e Sans Soleil di Chris
Marker (presentato insieme a corti di Mark Rappaport su Anita Ekberg e Douglas Sirk),
l’edizione di quest’anno era nuovamente un mix di film nuovi e programmi retrospettivi.
Accanto, tra gli altri, a recenti lavori di Ben Russell (Greetings from the Ancestors), Peggy
Awesh (Kissing Point), Matt Porterfield (Take What You Carry), Alain Cavalier (Le Paradis)
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e Joao Pedro Rodriguez (Iec Long), e a un ampio omaggio a Agnes Varda, è sembrata
particolarmente azzeccata una finestra dedicata alla pratica della ricostruzione drammatica, Repeat As Necessary: The Art of Reenactment.Comunemente associato al docudrama tv, specie quello a sfondo criminale, il reenactment, in tempi recenti, è stato internazionalmente «rinobilitato» da documentaristi come Rithy Panh e Joshua Oppenheimer,
che ne hanno fatto il soggetto implicito di film come The Missing Picture e The Act of Killing. Andrew Jarecki l’ha usato parecchio, alternandolo liberamente (come se si trattasse
di un linguaggio unico) a riprese dal vero e a materiali d’archivio, nella nuova serie
HBO The Jinx: The Life and Deaths of Robert Durnst, in cui Jarecki ha rivisitato quello che
fu già il soggetto di un suo film di fiction, All Good Things ( 2010), e cioè la storia dell’erede
di una ricca famiglia di Manhattan, accusato di tre omicidi per cui però nessuno è riuscito
a condannarlo (la fortuna di Durnst potrebbe essere finita: in seguito a nuovi indizi presentati dal doc è stato arrestato). Tra i film proposti nel suo Repeat As Necessary, un programma ricco di storia, forse un po’ rigido, ma affascinante, e un importante «assaggio»
su un tema che merita altre variazioni, Lim ha incluso, per esempio, un classico del genere
come Edvard Munch (1974), dell’inglese Peter Watkins, in cui la vita e l’arte del pittore norvegese vengono raccontati in un collage di tre ore (erano quasi quattro nella versione
andata in onda in tv) che sovverte le barriere tra sceneggiato in costume e reportage in
una fusione poetica di entrambi. Più letterale – teorica– la ricostruzione drammatica
secondo l’artista di Singapore Ming Wong che in Angst Essen (2008) e Lerne Deutsch Mit
Petra von Kan (2007) rimette in scena –con se stesso nei ruoli di tutti i protagonisti–
alcune sequenze dei melodrammi fassbinderiani La paura mangia l’anima e Le lacrime
amare di Petra Von Kant. Mentre James Benning in Landscape Suicide (1986), un film che
rimanda inevitabilmente al capolavoro true crime di Truman Capote In Cold Blood, sovrappone alle immagini mute di paesaggi americani le voci di attori che leggono stralci delle
testimonianze nei processi a Bernadette Protti (una studentessa che, nel 1984 uccise un
compagno di liceo che l’aveva insultata) e del famoso serial killer del Winsconsin Ed Gain.
Uniti in un doppio programma erano invece Inextinguishable Fire di Harun Farocki (1969),
sul funzionamento di una fabbrica di prodotti chimici da cui arriva il napalm, e il suo
remake, inquadratura per inquadratura, tradotto in inglese e diretto da Jill Goodmillow, What Farocki Taught Me nel 1998. Da segnalare, in un piccolo omaggio alla regista
Elisabeth Subrin, in particolareLost Tribes and Promised Lands (2010), in cui alle immagini
girate da Subrin a Brooklyn nei giorni successivi all’attentato dell’11 settembre si uniscono
quelle girate, in sequenza, negli stessi luoghi e con la stessa 16mm, nel 2010, con un
effetto che sottolinea, insieme ai cambiamenti della gentrificazione ma anche di uno stato
d’animo; e Sweet Ruin (anche lui in 16mm), una libera interpretazione del film mai realizzato di Michelangelo Antonioni Tecnicamente dolce, con l’attrice Gaby Hoffman (Girls) in
ruoli che Antonioni aveva immaginato per Maria Schneider e Jack Nicholson.
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ECONOMIA E LAVORO
del 28/04/15, pag. 8
LAVORATORI IN NERO, IL CASO SCUOTE
L’EXPO “BADGE SENZA FOTO”
C’È UN VARCO APERTO AGLI “IRREGOLARI ”. LA CGIL E I CONTROLLI
ALLENTATI PER IL RUSH FINALE: “ NON SI TIMBRA PIÙ ALL’USCITA”.
BUFERA SU MANPOWER: “TEMIAMO PAGHE SOTTO I 5 EURO L’ORA”
di Gianni Barbacetto
e Marco Maroni
Milano
Il commissario Expo Giuseppe Sala è ottimista e irritato. Ottimista perché l’esposizione “il
1° maggio sarà pronta”, continua a ripetere. Irritato perché il Corriere della Sera ieri ha
raccontato il “varco abusivo” da cui – sotto l’occhio del cronista – entrano all’alba, dalle 6
alle 7, lavoratori irregolari, forse necessari per completare i lavori nella grande corsa finale
prima dell’inaugurazione. Sala smentisce: “Il varco in questione è una postazione
temporanea ed è presidiato 24 ore su 24”, così dice una nota ufficiale della società Expo
2015 Spa. “Come mostra il video pubblicato su corriere. it , il giornalista si è fermato
sull’ingresso”, prosegue la nota. “Se fosse entrato sarebbe stato bloccato dalla vigilanza,
come peraltro successo nello stesso luogo ad altri giornalisti nei giorni scorsi”.
“SONO amareggiato”, confessa Sala, “al di là dei contenuti che cercheremo di capire. A
parte che ho fatto fare una verifica rapida e mi risulta che il cancello ci sia, ma poi chi entra
trovi delle guardie, quindi questo è un po’ da verificare. Dopo di che, tra giornali e Expo c’è
una regola non scritta, ma a cui ci si attiene, di fronte a cose che sono ritenute gravi: si
chiama prima e si sente la versione dell’altra parte. Io, è meglio che la gente sappia”, ha
detto Sala a una radio privata, “ho ricevuto una telefonata ieri sera alle 23, dunque con il
chiaro intento di non sentire la nostra opinione, e quindi che ognuno faccia la sua parte.
Che pensassero un po’ ai 9 mila lavoratori che stanno lavorando sotto l’acqua per cercare
di finire questa opera... Per cui sono assolutamente irritato, dopo di che se sarà così ne
risponderemo, ovviamente perché siamo a rispondere alla collettività, però ogni tanto si
perde veramente un po’ il senso della misura”. L’irritazione del commissario non tiene
conto dei precedenti: ai primi di aprile due giornalisti del sito fanpage. it sono entrati da
uno degli ingressi principali senza tessera di riconoscimento, semplicemente indossando
caschetto e gilet ad alta visibilità, per arrivare, indisturbati, sotto Palazzo Italia. Qui hanno
deposto una scatola con la scritta “bomba”. Sala, subito dopo, li ha descritti come
“persone che hanno del buon tempo da perdere” e ha garantito che sulla vigilanza dei
varchi ci sarebbe stato un giro di vite. Eppure il 25 aprile un cronista del Fatto Quotidiano
ha raccontato di essere entrato nel sito Expo attraverso un canale scolmatore del torrente
Guisa. Poi è stata la volta del Corriere , che ha aggiunto che da un varco non presidiato, a
poca distanza da un ingresso ufficiale, entrerebbero i lavoratori non regolari, quelli che una
tessera non ce l’hanno perché non hanno neppure un contratto.
I SINDACATI confermano l’allentamento dei controlli in entrata e in uscita: “Il cantiere, con
le quasi 9 mila persone che ci lavorano in questi giorni, è un delirio”, racconta Antonio
Lareno, responsabile Expo della Cgil, “non stupisce dunque che riesca a entrare qualche
lavoratore in nero. Ma credo sia un aspetto marginale, anche perché il più delle volte
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vengono individuati. Però da metà febbraio, cioè da quando sono fortemente accelerati i
lavori nel sito espositivo, non c’è più l’obbligo di mettere sul badge identificativo la
fotografia personale, né di timbrare al termine del turno. Abbiamo continuato a segnalare
che in questo modo si incentivano gli ingressi irregolari”. Il sindacalista segnala anche un
altro aspetto che ritiene preoccupante, ora che si va verso l’apertura al pubblico del sito:
quello relativo ai turni del personale di vigilanza. Un affare da quasi 20 milioni di euro,
affidato a un raggruppamento d’imprese che comprende Allsystem, Sicuritalia e Ivri. “Per
risparmiare, le imprese stressano gli orari, facendo fare agli addetti 12 ore di lavoro al
giorno: così rischiamo che a Expo possa succedere quello che è accaduto al Palazzo di
giustizia di Milano. Ci vogliono invece turni compatibili con le soglie di attenzione”, chiede
Lareno. Su questo, i sindacati stanno conducendo trattative con Expo Spa. Il personale di
vigilanza è un esercito di 1.500 guardie private, di cui 900 armate e 600 da collocare agli
ingressi, con competenze di procedure aeroportuali. Secondo i sindacati, almeno una delle
quattro aziende che hanno vinto la commessa diretta per la sicurezza starebbe inoltre
garantendo compensi “molto inferiori alle regole: 4,6 euro all’ora, contro un minimo di 6,5”.
SONO LE TRE sigle sindacali Cgil, Cisl e Uil di Milano a denunciare anche il tentativo di
forzare gli accordi sindacali: puntano il dito su Manpower, l’agenzia che in Expo gestisce “il
lavoro in somministrazione e che in violazione degli impegni assunti non ha fornito
informazioni sul proprio operato”. I sindacati ipotizzano che l’agenzia di lavoro interinale
voglia utilizzare per i lavoratori richiesti dai padiglioni esteri contratti “al ribasso fino al 30
per cento rispetto alla normativa italiana”: “Temiamo che vogliano applicare contratti
diversi da quelli collettivi nazionali, con una riduzione dei compensi anche sotto i 5 euro
all’ora”. Secondo i sindacati, Manpower avrebbe raccolto per i padiglioni stranieri 150 mila
candidature di lavoro, da cui sta selezionando i 4 o 5 mila lavoratori richiesti. Manpower
smentisce, citando l’“utilizzatore finale” (cioè, si suppone, il Paese ospitante): “Per tutti i
contratti attivati per conto dei Paesi espositori sono stati adottati i contratti applicati
dall’utilizzatore finale, nel pieno rispetto della normativa vigente in Italia”. Intanto, a tre
giorni dall’apertura, la corsa contro il tempo continua.
Del 28/04/2015, pag. 5
Spending review, detrazioni fiscali nel mirino
La spending review targata Renzi. Gutgeld & Perotti, per conto del
governo, per ora non indicano una ricetta unica: ma nel mirino
potrebbero finire le agevolazioni fiscali per le famiglie, le detrazioni per
la sanità e i restauri edilizi
Roberto Romano
Il governo nasconde la polvere sotto il tappeto. Tesoretto? La realtà è durissima: se non
tagliamo 16 miliardi di spesa pubblica per il 2016, scatterà la clausola di salvaguardia, con
un aumento di tasse equivalente (Iva e accise). Yoram Gutgeld e Roberto Perotti stanno
lavorando con dedizione al taglio della spesa pubblica. Sono molte le voci interessate. La
più delicata è la revisione delle agevolazioni fiscali, ovvero il taglio di deduzioni, detrazioni
ed esenzioni che riducono il carico fiscale per un contro valore di 253 miliardi (Commissione Vieri Ceriani). Sono almeno 10 i miliardi da trovare.
Sono in cantiere non meno di 52 voci di agevolazioni fiscali da colpire, ma il governo si
affretta a dire che per ora sono solo simulazioni. Tra i temi più delicati, oltre al bonus edilizio, ci sono le detrazioni per spese mediche e per le badanti. Dovrebbe progressivamente
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scomparire, all’aumento del reddito, la detrazioni (attualmente al 19% per tutti) per le
spese mediche, così come quella dei contributi previdenziali per l’assistenza personale
e familiare. Nel mirino tornano altre voci più volte chiamate in causa negli anni scorsi:
spese funebri a veterinarie.Sono ipotesi che si scontrano con l’indicazione del Parlamento
che ha chiesto, esplicitamente, che l’intervento sulle tax expenditures sia rivolto a eliminare doppioni e agevolazioni non giustificate dal punto di vista economico o sociale, salvaguardando però le voci più sensibili, in particolare quelle per i redditi da lavoro dipendente,
i redditi di imprese minori e quelli da pensione. A Gutgeld va ricordato un liberale perbene:
Luigi Einaudi e l’idea dei diritti presi sul serio, e le sue lezioni del ‘44. Il bilancio pubblico
non è il bilancio di una impresa, e tanto meno il bilancio di una famiglia. La differenza tra
politica economica e ricerca del profitto è materia complicata. Non è facile polemica, ma la
spending e l’intervento sulle agevolazioni fiscali del governo non hanno la finalità di migliorare la distribuzione del reddito, che nel frattempo è peggiorata in tutti i paesi a capitalismo
maturo (Atkinson, 2015), oppure quella di riallocare la spesa pubblica per rilanciare il
sistema economico attraverso il governo della spesa, ma solo quella di recuperare risorse.
Alla faccia della politica economica e cambiare verso. Le letture keynesiane sono superflue? Non discuto questa opinione, ma non si deve mai dimenticare che le principali attività
della pubblica amministrazione possono essere ricondotte: (1) all’individuazione della
migliore allocazione delle risorse all’interno dell’economia nel suo insieme, cioè ripartirle
tra pubblico e privato, e allo sviluppo di attività pubbliche che il privato non ha nessun interesse a realizzare; (2) alla necessità di assicurare una crescita economica; (3) alla
programmazione-stabilizzazione della crescita economica, intervenendo ogni qual volta si
manifestasse una crisi, oppure una riduzione della crescita nei casi di inflazione eccessiva
o una selezione degli investimenti necessari per programmare lo sviluppo; (4) alla distribuzione del reddito al fine di evitare una eccessiva polarizzazione del reddito e, quindi, favorire alcuni gruppi sociali.Quindi, l’efficacia o meno della spesa pubblica non dipende solo
dalla sua dimensione, ma anche dalla composizione. Se la spending review diventasse
governo della formazione spesa pubblica, superando la logica del risparmio più o meno
necessario, potremmo conseguire obbiettivi sociali, economici e industriali di grande utilità.
Una parte rilevante dell’attuale spesa pubblica è figlia di vecchi progetti. In alcuni casi
sono inutili e fondati su scenari economici completamente diversi. Peccato che il taglio di
queste spese farebbe scattare delle penali pari alla spesa tagliata.
Concordo con Gutgeld e Perotti che il governo della formazione della spesa è attività complicata, ma lo è nella misura in cui l’obiettivo è solo quello di tagliare e comprimere il pubblico. Vedremo con la Legge di Stabilità.
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