2. Le risposte di natura ordinamentale: la figura del giudice supplente.

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2. Le risposte di natura ordinamentale: la figura del giudice supplente.
Mutamento del giudice nel corso del dibattimento: cause ed effetti
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ultimo profilo, l’art. 48 comma 5 c.p.p. appare, quindi, una utile specificazione, ma non certo una deroga, rispetto alle conclusioni già ordinariamente raggiunte in tema di rinnovazione del dibattimento successiva
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alla sostituzione della persona fisica dell’organo competente a decidere .
2. Le risposte di natura ordinamentale: la figura del giudice supplente.
Per tutto quanto detto sinora, risulta ormai chiaro come il mutamento anche parziale, nel corso del dibattimento, della composizione dell’organo giurisdizionale, quale che ne sia la causa, ponga un delicato
problema di compatibilità con la disposizione – contenuta nell’art. 525
comma 2 c.p.p. – secondo cui alla deliberazione della sentenza devono
concorrere gli stessi giudici che abbiano partecipato al dibattimento.
Al riguardo, le risposte che l’attuale sistema normativo propone, al
fine di risolvere il problema, risultano di natura diversa. In particolare,
la soluzione viene cercata ora nell’ambito della disciplina ordinamentale, concernente la struttura e l’organizzazione degli organi giudiziari,
ora in quella più strettamente processuale.
Alla prima tipologia di rimedi è riconducibile l’istituto del giudice
«supplente». Si tratta di una speciale figura (prevista nel nostro ordinamento, come si vedrà, soltanto dalle leggi sulle corti d’assise) di giudice, chiamato, sin dall’avvio del dibattimento, ad affiancare, in presenza di certe condizioni, il collegio, senza però farne parte, con il compito
di seguire tutte le fase del processo, così da poter poi sostituire all’occorrenza, con piena cognizione di causa, il componente dell’ufficio della decisione che risulti impossibilitato a proseguire, per un impedito
sopravvenuto.
Un riferimento a tale figura si trova nello stesso art. 525 comma 2
c.p.p. In proposito, è noto come la disposizione de qua sia articolata in
due parti: all’enunciazione iniziale della regola della necessaria identità
fra il giudice del dibattimento e quello della decisione, infatti, segue
immediatamente la previsione secondo cui, qualora alla deliberazione
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Per qualche ulteriore ed opportuna precisazione, al riguardo, cfr. infra, parte II,
cap. III, § 5.
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della sentenza debbano concorrere i giudici supplenti in sostituzione
dei titolari impediti, i provvedimenti già emessi conservano efficacia se
non espressamente revocati.
Ad una prima lettura, il nesso logico tra le due affermazione non
sembrerebbe così evidente, anche se l’accento cade sul riconoscimento
che alla deliberazione della sentenza sono legittimati a partecipare,
nell’ipotesi di impedimento dei giudici titolari, quelli supplenti, senza
che per questo si incorra nella violazione del canone dell’immutabi27
lità . In questa prospettiva appare chiaro il senso dell’intero disposto.
Premesso che la sostituzione, operata nel corso del dibattimento, del
giudice facente parte, sin dall’inizio, dell’organo giurisdizionale, con
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quello «supplente» non sembra porsi, di per sé, in contrasto con la
regola dell’immutabilità dei soggetti chiamati a pronunciarsi sul merito
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del processo , l’attenzione viene focalizzata sull’unico aspetto ritenuto
realmente problematico. Su quello, cioè, relativo alla sorte delle eventuali decisioni, incidentali o interlocutorie, adottate dal collegio nella
originaria composizione, prima del cambiamento resosi necessaria per
l’impedimento sopravvenuto ad uno o più dei suoi componenti.
Ed infatti, posto che tali decisioni possono avere una portata tale
da riverberarsi anche sulla pronuncia finale, si prevede che il nuovo
collegio (nel quale l’avvicendamento dei giudici titolari con quelli
«supplenti» appare in grado di determinare, almeno potenzialmen30
te, un capovolgimento dei rapporti interni sul piano decisorio)
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Al riguardo, sottolinea F. CORDERO, Procedura penale, VIII ed., Giuffrè, 2006, p.
1010, come si tratti di previsione affatto superflua, dal momento che, in sua assenza, ai
fini della applicazione della regola della necessaria identità fra giudice del dibattimento e quello della decisione, la equiparazione tra giudice titolare e giudice supplente
non avrebbe potuto essere certamente data per scontata.
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Rileva ancora F. CORDERO, Procedura penale, VIII ed., cit., p. 1010, come la disposizione de qua non ponga limiti quantitativi alle supplenze. Sembra, pertanto, ammissibile che si operi la sostituzione, con altrettanti giudici supplenti, anche di tutti i
componenti titolari dell’organo giurisdizionale, senza che, ai fini del rispetto del canone dell’immutabilità, si possa parlare di giudice diverso.
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In questo senso, Cass., Sez. III, 25 gennaio 2006, p.m. in proc. Mensha ed altro,
in Arch. nuova proc. pen., 2007, p. 237.
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In proposito, osserva E. FASSONE, Il giudizio, in S. DRAGONE-E. FASSONE-E.
FORTUNA-R. GIUSTOZZI, Manuale Pratico del Processo Penale, Cedam, 2007, p. 1014 s.
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possa revocare i precedenti provvedimenti .
Va sottolineato come, a parte questo specifico aspetto, il legislatore
processuale non si soffermi ulteriormente sulla figura del giudice «supplente», nella presupposizione che il tema riguardi più direttamente la
prospettiva ordinamentale.
Per il resto, pur condividendo i rilievi mossi alla scelta del codice del
1989, eccessivamente sbrigativa e, in quanto tale, idonea a dare corpo a
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dubbi più che fondati (nonché a problemi esegetico-applicativi, lascia33
ti in supplenza alla giurisprudenza e alla dottrina ), converrà, al fine di
un più approfondito inquadramento del tema, verificare quale dimensione rivesta la figura del giudice «supplente» nell’ambito della odierna
come l’art. 525 comma 2 c.p.p., in parte qua, riconosca al giudice subentrato la potestà
di ottenere la revoca dei provvedimenti già emessi, se la richiede e se il suo voto,
sommato alle volontà conformi di altri componenti del collegio, produce una maggioranza in tal senso. L’autore, rilevato come la previsione in oggetto comporti un disvelamento della volontà del giudice subentrato, intaccando così il principio di segretezza
della deliberazione, sottolinea come tale sacrificio sia apparso giustificato dall’esigenza
primaria di garantire la totale autonomia di giudizio del giudice aggiunto, che «non
può essere condizionato dalle decisioni precedenti, le quali si sarebbero diversamente
atteggiate se egli avesse potuto concorrervi».
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Secondo L. MARINI, Commento agli artt. 525-526 c.p.p., in M. CHIAVARIO (coordinato da), Commento al nuovo codice di procedura penale, vol. V, Utet, 1991, p. 491,
la disposizione si riferisce alle decisioni riguardanti, in particolare, le questioni preliminari, l’ammissione di prove e la vicenda cautelare.
La soluzione adottata dal legislatore sul punto ha senz’altro tenuto conto anche
dell’esigenza di economia processuale e del suo corollario, rappresentato dal principio
di conservazione degli atti. In tal senso, non è stata prevista una obbligatoria rivalutazione, ad opera del nuovo organo giurisdizionale, integrato dai giudici supplenti, di
tutti i provvedimenti già emessi, ma soltanto l’attribuzione a quest’ultimo di un generalizzato potere di revoca, con la conseguenza che, in assenza di un esplicito pronunciamento in senso contrario, le precedenti decisioni conservano efficacia.
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Sul punto, sono state avanzate forti perplessità, in dottrina, paventandosi il rischio che il riconoscimento ai giudici supplenti della legittimazione a concorrere alla
deliberazione della sentenza si traduca in un aggiramento mascherato del canone
dell’immutabilità: cfr. R.E. KOSTORIS, voce Giudizio (dir. proc. pen.), in Enc. giur.
Treccani, vol. XV, 1997, p. 5.
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Per esempio, l’art. 525 comma 2 c.p.p. non si preoccupa di indicare le condizioni
alle quali la sostituzione dei giudici effettivi impediti con quelli supplenti possa essere
compatibile con la ratio della previsione dell’immutabilità del giudice ivi enunciata.
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Mutamento del giudice penale e rinnovazione del dibattimento
disciplina concernente la struttura e l’organizzazione degli organi giudiziari.
Al riguardo, basta una rapida ricognizione del vigente ordinamento
giudiziario per rendersi conto che essa sia prevista soltanto con riguardo alla corte d’assise e alla corte d’assise d’appello. È noto che, in questi
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organi giurisdizionali specializzati , competenti, negli stessi limiti ratione materiae, rispettivamente per i giudizi in primo grado e per quelli di
seconda istanza, il collegio giudicante è composto da sei giudici popolari e da due giudici togati. La preoccupazione che la necessità di sostituire nel corso del dibattimento uno o più fra i giudici (togati o popolari),
inizialmente chiamati a costituire il collegio, possa vanificare l’attività
sin a quel momento compiuta, ha indotto il legislatore ad ammettere la
possibilità che al collegio costituito vengano aggregati, pur senza farne
formalmente parte, altri giudici (togati e popolari), denominati «aggiun35
ti» . I quali sono tenuti ad assistere interamente al dibattimento e sono
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Per un inquadramento nel sistema ordinamentale e processuale italiano di tali
organi, cfr., tra gli altri, A. AVANZINI, voce Corte d’assise, in Enc. giur. Treccani, vol.
IX, 1988, p. 1 s.; ID., voce Corte di assise (ordinamento italiano), in Dig. pen., vol. III,
1989 p. 180 s.; e A. CASALINUOVO, voce Corte di assise - b) diritto vigente, in Enc. dir.,
vol. X, 1962, p. 783 s. Per una analisi delle origini storiche dell’istituto della corte
d’assise, v. A. MARONGIU, voce Corte di assise - a) premessa storica, in Enc. dir., vol. X,
1962, p. 774 s.
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Al riguardo, occorre preliminarmente affrontare un problema di natura terminologica. La questione nasce dalla diversa denominazione con la quale nel testo dell’art.
525 comma 2 c.p.p. e nella specifica normativa in materia di ordinamento della corte
d’assise e della corte d’assise d’appello sono indicati quei giudici destinati ad affiancare il collegio regolarmente costituito, e ad assistere a tutte le udienze dibattimentali,
con il compito di sostituire i giudici titolari nel caso di eventuali assenze o impedimenti di questi ultimi. Nella disciplina codicistica, essi sono, infatti, come si è visto, indicati quali «giudici supplenti», contrapponendosi in questo senso ai cosiddetti «giudici
titolari», chiamati sin dall’inizio a comporre l’ufficio giudicante. Nella normativa specificatamente dedicata all’ordinamento degli organi giurisdizionali de quibus, la medesima figura è denominata facendo uso della locuzione di «giudice aggiunto» (cfr. art.
26 legge 10 aprile 1951, n. 287 e art. 10 d.lgs. 28 luglio 1989, n. 273).
Va, per ragioni di chiarezza, ricordato anche come nella normativa da ultimo menzionata la locuzione di «giudice supplente» sia presente, ma in una accezione del tutto
diversa. È noto come la complessa, e per certi aspetti farraginosa, procedura di reclutamento del giudici popolari si articoli in diversi passaggi. Ad una prima fase di selezione – fondata sulla sussistenza in capo ai soggetti individuati dei requisiti richiesti
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destinati a subentrare ai giudici titolari nel caso di sopravvenuto impedimento o di assenza di questi ultimi.
Concentrando la nostra attenzione a quanto stabilito con riguardo
alla corte d’assise, funzionalmente competente per la fase dibattimentale nei giudizi di primo grado, vale la pena di prendere le mosse da una
preliminare constatazione. Si è accennato al fatto che la possibilità di
designare «giudici aggiunti» risulta prevista in rapporto sia alla componente laica dell’organo (art. 26 della legge 10 aprile 1951, n. 287, così
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come riformulato dall’art. 35 d.p.R. 22 settembre 1989, n. 273 ) sia a
dalla legge per assumere la funzione di giudice popolare, e realizzata a livello, in un
primo tempo, di ogni comune, e, in un secondo momento, di ogni circondario – la
quale si è poi tradotta nella compilazione delle c.d. liste comunali e, poi, degli albi circondariali di giudici popolari, segue una seconda fase, attraverso la quale si procede
ad una ulteriore cernita, effettuata per sorteggio, sulla base quindi di princìpi di causalità e, quindi, di imparzialità.
In particolare, partendo dai citati albi circondariali vengono individuati i nominativi
dei soggetti che andranno a comporre le liste generali dei giudici popolari. L’operazione
avviene, in realtà, in due tempi. Vengono, anzitutto, sorteggiati tanti soggetti quanti sono quelli predeterminati per ogni corte d’assise, che vanno a formare la cosiddetta lista
generale dei giudici popolari «ordinari». Solo successivamente, viene composta, attraverso ulteriori estrazioni, una seconda lista, nella quale vengono inseriti, fino a raggiungere un numero pari a quello dei giudici popolari ordinari, i cosiddetti giudici popolari
«supplenti». Tutti gli iscritti alle liste generali sono, comunque, destinati a poter prestare
servizio, in qualità di giudice popolare, nel biennio successivo.
È solo, però, in un momento ancora successivo che, sempre tramite sorteggio, dalle liste generali così formate, vengono individuati i giudici popolari di sessione nonché, nell’ambito di questi ultimi, quelli necessari a comporre i collegi giudicanti. Queste ulteriori operazioni vengono effettuate, estraendo preferenzialmente i nominativi
dalla lista generale dei giudici popolari ordinari. Solamente qualora non sia possibile
in questo modo costituire i collegi, è prevista la possibilità di fare ricorso alla lista dei
giudici popolare supplenti, individuando, tramite estrazione, un numero di soggetti
pari a quelli, di volta in volta, richiesti.
Tornando alla questione dalla quale avevamo preso le mosse, può risultare singolare questo scollamento linguistico tra i due testi normativi. Ma pare tutto risolvibile attraverso una lettura adeguatrice. In effetti, dal punto di vista sostanziale, non sembrano esservi dubbi che il soggetto al quale l’art. 525 comma 2 c.p.p. fa riferimento, qualificandolo come «giudice supplente», corrisponda alla figura individuata, nell’ambito
della disciplina concernente la struttura della corte d’assise e della corte d’assise d’appello, con la espressione di «giudice aggiunto».
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La figura del giudice popolare aggiunto era già presente nella versione originaria
8.
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quella togata (art. 10 del d.lgs. 28 luglio 1989, n. 273 ). E la disciplina
della legge n. 287 del 1951, con la quale veniva attuato, a tre anni di distanza dall’entrata
in vigore della Carta costituzionale, il progetto di radicale revisione della materia, procedendo alla definizione di un nuovo assetto dei giudizi di corte di assise, destinato a
sostituirsi a quello di matrice fascista realizzato con il r.d. 23 marzo 1931, n. 249.
In particolare, l’art. 26 del suddetto testo normativo, nella sua versione originaria,
stabiliva, infatti, all’ultimo comma, la facoltà, con riguardo a dibattimenti che si prevedessero di lunga durata, di disporre che prestassero servizio altri giudici popolari in
qualità di aggiunti in numero non superiore a cinque, i quali assistessero al dibattimento e sostituissero i giudici effettivi nel caso di eventuali assenze o impedimenti. La
disposizione si chiudeva con la precisazione che la sostituzione non era più ammessa
dopo la chiusura del dibattimento (cfr. T. FORTUNIO, I giudizi d’assise nella nuova legge, Nuove edizioni “Jus”, 1951, p. 42 s.).
Negli anni, la prescrizione aveva subito, poi, alcune modifiche, ad opera di novelle
successive, le quali, però, non avevano intaccato il nucleo della previsione. In particolare, con la legge 27 dicembre 1956, n. 1441, era stato stabilito che, nel designare i
giudici aggiunti, venisse seguito un criterio di genere, secondo il quale tra gli aggiunti
dovessero essere tre uomini e due donne. Con il successivo d.l. 14 febbraio 1978, n. 31
convertito con modificazioni con legge 24 marzo 1978, n. 74, il riferimento alla ripartizione dei giudici aggiunti per sesso veniva soppressa, mentre il numero massimo dei
giudici designabili come aggiunti veniva portato a dieci. Dopo tali ultimi ritocchi, la
disposizione è rimasta invariata, sino alla sua totale riformulazione ad opera dell’art.
35 d.p.R. n. 449 del 1988, facente parte della normativa complementare connessa all’approvazione del nuovo codice di rito penale.
Per un quadro delle innovazioni di natura ordinamentale e processuale apportate in
tema di corte d’assise a seguito dell’entrata in vigore del nuovo codice di rito e della
normativa ad esso connessa, v. A. CASALINUOVO, voce Corte d’assise, in Enc. dir., Agg.,
vol. I, 1997, p. 462 s., e G. CIANI, Novità del c.p.p. 1988 e delle norme ordinamentali ad
esso collegate sulle corti d’assise e sui loro componenti togati, in Cass. pen., 1992, p. 976 s.
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La figura del giudice togato aggiunto è di conio decisamente più recente, rispetto all’omologa figura del giudice popolare aggiunto. Essa è stata, infatti, introdotta nel
nostro sistema giuridico solo a seguito della d.l. 6 febbraio 1986, n. 18, convertito con
modificazioni con legge 24 marzo 1986, n. 79, attraverso il quale si era provveduto
all’aggiunta di un ultimo ed inedito comma al testo allora vigente dell’art. 26 della legge n. 287 del 1951, contenente già la disciplina riguardante il giudice popolare aggiunto. Per una ricostruzione della genesi del provvedimento e una analisi delle novità in
quest’ultimo contenute, si legga P. DORIGO, Commento al D.L. 6/2/1986 n. 18 – L.24
marzo 1986 n. 79 (corti d’assise), in Legisl. pen., 1986, p. 410 s.
La separazione formale delle due previsioni si deve all’opera di riordinamento della materia, realizzata dalla normativa complementare legata all’entrata in vigore del
nuovo codice di rito penale. Mentre la disciplina, seppur parzialmente riformata dal-
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dettata, in relazione alle due ipotesi, è, per molti aspetti, analoga, anche
se non mancano, come si vedrà, alcune differenze.
L’analisi può cominciare osservando come la aggregazione al collegio
di corte d’assise di giudici aggiunti, togati o popolari che siano, non sia
prevista come un adempimento obbligatorio o automatico, essendo, al
contrario, rimessa alla discrezionale valutazione del presidente della
corte d’assise, per quanto concernenti i giudici popolari, e del presiden38
te della corte d’appello , in rapporto a quelli togati.
In particolare, l’aggregazione al collegio di giudici aggiunti è connessa alla sussistenza di particolari presupposti. Viene, anzitutto, in rilievo
il fattore legato ai tempi del dibattimento, essendo la facoltà di designare giudici aggiunti ricollegata alla previsione che il dibattimento risulti
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di lunga durata . Come correttamente osservato in dottrina , sono
molteplici gli elementi che potranno, in concreto, essere presi in considerazione ai fini della decisione: numero degli imputati; ampiezza e natura delle accuse formulate; atteggiamento processuale assunto dagli
accusati nelle fasi precedenti del dibattimento; pluralità e complessità
delle questioni da chiarire in aula.
Sul punto, però, si registra un primo e significativo divario tra il rel’art. 35 d.p.R. n. 273 del 1989, relativa al giudice popolare aggiunto, è rimasta collocata nel menzionato art. 26 della legge n. 287 del 1951, la figura del giudice togato aggiunto si trova oggi regolamentata nell’art. 10 d.lgs. n. 273 del 1989. Lo spostamento
di sede non deve, però, trarre in inganno. Quest’ultima disposizione recupera, infatti,
in modo pressoché integrale, quanto già stabilito dalla precedente previsione.
38
Rileva G. BONETTO, Commento all’art. 10 n. att. ad. o.g., in M. CHIAVARIO (coordinato da), Commento al codice di procedura penale. Leggi collegate, vol. II, La normativa
ordinamentale, Utet, 1999, p. 238, come il provvedimento del presidente della corte
d’appello presupponga, comunque, una previa segnalazione e un conforme parere del
presidente della corte d’assise davanti al quale dovrà celebrarsi il dibattimento.
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Sul punto, poco significativa appare la pur esistente diversità, sul piano della formulazione della fattispecie, tra l’art. 26 legge n. 287 del 1951 e l’art. 10 d.lgs. n. 273 del
1989. Nel primo testo si parla di «dibattimenti che si prevedono di lunga durata», mentre nel secondo ci si riferisce a dibattimenti «che si prevedono di durata particolarmente
lunga». È difficile immaginare che la scelta linguistica, con l’aggiunta, nel secondo caso,
dell’avverbio «particolarmente» ad ulteriore connotazione della prevedibile lunghezza
del dibattimento, possa avere sul piano applicativo delle effettive ricadute.
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Così P. DORIGO, Commento al D.L. 6/2/1986 n. 18 – L.24/3/1986 n. 79, cit., p.
411-412.
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gime previsto per i giudici popolari e quello dettato per i togati. In proposito, infatti, a seguito della riformulazione dell’art. 26 legge n. 287 del
1951, operata, nell’ambito delle normativa per l’adeguamento dell’ordinamento giudiziario al nuovo processo penale, dall’art. 35 d.p.R. n. 449
del 1988, la designazione di giudici popolari aggiunti è oggi prevista, al
di là della fattispecie connessa alla prognosi di particolare complessità
del dibattimento, anche in ogni altro caso in cui essa appaia «comunque
opportuna».
Prescindendo dalla differente previsione, in termini numerici, dei
giudici popolari aggiunti rispetto agli omologhi togati (solo in parte giustificabile con il diverso peso attribuito, rispettivamente, alla componente laica ed a quella togata ai fini della costituzione della corte d’as41
sise ), vale la pena di sottolineare come sia stabilito che gli uni e gli altri, una volta designati, assistano al dibattimento e si sostituiscano a
quelli effettivi nel caso di necessità.
Per quanto concerne il dovere di assistenza al dibattimento, la sintetica espressione contenuta nell’enunciato normativo può, prima facie,
prestarsi a letture diverse. In particolare, dando per scontato che l’obbligo di presenza si riferisca all’intero dibattimento, sin dal momento
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formale di avvio , la discussione si è concentrata sulla funzione da attribuire durante la fase dibattimentale ai giudici aggiunti non ancora
chiamati a sostituirsi a quelli titolari. In proposito, vi è stato chi ha so41
Mentre, infatti, il numero dei giudici togati aggiunti designabili (due), corrisponde a quello dei magistrati che devono, comunque, essere presenti al fine della regolare costituzione del collegio, per quanto riguardo i giudici popolari, è possibile designare aggiunti sino ad un massimo di dieci, in un numero pari, quindi, quasi al doppio di quelli richiesti, come titolari, per la composizione della corte d’assise (sei).
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Osserva, correttamente, S. PATANÉ, L’immutabilità del giudice e la prova, in
Giust. pen., 1999, III, c. 267, come non possa non valere, sul punto, per i giudici supplenti quanto stabilito, ai sensi dell’art. 525 comma 2 c.p.p., per quelli effettivi. La
conclusione appare, in effetti, obbligata. Basta, al riguardo, considerare come la designazione dei giudici aggiunti è prevista proprio al fine di garantire, comunque, anche
nel caso di impedimento di uno dei giudici titolari, la necessaria coincidenza tra giudice del dibattimento e giudice della decisione.
Per l’affermazione per cui alla deliberazione della sentenza possono partecipare,
oltre ai giudici popolari effettivi, anche gli aggiunti in precedenza subentrati, sempre
che abbiano partecipato all’intero dibattimento, Cass., Sez. III, 256 gennaio 2006,
Mensha ed altro, cit., p. 237.
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stenuto che, pur in assenza di precise indicazioni legislative, il compito
ad essi assegnato non possa ridursi ad una mera presenza fisica alle u43
dienze dibattimentali . Più precisamente, ai giudici aggiunti non sarebbe precluso l’esercizio di alcuni poteri riconosciuti dalla legge processuale ai componenti effettivi del collegio, quale quello di porre domande, tramite il presidente, a testi ed imputati esaminati durante
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l’istruzione dibattimentale .
Questa opinione, tuttavia, non pare condivisibile. Ad essa si oppone,
anzitutto, il dato testuale. Al riguardo, occorre preliminarmente osservare come il verbo «assistere», in sé considerato, sembri alludere ad una
condotta passiva anziché attiva. E la prima impressione così ricavata,
valorizzando la portata semantica del vocabolo utilizzato, esce ulteriormente confermata dal confronto con la diversa terminologia adottata
dal codice di rito al fine di definire il comportamento dei giudici dibat45
timentali, i quali sono tenuti a «partecipare» al dibattimento .
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In questo senso, con riguardo ai giudici togati aggiunti, GIUS. AMATO, Magistrati
aggiunti in corte di assise: una figura non completamente esplorata, in Cass. pen., 1998,
p. 736.
44
Per questo rilievo, formulato con riguardo alla posizione del magistrato aggiunto
nel quadro della disciplina vigente sotto il codice abrogato, P. DORIGO, Commento al
D.L. 6/2/1986 n. 18 – L.24/3/1986 n. 79, cit., p. 413.
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Il confronto è operato facendo riferimento, sia per quanto riguardo la normativa
processuale sia per quel che concerne quella ordinamentale, alla disciplina attualmente vigente, frutto per il resto, come si è detto, in entrambi i casi, di recenti interventi
legislativi, coevi e collegati. In proposito, ad essere presi in esame sono, quindi, da un
lato, l’attuale art. 525 comma 2 c.p.p. e, dall’altro, l’art. 26 della legge n. 287 del 1951,
così come modificato a seguito della riforma operata dall’art. 35 del d.p.R. n. 449 del
1988, e l’art. 10 del d.lgs. n. 273 del 1989.
Ma la comparazione tra le due normative menzionate, nelle versioni, rispettivamente, vigenti prima delle suddette modifiche legislative, avrebbe dato gli stessi esiti.
Al riguardo, è noto come il codice di rito penale del 1931 stabilisse, ai sensi dell’art.
472 comma 2 c.p.p. abr., l’obbligo, per i giudici chiamati, poi, a deliberare la sentenza,
di «partecipare» al dibattimento. La legge riguardante l’ordinamento della corte
d’assise, a sua volta, sin dalla sua prima formulazione, cronologicamente successiva all’entrata in vigore del codice abrogato, prevedeva, all’art. 26, che i giudici aggiunti,
una volta designati, «assistessero» al dibattimento. Né le successive novelle riguardanti quest’ultima avevano apportato novità sul punto.
Con riguardo a questo specifico aspetto, vale la pena di ricordare soltanto un episodio. In particolare, merita di essere segnalato come, in effetti, nel d.l. n. 18 del 1986,
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La diversa opzione lessicale fatta nei due casi corrisponde, dunque,
ad una reale differenziazione, anche dal punto di vista sostanziale, tra il
ruolo assegnato ai giudici aggiunti rispetto a quello proprio dei giudici
componenti effettivi dell’organo giurisdizionale.
Per il resto, i limiti posti sotto il profilo processuale alla funzione del
giudice aggiunto corrispondono alle caratteristiche di questa speciale
figura sul piano ordinamentale, quale soggetto destinato ad affiancare il
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collegio regolarmente costituito, senza farne parte . In proposito, sarà
bene ricordare come il giudice aggiunto, se non chiamato ad integrare il
collegio, esaurisca il proprio incarico con la chiusura del dibattimento.
Se ne desume che i giudici aggiunti debbano limitarsi, sulla base della normativa vigente, ad essere spettatori, per quanto interessati, di ciò
che accade nel corso del dibattimento.
Rimanendo nello stesso ambito tematico, conviene soffermarsi su
una peculiare questione, divenuta oggetto di una certa attenzione in
giurisprudenza, riguardante la possibilità per i giudici aggiunti di essere
presenti in camera di consiglio, nel caso in cui il collegio debba decidere, durante il dibattimento, circa questioni incidentali o preliminari.
L’interrogativo proposto ha trovato una risposta sostanzialmente positiva, non priva, però, di qualche importante precisazione. In particolare, anche in questo caso, risulta determinante distinguere tra mera pre-
con il quale, secondo quanto già si è ricordato, veniva istituita, interpolando il testo
del vigente art. 26 della legge n. 287 del 1951, anche la figura del giudice togato aggiunto, fosse stato previsto che i magistrati aggiunti «partecipassero», benché non ancora chiamati a subentrare agli effettivi, al dibattimento. In sede di conversione, la
formula veniva, però, corretta in parte qua, sostituendo, nella specie, il verbo «partecipare» con quello di «assistere». Sul punto, v., per alcuni rilievi, P. DORIGO, Commento al D.L. 6/2/1986 n. 18 – L. 24/3/1986 n. 79, cit., p. 413.
46
Sottolinea come, ai sensi della normativa ordinamentale vigente, il giudice aggiunto sia destinato ad aggregarsi al collegio, pur senza divenirne parte, G. BONETTO,
Commento agli artt. 35-36 n. ad.o.g., in M. CHIAVARIO (coordinato da), Commento al
codice di procedura penale. Leggi collegate, vol. II, La normativa complementare, Utet,
1999, p. 193.
Già T. FORTUNATO, I giudizi d’assise nella nuova legge, cit., p. 134 osservava, commentando il testo originale della legge n. 287 del 1951, come il giudice aggiunto, designato ex 26, pur assistendo al dibattimento, acquistasse la capacità di giudicare nel
processo soltanto quando fosse chiamato a sostituire il giudice effettivo o assente.
Mutamento del giudice nel corso del dibattimento: cause ed effetti
221
47
senza ed attiva partecipazione . Al riguardo, si è affermato che la assistenza dei giudici aggiunti alla attività dibattimentale si esplichi anche
nella presenza alla fase deliberativa di decisioni interlocutorie, non potendo, però, tale presenza tradursi nella offerta di un contributo alla
formazione della volontà dell’organo. Va, pertanto, escluso che i giudici
aggiunti possano attivamente partecipare alla decisione o vantare un di48
ritto di voto .
Quanto al meccanismo procedurale attraverso il quale viene realizzato, in concreto, l’avvicendamento del giudice titolare impedito con
quello aggiunto, occorre dire che il regime dettato per la componente
togata non risulta del tutto sovrapponibile a quello stabilito per la componente laica.
Una prima differenza è possibile cogliere con riguardo alle situazioni
che danno luogo alla sostituzione. L’aggregazione al collegio a pieno titolo è, infatti, prevista, in rapporto al giudice togato aggiunto, esclusivamente nel caso di impedimento del titolare, mentre, per quanto con47
Lo stesso criterio è stata utilizzato dalla Corte di cassazione per ritenere legittima
la presenza dei giudici aggiunti, non chiamati ad integrare il collegio, anche alla deliberazione della sentenza finale (così Cass., Sez. III, 25 gennaio 2006, p. m. in c. M.I.,
in Dir. pen. proc., 2006, p. 706, e Cass., Sez. I, 13 dicembre 2002, p. m. in c. Bogdan,
in Guida al diritto, 2003 (29), p. 96).
Va detto che, in questo caso, la soluzione accolta dalla giurisprudenza pare trovare
un limite insuperabile nella previsione per cui il compito dei giudici designati come aggiunti, qualora non si sia proceduto a sostituzione, si esaurisce con la chiusura del dibattimento. Esclude, in dottrina, che i giudici aggiunti, che non siano subentrati nel corso
del dibattimento ad eventuali titolari impediti, possano presenziare alla camera di consiglio disposta per la deliberazione conclusiva, non avendo più titolo per partecipare ancora al processo, GIUS. AMATO, Magistrati aggiunti in corte di assise, cit., p. 737.
48
Così Cass., Sez. VI, 4 febbraio 1998, Ripa, in C.e.d., n. 210377. In senso conforme, Cass., Sez. I, 13 luglio 1999, Ricci, in Arch. nuova proc. pen., 2000, p. 202.
Su posizioni analoghe a quelle della ricordata giurisprudenza, v., in dottrina, GIUS.
AMATO, Magistrati aggiunti in corte d’assise, cit., p. 736, e S. PATANÉ, L’immutabilità
del giudice e la prova, cit., c. 267.
Sul tema, per conclusioni parzialmente diverse, in rapporto alla figura del magistrato aggiunto in corte d’assise nell’ambito della disciplina vigente sotto il codice abrogato, v. P. DORIGO, Commento al D.L. 6/2/1986 n. 18 – L. 24/3/1986 n. 79, cit., p.
413-414, secondo il quale, benché i giudici aggiunti non avessero titolo per partecipare attivamente alla deliberazione, non vi era ragione di escludere che il presidente della corte potesse richiedere loro un parere sulle questioni da risolvere.
222
Mutamento del giudice penale e rinnovazione del dibattimento
cerne il giudice popolare aggiunto, è contemplata anche la fattispecie
dell’assenza del giudice effettivo. Al riguardo, non a torto si è osservato
come il caso dell’assenza risulti «difficilmente prospettabile nei confronti di un magistrato togato, tenuto istituzionalmente, per dovere
d’ufficio, a partecipare alle udienze (salvo, appunto, un eventuale im49
pedimento)» .
Si consideri inoltre che, anche per l’ipotesi in cui si verifichi, comunque, un’impossibilità per il giudice togato titolare di partecipare, la previsione di cui all’art. 10 d.lgs. n. 273 del 1989 (a differenza dell’art. 26
legge n. 287 del 1951), introduce, in via preliminare, una distinzione a
50
seconda che l’impedimento abbia natura temporanea o definitiva . In
proposito, essa dispone espressamente che, qualora nel corso della fase
dibattimentale uno dei componenti il collegio d’assise non possa essere
presente, il collegio stesso, integrato dal magistrato aggiunto più anziano, disponga, in prima battuta, la sospensione del dibattimento. Solamente quando quest’ultima si prolunghi oltre il decimo giorno, la sostituzione del magistrato impedito con quello aggiunto diventa definitiva,
con conseguente immediata prosecuzione del giudizio avanti all’ufficio
della decisione, diversamente composto.
Sennonché, la differenza tra i due regime in esame, sotto l’aspetto da
ultimo considerato, è più apparente che reale. È ragionevole infatti ritenere, per un verso (pur al di là di alcune imprecisioni linguistiche della disposizione citata), che, nel caso in cui l’impedimento sopravvenuto,
riguardante un componente togato del collegio, si presenti sin dall’inizio come non destinato ad esaurirsi in un arco contenuto di tempo, si
possa immediatamente procedere alla ricostituzione, in via definitiva,
51
dell’ufficio della decisione con l’aggregazione del giudice aggiunto .
Per altro verso, però, non vi è motivo per ritenere che, nell’ipotesi in
cui l’impossibilità di partecipare all’udienza interessi un membro laico,
il collegio, integrato temporaneamente da un giudice popolare aggiun49
Testualmente, P. DORIGO, Commento al D.L. 6/2/1986 n. 18 – L. 24/3/1986 n.
79, cit., p. 411, nt. 9.
50
Sul punto, v., in particolare, G. BONETTO, Commento all’art. 10 n. att. ad. o.g.,
cit., p. 239.
51
A favore di tale soluzione, P. DORIGO, Commento al D.L. 6/2/1986 n. 18 – L.
24/3/1986 n. 79, cit., p. 414.
Mutamento del giudice nel corso del dibattimento: cause ed effetti
223
to, non possa limitarsi a ordinare un breve differimento del dibattimento per il tempo strettamente indispensabile per superare la situazione di
impasse. Benché, infatti, tale possibilità non risulti espressamente prevista, essa è ricavabile per via interpretativa. Esce, comunque, avvalorata
dal già ricordato orientamento giurisprudenziale che – in una prospettiva generale – considera valido il provvedimento con il quale il giudice
dibattimentale, presentandosi all’udienza, in una diversa composizione
rispetto a quella sin dall’inizio assunta, a causa della temporanea indisponibilità di uno dei magistrati componenti il collegio, disponga il differimento ad altra data del dibattimento, affinché quest’ultimo possa
continuare avanti allo stesso organo giurisdizionale ricostituito nella
52
formazione originaria .
Occorre notare, da ultimo, come entrambi i suddetti testi normativi
stabiliscano, quasi si trattasse di una clausola di stile, che la sostituzione
non è più ammessa dopo la chiusura del dibattimento, sancendo implicitamente l’illegittimità di ogni ipotesi di avvicendamento tra giudici titolari ed aggiunti durante la fase della deliberazione della sentenza.
Questa prescrizione merita, in realtà, particolare attenzione. In proposito, si potrebbe giungere a dubitare della ragionevolezza di una
normativa che, per un verso, ammette la sostituzione persino nel momento della discussione, quando l’attività di istruzione probatoria, stricto sensu intesa, si è ormai conclusa, e, per l’altro, la esclude qualora
l’impedimento si verifichi non appena incominciate le operazioni deci53
sorie . Non a caso, in siffatta prospettiva si è arrivati ad auspicare, in
nome di ragioni di economia processuale, anche una radicale rimozione
54
del vincolo in parola .
52
V. supra, cap. I, § 5.
V., nella dottrina non più recente, per osservazioni critiche di questo tenore, rispetto all’ipotesi di vietare la sostituzione del giudice titolare con quello supplente nella fase di deliberazione della sentenza, F. CAPRIOLO, La giustizia penale in corte d’assise
secondo il codice di procedura penale promulgato con R. Decreto 27 febbraio 1913. Guida teorico-pratica, Utet, 1915, p. 313-314.
54
In questo senso si è recentemente espressa la Corte di cassazione in sede di parere al progetto preliminare sulle« norme per l’adeguamento dell’ordinamento giudiziario al nuovo processo penale e a quello a carico degli imputati minorenni», successivamente confluite nel d.p.R. n. 448 del 1989 (cfr. Parere della Corte di cassazione, in
G. CONSO-V. GREVI-G. NEPPI MODONA, Il nuovo codice di procedura penale dalle leggi
53
224
Mutamento del giudice penale e rinnovazione del dibattimento
A ben vedere, fra le ragioni che paiono offrire un fondamento alla
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prescrizione de qua , sembra possibile rinvenirne una che si ricollega
direttamente alla regola della immutabilità del giudice. Al riguardo, si è
detto dei condizionamenti che caratterizzano la presenza del giudice
aggiunto non ancora chiamato a sostituire il titolare impedito. In particolare, si è rilevato come al giudice aggiunto sia precluso l’autonomo
esercizio di quei poteri, che ordinariamente spettano ai componenti
dell’ufficio della decisione. E si è sottolineato come la gravità di tale lidelega ai decreti delegati, vol. III, Gli adeguamenti dell’ordinamento giudiziario, t. I, La
genesi dei decreti nn. 449/88 e 273/89, Cedam, 1992, p. 346-347).
In tale occasione, la Suprema Corte, commentando la proposta normativa di riformulazione dell’art. 26 legge n. 287 del 1951, valutava criticamente la scelta di confermare il divieto (già presente nella allora vigente versione della previsione) di sostituzione del giudice titolare impedito con quello supplente dopo la chiusura del dibattimento, denunciando il rischio che, in forza di tale limitazione, molti procedimenti
potessero venire «caducati» a causa dell’impedimento di uno dei giudici del collegio
che fosse sopravvenuto in camera di consiglio.
Si auspicava, quindi, una eliminazione del disposto in oggetto, prevedendo, di
conseguenza, un meccanismo procedurale attraverso il quale consentire, in caso di necessità, l’avvicendamento in camera di consiglio tra il giudice effettivo impedito e
quello supplente. In proposito, secondo la Corte, si sarebbe potuto stabilire, alternativamente, o che i giudici supplenti potessero entrare anch’essi in camera di consiglio,
intervenendo nella votazione, qualora dovessero integrare il collegio, ovvero che,
nell’ipotesi in cui si palesasse l’esigenza di sostituzione di uno dei giudici effettivi in
camera di consiglio, quello supplente potesse essere richiamato, con conseguente rinnovazione della sola camera di consiglio.
55
Secondo C. MASSA, Il principio della immutabilità fisica del giudice nel dibattimento penale, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1965, p. 331-332, gli ostacoli alla sostituzione
del giudice titolare con quello supplente in fase di deliberazione della sentenza non
sarebbero di natura teorica, ma pratica. Sotto il primo profilo, nulla sembrerebbe, infatti, impedire la adottabilità di tale soluzione. In particolare, sarebbe sufficiente prevedere che il presidente del collegio, nel momento in cui si verifichi l’impedimento del
giudice titolare, chiami quello supplente al fine della ricostituzione del collegio, con la
conseguenza che la discussione in camera di consiglio e la susseguente votazione dovrebbero ovviamente cominciare ex novo.
L’autore sottolinea come una soluzione del genere, però, potrebbe dar luogo, nella
prassi, a qualche inconveniente, specialmente nel caso in cui la sostituzione avvenisse
a discussione e votazione avviata, «in quanto il nuovo giudice si potrebbe trovare di
fronte a situazioni già cristallizzate da precedenti comportamenti degli altri componenti del collegio, difficilmente superabili».
Mutamento del giudice nel corso del dibattimento: cause ed effetti
225
mitazione si avverta maggiormente con riferimento ai poteri in materia
probatoria.
Alla luce di tali considerazioni, appare, in realtà, opportuno che la sostituibilità del giudice effettivo con quello aggiunto sia prevista solamente
finché sia possibile una reintegrazione, anche se parziale, di quest’ultimo
nella posizione del primo. In questo senso, appare decisiva la circostanza
che l’art. 523 comma 6 c.p.p. preveda il potere del giudice, anche quando
si sia già pervenuti alla fase della discussione finale, di disporre ex art.
507 c.p.p. l’assunzione di nuove prove in caso di assoluta necessità.
Essendo partiti dall’art. 525 comma 2 c.p.p. e dovendo allo stesso ritornare, appare doveroso chiedersi – in sede di conclusione – se la figura
del giudice «supplente» (o «aggiunto» che dir si voglia), che l’analisi della normativa concernente l’ordinamento della corte d’assise ha contribuito a delineare con maggiore nitidezza, appaia in linea, non tanto sul piano formale, quanto su quello sostanziale, con la regola della necessaria
identità tra il giudice dibattimentale e quello chiamato a decidere.
L’aspetto più problematico, nell’ottica che qui più interessa, si radica
nel carattere fondamentalmente passivo che di necessità connota la presenza del giudice aggiunto alla attività dibattimentale, almeno finché
non venga aggregato, a pieno titolo, al collegio giudicante in luogo del
titolare impedito. In effetti, il divieto di sostituzione nella fase di deliberazione, come pure la previsione concernente la revocabilità – ad opera
del collegio, nel quale sia subentrato il giudice aggiunto – dei provvedimenti precedentemente emessi offrono risposte solo parziali alla esigenza di continuità nell’esercizio della funzione giurisdizionale durante
tutta la fase dibattimentale e sino alla deliberazione della sentenza.
La conclusione finale non può, pertanto, essere a senso unico. In
particolare, a fronte degli indubbi vantaggi offerti dalla soluzione in discorso (imperniata sulla preventiva designazione di giudici supplenti,
destinati ad affiancarsi al collegio costituito), rispetto alla necessità di
mutamento della composizione dell’organo giurisdizionale sopravvenu56
ta nel corso del dibattimento , non sarebbe corretto non sottolineare
57
anche i limiti che tale meccanismo presenta .
56
In questo senso, dalla dottrina più propensa a considerare i vantaggi della soluzione appena considerata – ritenuta idonea a garantire il regolare svolgimento del dibattimento, contro i pericoli di una rinnovazione ex novo – è giunto, in passato, l’au-