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ROBERTA SASSATELLI ED EMANUELA SCARPELLINI
discutono su
«L’impero irresistibile. La società dei consumi
americana alla conquista del mondo»
di Victoria De Grazia
Impero o mercato? Americanizzazione e regimi di consumo in
Europa
Cosa troverebbe l’archeologo di un lontano futuro scavando
tra i detriti sino agli strati corrispondenti al ventesimo secolo proprio al centro di quelle che ora sono Roma, Berlino
e Parigi? Probabilmente i resti di un McDonald’s oppure,
come scrive Victoria De Grazia in conclusione del suo lungo
tour de force, i resti di un discount, ricolmo di televisori al
plasma, abbigliamento sportivo, accessori per il bagno, ecc.:
diffondendo l’american way of life «nell’arco di un secolo
l’egemonia americana ha lasciato tracce altrettanto precise di
quelle lasciate in quattrocento anni dall’Impero romano» (De
Grazia 2006, p. 512). Sì, perché se i romani dominarono
l’Europa due millenni fa costruendo strade e acquedotti, gli
americani l’hanno dominata per gran parte del novecento con
le loro marche di massa, le loro merci di consumo, le loro
tecniche commerciali e le loro cattedrali per gli acquisti. Il
novecento è stato spesso indicato come il «secolo americano»
e la storia novecentesca delle nazioni europee è stata letta altrettanto frequentemente sotto l’egida dell’«americanizzazione»
e dei suoi limiti (si veda Kuisel 1993; Pells 1997; Wagneleiter
1994; Zeitlin e Herrigel 2000). In questo affollato panorama
di ricerca il libro di Victoria De Grazia L’impero irresistibile
occupa un posto del tutto particolare, vuoi per l’autorevolezza dell’autrice e la sua erudizione, vuoi per il linguaggio
ironico, accattivante e provocatorio che si sposa con una
ricerca ventennale e un impianto intellettualmente ambizioso.
Libro accessibile e complesso insieme, L’impero irresistibile è
STATO E MERCATO / n. 80, agosto 2007
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un mosaico di tasselli storici tratti sia da fonti secondarie sia
da dati d’archivio di Stati Uniti, Germania, Italia, Francia e
Svizzera e tenuti insieme da incursioni nella teoria sociale e
culturale. L’obiettivo più volte ribadito è quello di delineare
«l’ascesa di un grande impero con i contorni di un grande
emporio» (De Grazia 2006, p. XV). Un impero post-coloniale,
sembra dirci De Grazia, che non ha semplicemente soggiogato con la violenza o amministrato con la burocrazia, ma ha
sedotto i popoli trasformando i cittadini (di questa o quella
nazione) in consumatori (di un mercato globale dominato dalle
brands americane).
È l’ambizione argomentativa, arricchita di un pathos del tutto
personale, a fare di questo libro una lettura di sicuro interesse
anche per lo scienziato sociale – dal sociologo all’economista
politico – che voglia interrogarsi sul rapporto che lega lo stato
al mercato, e in particolare sul ruolo giocato dalla promozione
di particolari forme di consumo, sia in termini di politiche del
quotidiano che in termini di politica internazionale. E l’autrice
del resto non nasconde il suo proposito in una lunga nota di
ringraziamento e ricostruzione del proprio percorso intellettuale
posta a chiusura del volume in lingua originale, e non inserita
nella traduzione italiana. Scrive De Grazia (De Grazia 2005, p.
557): «il mio libro è sul potere e le sue due facce – consenso
e forza, persuasione e violenza, bastone e carota, soft e hard
– il movimento dall’una all’altra, la linea sottile che le divide,
l’uso dell’una per legittimare l’altra». Così le «seduzioni e
imposizioni del desiderio di consumare» sono il «potere soft»
che ha sostenuto il consolidarsi della novecentesca egemonia
americana, a partire dal trionfo della «cultura di consumo»
(americana) sulla «civilizzazione commerciale» (europea).
Nelle sue dense pagine, De Grazia mette a fuoco una serie
di micro-storie disparate ma interconesse, sei delle quali si
giocano nel periodo tra le due guerre mondiali (ad esempio
l’ascesa dello star system holliwoodiano, lo sviluppo del linguaggio pubblicitario moderno o la diffusione delle catene
di negozi a prezzo fisso); tre nel secondo dopoguerra (come
il piano Marshall o la trasformazione della casalinga in una
consumatrice modello). La storica statunitense apre i suoi capitoli con gustosi aneddoti: fulminei eruditi racconti nei quali
sovente figurano singolari personaggi (per lo più operatori
del mercato-imprenditori, impresari, pubblicitari) o illuminanti
affreschi di vita ordinaria (il solitario cartellone pubblicitario
«L’impero irresistibile. La società dei consumi americana...»
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in un piccolo paese sull’Appennino emiliano agli inizi degli
anni trenta che reclamizza lubrificante per auto assai prima
dell’arrivo della prima macchina illustra magnificamente quanto
il discorso promozionale risponda ad un imperativo culturale
oltre che economico). Sono simili artifici espositivi a dare una
certa linearità al testo, a rendere più agile la ricostruzione di
percorsi storici altrimenti fin troppo contraddittori e tortuosi.
Ma dalla fitta selva di dati – per lo più provenienti da fonti
commerciali – l’autrice fa sempre riemergere quello che ama
definire l’«Impero del Mercato» (Market Empire). Ed è molto
attenta a non dimenticare mai l’uso della maiuscola, un uso
tutt’altro che scontato, una scelta teorica oltre che retorica per
molti versi discutibile perché, come vedremo meglio, reifica il
processo di americanizzazione e lo personifica anche a dispetto
di quanto emerge dalla sua ricerca.
Ma seguiamo il procedere dell’argomentazione centrale, quella
cui l’autrice è decisa a riportare i mille, spesso recalcitranti,
tasselli del suo mosaico. Il suo obiettivo è quello di mostrare
che la planetaria «egemonia» novecentesca degli Stati Uniti è
sorta sul suolo europeo e su un particolare terreno, quello dei
consumi: «fu il Vecchio Mondo il luogo in cui gli Stati Uniti
operarono la propria metamorfosi da prima società dei consumi
di massa a baricentro mondiale delle moderne pratiche consumistiche», e per fare questo gli Stati Uniti dovettero scalzare
l’autorità accumulata in questo campo dall’Europa, «un’Europa
assurta a centro di vasti e opulenti imperi e depositaria non
solo di una comprovata sagacia commerciale ma anche di una
notevole raffinatezza di gusto» (De Grazia 2006, p. XVII). La
«cultura americana del consumo» ha agito come una «forza
rivoluzionaria» e il suo messaggio sul diritto ai comforts materiali
è stato «un solvente degli antichi legami potente quanto una
rivoluzione politica». L’accento è spesso posto sul fatto che,
sulle ceneri di un’Europa arroccata su una visione elitaria e
alto-borghese del buon gusto, gli Stati Uniti hanno disegnato
orizzonti populisti del lusso di massa. De Grazia ricostruisce
l’agenda politica dell’espansione del mercato statunitense mostrando che l’incremento del flusso internazionale di merci,
evidente dal primo novecento e sostenuto dagli Stati Uniti,
era inteso, sin dal suo inizio, anche come un «traffico globale
in valori». Già nel 1916 il presidente Wilson infuse nell’arte
di governo americana una marcata attenzione per i consumi,
sulla base dell’assunto che «le grandi barriere che dividono
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il mondo oggi non sono questione di principi, ma di gusti»
e che le imprese americane avrebbero potuto diffondere «la
pace e i principi americani» studiando i gusti e i bisogni dei
paesi in cui cercavano di esportare i propri beni e «adattando i propri prodotti a questi gusti e bisogni» (ibidem, p.
XIV). De Grazia indica cinque tratti distintivi che segnano
l’unicità dell’Impero del Mercato: gli Stati Uniti riconobbero
che i propri commerci potevano rappresentare un «illecito sul
piano culturale», ma trovarono ugualmente numerosi modi di
giustificarli considerando che «la sovranità di altre nazioni
sul rispettivo spazio pubblico fosse limitata»; esportarono la
«propria società civile», intesa come «sommatoria di associazioni volontarie, competenze nel campo delle scienze sociali e
senso civico» e appoggiata da governi sensibili alle attrattive
di una «moderna economia basata sui consumi»; sfruttarono
la propria stessa «forza normativa» (power of norm-making)
per diffondere sistemi produttivi in accordo con le «“migliori
prassi” così come erano definite da imprenditori, esponenti di
movimenti civici, e amministratori coscienziosi»; fecero continuo
sfoggio di «un’etica della democrazia intesa come uguaglianza
consumistica nei confronti di standard universalmente noti» e
come «sociabilità» emergente dalla «personificazione dei beni
materiali mediante il ricorso ai marchi commerciali»; insistettero,
infine, sulla propria natura apparentemente «pacifica» proponendola come alternativa al «militarismo europeo», e facendo
apparire la «democrazia dei consumi» come un potere dolce,
diverso e alternativo all’asprezza dei regimi totalitari.
De Grazia riconosce il peso di una serie di variabili squisitamente economiche (le immense risorse naturali del territorio
americano, le dimensioni del suo mercato interno e le economie di scala che questo consentiva) o sociali (l’assenza di
classi sociali pre-capitaliste con una avversione elitaria per le
relazioni di mercato) per spiegare la penetrazione americana
in Europa. Ma insiste soprattutto sugli aspetti culturali – o
meglio, è bene notarlo, perché ne caratterizza l’approccio
– sull’uso commerciale e propagandistico di modelli culturali.
Si tratta di modelli che spostano l’accento dalla produzione al
consumo, dallo stato al mercato. Se l’avvento di un mercato
unico europeo ha facilitato la penetrazione americana trasformando gruppi localistici e familistici di clienti in una massa di
consumatori senza volto, è soprattutto attraverso l’imposizione
del «livello» di vita americano come «standard» operata da
«L’impero irresistibile. La società dei consumi americana...»
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una varietà di intermediari culturali ed operatori economici
(rappresentanti di commercio, pubblicitari, produttori cinematografici, gestori di supermercati) che «l’american way of life»
venne naturalizzata come misurazione della qualità dell’esistenza
e quindi implicitamente promossa come valore (cap. 2). Così
se gli americani sono riusciti a imporre il loro impero è stato
negando di essere un impero. Ed è questo uno dei pregi del
testo: suggerire che gli Stati Uniti si sono avvantaggiati sul terreno della competizione mondiale più attraverso la loro capacità
ideologica di proporre e naturalizzare norme, che attraverso
i propri prodotti. A questo De Grazia avrebbe però potuto
affiancare studi di caso su come i mercati europei siano potuti
rimanere assai più frammentati non solo in termini geografici
ma anche, nonostante i processi di convergenza, in termini
di norme e consuetudini, o sulla circostanza che, nonostante
i loro sforzi, i produttori americani siano riusciti ad ottenere
solo modeste quote di mercato in Europa. Se idee o stili di
provenienza americana hanno ottenuto grande diffusione nei
paesi europei, ciò è spesso avvenuto in forme addomesticate,
non solo declinate dai consumatori secondo propri codici (come
De Grazia ammette fuggevolmente), ma anche tradotte per gli
europei dai produttori europei. In effetti, non va dimenticato
che ancora oggi le nazioni europee scambiano beni anche e
soprattutto tra di loro. E a dispetto dell’egualitarismo di (una
parte della) cultura di consumo americana, nozioni di gusto e
raffinatezza europee continuarono ad arrivare e a giocare un
ruolo rilevante in America, anche nel corso del novecento.
Gli Stati Uniti sono stati per tutto il secondo dopoguerra il
principale terreno di esportazione di tutte quelle merci, spesso
raffinate e distintive, che hanno fatto la fortuna post-bellica
delle industrie del vecchio continente, come dimostra molto
bene la vicenda del Made in Italy (White 2000).
Vincitore nel 2006 del premio della Society for Historians of
American Foreign Relations, oggetto di ampio dibattito tra gli
storici americani ed europei, il libro di De Grazia è stato riconosciuto come un lavoro importante e notevole, ma è divenuto
anche oggetto di accese critiche soprattutto per la tenacia con
cui l’autrice ha voluto sposare una tesi che, lei stessa ammette,
è stata «superata per certi versi dagli eventi» (De Grazia 2006,
p. 556). De Grazia peraltro si serve del quadro emerso dopo
l’attacco alle Torri gemelle per sottolineare che quello che oggi
appare decisamente come un impero meno soft è il risultato
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di un cambio di rotta politico. In questa prospettiva, il riferimento al recente quadro geopolitico anziché rendere la tesi
di De Grazia superata, finisce per reggerne l’impianto fondato
sullo «smascheramento dell’ideologia imperiale». Eppure, qui
De Grazia non appare convincente. L’ideologia imperiale non
è mai stata così coerente, incontrastata e irresistibile come ci
viene presentata. In effetti, nel trattare i grandi imprenditori
statunitensi, Ford per esempio, De Grazia dimentica che essi
non furono solo eroi imperiali che stimolarono la diffusione
di standard di vita «decenti», ma anche attori economici assai
contestati anche sul suolo nazionale. E d’altro canto, la politica
estera americana è stata puntellata di interventi bellici anche
nel secondo dopoguerra (Corea, Vietnam), così come l’Impero
del Mercato è stato sostenuto politicamente dalla guerra fredda
e dalla sua complessa, e a tratti feroce, geopolitica. Va quindi
ridimensionata la tesi secondo cui per perseguire i propri interessi «altri paesi usavano la propaganda con un pesantissimo
uso di slogan statali», mentre «l’America usava la pubblicità»,
mettendo in campo «essenzialmente mezzi privati» e «il sofisticato consiglio delle sue industrie della comunicazione».
E va anche corretta l’immagine eccessivamente consensuale e
commerciale che viene data della cultura americana così come
vanno sottolineate le diverse versioni dell’America che furono
costruite nei diversi paesi europei ad opera di diversi gruppi
sociali. Non da ultimo, da ridimensionare è l’idea stessa che il
novecento si possa riassumere in una parabola tutta americana:
«inarrestabile ascesa» prima, e «inesorabile declino» poi. La
storia che lega le culture e le economie europee e americane
novecentesche è piuttosto quella di un reciproco scambio,
dove persistono e persino rifioriscono, in entrambe le aree,
culture del consumo fortemente locali, segnate da divisioni di
classe ed etnia (Brewer e Trentmann 2006; Trentmann 2006a;
Strasser et al. 1998).
Certo la scelta di avvalersi di un espediente come la nozione
di «Impero del Mercato» non sembra aver aiutato l’autrice.
Come suggerito, si tratta di una scelta teoricamente problematica
– anche e soprattutto perché non sembra delineare un idealtipo o comunque uno strumento euristico, quanto piuttosto
assume il carattere di un efficace ma, come spesso capita,
fuorviante espediente retorico. E il lettore non mancherà di
accorgersi della distonia tra la tesi centrale del libro e le sue
minuziose ricostruzioni storiche. Ironia della sorte proprio il
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libro di De Grazia potrebbe essere usato per ridimensionare e
de-naturalizzare la parabola statunitense da lei tratteggiata con
mano troppo decisa. Proprio dalle sue molteplici descrizioni
non emergono processi di conquista e omogeneizzazione, ma
piuttosto flussi transnazionali, caratterizzati dal continuo riemergere delle tradizioni nazionali e locali, dall’addomesticamento
delle merci e dei modi di produzione d’importazione, dalla
creolizzazione delle culture. Così se le forme commerciali e i
linguaggi della socialità americana si sono diffusi in Europa,
l’Europa ha attinto alle proprie strutture semantiche per sviluppare un proprio lessico: ecco che De Grazia documenta
come la diffusione dei Rotary Club, associazione inventata a
Chicago, negli anni venti nella Germania di Weimar fu segnata
da una base sociale più aristocratica, più intellettuale, meno
commerciale, tanto che il Rotary diventò uno strumento per
affermare i valori della tradizione elitaria continentale contro
l’innovazione e la massificazione (cap. 1). E ancora, certo la
crescita della larga distribuzione (dei supermercati e dei malls
in particolare) è stata un aspetto centrale dello sviluppo dello
stile di vita americano (cap. 3). Non va però dimenticato che
i grandi magazzini sono un’invenzione europea ottocentesca
che è stata parzialmente trasformata sul suolo americano sino
a dar vita ai grandi centri commerciali; allo stesso modo i
piccoli negozianti di molte nazioni europee hanno imparato ad
usare tecniche della grande distribuzione, così come la grande
distribuzione si è adattata alla frammentazione dei mercati del
Vecchio mondo. Così quando De Grazia esplora, non senza
accenti palingenetici, la nascita del movimento Slow Food con
il suo tentativo di accorciare la filiera e di promuovere il locale (frammentato, particolare, tradizionale), finisce per fornire
ulteriore prova del fatto che anche oggi non possiamo certo
parlare di un dominio incontrastato della grande distribuzione;
al contrario l’orizzonte di approvvigionamento dei consumatori
occidentali è caratterizzato da sistemi distributivi compositi e differenziati (che contemplano grande distribuzione in proporzioni
variabili accanto ai piccoli negozi, ai mercatini, al commercio
elettronico, alle cooperative, ai gruppi di acquisto, ai negozi
dell’usato, alle vendite postali, ecc.). Gli Stati Uniti hanno forse
saputo «vendere» al Vecchio continente il proprio impero, innanzitutto riuscendo a «vendere la propria tecnica di vendere»,
ma proprio per questo riuscirono anche a rendere gli europei
«più consapevoli delle proprie peculiarità» (cap. 4). E queste
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peculiarità culturali non sono semplicemente state «scavalcate»
o «sopraffatte» dagli Stati Uniti. Se il manifesto pubblicitario,
intriso di estetica elitaria, evocativo ed artisticheggiante ha lasciato il posto ad un linguaggio pubblicitario populista, verboso
e descrittivo (per esempio nel periodo nazista, cfr. cap. 5),
l’evoluzione complessiva del linguaggio pubblicitario nel corso
del novecento non ci mostra affatto, né al di qua né al di là
dell’Atlantico, la vittoria di approcci descrittivi e referenziali,
quanto piuttosto una marcata estetizzazione, che risulta ancora
oggi più evidente nei messaggi pubblicitari europei. E se nel
cinema sono gli americani i primi a passare al sonoro negli
anni trenta (cap. 6), non va dimenticato che Hollywood non
solo attinse in massa dai talenti europei (dagli sceneggiatori, ai
registi, ai tecnici) ma fece anche circolare con un linguaggio
globalmente digeribile una cultura largamente europea.
Il libro di De Grazia apre nuove frontiere della ricerca
e costringe, come ogni libro importante, ad affinare le armi
della critica. E, in particolare, il sociologo dei consumi non
può che tentare di scomporre la nozione di «americanizzazione» cui esso si ispira. Questa nozione è stata per lo più
riferita al periodo post-bellico. Uno dei meriti di De Grazia è
senz’altro quello di spostare l’attenzione anche ai primi decenni
del novecento, mostrando che gli Stati Uniti esercitarono una
profonda influenza sulle economie e le culture europee quanto
meno a partire da inizio novecento. Eppure, ancora oggi lo
sviluppo di una cultura globale del consumo non implica che
le culture nazionali o locali vengano sussunte nel modello
americano: le culture locali e nazionali hanno un ruolo centrale
nel metabolizzare le merci globali e le forme standardizzate
della distribuzione di massa; le strutture economiche e politiche locali mediano le forme organizzative universalistiche del
mercato; le reti sociali di consumo forniscono non solo opportunità particolari ma anche una propria visione di ciò che
è moderno, occidentale, americano (Appadurai 1996; Brewer e
Trentmann 2006a; Howes 2000; Garcia Canalini 2001; Wilska
2001). Questa consapevolezza ci aiuta a qualificare modelli
lineari come quello proposto da De Grazia: persino i luoghi
del consumo di massa come i fast-food infatti sono organizzati
in modo diverso nelle diverse culture, offrono merci differenti
che si adattano ai diversi luoghi e, soprattutto, vengono vissuti
e utilizzati in modo diverso da diversi consumatori. La storia
dell’accesso ai beni di consumo è in effetti diversa nelle diverse
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nazioni e all’interno di ciascuna nazione o regione le differenze
di classe, genere, generazione, professione segnano i consumi
in modo diverso (Capuzzo 2006; Haupt 2002; Strasser et al.
1998). Le diverse tradizioni nazionali giocano ancora un ruolo
importante nel fornire ed organizzare sia le pratiche di consumo
che i discorsi sui consumi (Belasco e Scranton 2002; Trentmann 2006a). Così, solo per fare un esempio, gli orientamenti
nei confronti del consumo e del denaro della classe media
americana e di quella francese rimangono ancora differenti: i
confini culturali che sono tracciati sulla base dell’educazione,
del cosmopolitismo, della raffinatezza sono assai più deboli e
meno definiti negli Stati Uniti che in Francia. Se negli Stati
Uniti l’egualitarismo culturale rafforza l’anti-intellettualismo e
favorisce una cultura più aperta, in Francia il basso livello
di mobilità geografica limita gli atteggiamenti materialisti ma
sottolinea il valore distintivo del consumo (Lamont 1992). Le
culture nazionali del consumo non sono quindi delle semplici variazioni sullo stesso tema, e le differenze nei modelli
di consumo non possono essere considerate come frutto di
una path-dependency sempre più residuale (Sassatelli 2007).
Si tratta spesso di culture e differenze creative che, come
nel caso delle economie asiatiche (Beng-Huat 2000; Watson
1997) sembrano in grado di proporre alternative significative
ai modelli occidentali.
Come suggerito, il riferimento all’«Impero del Mercato»
proietta un’immagine lineare e teleologica di un processo che
è in effetti molto più tortuoso e indeterminato: siamo indotti
a rappresentarci un’entità che nasce, «rivoluziona» i consumi,
e muore, fungendo da causa semplice ed evidente di un mutamento radicale. Ma la letteratura storica e sociologica oggi
sottolinea che lo sviluppo della «società dei consumi» può
essere compreso solo come un fenomeno di lungo periodo,
multi-fattoriale e a geometrie variabili, variegato dal punto
di vista sia della cultura materiale (i diversi beni che hanno
caratterizzato le diverse epoche) sia delle relazioni sociali (i
gruppi sociali differenti che si sono fatti via via portatori di
innovazioni di consumo) (Glennie 1995; Sassatelli 2004). L’idea
stessa di un evento storico, puntuale e complessivo, che si caratterizzi come una vera e propria «rivoluzione» dei consumi è
stata messa in discussione dalla consapevolezza che sia le forme
produttive capitalistiche sia i fenomeni di consumo moderni
hanno avuto ritmi di sviluppo diseguali e differenziati per paesi
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e tipi di beni. Gli storici si sono quindi adoperati per rendere
conto della grande varietà di forme, luoghi e tempi in cui hanno
operato fattori diversi: dal commercio internazionale al sistema
coloniale, dalle nuove tecnologie di trasporto e comunicazione
alle nuove etiche mondane, superando in larga misura l’idea
che sia stato un solo paese a guidare un percorso iniziato agli
albori della modernità (Brewer e Trentmann 2006; Capuzzo
2006; Mukerj 1984). Termine marcatamente connotato in senso
ideologico, l’«Impero del Mercato» può facilmente trasformarsi
in un concetto feticcio, capace di occultare anziché svelare le
realtà che dovrebbe rappresentare. A fronte di diverse visioni
e strutture nazionali (o almeno territorialmente definite) del
mercato (cfr. p. es. Bevir e Trentmann 2004; Callon 1998), le
nozioni di «consumismo» o «società di consumo» appaiono
anche e soprattutto come slogans di battaglia di cui intellettuali pubblici e imprenditori commerciali si sono serviti per
denigrare gli avversari o difendere il proprio operato. Sarebbe
stato dunque più saggio prendere maggiore distanza dal loro
linguaggio. Così invece De Grazia finisce per operare quanto
meno due problematiche rimozioni: da un lato tende a nascondere le pratiche dei consumatori (e con esse il continuo,
spesso involontario, operare di processi di indigenizzazione dei
beni e dei luoghi di consumo), dall’altro sussume il politico
nell’economico (e quindi paradossalmente lascia poco spazio
per considerare come stato e mercato si sono combinati in
modi spesso diversissimi nel corso del novecento nei diversi
paesi europei e negli Stati Uniti). Per fare solo un esempio,
soprattutto negli anni trenta del novecento gli standard di
vita americani poterono migliorare anche e soprattutto grazie
all’intervento statale, che si ispirava al modello del cittadinoconsumatore, e non grazie a politiche neoliberiste invocate
più tardi in nome di un consumatore-cliente (Cohen 2003;
Kroen 2004).
De Grazia tende invece a presentare quello tra Europa e
Stati Uniti come uno «scontro di civiltà». Si tratta chiaramente
di una scelta funzionale allo «smascheramento» della retorica
imperiale, ma altrettanto manifestamente foriera di una trattazione astratta e monolitica dell’economia e della cultura americana, a cui corrisponde un’Europa che si identifica con le
molte, ma certo non esaustive, nazioni che il libro considera.
Come suggerito, De Grazia si concentra non tanto sull’Europa
quanto su Germania, Italia e Francia. L’assenza della Gran
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Bretagna è notevole, così come quella del blocco sovietico. Un
riferimento a queste due realtà avrebbe consentito non tanto
di complicare il quadro, quanto di rafforzare l’attenzione da
un lato per i processi di ibridazione sviluppatisi lungo l’asse
atlantico nel lungo e lunghissimo periodo, dall’altro per il ruolo
giocato dalla guerra fredda e più in generale per gli aspetti
propriamente geo-politici del secondo dopoguerra. L’idea che
non ci fosse «consumismo» (ancorché «populista») in Europa
prima dell’arrivo dell’«Impero del Mercato» sarebbe risultata poi
quanto meno problematica: molti dei fenomeni indicati da De
Grazia erano già ampiamente sviluppati in Gran Bretagna nel
tardo ottocento e agli inizi del novecento (prodotti standardizzati, grandi catene distributive, pubblicità di massa). E ancora,
oltre alle economie pianificate e ai regimi di consumo autarchici
e controllati delle dittature fasciste e naziste, si sviluppano in
Europa anche numerosi altri modelli di approvvigionamento e
consumo, tra cui le cooperative (soprattutto nei paesi scandinavi,
ma anche in Francia e Italia) che rappresentano per molti versi
ancora oggi una vitale terza via tra collettivizzazione statalista e
individualizzazione dei consumi (Furlough e Strickwerda 1999).
Un accenno al loro ruolo avrebbe ulteriormente stemperato
l’idea di un «trionfo della società di consumo statunitense sulla
civilizzazione borghese europea».
A ben guardare, il lavoro di De Grazia è, nel complesso,
meno una ricostruzione delle culture del consumo e dei regimi di
consumo europei e statunitensi, e più una ricerca sulle strutture
del potere commerciale americano e sulle sue retoriche legittimatorie. Il protagonista principale delle pagine di De Grazia
sono le grandi imprese americane (e i loro referenti europei)
– con protagonisti come Richard Boogaart che introdusse i
supermercati in Italia o Edward Filene il genio americano nella
distribuzione di massa. Nonostante tutto, i consumatori e le
consumatrici figurano spesso come un pubblico relativamente
passivo. Se alla nozione di cultura come ideologia fosse stata
affiancata quella di cultura come pratica ordinaria, istituzionalizzata e differenziata, di continua elaborazione di repertori
cognitivi e normativi (Warde 2005; Schatzki 2001; Sassatelli
2007; Zelizer 2004), il ruolo attivo delle popolazioni europee
sarebbe emerso con maggiore chiarezza. E con esso avrebbe
avuto maggior risalto la natura processuale e contesa della
compenetrazione tra convergenza e divergenza, innovazione
e path-dependency nei mutamenti dei consumi post-bellici in
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Europa. Ma, come suggerito, il fuoco dell’analisi di De Grazia
non sono le pratiche dei consumatori o i loro significati. Ciò
risulta tra l’altro evidente nel saggio bibliografico che l’autrice
ha posto a conclusione del volume originale e non incluso nella
traduzione italiana. Questo saggio elabora quattro tematiche:
l’impero, l’egemonia, l’americanizzazione, e i mutamenti dei
regimi di consumo. Proprio rispetto a quest’ultima tematica De
Grazia offre minori spunti, e soprattutto omette di menzionare
la varietà di ricerche – britanniche ma non solo – che hanno
documentato il perdurare delle differenze tra molte regioni europee e Stati Uniti, e tra paesi ed aree del Vecchio continente.
De Grazia (1998) stessa aveva peraltro rilevato il permanere
di un «regime europeo» in cui la partecipazione al consumo
è più chiaramente mediata da varie forme di partecipazione
sociale e di redistribuzione economica mediata dallo stato,
mentre il «regime americano» si affida alle scelte di mercato
individuali. Il capitolo che considera il «cittadino consumatore»
nell’immediato secondo dopoguerra risulta anche per questo
tra i meno persuasivi. Questa è un’epoca in cui l’Europa comincia a rimontare economicamente sugli Stati Uniti, ma ciò
non è attribuibile esclusivamente all’iniziativa statunitense, che
avrebbe favorito la trasformazione delle democrazie europee in
«democrazie dei consumatori», avrebbe sostenuto il processo
di de-colonizzazione, e la formazione del mercato unico. Lo
stesso piano Marshall, sembra ammettere De Grazia, ebbe un
ruolo economico limitato. Più importanti probabilmente furono
i fattori demografici e sociali (popolazioni giovani e mobilità
geografica), economici (la ripresa della domanda dopo gli anni
di autarchia e austerità della guerra, un fenomeno che già
Sombart considerava alla base di ogni sviluppo capitalistico)
e, non ultimo, l’intervento statale che proprio nel periodo
post-bellico fu particolarmente importante per Italia, Francia
e Inghilterra. Questo sistema di welfare ha costituito ancora
per gran parte del secondo novecento un carattere distintivo
del capitalismo sociale europeo. Ciò nonostante le nazioni
europee divergono ancora profondamente nei propri modelli
di consumi: i greci e gli spagnoli, per esempio, spendono
il doppio in ristoranti e hotel degli scandinavi; i britannici,
i danesi, gli olandesi e i tedeschi spendono il doppio dei
mediterranei in prodotti culturali e ricreativi; gli italiani e i
finlandesi consumano il doppio di acqua in bottiglia dei francesi e dei belgi. E ancora, la spesa pubblicitaria in Olanda,
«L’impero irresistibile. La società dei consumi americana...»
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Gran Bretagna e Grecia è doppia rispetto a Italia, Irlanda e
Francia; i movimenti dei consumatori hanno tratti protestatari
in Francia, tecnocratici in Germania e commerciali in Gran
Bretagna; Norvegia e Olanda tendono verso una certa democratizzazione dei consumi culturali, mentre la Gran Bretagna è
vicina agli Stati Uniti per una divaricazione della popolazione
per cui solo una parte consuma molta cultura, sia essa alta o
bassa (Trentmann 2006b). Diventa quindi difficile caratterizzare
l’Europa mediante il ricorso ad un unico «regime di consumo
borghese», vuoi perché l’elitarismo della vecchia borghesia è
solo uno dei tratti culturali e sociali del Vecchio continente
(cfr. p. es. Sullivan e Gershuny 2004), vuoi perché la nozione
di «regime di consumo» va meglio specificata analiticamente,
considerando non solo la struttura delle differenze di classe,
ma anche le differenti strutture dei mercati (dimensioni, frammentazione, ma anche e soprattutto regolazione politica), le
peculiarità della distribuzione, i diversi regimi di fornitura di
beni e servizi (pubblico, privato, cooperativistico), e così via. È
su questo che ancora molto possono lavorare i sociologi, anche
e soprattutto sistematizzando il dedalo di informazioni che il
libro di De Grazia ci ha fornito. Perché L’impero irresistibile
è riuscito senz’altro a mostrare che i consumi e le relazioni
che li accompagnano sono cruciali per offrire un’immagine
più completa dei processi culturali, economici e politici delle
società contemporanee, ed è utilissimo per mostrare, anche a
dispetto della sua tesi centrale, che il novecento è stato un
secolo complesso nel quale stato e mercato, produzione e
consumi, locale e globale si sono dialetticamente intrecciati.
Roberta Sassatelli
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L’impero americano dei consumi
(...) nell’arco di un solo secolo l’egemonia Americana ha lasciato tracce
altrettanto precise di quelle lasciate in quattrocento anni dall’Impero romano.
Come il latino, l’estetica realista, la religione giudaico-cristiana, i codici
giuridici e il «pacchetto urbano» di acquedotti, fortificazioni cittadine e
colossei, tali resti sono rimasti nascosti nel terreno per diventare le rovine
che i posteri dovranno decifrare per capire l’irresistibile ascesa e l’inesorabile
declino dell’Impero del Mercato (De Grazia 2006, pp. 512-513).
Questa chiusura del libro di Victoria De Grazia ci dice
molto sulle intenzioni dell’autrice, e ci suggerisce il taglio
del libro: bello, interessante, provocatorio, netto nei giudizi,
efficace nella scrittura. Non meraviglia l’interesse suscitato e
il numero delle critiche, positive e negative, ricevute in paesi
diversi. In sintesi, la tesi svolta dall’autrice americana, docente
alla Columbia University, è chiara. L’egemonia conquistata dagli
Stati Uniti nel ventesimo secolo non si spiega solo con una
superiore capacità economica, la potenza militare e l’innovazione tecnologica, ma con la loro capacità di implementare un
soft power, nel senso suggerito da Joseph Nye, in grado di
attirare e conquistare pacificamente i paesi alleati. Esso non
si basa solo su di una costruzione ideologico-politica di tipo
tradizionale, basata cioè su valori quali la democrazia e la
libertà, ma sulla «promessa» di un migliore standard di vita
per tutti, assicurato da una particolare forma di capitalismo
«consumistico». Questo sarebbe il vero cemento del mondo
occidentale. Questo avrebbe davvero convinto le masse dei
ceti medi urbani, investite da un enorme miglioramento nelle
condizioni di vita materiale e da un’abbondanza senza precedenti di beni di consumo, ad abbracciare l’American way
of life; e questo avrebbe spazzato via le preesistenti strutture
borghesi dell’Europa liberale, le proposte dirigistiche della
Germania nazista o quelle pianificatrici dell’Unione Sovietica,
tutte incapaci di assicurare una vera «democratizzazione del
«L’impero irresistibile. La società dei consumi americana...»
325
lusso». Qui vanno dunque ricercate le tracce distintive dell’egemonia americana.
Il dibattito sull’americanizzazione. Per valutare il contributo
del libro della De Grazia, è forse opportuno ricordare brevemente i termini del dibattito sulla cosiddetta «americanizzazione». La storiografia si è da molto tempo interrogata sulla
portata dell’influenza esercitata dagli Stati Uniti, soprattutto
dopo la fine della seconda guerra mondiale, in Europa (oltre
che in Giappone). A partire dagli anni quaranta e cinquanta
l’appropriazione del «modello americano», inteso come sistema
di produzione di massa, accompagnato dalle nuove tecniche
di scientific management, organizzazione e marketing, sembrò
un passo indispensabile per la rinascita dei paesi europei
usciti stremati dalla guerra. Le stesse autorità americane, come
noto, si attivarono in vari modi per diffondere questi modelli
produttivi, accompagnandoli a politiche di sostegno economico
culminate con il Piano Marshall.
Al di là dell’ovvia influenza politica e militare esercitata
dagli USA in Europa in questo periodo, fino a che punto
il loro «modello» socio-culturale fu effettivamente esportato
oltreoceano? Su questo punto la storiografia ha fornito interpretazioni contrastanti. Schematizzando, si può dire che da
un lato vi sono studiosi che ritengono che il trasferimento
tecnologico e di know-how abbia effettivamente influito sulle
strutture europee, favorendo la conversione verso un capitalismo liberistico orientato ai consumi e ponendo le basi per la
rincorsa (catch-up) verso l’economia statunitense (Glyn et al.
1990). In questo processo giocarono un ruolo rilevante anche i
mass media, soprattutto il cinema hollywoodiano, che crearono
un ambiente ricettivo, favorevole alla crescita e alla diffusione
dei consumi (Maier 1987). Trasferimento di tecniche produttive e creazione di una sfera ideologica di consenso andarono
dunque di pari passo. In quest’ottica, le resistenze a questo
processo vanno considerate essenzialmente come battaglie di
retroguardia, messe in atto da gruppi che difendevano il loro
potere corporativo: l’americanizzazione coincide qui di fatto
con la «modernizzazione».
Un secondo gruppo di studiosi abbraccia invece un’interpretazione minimalista dell’influenza americana. Se non si può
negare la diffusione di molte tecniche derivate dagli USA,
soprattutto in campo economico, queste rimangono, appunto,
326
Roberta Sassatelli ed Emanuela Scarpellini
soprattutto delle «tecniche»: efficaci se adattate alla gestione
aziendale piuttosto che ai sistemi di vendita, esse non comportano però la conversione alle premesse politiche, sociali e
culturali del milieu americano che le ha originate. In Europa le
élite dirigenti rimasero a lungo fondamentalmente estranee ad
approcci di tipo keynesiano, a una completa liberalizzazione dei
mercati, all’adozione di politiche di vera concorrenza. Non solo.
Anche da parte di molti settori del mondo operaio e sindacale
vi fu una chiusura verso pratiche che sembravano allontanarsi
da quel concetto di welfare che aveva progressivamente preso
forma in Europa, e si stava anzi rafforzando, complice la
traumatica esperienza della guerra – senza contare la diversa
ispirazione ideologica. Il risultato fu che l’influenza americana
fu selettiva e limitata (D’Attorre 1991; Hogan 1987).
Recentemente i toni si sono più sfumati. Si evita la contrapposizione netta accettazione/chiusura, osservando la contemporanea presenza di entrambi gli elementi. In particolare,
si sottolineano due aspetti. Il primo è il peso della path dependance, poiché la vischiosità storica delle istituzioni tende a
frenare ogni tipo di mutamento; l’eccezionalità del contesto del
dopoguerra permise alcuni importanti cambiamenti strutturali
in Europa, ma si dovette sempre fare i conti con le tradizioni
locali, con risultati molto diversi da paese a paese. Le resistenze
alla convergenza internazionale non rappresentano perciò necessariamente difese corporativistiche, ma il portato storico di
diverse forme di cultura e di industrializzazione (Djelic 1998).
Il secondo aspetto è dato dall’interpretazione «attiva» del modello americano (peraltro tutt’altro che omogeneo) da parte
delle controparti europee: le tecniche produttive non furono
prese di peso dagli USA e introdotte nelle economie europee,
ma subirono originali adattamenti, in un continuo processo di
ibridazione e traduzione culturale. Adattamenti e resistenze, in
questo caso, hanno una valenza positiva: sono originati non
solo dalla necessità di un adeguamento a contesti diversi, ma
dalla volontà di innovare e sperimentare forme nuove e originali (Zeitlin e Herrigel 2000). È su questo sfondo, dunque,
che va situato il contributo della storica americana.
Le tesi del libro. Fin dalle prime pagine del libro, l’autrice
esplicita le sue tesi. L’imperium degli Stati Uniti prende forma
essenzialmente come «Impero del Mercato» e si basa su cinque
elementi caratterizzanti: 1) la sovranità delle altre nazioni può
«L’impero irresistibile. La società dei consumi americana...»
327
essere ritenuta limitata, riguardo alle pratiche commerciali, per
cui si giustifica e sostiene in ogni frangente il liberismo commerciale; 2) vi è un’esportazione contemporanea di pratiche della
società civile e beni materiali, con la creazione di una sinergia
di fatto tra Stato e società; 3) si assiste alla generazione di
una normativa pragmatica ed efficace che regola questi processi
(sotto l’etichetta di best practice); 4) si fa riferimento a un’etica
democratica per la creazione di una comunità ugualitaria di
consumatori, identificati dalla «socialità», intesa come diritto
di scelta sul mercato, piuttosto che dalla tradizionale «solidarietà»; 5) si ricorre in genere a strumenti pacifici per questa
penetrazione, e comunque a forme di coercizione «moderate»,
almeno a confronto del militarismo europeo della prima metà
del novecento (De Grazia 2005, pp. 6-9).
Il lavoro quindi si articola in successivi capitoli, dedicati
ciascuno a un aspetto rilevante di questa conquista, scegliendo
un caso paradigmatico per illustrare più efficacemente il processo. Si inizia così con la diffusione del concetto di service
(l’etica a servizio della collettività) nelle élite borghesi europee,
grazie ai Rotary Club; si prosegue con la costruzione di concetti come lo «standard di vita», e l’analisi delle implicazioni
della popolarità del cinema hollywoodiano (insieme consumo
culturale e diffusore di nuove idee), per entrare nel vivo della
trattazione con lo sviluppo della grande distribuzione commerciale. Qui troviamo la storia delle prime catene di negozi
(come i magazzini Filene di Boston), quella dei supermercati
(con le vicende italiane dell’Ibec di New York); e poi ancora
il marketing: la storia dell’affermazione della marca (brand) e
della pubblicità, centrata quest’ultima sull’espansione della J.
Walter Thompson. Infine vengono tratteggiate le due nuove
figure emergenti da questi cambiamenti nella società europea:
il cittadino consumatore e la consumatrice modello.
Notiamo qui subito la novità del libro: l’accento è posto sul
lato dei consumi piuttosto che su quello della produzione. In
pratica, è il passaggio da un capitalismo product-oriented ad
uno market-oriented, interpretato al meglio dagli Stati Uniti,
che spiega l’impatto del «modello americano»; un modello
che nonostante la sua complessità ed eterogeneità, può essere
riportato al comune denominatore del ruolo chiave del mercato (l’«Impero del Mercato») e dove consumo, commercio e
marketing sono divenuti preminenti nel discorso pubblico. Un
passaggio che l’autrice vede simboleggiato nelle contrapposte
328
Roberta Sassatelli ed Emanuela Scarpellini
figure dell’industriale Ford e del commerciante Filene: «In
contrasto con la produzione di massa che, incarnata da Henry
Ford, dava voce a un mercato di venditori in cui la domanda
pareva infinita e subordinata soltanto all’offerta, la distribuzione di massa incarnata da Filene rappresentava un nuovo
mercato degli acquirenti nel quale a determinare i modelli di
acquisto erano sempre più distributori e consumatori. Ford
era convinto che se il prodotto fosse stato di buona qualità
e dal prezzo conveniente si sarebbe praticamente venduto da
solo. Ossia che avrebbe richiesto un marketing minimo. Filene, invece, seppe capire che le istanze del consumatore non
erano unicamente questione di prezzo o di potere d’acquisto,
ma anche di bisogni e desideri in costante evoluzione» (De
Grazia 2006, p. 148).
L’autrice quindi centra la sua attenzione sui meccanismi attraverso cui, in pratica, il mercato americano riuscì a imporre i
suoi modelli. Ad esempio, per restare nel campo della grande
distribuzione, notiamo come gli Stati Uniti abbiano visto la
nascita delle catene di negozi a prezzo unico, che puntavano su
un target medio di clientela: questo vuol dire che si rivolgevano
ai ceti medi in prima battuta, ma anche alle classi elevate (ad
esempio proponendo capi firmati d’occasione, come nel caso
dei Filene’s Basement), come pure alle classi popolari (per
acquisti riservati a occasioni speciali). Il contrario di quanto
avveniva in un’Europa fortemente segnata dalle divisioni sociali, alla quale si addiceva meglio una struttura commerciale
dicotomica, con al vertice i lussuosi grandi magazzini posti al
centro delle grandi città, e alla base una miriade di piccoli e
modesti negozi a conduzione semi-familiare. Solo con la grande
crisi economica degli anni trenta, che impoverì ampie fasce di
popolazione e causò la rovina di varie imprese, anche l’Europa
si aprì alle nuove formule provenienti dagli Stati Uniti. Ma
con significativi aggiustamenti e molte resistenze, rappresentate
ad esempio dalla reazione nazista contro le catene commerciali
«ebree», in nome dell’edificazione di un Nuovo Ordine.
Altrettanto interessante la costruzione della figura del «cittadino-consumatore». Qui Victoria De Grazia contrappone
apertamente la tradizione del solidarismo europeo alla promessa
di benessere americano. Finita la seconda guerra mondiale,
anzi addirittura durante il conflitto, per sostenere il morale,
vari leader politici lanciarono messaggi positivi per il futuro,
a cominciare da William Beveridge, il cui famoso rapporto
«L’impero irresistibile. La società dei consumi americana...»
329
sul Welfare State del 1942 sarebbe diventato una bandiera per
la ricostruzione: lotta ai cinque grandi mali sociali («malattia,
ignoranza, oziosità, squallore e indigenza») grazie a riforme
in campo assistenziale, sanitario, educativo, occupazionale (De
Grazia 2006, p. 365). Un discorso non dissimile dal richiamo
fatto l’anno prima dal presidente Roosevelt alle «Four Freedoms»: libertà di parola, libertà di religione, libertà dal bisogno
(freedom from want) e libertà dalla paura. Ma le ricette per
questo percorso erano diverse: da parte europea persisteva il
solidarismo e la volontà di fornire garanzie sociali, anche a
costo di rallentare la ripresa economica; da parte americana,
si confidava nella liberalizzazione dei mercati, nella tecnologia,
nella crescita dei beni materiali. In sostanza si fronteggiavano
l’idea di una «cittadinanza sociale», così come enunciata da
Thomas Marshall, centrata sul ruolo dello Stato nel ridurre le
ineguaglianze e assicurare un minimo tenore di vita (non priva
di un’accentazione politica e solidale), e quella americana del
«consumatore sovrano», che invece puntava a una massiccia
espansione dei consumi guidata dal Mercato. Grazie in primo
luogo al Piano Marshall, si verificò un’ibridazione tra le due
concezioni, per cui gli europei del miracolo economico divennero «cittadini-consumatori»: furono insieme, come affermò una
volta Jean-Luc Godard, «figli di Marx e della Coca-Cola» (De
Grazia 2006, p. 368).
Fonti, traduzioni, provocazioni. La grande ricchezza dei materiali contenuti nel libro si presterebbe a molti altri esempi,
ma quanto detto è forse sufficiente per avanzare alcune considerazioni. La prima, come detto, è l’importanza di uno studio
come questo, centrato sui meccanismi del consumo e delle
relative pratiche politiche, economiche e sociali. Da questo
punto di vista, ci sembra molto proficua l’attenzione posta
sui «mediatori», cioè quelle figure o imprese che nella pratica
favorirono la diffusione dei modelli americani – superando
così l’astrattezza di altri studi al riguardo. Si dimostra così
chiaramente come i consumi rappresentino oggi, nelle società
occidentali contemporanee, un perno centrale, intorno al quale
ruotano molte politiche governative e aziendali.
Uno dei punti di forza del lavoro è la ricchezza delle
fonti documentarie. Oltre a una ricca letteratura secondaria,
lo studio si avvale infatti di vario materiale di prima mano.
L’autrice ha girato per archivi e biblioteche sparsi in Europa
330
Roberta Sassatelli ed Emanuela Scarpellini
e Stati Uniti: ha studiato le carte dei Rotary a Dresda e Chicago, l’archivio dell’agenzia pubblicitaria J. Walter Thompson
depositato alla Duke University, l’archivio dell’International
Labour Organization di Ginevra, le carte di Edward Filene
presso la Credit Union National Association, quelle dell’Ibec
al Rockefeller Archive Center, e altri ancora. Una scelta non
scontata, per molti versi originale, che documenta direttamente
alcune esperienze poco conosciute. I motivi per cui si sono
privilegiate queste fonti, rispetto ad altre, sono in parte impliciti nello svolgimento del lavoro; in parte, derivano dalla
loro accessibilità (fatto, questo, non sempre scontato per lo
storico, soprattutto nel caso di carte private). In parte, infine,
sono legate alla forma narrativa scelta dall’autrice, che, con un
accorgimento retorico, sviluppa le sue tesi intorno ad alcuni
case studies.
Un altro aspetto su cui richiamare l’attenzione è il continuo
riferimento a una «realtà europea». Benché si parli anche dei
paesi singoli, all’interno degli esempi presentati, in genere si
tende ad accentuare maggiormente le similitudini rispetto alle
differenziazioni locali. La spiegazione ci è fornita indirettamente con una barzelletta degli anni cinquanta: «un uomo
d’affari americano è in volo da Londra per Roma. Mentre è
immerso nella lettura di diagrammi e statistiche commerciali,
la sua segretaria esclama, in preda all’eccitazione: “Guardi,
stiamo sorvolando la Francia!”, al che il capo la zittisce con
un “La prego, non mi secchi con i dettagli!”» (De Grazia
2006, p. XXVIII).
Dall’America, per molti, le differenze nazionali potevano
apparire relativamente trascurabili; ma naturalmente questi «dettagli» erano invece molto importanti agli occhi degli europei e
tutto ciò può suonare come una provocazione. In effetti, un
certo aspetto provocatorio è certamente presente, soprattutto
per il pubblico europeo, e di questo si è perfettamente reso
conto l’editore italiano, che ha provveduto a introdurre alcune
variazioni nella traduzione. Fra di esse, spicca il sottotitolo:
Irresistibile Empire. America’s Advance through 20th-century
Europe è diventato L’impero irresistibile. La società dei consumi
americana alla conquista del mondo. Il cambiamento non è irrilevante. La versione italiana suggerisce una conquista globale e
indifferenziata, stempera il messaggio, mentre il titolo originale,
come pure il testo, spiegano la centralità della penetrazione
in Europa per la creazione di un modello «imperiale» vin-
«L’impero irresistibile. La società dei consumi americana...»
331
cente: «L’egemonia degli USA è sorta sul suolo europeo. Fu
il Vecchio Mondo il luogo in cui gli Stati Uniti operarono la
propria metamorfosi da prima società dei consumi di massa a
baricentro mondiale delle moderne pratiche consumistiche. Ma
l’America, per potersi vedere legittimata in questa posizione,
doveva misurarsi con l’auctoritas accumulata in questo campo
dall’Europa nel corso dei secoli, sin dall’epoca del mercantilismo, un’Europa assurta a centro di vasti e opulenti imperi e
depositaria non solo di una comprovata sagacia commerciale,
ma anche di una notevole raffinatezza di gusto» (De Grazia
2006, p. XVII). È dunque dall’incontro/scontro con la cultura
europea che il soft power americano esce rafforzato e legittimato,
e riesce a incidere profondamente sulle pratiche preesistenti.
Per inciso, troviamo altri esempi di traduzione «benevola»,
forse per non urtare la sensibilità di europei che non amano
l’idea di essere stati conquistati e plasmati: il settimo capitolo
appare in inglese come un secco The Consumer-Citizen. How
Europeans Traded Rights for Goods, che in italiano è reso con
un morbido Il cittadino consumatore. Come gli Europei si sono
trasformati in liberi consumatori.
Soft power e ibridazioni. Questi discorsi ci riportano alle
tesi centrali del libro. La prima riguarda l’effettivo ruolo
svolto dalle pratiche di consumo, intese come soft power. Il
contributo del libro della De Grazia in questo senso è fondamentale perché dimostra con materiali originali e persuasività
di argomentazione la centralità dei consumi nella costruzione
economica, politica, identitaria dell’Europa postbellica. Il ruolo
degli Stati Uniti in questo processo non può essere sottovalutato. Tuttavia ci sembra importante ricordare che l’efficacia
di questo soft power va sempre posta in relazione con la
presenza di un hard power, cioè l’enorme peso che gli Stati
Uniti giocarono in un’Europa uscita semidistrutta dalla guerra.
È molto indicativo che fra le nazioni più esposte a questo tipo
di influenza ci siano la Germania e l’Italia (le nazioni sconfitte
e occupate), e in misura minore la Francia e la Spagna (della
Gran Bretagna, significativamente, quasi non si parla nel libro).
Per converso, la penetrazione anche massiccia di pratiche di
consumo e prodotti europei negli Stati Uniti (si pensi solo alla
cucina francese o, recentemente, ai cibi italiani) non ha mai
fatto paventare i pericoli di una «francesizzazione» o «italianizzazione»: il mancato legame con un hard power in grado di
332
Roberta Sassatelli ed Emanuela Scarpellini
imporli e sostenerli, li ha fatti percepire semplicemente come
ulteriori possibili scelte sul mercato, da adattare e integrare a
piacimento nel proprio pattern di consumi.
L’uso del termine «impero» nel titolo, sul quale si sono
appuntate alcune critiche, è molto indicativo. Il Mercato
assume qui la forma di un Impero, appunto, e non di una
struttura aperta. Va ricordato però che negli ultimi anni negli
Stati Uniti si è assistito a una ripresa concettuale di questo
termine, dilatato e piegato flessibilmente a tanti significati,
nel tentativo di spiegare il ruolo della potenza americana
nel mondo. Anzi, si sono moltiplicati studi e ricerche che
paragonano esperienze di tempi diversi, in particolare l’impero
romano e l’America odierna, alla ricerca di similitudini e differenze. E questa narrativa è divenuta comune nel linguaggio
giornalistico (l’ultimo best seller è di Cullen Murphy, Are
We Rome? The Fall of an Empire and the Fate of America,
Houghton Mifflin, 2007). L’uso di questo termine può avere
quindi una diversa ricezione da parte del pubblico americano
rispetto a quello europeo.
Ma la società dei consumi americana fu davvero efficace
nel distruggere e sostituire le precedenti pratiche di consumo?
O nel mutare la società e la cultura europee? L’autrice parte
da ipotesi vicine alle posizioni storiografiche che sostengono,
come si è visto sopra, la riuscita esportazione di tali pratiche
sociali e culturali. Tuttavia, da sensibile storica qual è, spesso
si fa trasportare dai suoi materiali a conclusioni più sottili.
Così, vediamo come i Rotary europei fra le due guerre tradiscano l’originale impostazione ugualitaria per divenire club
che riuniscono alta borghesia e nobiltà; o come il consumatore
europeo non abbandoni del tutto l’ottica solidalistica e continui a richiedere il ruolo dello Stato nel sostenere i consumi
pubblici; e come le stesse pratiche di commercio mutino sulla
base di esperienze preesistenti. Alcune delle innovazioni americane infatti si aggiungono semplicemente all’offerta disponibile,
come nel caso dei magazzini popolari a prezzo unico; per i
supermercati, invece, si assiste spesso a una trasformazione
(se si esclude l’esperienza italiana, dove i supermercati non
esistevano, osserviamo come in Germania o Gran Bretagna
catene di negozi alimentari già molto sviluppate con centinaia
di succursali – come Tengelmann, Edeka, Sainsbury – adottino
progressivamente la formula del self-service a partire dagli anni
cinquanta). In altri casi, riguardanti soprattutto il marketing, le
«L’impero irresistibile. La società dei consumi americana...»
333
agenzie pubblicitarie e il significato moderno della marca, le
tecniche americane furono invece adottate in pieno. Il risultato
finale assomiglia forse più a un gigantesco patchwork, con
forti differenziazioni da paese a paese, e con diversi livelli di
ricezione e ibridazione dei vari stimoli provenienti dagli Stati
Uniti. Naturalmente, si tratta di un quadro complesso, che
potrebbe complicarsi ulteriormente se l’attenzione si spostasse
verso altri settori, non toccati da questo studio, dove invece
la tradizione europea permane forte: pensiamo al design, alla
moda, a una produzione di automobili ben differenziata da
quella americana, al cibo, senza considerare poi l’ambito dei
consumi culturali. Insomma, l’incontro fra culture si rivela
più complesso, polimorfo e ambiguo di quanto possa apparire
a prima vista e resiste pervicacemente a un incasellamento
all’interno di teorie geometriche. È interessante infine notare
come l’autrice veda un relativo declino dell’Impero del Mercato
americano a partire dagli anni novanta, in concomitanza con il
rafforzamento economico dell’Europa e l’agguerrita concorrenza
di emergenti paesi extraeuropei, che provocano una crescente
contaminazione dei modelli o addirittura il rigetto delle proposte americane (esemplificato dalla lotta del movimento Slow
Food contro il fast food).
In conclusione, questo è un libro che pone importanti
interrogativi, svolge in maniera originale le sue tesi, presenta
una straordinaria ricchezza di materiali, non teme di provocare i suoi lettori. Tutte buone ragioni per farne, come è già
avvenuto, un «caso».
Emanuela Scarpellini
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