C. LA ROCCA, Donare, distribuire, spezzare. Pratiche di
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C. LA ROCCA, Donare, distribuire, spezzare. Pratiche di
Cristina La Rocca 77 DONARE, DISTRIBUIRE, SPEZZARE. PRATICHE DI CONSERVAZIONE DELLA MEMORIA E DELLO STATUS IN ITALIA TRA VIII E IX SECOLO Cristina La Rocca 1. Promesse celesti Una descrizione in versi del paradiso composta all’inizio del secolo IX per uno dei figli dell’imperatore Ludovico il Pio, ci presenta il regno dei cieli come la bottega di un orefice: qui, afferma il suo autore Smaragdo, risplendono le gemme, luccicano le stoffe dorate, scintillano gli anelli, i bracciali, le collane e le cinture. L’oro lucente è il thesaurus conservato nel regnum aureum: solo qui esso si manterrà incorruptus per sempre1. Questi versi sono altamente eloquenti per indicare il tipo di argomentazione, molto flessibile e sempre assai pragmatica, attraverso la quale i chierici di età carolingia evidenziavano le caratteristiche positive del regno dell’aldilà. Ai regni terreni, oggetto di conflittualità e di lotte dinastiche, si oppone il regnum aeternum, ove tutti i simboli di preminenza sociale adottati sulla terra perdono il loro carattere effimero e si trasformano nella prova perenne della supremazia sociale dei loro donatori2. Che il luogo più sicuro per conservare i propri thesauri fosse proprio il cielo, non era naturalmen- te un’opinione personale di Smaragdo, bensì una convinzione largamente diffusa e condivisa. Essa si inserisce in un filone argomentativo ampiamente utilizzato in Europa dai monaci di età carolingia, direttamente ispirato a citazioni bibliche ed evangeliche3, che trova posto nel protocollo degli atti di donazione pro anima redatti in Italia a partire dal secolo VIII, là ove si spiegano le ragioni che hanno spinto il donatore a far redigere l’atto. L’immagine che ricorre con una certa frequenza è proprio quella del cielo come il luogo più adatto per conservare i propri beni materiali senza il rischio di essere derubati, perché‚ il diavolo, il ladro per eccellenza, non osa avvicinarsi al regno di Dio4. L’ampia sperimentalità formulare delle carte dell’VIII secolo spinge a ritenere che la connessione tra tesori terrestri e tesori divini fosse utilizzata dai chierici e dai monaci per presentare sé stessi come i custodi e i garanti della memoria individuale, precisamente in quanto custodi degli oggetti preziosi 5: il paradiso descritto da Smaragdo altro non pare che la proiezione celeste del thesau rus monastico ed ecclesiastico. Perché durante i secoli VIII e IX il paradiso è 1 Smaragdi Versus quod Smaragdus ad unum de filii Ludovici Pii misit , XII b., p.921: “Felix, qui poterit thesaurum condere caelo,/ Clanculo quem rapiens nequeat disrumpere latro/ Tinea nec maculans valeat conrodere mordax./ Est ibi preadi ves nimium thesaurus et ingens:/ Angelicus panis potusque et vita perennis/ Sufficiens cunctis per grandia saecula iustis./ Aurea regna tenet supero thesaurus in aevo; Illic angelica prae fulgida vestis habetur./Incorrupta manens semper sine fine beatis./Illic gemma nitet, pendentia pallia lucent,/Anulus, armillae, torques, dextralia, mitra,/Aurea cuncta micant, lucentia cuncta coruscant.” Sulla personalità di Smaragdo, abate del monastero di St.Mihiel all’inizio del IX secolo, revisore della regola di Benedetto, cfr. EBERHARDT 1977, pp.29-85. 2 Cfr. CAROZZI 1982, pp.448-451; GUREVIC 1992, pp.255-275. 3 Sui Franchi come nuova Israele, cioè come nuovo popolo eletto da Dio, cfr. molti lavori di Janet Nelson, tra cui ricordo: NELSON 1987, pp.137-180; NELSON 1996, pp.89-98. 4 Per esempio CDL, I, n.30, (722): “nolite thesaurizare vobis super terram, ubi furis effodiunt et furantur, sed thesaurizate vobis thesaurum in caelum, ubi fur, id est diabolus, non adpro pinquat. Et iterum dicens: facite vobis amicus de mamone ini quitatis, ut cum defeceritis recipiam vos in aeterna tabernacu la”; CDL, I, 165-171, n. 50 (730): “Quisquis in hoc seculo, dum advivere meruerit, semper de aeterna vita cogitare et peragere videatur, ut dum venerit ad exeunte sacro Dei iudicio, de gravia sua pondera leviter possit ad vitam aeternam pertingere; quo niam in hoc seculo nulla meliora esse cognoscitur quam in Deo vivere semper”; CDL, I, 229-232, n. 78 (742): “De spe eterne vitae salutis animae remedium cogitat, qui in sanctis locis de suis rebus confer terrena, ut a Christo recipiat eterna celestia. Et ut votis meis expleatur dilectio, oblatione meam munera offero, non quantum debeo, set quantum valeo”; CDL, I, 238-244, n. 82 (745): “Rottopert vir magnificus de Grate, considerans casus umane fragilitatis et repentinam mortem venturam, previdi de rebus meis dispositionem facere vel pro anima mea iudicare, ut, cum de hoc seculo vocare iussero, michi pro sua pietate peccato rum meorum veniam condonare dignetur”. Un esempio eloquente della collazione di tali citazioni è la donazione fatta da Gisla, sorella di Carlo Magno, al monastero di St.Denis, nel 799 (Karoli Magni diplomata, n. 190, pp.255256, a. 799) la quale contiene l’esortazione: “Facite vobis the sauros in celo, quae non deficiunt, et de iniquo mamona conpa rate vobis aeterna tabernacula”. 5 Sul valore politico delle formule scelte e adottate dai chierici e dalle cancellerie pubbliche alto medievali, cfr. WOLFRAM 1995, pp.39-52. 78 SEPOLTURE TRA IV E VIII SECOLO descritto come un forziere di preziosi? Occorre anzitutto osservare che l’uso dei termini thesaurus e thesaurizare, se ha anche un significato metaforico, esprime contemporaneamente il significato concreto di insieme di oggetti conservati coscientemente per il loro valore economico e simbolico, come dimostra l’elenco di gioielli e di insegne preziose che decorano il paradiso di Smaragdo. È nota infatti la particolare rilevanza che gli oggetti preziosi rivestivano nel prospettare e ribadire la preminenza sociale dell’aristocrazia in tutto l’alto medioevo. Si pensi al polemico ritratto del parve nus tracciato dal vescovo di Verona, Raterio, nel secolo X. Alla domanda “In quibus rebus constant divitiae tuae?” il dives risponde che le sue ricchezze sono così ripartite: in primo luogo il possesso di terra, servi e animali, poi il rispetto e l’obbedienza da parte della società (obsecundatione obsequen tium), la pratica della caccia con cani e falconi, l’abbondanza di vesti, di utensili, di grano vino e olio, e infine la copiosità di armi, d’oro e d’argento e di gemme 6. Se nel X secolo Raterio si riferisce a l l ’e s c a l a t i o n sociale fatta da alcuni a dispetto delle loro umili origini, egli sottolinea parallelamente che le occasioni di mobilità sociale del suo tempo avevano permesso anche ad alcuni parve nus di imitare indegnamente gli status symbol peculiari dell’aristocrazia7, cioè di una élite relativamente ristretta, contraddistinta dalla coscienza delle proprie origini nel passato, nonché dalla comune elaborazione di rituali e di riti8. 2. Incertezze terrene L’uso attivo degli oggetti preziosi per ostentare e proporre la preminenza sociale ha le sue radici nell’incertezza e nella mobilità dello status aristocratico a partire dal VI secolo. Come ha ben osservato Chris Wickham, esiste una fondamentale differenza tra le strategie di conservazione e di trasmissione dello status famigliare nel mondo romano e quelle a disposizione nell’alto medioevo, strettamente connessa alla presenza - nel primo caso e all’assenza - nel secondo - dello stato. Nel mondo romano il rango aristocratico era infatti scandito dal preciso curriculum delle titolature pubbliche il cursus honorum - e l’ampliamento della pro6 Ratherii Praeloquiorum libri sex, I, XVII, p.34: “Dic rogo, in quibus rebus constant divitiae tuae? “In possessionibus” inquis “praediorum, servorum, ancillarum, equorum, boum, cetera rumque pecudum; in obsecundatione obsequentium, delectatio ne canum, accipitrum, habundantia vestium, utensilium, fru menti, vini et olei, armorum, argenti et auri atque gemmarum”. 7 Su questo passo e il suo valore nel delineare le nuove caratteristiche del ceto dei milites, cfr. BORDONE 1987, pp.63-79, 145-151. 8 Sulla particolare accezione di nobiltà nell’alto medioevo, cfr. le belle pagine in LE JAN 1995, pp.15-30. 9 WICKHAM 1984, pp.3-36. prietà fondiaria era finalizzato a ottenere una carica all’interno delle magistrature statali 9. La competizione aristocratica era dunque indirizzata verso forme di ostentazione nei confronti della corte imperiale, e comprendeva anzitutto doni visibili pubblicamente che dimostrassero alla collettività e all’imperatore stesso la preminenza sociale del donatore: statue nel foro, edifici pubblici, giochi nel circo e nell’anfiteatro erano puntualmente corredati di iscrizioni che celebravano la generosità del donatore sottolineandone l’identità e i natali 10 . La conservazione e la trasmissione della proprietà fondiaria era poi formalmente asseverata dall’istituto testamentario che permetteva, attraverso l’istituzione dell’erede, di concentrare nelle mani di un solo individuo - fosse egli un diretto parente o un semplice cliente - il patrimonio del testatore11. Nell’Europa altomedievale, invece, il venir meno dell’apparato amministrativo e fiscale dello stato aveva provocato una instabilità sociale assai più accentuata: il venir meno delle imposte fondiar i e 1 2 , ma soprattutto la conformazione stessa dell’esercito regio - retribuito sotto forma di largizioni di terra 13 - configurarono il possesso fondiario come forma principale di sostentamento economico e come presupposto della libertà giuridica. Nei regni romano-germanici, cioè, la terra non fu più intesa come lo strumento indispensabile per ottenere una carica pubblica, bensì, inversamente, le cariche pubbliche furono interpretate come un mezzo per ottenere terra: la terra era divenuta in se stessa potere, in quanto mezzo primario di supremazia e di differenziazione sociale 14 . Gli sforzi delle élites militari altomedievali furono pertanto convogliati ad assicurare a sé e al proprio gruppo parentale la continuità anzitutto della caratteristica di possessori fondiari, elaborando mezzi e strategie, formali e informali, di asseverazione e di trasmissione del patrimonio stesso. Le modalità della spartizione della terra tra l’aristocrazia militare al momento della conquista nei regni romano germanici costituiscono un problema tradizionale della storiografia medievistica, che è stato di recente rivitalizzato da nuovi studi e prospettive di interpretazione 15. Ciò che emerge chiaramente da tali lavori è da un lato la varietà delle strategie regie nella distribuzione delle terre 10 WARD-PERKINS 1984. 11 HOPKINS 1983, pp.120-130. 12 WICKHAM 1984, pp.15-18; WICKHAM 1988, pp.108-110. 13 GASPARRI 1990, pp.237-242. 14 La connessione tra terra, potere politico e supremazia sociale nell’Italia longobarda sono esaminati da TABACCO 1973, pp.133168. 15 Per il regno dei Franchi, cfr. WOOD 1994, pp.10-13 con la relativa bibliografia; GOFFART 1980. Il rapporto tra terra e potere è oggetto del recente volume miscellaneo DAVIES, FOURACRE (a cura di) 1995. Cristina La Rocca 79 stesse, dall’altro una certa uniformità delle risposte elaborate dalle élites per mantenerle e trasmetterle: il risultato di tale processo fu, in momenti cronologicamente difformi nei vari regni, la redazione scritta delle leggi nazionali. Essa rappresenta infatti l’esito della negoziazione tra re e aristocrazie, ed appare anzitutto volta a fissare per scritto le consuetudini sulla trasmissione della terra tra le generazioni16. È ormai chiaro che la lex scripta, spesso attribuita all’iniziativa individuale di un sovrano, rappresenta una tappa fondamentale dell’evoluzione del rapporto tra il re e l’aristocrazia, nonché della stessa regalità: oltre che strumento di fissazione delle norme consuetudinarie, essa costituì lo strumento attraverso il quale la successione patrimoniale all’interno dei gruppi famigliari fu costantemente aggiornata e adattata alle nuove esigenze della società attraverso il controllo regio. Non è difficile notare che l’oggetto principale delle revisioni apportate alle leggi nazionali redatte tra VI e X secolo sono proprio le modalità della trasmissione fondiaria alle generazioni successive, includendo una casistica sempre più complessa e variata, all’interno della quale sono inserite anche le modalità per le donazioni fondiarie agli enti ecclesiastici17. Proprio perché il diritto successorio rimase soggetto a continue variazioni, e poiché esso si orientò progressivamente a prevedere la divisione in quote parti uguali per tutti i figli - donne comprese18 -, la conservazione delle prerogative famigliari (economiche e di prestigio sociale) rappresentò il terreno di maggiore impegno per i gruppi parentali prima, per le famiglie poi: si è giustamente notato come, nonostante l’adozione progressivamente più sistematica di strumenti scritti che agevolassero la conservazione del patrimonio fondiario 19, l’aristocrazia altomedievale si trovasse continuamente nella necessità di dover ribadire la propria condizione sociale, sia a coloro che riteneva suoi pari o suoi superiori, sia ai suoi sottoposti. Specie in quelle aree, come l’Inghilterra Anglo-Sassone, ove la proprietà fondiaria non si configurò mai nei termini di pieno possesso20, il mantenimento dello status aristocratico continuò fino al secolo XI a essere affidato alla negoziazione con il re e con la società locale, che si trovavano continuamente e insistentemente sollecitati a riconoscere la preminenza dei gruppi famigliari egemoni21. I mezzi informali del social display avevano come presupposto concettuale la generosità e la condivisione delle risorse e della ricchezza: la caccia, il banchetto, i donativi rappresentano gli indispensabili strumenti di conferma del consenso, di attiva proposizione dello status aristocratico, nonché di conferma delle alleanze e dei legami clientelari già attivati 22. Ai propri figli un aristocratico altomedievale trasmetteva pertanto un patrimonio bipartito: un’eredità materiale, composta da terra, da beni mobili, come gioielli, armi, stoffe, vasellame, attrezzi agricoli, e da servi, e un’eredità “immateriale” - per usare la felice espressione di Giovanni L e v i 23 - formata dal consenso, dalla stima, dal rispetto, insomma dall’efficacia delle relazioni sociali che tutte insieme contribuivano a definire i rapporti di supremazia e di clientela. Questi due aspetti erano però fortemente connessi l’un altro: poiché, data la mancanza di regole successorie definite, senza la “eredità immateriale” la legittimità dei figli o dei parenti a rivendicare la successione materiale della terra risultava soggetta a forte incertezza, oltre che fonte di conflittualità tra gli stessi figli e parenti - uomini o donne che fossero24. Il momento della morte si configura, nel pano rama di incertezza e informalità che ho appena delineato, come un momento cruciale di passaggio: è infatti il momento nel quale il gruppo parentale deve dimostrare alla società di essere il degno successore nell’eredità ‘immateriale’ e ‘materiale’ del defunto, mostrando di riconoscere, di apprezzare e valorizzare le qualità sociali del defunto stesso e di poterle perpetuare in sua vece. Il rituale funerario si configura pertanto come rituale pubblico nel quale coloro che lo amministrano presentano se stessi ai partecipanti alle esequie e alla sepoltura, proponendosi come continuatori legittimi delle caratteristiche patrimoniali e dei legami sociali instaurati dal defunto25. È evidente che, nel corso del VI e VII secolo, molte popolazioni che acquisirono una supremazia politica all’interno del territorio dell’impero, tesero a evidenziare la loro nuova condizione egemone anche attraverso l’elaborazione di riti funerari complessi, nei quali il prestigio acquisito in sede locale era ribadito e proposto attraverso l’interramento di defunti riccamente abbigliati: il momento della sepoltura si configura come quello nel quale la comunità ha la possibilità di vedere il defunto con tutti i simboli di status che il suo gruppo parentale gli attribuisce come corredo. 16 GASPARRI 1990 a. 17 WORMALD 1977, pp.105-138; WORMALD 1995, pp.963- 23 LEVI 1985, pp.137-142. 24 L’elevato tasso di conflittualità intrafamiliare, oltre che di 993; WOOD 1994, pp.102-119; AMORY 1993, pp.1-28; AMORY 1994, pp.1-30. 18 GANSHOF 1962, pp.5-58. 19 Cfr. MC KITTERICK 1989. 20 Cfr. WICKHAM 1990, pp.483-499. 21 WICKHAM 1994, pp.201-226. 22 Cfr. ENRIGHT 1988, pp.170-203. conflittualità tra gruppi famigliari diversi, è uno degli elementi vistosamente segnalati da recenti indagini: cfr. NELSON 1995, pp.395-400. 25 Queste riflessioni prendono spunto da quanto elaborato teoricamente per le società contraddistinte dalla mancanza di salde regole giuridiche sulla trasmissione patrimoniale: MORRIS 1987; GOODY 1983; per il regno merovingio soprattutto HALSALL 1995. 80 SEPOLTURE TRA IV E VIII SECOLO La deposizione di defunti con corredo di armi e di gioielli si configura allora non tanto come simbolo di appartenenza etnica, bensì come sintomo di incertezza sociale, poiché manifesta la necessità e l’utilità pratica di investire, senza più poterli recuperare, alcuni oggetti preziosi. Le prove di quanto sostengo mi paiono molteplici, dirette e indirette. Che i corredi funebri siano un fenomeno nato all’interno dello stesso mondo romano, specie nelle zone a più alta possibilità di ascesa sociale attraverso l’esercizio dell’attività militare, è ormai dimostrato da molti casi concreti di deposizioni maschili con fibbie da cintura di fabbricazione romana: tali esempi non sono infatti più solo ristretti alle zone del l i m e s settentrionale, ma hanno precisi riscontri anche in Italia settentrionale, in Lombardia, Veneto e Trentino26, e ritengo probabile che una tale casistica sia ben suscettibile di essere ampliata. La stessa diffusione dell’inumazione, invece dell’incinerazione, rappresenta la forma più evidente di ‘romanizzazione’ di un costume germanico precedente. Inoltre, se si osservano la cronologia e la distribuzione delle sepolture con corredo in Europa, si può facilmente notare come la connessione, fatta prima dal Werner e poi dal Bohme, tra tombe con corredo e truppe di foedera ti germanici nella Gallia settentrionale, risulti per lo meno problematica: da un lato la molteplicità di siti in cui sono attestate sepolture con corredo starebbe a significare una molteplicità di patti con innumerevoli gruppi di Germani senza che le fonti ne facciano il minimo cenno. D’altra parte esse non compaiono nelle aree dove foederati vi erano sicuramente, come l’Aquitania oppure la Toxandria27. All’inverso, se si esamina il comportamento funerario dei Vandali in Africa settentrionale, dei Visigoti in Aquitania, degli Ostrogoti in Italia e ancora dei Burgundi in Sapaudia, è evidente che l’etnogenesi di tali popolazioni non comportò forme di distinzione etnica attraverso sepolture con corredo: invece che parlare di ‘miracolo archeologico’, come si è fatto per la mancanza di corredi dei Visigoti in Aquitania28, si può piuttosto considerare la ‘discretion archéologique’ di tali popolazioni come prova della malleabilità dei costumi funerari e della loro funzionalità nel contesto locale29. Vale la pena ora di considerare un altro aspetto, che contribuisce a chiarire l’ambito problematico collegato alle sepolture. La memoria del presti26 Gli esempi di deposizioni con corredo militare lungo il limes sono analizzati criticamente da HALSALL 1992, pp.196-207. A Salò (BS), necropoli del Lugone, alcune inumazioni maschili tra IV e V secolo, sono contraddistinte da fibbie in bronzo relative al costume militare: MASSA 1996, pp.71-79 ; altri esempi di simili sepolture provengono da Riva del Garda, dalla valle dell’Adige, e dal Garda meridionale: CAVADA 1996, pp.21-34. 27 HALSALL 1995, pp.196-207. 28 BIERBRAUER 1995, p.226. 29 CLOVER 1989, pp.161-174; BIERBRAUER 1994, pp.225230; BIERBRAUER 1975; GAILLARD DE SENAINVILLE (a gio del defunto, attivata attraverso le sepolture con corredo, era integralmente affidata al ricordo orale, poiché, almeno nel caso dei Longobardi, non risulta che la memoria individuale fosse perpetuata con forme visibili, destinate a durare nel tempo, come iscrizioni e mausolei, ma neppure in forma di strutture riconoscibili nel paesaggio, come i bar rows degli Anglo-Sassoni del VII secolo30. Il rituale funerario, amministrato dal gruppo parentale, si rivolgeva pertanto in prevalenza alla comunità o alle comunità che utilizzavano il cimitero stesso. La stessa presenza di ampie aree cimiteriali impiantate tra la fine del VI e l’inizio del VII secolo, può far pensare che si tratti di cimiteri utilizzati da più insediamenti, e che il funerale costituisse un’occasione di richiamo collettivo31. Al contrario, la presenza di piccoli nuclei cimiteriali sparsi nel territorio, quale si realizza per molti siti frequentati soltanto a partire dall’inizio del VII secolo, in concomitanza con il lento venir meno dei corredi stessi, potrebbe essere interpretabile come un segnale della limitazione al singolo insediamento dell’audience al funerale e dunque di una minore incertezza della trasmissione dello status individuale: un pubblico solo locale implica il venir meno dell’esigenza di proclamare a gran voce le proprie caratteristiche sociali, e il prevalere dell’uso di ribadirle semplicemente a chi già le conosceva. 3. Memoria funeraria e memoria scritta Se queste osservazioni sono verificabili complessivamente nel processo di consolidamento patrimoniale delle élites europee tra V e VII secolo, voglio ora soffermarmi in particolare sul contesto italiano e sulle peculiarità del suo sviluppo. Le caratteristiche del regno dei Longobardi che maggiormente lo distinguono dalle strutture dei regni vicini sono essenzialmente tre: prima di tutto l’incapacità da parte della famiglia regia nello strutturare una stabile linea dinastica; in secondo luogo il collegamento assai intermittente tra il potere regio e i capi militari locali; da ultimo, lo sviluppo degli enti monastici che si effettuò direttamente attraverso il sostegno dell’aristocrazia e non attraverso il sostegno regio32. Tutte queste tre variabili sono in stretta connessione con la conformazione dell’aristocrazia del regno e con la divercura di) 1995. Il paradosso tra l’importanza politica e militare dei Visigoti nella Gallia meridionale e la loro invisibilità archeologica è sottolineato da NIXON 1992, pp.64-74. Sul rapporto di continuità tra gli usi funerari delle élites romane e di queste popolazioni, rinvio a LA ROCCA c.s. 30 HARKE 1990, pp.22-43; HARKE 1993, pp.425-436. 31 Cfr., a questo proposito, la fine analisi di HALSALL 1995. 32 Tali caratteristiche rispetto a quelle del regno dei Merovingi sono evidenziate da DELOGU 1980; GASPARRI 1980, pp.429442; TABACCO 1990, con la bibliografia principale sull’argomento. Cristina La Rocca 81 sità delle strategie da questa messe in atto per trasmettere e incrementare la proprietà fondiaria. Il cambiamento che si verificò attorno alla metà del VII secolo nel rituale funerario - vale a dire della progressiva cessazione dei corredi funebri - pare potersi connettere con la prima redazione della legge: l’editto di Rotari, nel 643, rappresenta infatti il primo atto scritto in cui il patto tra il re e l’aristocrazia longobarda sul tema della successione della terra riceve una propria legittimazione33. Naturalmente la redazione dell’Editto non rappresentò la fine dei conflitti per la trasmissione della terra, né la fine della rilevanza dei riti collegati al momento della morte. Le strategie funerarie di affermazione aristocratica si indirizzarono però a proporre la propria supremazia attraverso un tramite diverso dal corredo sepolto insieme con il defunto. Fa parte integrante di tali strategie anzitutto il ricorso alla parola scritta per asseverare le transazioni economiche: anche se la produzione documentaria dell’VIII secolo non è distribuita uniformemente nel regno, si può osservare come essa compaia con maggiore insistenza là dove i mezzi di consolidamento aristocratico avevano scelto una via monastica: a parte i diplomi regi, le transazioni economiche effettuate da privati tendono a assumere la struttura di donazioni post mortem a un ente monastico34. La ricomparsa della documentazione scritta nel regno longobardo ha dunque come suo fulcro di caratterizzazione una serie di atti relativi al futuro essi avranno valore solo dopo la morte del donatore - che sono redatti non tanto nell’imminenza della morte, bensì in previsione della morte35, oppure per timore della morte36. Questa differenza è significativa perché, non trattandosi di atti precisamente originatisi in una situazione di ansia o di emergenza, palesano un atteggiamento diffuso delle élites a pianificare il proprio futuro, utilizzando il motivo della fine della vita come momento saliente per affermare la propria continuità sulla terra. Anche se non si tratta, in senso strettamente giuridico, di veri e propri testamenti - poiché mancano le clausole fondamentali del testamento roma- no: i sette testimoni, la revocabilità, l’istituzione dell’erede37 - hanno tuttavia in comune con i testamenti romani il loro intento primario. Vale a dire anch’essi rispondono all’esigenza di evitare la dispersione del patrimonio: come ha ben sottolineato Keith Hopkins, lo stesso sviluppo del testamento romano si può ricollegare alle esigenze di coloro che, rimasti senza figli, potevano destinare a una persona di loro scelta (l’erede) il proprio patrimonio, che in caso contrario sarebbe automaticamente stato diviso tra parenti, residenti spesso in zone assai lontane. Alla redazione testamentaria si accompagnavano poi anche mezzi informali di perpetuazione della memoria del defunto: come la designazione di somme da destinare all’erezione di monumenti funerari, ma pure all’offerta di pasti commemorativi da tenersi all’anniversario della morte stessa e durante le principali festività religiose38. Le aristocrazie dei regni romano germanici, e quella longobarda in particolare, ereditarono in pieno la duplicità delle tecniche di conservazione del patrimonio e della memoria diffuse nel mondo tardo antico, fornendo loro un’interpretazione nuova, perché nuovo era il garante istituzionale di tali pratiche. Se nel mondo romano i testamenti erano conservati nei pubblici archivi, come parte integrante dei Gesta municipalia, e le magistrature pubbliche erano incaricate di adempiere alle volontà del testatore, a partire dall’VIII secolo il ruolo duplice di garante e di conservatore degli atti post obitum viene svolto dagli enti monastici. Non è certo casuale se i ‘testamenti’ altomedievali si differenziano da quelli romani anzitutto per la loro irrevocabilità: i monaci che ricevevano in dono la terra utilizzarono ampiamente, a sancire il carattere perpetuo delle donazioni a loro indirizzate, il formulario tardo antico delle maleditiones contro i violatori dei sepolcri, che si trasformò in una vera e propria minatio contro chi avesse osato mutare quanto stabilito39. La minatio, progressivamente arricchita di esempi biblici ammonitori, divenne infatti una delle parti costitutive della documentazione pubblica e privata, come elemento fondante dell’autenticità delle carte e della loro validità giuridica40. 33 GASPARRI 1990 a. 38 HOPKINS 1983, pp.276-278. Riporta esempi di continuità dei pasti commemorativi anche in ambito monastico altomedievale il lavoro di FEVRIER 1987, pp.890-893. 39 LITTLE 1993; EFFROS 1997, pp.1-23. 40 Cfr. per esempio: CDL, I, 12 (700, Lucca): “et amodo Dei incor rat iudicium”; CDL, I, 18 (714, Pavia): “et si, quod non speramus, quicumque sacerdotum vel secularium sublimium nec non subiectorum contra bone voluntatis nostre dispositam repugna verit, (...)cum inferentibus blasphemiam in Spiritu Sancto ac negantibus sanctam Trinitatem et unitatem persistentem quan do venerit Filius Dei ad vivos et mortuos iudicantdum cum illis in iuditium dampnandus accedat”; CDL, I, 30 (722, Lucca): “Si quis contra hanc (sic!) decretum meum ire quandoque presumpserit, in Dei incurrat iudicium, et ab ipsa sancta Dei generatricem anathematus subiaceat”. A partire dal X secolo, la minatio si arricchisce, facendo costante riferimento al tradimento di Giuda, e all’esempio di Chore, Datan e Abiron: cfr. FISSORE 1971. 34 Ho esaminato questo aspetto in LA ROCCA 1997. 35 Il protocollo documentario di tali atti, ove si spiegano le ragioni che hanno spinto il testatore a effettuare la donazione, menziona malattie e morte imminente assai raramente: CDL, II, 283 (773, Lucca). Sono invece genericamente connessi al pericolo di morte: CDL, I, 90 (747, Lucca); 96 (748, Pistoia); CDL, II, 163 (763, Pavia); 171 (763 Pisa); 230 (769, Pisa); CDL, V, 52 (768, Rieti). 36 CDL, II, 133 (759, Gurgite); CDL, V, 100 (786, Rieti): “consi derantes simulque expavescentes voracitatem ignis”. 37 I caratteri di discontinuità tra i testamenti romani e quelli redatti nel regno merovingio sono esaminati nello studio diplomatistico di NONN 1972, p.129. Un esame preliminare della struttura dei testamenti redatti nel regno longobardo è in LA ROCCA 1997. Dal punto di vista giuridico, cfr. SPRECKELMEYER 1977, pp.91-113. 82 SEPOLTURE TRA IV E VIII SECOLO Attraverso la mediazione dei monaci, la prospettiva del donatore diventava pertanto ambivalente: il documento appariva contemporaneamente volto a prefigurare il futuro dopo la morte sia su un piano ultraterreno (le modalità attraverso le quali il defunto dovrà essere ricordato pubblicamente dalla famiglia), sia su un piano rigorosamente pratico, delineando non solo le prospettive patrimoniali e di carriera dei singoli figli, ma anche formalizzando per scritto i rapporti che il donatore e la sua famiglia intrattenevano con gli enti ecclesiastici. Se, dal punto di vista squisitamente giuridico e tecnico, le donazioni pro anima e le donazioni post obitum sono negozi a titolo gratuito41, dal punto di vista concreto esse si configurano come vere e proprie transazioni economiche: a fronte dei doni indirizzati a un ente ecclesiastico e ad alcuni membri del proprio gruppo parentale, il donatore si aspetta di ricevere in cambio la salvezza della propria anima, il rafforzamento patrimoniale della sua discendenza, e il sostegno per sé dell’ente monastico beneficato. Come ho altrove sottolineato 42, le donazioni post obitum nel regno longobardo presentano uno scheletro costante. Esso si articola in un protocollo, di lunghezza variabile, in cui il donatore specifica le circostanze che lo hanno spinto a redigere l’atto; in una dispositio, incentrata sull’elenco dei singoli beni, specificando il destinatario per ciascuno di essi, oppure, all’inverso, sull’elenco dei destinatari, precisando per ognuno di essi quali sostanze egli verrà in possesso. Nel primo caso il testo appare indirizzato a formalizzare per scritto le peculiarità patrimoniali, nel secondo sono invece sottolineati le relazioni sociali e i legami del donatore: la prospettiva del primo elenco è di consolidamento dello status acquisito, quella del secondo appare volta invece a delineare possibili evoluzioni. L’escatocollo comprende infine la proibizione a venir meno alla irrevocabile volontà espressa dal donatore, e, come di norma, la serie dei sottoscrittori e la sottoscrizione del redattore dell’atto. 4. Pratiche della memoria Fanno parte integrante della d i s p o s i t i o l e modalità rituali con cui il donatore dovrà essere 41 Cfr. ad esempio, GIARDINA 1971, pp.727-748. 42 LA ROCCA 1997. 43 La scherpa è definita da locuzioni del tipo “omnem schirpas meas, pannos, usitilia, lignea, vel ferrea, ramentea, auricalca, aurum, argentos” (ChLaA, XXXVIII, 1102 (786), p.26); CDL, I, 73 (740, Lucca), p.220: “omnia usitilia, seo scherpam meam, tam pannis, eramen, vel auricalco, codicis”; CDL, II, 293 (774, Bergamo): “ mobilia vero rebus meis, hoc est scherpa mea, aurum et argentum, simul et vestes atque caballi”. 44 Esempi di esplicita esclusione dei mobilia dalla donazione post mortem sono: CDL, II, 157 (761, Gurgite): donazione di Pettula alla chiesa di S.Paolo di Lucca “excepto scherpa mea quod pauperibus vel sacerdotibus pro anima mea potestatem ricordato sia immediatamente dopo la sua morte, sia negli anni successivi: ed è su queste che voglio ora soffermare la mia attenzione. Se le donazioni post obitum presentano una sorprendente uniformità nelle categorie dei beni donati, cioè quelli giudicati significativi per qualificare il rango del donatore, altrettanto costante è l’assegnazione dei mobilia o scher pa43, che possono sia essere elencati con precisione mentre si stabilisce chi ne verrà in possesso, sia essere menzionati cumulativamente, riservandosi la facoltà di donarli pro anima 44. Vi è dunque una serie di oggetti preziosi che fanno parte delle caratteristiche distintive dell’aristocrazia, la cui trasmissione è collocata nel complesso ambito dei riti connessi alla morte, e la cui distribuzione è volta a ribadire alleanze: si tratta di una donazione ulteriore di cui sono responsabili le donne della famiglia, in quanto responsabili del rituale funerario stesso45, che appare strettamente collegata a un altro atto di generosità del defunto, cioè alla liberazione dei servi. Vediamo alcuni esempi. Nel 764 a Lucca, Anspald stabilisce che la chiesa da lui fondata sia retta da Rattruda, ancilla Dei, sua parente, e che sia suo il compito liberare i servi e di assegnare la scherpa, la quale è composta da “aeramenta, ferramenta, usitilia lignae et omnes intrinseco case mihi pertinente, pro anima mea, vel sua dispensandi”46; nel 768 a Rieti, Teuderacio, in procinto di partire per la guerra, dispone che la moglie Ansa utilizzi pro anima nostra animali, uomini e terre ubicate in massa Turana, ivi inclusi “caldaria II, concas de auricalco II”47. I vari oggetti di cui la scherpa si compone non fanno parte dei m o b i l i a d e l gruppo parentale, cioè quelli che sono trasmessi tra le generazioni, ma appartengono al singolo individuo personalmente, probabilmente perché sono stati da lui acquistati48: essi sono utilizzati come veicolo della memoria individuale e come simbolo dei legami che il singolo intende allacciare, confermare e ribadire, per sé e la sua discendenza. Non a caso, in corrispondenza con l’ampliamento delle possibilità anche da parte delle donne nel trasmettere le proprie sostanze - formalmente sancito da Liutprando 49 - esse habeam dispensandi”. Cfr. inoltre ChLaA, XL, 1158 (797); 1164 (798); 1166 (798); 1180 (800); ChLaA, XXXIX, 1145 (795); ChLaA, XXXVIII, 1089 (783); 1102 (786); 1114 (787); ChLaA, XXXVI, 1045 (773); 1057 (776); n. 1059 (777). 45 LA ROCCA c.s. a. 46 CDL, II, 175 (Lucca, 764). 47 CDL, V, 52 (Rieti, 768); cfr. anche CDL, V, 75 (Farfa, 777). 48 Cfr. quanto affermato nel 745 da Rottopert di Agrate, che dichiara di voler spezzare e distribuire alcuni oggetti d’argento “quod emi de Roderate” e “quod emi de Ambrosio clerico”: CDL, I, 82 (745, Agrate), p.242. 49 LA ROCCA c.s. a. Cristina La Rocca 83 appaiono richiedere e ottenere dal proprio mundoaldo la possibilità di assegnare la propria scher pa liberamente: per esempio, nel 771, il chierico Guntelmo concede a sua figlia il permesso scritto di donare “res mobile vel ischerpa pro anima sua” anche se “filii mei consentire non volueret”50; e nel 773 Davit lascia alla moglie Ghiserada “ o m n i scherpa tua, quem ad nomen tuum hauis, pro anima tua iudicandi et dispensandi qualiter volue ris”51 . È peraltro da osservare l’analogia con gli oggetti che vengono a comporre la scherpa e quelli che sono utilizzati in launechild, cioè come asseverazione simbolica della parola data in vendite e donazioni: la lista degli oggetti riportata nel capitolo 109 delle leggi di Liutprando dell’anno 728 menziona infatti “cavallus vel boves, aurum vel argentum, vestimenta, aeramenta, ferramenta aut animalia minuta”52. Alcuni indizi permettono di supporre che gli oggetti della scherpa fossero spezzati e distribuiti direttamente durante la cerimonia funebre, cioè che la distribuzione della scherpa facesse parte integrante del rito funebre stesso: come nel caso di Rottopert de Grate , il quale stabilì che la moglie Rotruda dovesse spezzare e distribuire ai poveri alcuni suoi oggetti preziosi: un bacile, due scodelle e un calice d’argento, la propria cintura d’oro53. I singoli frammenti degli oggetti di Rottopert erano cioè utilizzati come vero e proprio strumento economico - si tratta di oggetti in materiale prezioso ma anche come prova della munificienza e veicolo della memoria di Rottopert nei confronti di coloro a cui la sua parentela avesse ritenuto più opportuno affidarli 5 4. Se nella documentazione della prima metà dell’VIII secolo il compito di amministrare il rituale funerario è generalmente connesso con una figura femminile, vi sono anche casi, come quello del gasindio regio Taido, ove l’incarico di distribuire la scherpa (composta da “aurum et argentum, simul et vestes atque caballi”) è affidato direttamente al vescovo, mentre la moglie Lamperga è responsabile dei pasti commemorativi da distribursi a “dece nomina Christi pauperibus per omni ebdomata dies veneris sufficienter pane, vino et companatico”55 . La partecipazione ai rituali funebri da parte degli ecclesiastici fa dunque parte di un processo che si affermò lentamente, attraverso tappe successive: soltanto nella piena età carolingia i monaci saranno definitivamente incaricati di custodire la memoria dei defunti loro fedeli e clienti, oltre che di prendersi cura del perpetuarsi del loro ricordo56. Il processo del progressivo coinvolgimento degli enti monastici ebbe come snodo importante la richiesta, nelle clausole delle donazioni pro anima, di essere seppelliti all’interno dell’edificio ecclesiastico: il caso del chierico Ilderico di Rieti, ne rappresenta uno degli esempi più antichi. Egli desidera infatti non solo che i suoi eredi siano sepolti “in ipsa ecclesia et in atrius ipsius ecclesie” dell’edificio sacro fondato da Ilderico stesso, ma l’atto della donazione rappresenta il tentativo di trasformare la chiesa privata di Ilderico in un vero e proprio centro di commemorazione della sua famiglia: la donazione è infatti effettuata “ pro anima fratris mei Valerini ” , mentre i beni della chiesa sono affidati alla moglie Gutta “cum filiabus suis”57. La tendenza aristocratica a predisporre anche il luogo della propria sepoltura, negoziandolo con un ente ecclesiastico, è infatti l’elemento che viene sottolineato nella regolamentazione dei luoghi di sepoltura all’interno delle più tarde leggi del regno longobardo: nel capitolo 17 delle leggi di Arechi (774-787) si stabilisce infatti che se qualcuno seppellisce un morto in una chiesa “ absque permisso pontificis vel custodum ecclesiasticorum ” dovrà pagare una multa di 40 soldi ai rectores della chiesa, ma poi ci si potrà accordare come pare più opportuno 58: se non esistono affatto proibizioni a seppellire all’interno delle chiese, sono invece previsti precisi accordi bilaterali preventivi alla sepoltura, poiché all’interno dell’edificio sacro il defunto potrà godere del privilegio di far parte della f a m i l i a monastica, che pregherà per lui dopo la morte. Il paradiso prospettato da Smaragdo all’inizio del IX secolo appare allora ornato e decorato dai doni materiali che i monaci avevano ricevuto per distribuirli in elemosina e per ricordare la munificienza delle famiglie aristocratiche loro clienti: i bracciali, gli anelli e le stoffe offerti pro anima splendevano nel cielo testimoniando l’efficacia dei doni stessi e al contempo l’efficienza delle preghiere monastiche che li avevano indirizzati nel luogo più sicuro e difeso. 50 CDL, II, 254 (771 Lucca): “si ipsa filia mea de res mobile vel 54 La procedura della rottura degli oggetti e della loro distribu- ischerpa, si abueret, et dare volueret pro anima sua et filii mei ipsei consintire non volueret, ut ipse filia mea aveas dando pro anima sua comodo volueret”. Concessioni alle donne della famiglia ad assegnare liberamente la propria scherpa si trovano anche in CDL, II, 230 (Pisa, 769). 51 CDL, II, 287 (773, Lucca). 52 Liutprandi leges, 109; cfr. GASPARRI 1990, p.254. 53 CDL, I, 82 (745, Agrate): “si Ratruda conius mea me supe radvixerit, in eius sit potestatem ipso frangendi et pauperibus pro anima mea et sua distribuendi habeat potestatem”. zione è analizzata, dal punto di vista relazionale, da WEINER 1992, pp.138-146. 55 CDL, II, 293 (774, Bergamo). 56 PAXTON 1990; DE JONG 1995. 57 CDL, V, 101, 102 (768, Rieti). 58 Capitula domni Aregis, 17: “Si quis hominum causa temera rio absque permisso pontificis vel custodum ecclesiasticorum mortuum in basilica sepelierit, hac ratione perpendimus: com ponat solidos quadraginta eiusdem venerabili loci rectoribus; de sepulto quidem supradictis personis, ut libet, conveniatur”. Cristina La Rocca 85 BIBLIOGRAFIA Fonti Capitula domni Aregis principis, in F.BEYERLE (a cura di), Leges Langobardorum 643-866 , Witzenhausen, 1962, (Germanenrechte Neue Folge. Westgermanisches Recht). 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