Citazioni dei brani letti durante le lezioni 2014

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Citazioni dei brani letti durante le lezioni 2014
Citazioni presentate durante le lezioni del corso
di Storia contemporanea del Mediterraneo
- Magistrale a.a. 2014-2015
Il viaggio di Gilgamesh
La melanconica partenza del perdente
L’uomo che tu hai portato fin qui, il suo corpo è pieno di sporcizia;
la bellezza del suo corpo hanno rovinato le pelli che indossa;
prendilo, Urshanabi! Portalo al lavatoio;
possa egli lavare con acqua la sua sporcizia, fino a diventare bianco come la neve;
possa egli buttare via le pelli, sicché il mare le porti con sé:
fa' che il suo corpo sia strofinato fino a ritornare bello;
poni sul suo capo un nuovo turbante;
fagli indossare un vestito che lo rinobiliti;
fino a che egli non giunga alla sua città,
fino a che egli non compia il suo viaggio,
che il suo vestito non si scolori, che sia nuovo, che sia nuovo.
Urshanabi lo prese e lo condusse al lavatoio;
egli lavò con acqua la sua sporcizia, fino a diventare bianco come la neve;
egli buttò via le pelli, sicché il mare le portò con sé:
il suo corpo strofinò fino a farlo ritornare bello;
pose sul suo capo un nuovo [turbante]; indossò un vestito che lo rinobilitò,
fino a che non fosse giunto alla sua città,
fino a che non avesse compiuto il suo viaggio;
[il suo vestito non si sarebbe scolorato, sarebbe] rimasto nuovo.
Gilgamesh ed Urshanabi salgono sulla nave;
essi liberano la nave [dagli ormeggi] e intraprendono il viaggio.
Brano tratto da La Saga di Gilgamesh, a cura di Giovanni Pettinato, Rusconi ed., 1994
Nota su Gilgamesh. Si tratta del più antico poema epico-eroico che si conosca, anteriore ai poemi indiani e ai
poemi omerici, con i quali regge il confronto per forza espressiva e intensità tematica, o addirittura li supera
per la modernità con cui esplora i perenni interrogativi sul significato della vita e sul perché della morte. Il
viaggio e l’eterno conflitto tra nomadismo e sedentarietà sono due degli elementi centrali delle drammatiche
avventure di Gilgamesh, il mitico re sumerico.
La storia di Gilgamesh. Gilgamesh, per due terzi divino e per un terzo umano, è un sovrano tirannico che
costringe i giovani guerrieri della sua città a continui e sfiancanti esercizi, finché non incontra Enkidu,
creatura selvaggia plasmata dagli dei per rispondere alle preghiere dei cittadini di Uruk. Gilgamesh ed
Enkidu lottano selvaggiamente, durante la festa di Ishkarra. Non riuscendo a prevalere nonostante la sua
forza leggendaria, Gilgamesh, colpito dal valore del suo avversario, stringe con lui un solenne patto
d'amicizia.
I due amici si avventurano fuori dalla città verso la foresta dei cedri, dove il terribile mostro Humbaba sta a
guardia dei pregiati alberi. Il loro scopo è tagliare i tronchi più belli per portarli ad Uruk ma vengono
scoperti dal mostro. Uniti combattono e sconfiggono la bestia e così i due eroi trionfanti fanno ritorno ad
Uruk con il prezioso bottino, dove la dea Ishtar, impressionata dalla bellezza e dal valore di Gilgamesh, gli
propone di diventare suo sposo, ma riceve un netto rifiuto (motivato dalla discontinuità dell'amore della dea,
che era solita condannare in un modo o nell'altro i suoi amanti). Ella, quindi, chiede a suo padre Anu di
affidarle il Toro celeste, che scatena per le strade di Uruk. Enkidu affronta due volte il toro, dapprima da
solo, e poi con l'aiuto di Gilgamesh, e durante il combattimento afferra il toro per la coda mentre Gilgamesh
lo colpisce con la sua spada tra le corna. I due eroi trionfano, forti del loro valore. Enkidu tuttavia per
volontà degli dei muore a seguito di una malattia e Gilgamesh, per la prima volta, è affranto dal dolore.
Sconvolto, parte alla ricerca dell'unico uomo che conosce il segreto dell'immortalità. Utnapishtim, il lontano,
antico re di Shuruppak e sopravvissuto al diluvio, ma quando, dopo numerose peripezie, riesce ad
incontrarlo, nella terra di Dilmun - là dove sorge il sole - deve arrendersi all'evidenza: le circostanze che
hanno dato al suo antenato l'immortalità sono eccezionali e non ripetibili. Riceve però indicazioni su come
raccogliere in fondo al mare un'erba simile al biancospino il cui nome è vecchio-ritorna-giovane, che intende
portare al suo popolo, ma dopo essere riuscito a coglierla, immergendosi con l'aiuto del battelliere
Urshanabi, mentre si riposa accanto a un ruscello, un serpente la porta via e, dopo averla mangiata, cambia
pelle.
Gilgamesh fa quindi ritorno ad Uruk e qui l'epopea babilonese classica si interrompe.
Il pellegrinaggio nella Bibbia
Prima che l’Arca della Alleanza venisse trasportata a Gerusalemme, i pellegrini erano soliti compiere il
pellegrinaggio a Silo, come indica la storia della nascita del profeta Samuele (1 Samuele 1):
“V’era un uomo di Ramathaim-Tsofim, della contrada montuosa di Efraim, che si chiamava Elkana... E
quest’uomo, ogni anno, saliva dalla sua città per andare ad adorar l’Eterno degli eserciti e ad offrirgli dei
sacrifici a Silo”.
Ci andava insieme alle sue due mogli, una – Anna - era sterile ed Elkana fece un voto per avere un figlio
maschio: “E dopo ch’ebbero mangiato e bevuto a Silo, Anna si levò (il sacerdote Eli stava in quell’ora
seduto sulla sua sedia all’entrata del tempio dell’Eterno)”.
... Il pellegrinaggio durava qualche giorno: “L’indomani, ella e suo marito, alzatisi di buon’ora, si
prostrarono dinanzi all’eterno e ritornarono a casa loro a Rama”.
La regola di svolgimento del pellegrinaggio è ripetuta altre volte nella Bibbia. Ad esempio nell’Esodo ai
capitoli 23 (v. 14): “Tre volte all’anno mi celebrerai una festa. Osserverai la festa degli azzimi. Per sette
giorni mangerai pane senza lievito, come te l’ho ordinato, al tempo stabilito del mese di Abib, perché in quel
mese tu uscisti dal paese d'Egitto; e nessuno comparirà innanzi a me a mani vuote. Osserverai la festa della
mietitura, delle primizie del tuo lavoro, di quello che avrai seminato nei campi; e la festa della raccolta, al
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termine dell'anno, quando avrai raccolto i frutti del tuo lavoro nei campi. Tre volte all’anno tutti i maschi
compariranno davanti al Signore, l’Eterno”.
E ancora nell’Esodo 34 (v.23): “Tre volte all'anno ogni tuo maschio compaia alla presenza del Signore Dio,
Dio d'Israele. Perché io scaccerò le nazioni davanti a te e allargherò i tuoi confini; così quando tu, tre volte
all'anno, salirai per comparire alla presenza del Signore tuo Dio, nessuno potrà desiderare di invadere la tua
terra”.
E infine nel Deuteronomio 16 (v.16): "Tre volte l'anno ogni tuo maschio si farà vedere alla presenza del
Signore, e non si mostri a mani vuote".
L’Arca dell’alleanza secondo il Libro dell’Esodo
“Faranno dunque un'arca di legno di acacia: avrà due cubiti e mezzo di lunghezza, un cubito e mezzo di
larghezza, un cubito e mezzo di altezza. La rivestirai d'oro puro: dentro e fuori la rivestirai e le farai intorno
un bordo d'oro. Fonderai per essa quattro anelli d'oro e li fisserai ai suoi quattro piedi: due anelli su di un lato
e due anelli sull'altro. Farai stanghe di legno di acacia e le rivestirai d'oro. Introdurrai le stanghe negli anelli
sui due lati dell'arca per trasportare l'arca con esse. Le stanghe dovranno rimanere negli anelli dell'arca: non
verranno tolte di lì. Nell'arca collocherai la Testimonianza che io ti darò. Farai il coperchio, o propiziatorio,
d'oro puro; avrà due cubiti e mezzo di lunghezza e un cubito e mezzo di larghezza. Farai due cherubini d'oro:
li farai lavorati a martello sulle due estremità del coperchio. Fa' un cherubino ad una estremità e un
cherubino all'altra estremità. Farete i cherubini tutti di un pezzo con il coperchio alle sue due estremità. I
cherubini avranno le due ali stese di sopra, proteggendo con le ali il coperchio; saranno rivolti l'uno verso
l'altro e le facce dei cherubini saranno rivolte verso il coperchio. Porrai il coperchio sulla parte superiore
dell'arca e collocherai nell'arca la Testimonianza che io ti darò.”
Il pellegrinaggio e il tempio di Erode
“I pellegrini potevano entrare nei cortili del Tempio in due modi: o salendo l'imponente scalinata che
portava al Portico maschile, oppure attraversando i due ponti che collegavano la strada ai piedi del muro
portante occidentale. Una volta giunti alla spianata, i visitatori scoprivano che un intricato sistema di cortili,
ognuno più sacro del precedente, conduceva alla sacralità centrale del devir. Per prima cosa i pellegrini
entravano nel Cortile dei gentili, aperto a tutti. Era separato dal Cortile degli israeliti (riservato agli ebrei
maschi in condizioni di purezza rituale) da un'elegante balaustra. Cartelli mettevano in guardia gli stranieri
dal procedere oltre, pena la morte. Oltre la barriera si trovava il Cortile delle donne, un'area separata con una
galleria rialzata che permetteva alle donne di assistere ai sacrifici nel Cortile dell'altare. Più avanti si trovava
il Cortile dei leviti e infine il Cortile dei sacerdoti, dove c'era il grande altare sacrificale”.
Brano tratto da K. Armstrong, Gerusalemme. Storia di una città tra ebraismo, cristianesimo e islam, Mondadori, Milano 1999
Il pellegrino di Bordeaux
Ecco alcuni brani tratti dal diario di viaggio del Pellegrino di Bordeaux, nel 333:
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“[…] A Gerusalemme ci sono due grandi vasche (piscinae) ai lati del tempio (ad latus templi), una sul lato
destro ed una sul lato sinistro, che sono state costruite da Salomone; inoltre in città ci sono due vasche
gemelle (piscinae gemellares), con cinque colonnati, chiamate Bethsaida (Giovanni 5:2-18).
Vi vengono curate persone malate da molti anni; le vasche contengono acqua che è rossa quando viene
agitata. C’è anche una cripta, in cui Salomone torturava i diavoli.
Qui si trova anche il luogo d’una torre incredibilmente alta, dove salì nostro Signore ed il tentatore gli disse
“Se sei il figlio di dio, buttati giù di qui.” (Matteo, 4:7). Ed il Signore rispose “Tu non tenterai il Signore dio
tuo, ma lui solo servirai.” (Matteo 4:10). C’è una grande pietra angolare, della quale fu detto “La pietra che i
costruttori hanno scartato è diventata la pietra portante.” (Matteo 21:42; Ps 118:22). Sotto la cupola (pinna)
della torre ci sono molte stanze, e qui c’era il palazzo di Salomone. C’è anche una stanza in cui egli sedette a
scrivere il (Libro della) Sapienza; questa stanza è sormontata da un’unica pietra. Ci sono anche ampi
contenitori sotterranei per l’acqua e vasche costruite con grande impiego di lavoro. Nell’edificio stesso (in
aede), dove si trovava il tempio costruito da Salomone, dicono che il sangue di Zaccaria (Matteo 23:35;
Luca 11:51), che fu versato sul pavimento di pietra davanti all’altare, sia rimasto fino ad oggi. Si possono
anche vedere i segni dei chiodi delle scarpe dei soldati che lo trucidarono, attraverso tutto il recinto, talmente
nitidi come se fossero stati impressi nella cera. Vi sono due statue di Adriano, e non lontano da esse c’è una
pietra perforata, presso la quale gli Ebrei si recavano ogni anno e la ungevano, levavano lamenti, si
laceravano gli abiti, e quindi se ne andavano. C’è anche la casa di Ezechiele, re dei Giudei.
Appena usciti da Gerusalemme in direzione del Monte Sion, a sinistra giù nella valle, accanto al muro c’è
una vasca chiamata Siloe (Giovanni 9:7) che ha quattro colonnati; e c’è un’altra grande vasca all’esterno. La
sorgente è attiva per sei giorni e notti, ma il settimo giorno, che è il Sabbath, non funziona affatto, sia di
giorno che di notte. Da questa parte si sale sul Sion, e si vede il luogo dove era la casa di Caiaphas, e vi è
ancora una colonna contro la quale Cristo venne colpito a bastonate. All’interno del muro di Sion si vede il
luogo dove era il palazzo di Davide. Di sette sinagoghe che un tempo vi si trovavano, ne rimane solo una; le
altre sono spianate e distrutte, come disse il profeta Isaia (Isaia 1:8; Michah 3:12)
Di là, uscendo dal muro di Sion, camminando verso la porta di Nablus verso destra, giù nella valle, ci sono
dei muri che erano la casa o il pretorio di Ponzio Pilato (Matteo 27:27). Qui nostro Signore venne tentato
prima della passione. Sul lato sinistro si trova la collina del Golgota, dove il Signore fu crocefisso (Matteo
27:33). Ad un tiro di schioppo di qui c’è una cripta (crypta) in cui fu deposto il Suo corpo, che resuscitò il
terzo giorno (Matteo 27:63; 28:6). In quel luogo , per ordine dell’Imperatore Costantino (iussu Constantini),
è stata eretta una basilica, cioè una chiesa (dominicum) di assoluta bellezza, con a lato dei contenitori
(excepturia) nei quali viene raccolta l’acqua, ed un bagno nella parte posteriore in cui i bambini vengono
lavati (battezzati).
Se poi si va da Gerusalemme alla porta verso est, per salire sul Monte degli Ulivi, c’è la valle detta di
Giosafat. Verso sinistra, dove ci sono vigneti, si trova una pietra nel luogo dove Giuda Iscariota tradì Cristo
(Matteo 26,47-50); sulla destra c’è una palma, i cui rami furono sparsi dai bambini sulla via all’arrivo di
Cristo (Matteo 31:8). Non lontano, ad un tiro di schioppo, si trovano due notevoli tombe di grande bellezza;
in una di esse, che è un monolite, giace il profeta Isaia, nell’altra Ezechiele, re dei Giudei.
Di lì si sale al Monte degli Ulivi, dove, prima della Passione, il Signore predicò ai suoi discepoli (Matteo 2425). In quel luogo fu costruita per ordine di Costantino una stupenda basilica. Non lontano si trova una
collinetta su cui il Signore salì a pregare, quando prese con sé Pietro e Giovanni, e furono visti Mosè ed Elia
(Matteo 17:1-8) […]”.
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Egeria
Ecco alcuni brani tratti dal diario di viaggio della nobildonna spagnola Egeria:
“[...] anche la spelonca in cui si nascose santo Elia viene mostrata ancor oggi davanti alla porta della
chiesa…. In quel luogo facemmo dunque l’oblazione e una preghiera molto fervente e leggemmo il passo del
Libro dei Re: era nostra abitudine, infatti, che in tutti i luoghi che avevo desiderato vedere, si leggesse nella
Bibbia, una volta arrivati, il passo corrispondente […].
[…] ci fecero visitare il punto in cui si accamparono i figli di Israele durante i giorni in cui Mosè salì sul
monte. Ci mostrarono anche il luogo in cui fu costruito il vitello: in quel punto vi è tuttora una grande pietra
[…].
E ancora il luogo dove manna e quaglie piovvero per loro dal cielo. E così tutte le cose di cui parla il Libro di
san Mosè e che ebbero luogo in quel punto, cioè nella valle che, come ho detto, stava sotto il monte di Dio, il
santo Sinai, ci furono mostrate tutte: scriverne dettagliatamente sarebbe stato troppo lungo, perché non si
potevano ritenere tanti particolari, ma se la vostra dilezione legge i libri di san Mosè, vi trova con maggior
esattezza ciò che là è avvenuto […].
[il Giordano] Partendo, dunque, da Gerusalemme e viaggiando in compagnia dei santi uomini – un sacerdote e
dei diaconi di Gerusalemme e alcuni fratelli, cioè, dei monaci – arrivammo, dunque, a quel luogo del
Giordano, come è scritto nel libro di Giosuè, figlio di Nun. Ci mostrarono anche il luogo un pochino più alto,
dove i figli di Ruben e di Gad e mezza tribù di Manasse avevano fatto l’altare, dalla parte della sponda dove si
trova Gerico.[…]
Allora entusiasti, uscimmo subito fuori. Dalla porta della chiesa, vedemmo il punto dove il Giordano entra nel
mar Morto; quel punto era visibile ai nostri piedi, come stavamo. Vedemmo anche […] Gerico, al di là; tanto
era sovrastante l’alto luogo dove stavamo, davanti alla porta della chiesa. Di là si vedeva una grandissima
parte della Palestina, che è la terra promessa, come pure tutta la regione del Giordano, per lo meno nella
misura in cui era percepibile allo sguardo […]”.
Egeria, Diario di Viaggio, Edizioni paoline, Alba 1996
Il Califfo Omar e i cristiani
Lo storico Tabari cita un documento che si pensa rappresenti l’accordo tra Omar e i cristiani di
Gerusalemme:
“Omar garantisce loro la sicurezza, a ogni persona e alle loro proprietà: alle loro chiese, alle croci, ai malati
e ai santi, a tutti gli appartenenti alla loro fede. Non metteremo soldati musulmani nelle loro chiese. Non
distruggeremo le loro chiese, né danneggeremo il loro contenuto o le loro proprietà o le loro croci o nulla di
ciò che appartiene loro. Non spingeremo la popolazione di Gerusalemme ad abbandonare il suo credo e non
le faremo alcun male”.
Brano tratto da K. Armstrong, Gerusalemme. Storia di una città tra ebraismo, cristianesimo e islam, Mondadori, Milano 1999 p.
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Lo spirito delle crociate. Testimonianze
“Una reputazione terribile aveva preceduto questi guerrieri vestiti di corazze. Circolavano voci spaventose di
atti di cannibalismo ad Antiochia, e i barbari cristiani provenienti dall’Europa erano diventati noti per la loro
spietatezza e per il loro fanatismo religioso”.
K.Armstrong, Gerusalemme. Storia di una città tra ebraismo, cristianesimo e islam, Mondadori, Milano 1999 p. 260
Per tre giorni i crociati massacrarono sistematicamente circa trentamila abitanti di Gerusalemme: “Uccisero
tutti i saraceni e i turchi che trovarono…. Uccisero tutti, uomini e donne”.
De Gesta Francorum et aliorum Hierosolimitanorum ("Le Gesta dei Franchi e degli altri pellegrini a Gerusalemme"), Cronaca in
latino della prima crociata. Autore anonimo
“Chiunque fosse entrato per primo in una casa, ricco o povero che fosse, non era sfidato da nessun altro
guerriero franco. Egli avrebbe occupato e posseduto la casa o il palazzo e qualunque cosa vi avesse trovato
come se fosse stato suo”.
Fulcherio di Chartres, Historia Hierosolymitana, cappellano dell’esercito
Le strade erano inondate di sangue … “Si vedevano mucchi di teste, di mani di piedi…
Se dirò la verità, essa supererà la vostra capacità di credervi. E quindi vi basti questo: nel tempio e nel
portico di Salomone si cavalcava nel sangue fino alle ginocchia e alle briglie. Senza dubbio, fu una
punizione divina giusta e splendida il fatto che questo luogo fosse riempito del sangue dei non credenti,
poiché per tanto tempo aveva sofferto dei loro atti blasfemi […]
Questo giorno, io dico, sarà famoso per tutte le età future, in quanto ha trasformato le nostre fatiche e le
nostre sofferenze in gioia ed esultanza: questo giorno, io dico, rappresenta la giustificazione di tutta la
cristianità, l’umiliazione del paganesimo, la rinascita della fede. Questo è il giorno voluto dal Signore,
rallegriamoci quindi in gioia e siamo contenti, in quanto in questo giorno il Signore si è rivelato al suo
popolo e lo ha benedetto”.
Raimondo di Aguilers, testimone oculare, citato da Brano tratto da K. Armstrong, Gerusalemme. Storia di una città tra ebraismo,
cristianesimo e islam, Mondadori, Milano 1999
Lo spirito crociato continua. Il viaggio di John Mandelville
“E poiché è trascorso molto tempo da quando non vi fu alcuna traversata comune per mare per giungere
nella Terra Santa e poiché gli uomini desiderano ardentemente sentire parlare di questa terra e dei diversi
paesi nelle vicinanze e traggono da ciò grande piacere e divertimento, io, John Mandeville, cavaliere, benché
senza merito, che nacqui in Inghilterra nella città di St. Albans e che attraversai il mare nell’anno di Nostro
Signore Gesù Cristo 1332, il giorno della festa di San Michele e poiché sono stato molto tempo oltremare e
ho visto e sono entrato in molti regni, terre, province e isole e ho attraversato la Turchia, l’Armenia, piccola
e grande, il regno dei Tartari, la Persia, la Siria, l’Arabia, l’Egitto Alto e Basso, la Libia, la Caldea e una
grande parte dell’Etiopia, l’Amazzonia, una grande parte dell’India piccola e grande, e molte altre isole che
sono intorno all’India, dove vivono molti tipi diversi di genti, di diverse leggi e fattezze, di queste terre e
isole io parlerò più chiaramente e descriverò una parte di quelle cose che sono presenti laggiù quando verrà il
momento, a seconda di come mi ritorneranno in mente e soprattutto per quanti desiderano e intendono
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visitare la città santa di Gerusalemme e i luoghi santi nelle vicinanze; e vi dirò come raggiungere quei luoghi
poiché ho viaggiato molte volte e cavalcato attraverso essi in buona compagnia di Signori.
[…] Questa è la terra che ci fu promessa in eredità e in quella terra. Egli volle morire ed essere investito di
questo bene per lasciarlo ai Suoi figli. Ciascun Cristiano di buona volontà che possa e abbia i mezzi
dovrebbe impegnarsi nella conquista della nostra eredità, di questa terra e scacciare da essa quanti sono
miscredenti. Poiché noi siamo chiamati cristiani per Cristo Nostro padre e se intendiamo essere veri figli di
Cristo, dovremmo rivendicare l’eredità che nostro padre ci lasciò e sottrarla dalle mani di uomini estranei.
Ma ora l’orgoglio, l’invidia e l’avidità hanno così tanto infiammato gli animi dei Signori del mondo che essi
sono più indaffarati a diseredare i loro vicini che ad avanzare pretese o a conquistare la loro eredità legittima.
E la gente comune, che rischierebbe il proprio corpo e i propri beni per conquistare la nostra eredità, non può
fare nulla senza i Signori. Poiché un insieme di persone senza i Signori che li guidino è come un gregge di
pecore senza pastore, che si separa e che non sa mai dove andare. Ma se Dio volesse che i loro Signori di
questa terra trovassero un buon accordo e con altra gente comune intraprendessero questo santo viaggio per
mare, credo che entro poco tempo la nostra vera eredità sopra menzionata verrebbe riconquistata e posta
nelle mani dei veri eredi di Gesù Cristo!”
Brano tratto da John Mandelville, Travels, 1332
Ibn Battuta a Gerusalemme
“Poi arrivammo a Gerusalemme, terza in ordine di merito dopo le due Nobili Moschee [della Mecca e di
Medina], luogo da cui l’Inviato di Dio ascese al cielo". La città, grande e maestosa, è costruita in pietre da
taglio. Quando il pio e meritevole malik Salali al-Din ibn Ayyiub [Saladino] - che Iddio lo ricompensi per il
bene che ha fatto all'islam! - la riconquistò, fece demolire una parte delle mura e più tardi al-Malik al-Zahir
[Baybars] ne completò la distruzione per timore che i cristiani occupassero la città e vi si asserragliassero
dentro. Un tempo, inoltre, a Gerusalemme non arrivava acqua, ma ora ve l'ha portata l'emiro Sayf al-Din
Tankiz, governatore di Damasco.
La Moschea Santa. È un Santuario meraviglioso, incantevole, e dicono che sulla faccia della terra non ne
esistano di più grandi: la lunghezza, da est a ovest, è di 752 cubiti regi, e la larghezza, da sud a nord, è di
435. Su tre lati si aprono molte porte, mentre sul lato verso sud, a quanto ne so, ce n'è una sola: quella da cui
entra l’imam. Nel suo insieme è un vasto spazio a cielo aperto, tranne la moschea al-Aqsa -il cui tetto
rivestito d'oro e d'incantevoli colori raggiunge il massimo della perfezione e della precisione artistica- e
alcuni nelli luoghi che parimenti hanno un tetto.
La Cupola della Roccia. È uno degli edifici più mirabili, perfetti e straordinari al mondo, vanta ogni sorta di
attrattiva e possiede un'infinità di mirabilia. Posta su un'altura al centro del Santuario, vi si accede per una
gradinata in marmo e possiede quattro porte. Il pavimento intorno, come pure quello sottostante la cupola, è
rivestito di marmi perfettamente lavorati e sia all'interno che all'esterno le decorazioni sono di fattura così
incantevole da non potersi dire: per lo più sono coperte d'oro, sicché la cupola rifulge di luce e brilla con il
fulgore del lampo. Lo sguardo, al contemplarla, è abbagliato dalle sue bellezze, e la lingua di chi l'osserva è
incapace di descriverla. In corrispondenza del centro della Cupola s'erge la nobile roccia ricordata nei hadith,
da cui il Profeta è asceso in cielo: è molto compatta e alta all'incirca quanto un uomo,
Sotto la Roccia una serie di scalini conducono a una grotta grande come uno stanzino e alta anch'essa quanto
un uomo dov'è raffigurato un mihrab. Quanto alla Roccia, è completamente rinserrata da due recinti lavorati
a perfezione: quello interno, di mirabile fattura artistica, è in ferro, e quello esterno è in legno. Dentro alla
Cupola, infine, è appeso un grande scudo di ferro, che la gente sostiene essere quello di Hamza ibn 'Abd al7
Muttalib.
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Alcuni santuari benedetti della nobile Gerusalemme. Tra questi ricordiamo, sul fianco della valle conosciuta
come valle della Gheenna, su un alto colle a oriente della città, un edificio che dicono si trovi sul luogo da
cui Gesù ascese al cielo.
Un altro santuario è la tomba di Rabi'a al-Badawiyya, il cui nome deriva da biidiya [deserto] e che non va
confusa con la famosa Rabi'a al-'Adawiyya.
In questa stessa valle si trovano chiese molto venerate dai cristiani: in una dicono si trovi il sepolcro di
Maria e nell'altra si recano in pellegrinaggio perché credono, ma è falso, che vi sia quello di Gesù- fra l'altro,
i pellegrini devono pagare una determinata tassa ai musulmani e sono costretti a subire maltrattamenti
umilianti. Sempre in questo luogo, infine, è custodita la culla di Gesù, dove si va per ricevere la baraka”.
Brano tratto da Ibn Battuta, I viaggi, a cura di C.M. Tresso, Einaudi, Torino 2006
Altri viaggiatori arabi a Gerusalemme
Al Muqaddasi - nato a Gerusalemme nel X secolo
Il mio paese riunisce le virtù di questo mondo e dell’altro: chi è di questo mondo e aspira all’altro vi
sentirà il suo richiamo […] Se parlate di bellezza, non vedrete nulla di paragonabile ai suoi edifici, nulla
di più pulito di questa città, di più gradevole della sua moschea […] Se parlate di meriti è il teatro della
Resurrezione, il luogo dell’Ultimo raduno e l’inizio della Vita futura. La Mecca e Medina trassero la loro
dignità dalla Ka‘ba e dal Profeta (Dio gli conceda la benedizione e la salvezza!) ma, nel giorno della
Resurrezione, esse saranno entrambe condotte a Gerusalemme, che accumulerà così tutte le virtù. Infine
parlate di estensione? Allora non troverete un paese più vasto, perché tutte le creature vi devono essere
radunate.
Sotto il sole che sorge, la cupola si illumina, il tamburo brilla, dando origine a uno spettacolo
meraviglioso, e io, insomma, io non ho mai visto nell’Islam nulla di paragonabile a questa cupola, né ho
saputo che esistesse qualcosa di simile presso di infedeli
al-Idrīsī m.1164
Lasciando la Chiesa Grande (il Santo Sepolcro) e dirigendosi ad Est si trova il luogo costruito da
Salomone, figlio di Davide. Ai tempi degli Ebrei era un luogo di culto (masǧid) verso cui si compiva il
pellegrinaggio ma poi gli fu sottratto e furono cacciati […] La Moschea di al-Aqṣà è la più immensa di
tutto il territorio dell’Islam […] La Cupola della Roccia fu il primo luogo di preghiera, sino all’arrivo dei
Franchi ed è rimasta nelle loro mani sino all’epoca in cui fu steso questo libro. Costoro hanno convertito
questo spazio in camere dove alloggiano le compagnie degli al-Dāwiyyah il cui nome significa “Servi
della casa del signore”
Il Fada’il per Gerusalemme
Imam al Wasiti: XI secolo
Gli angeli circondarono la Mecca mille anni prima della creazione di ogni altra cosa sulla terra, dopo altri
mille anni Dio creò Medina e la unì con Gerusalemme e, dopo mille anni ancora, creò il resto del mondo.
Il Paradiso scenderà su Gerusalemme come una sposa nel giorno dell’Apocalisse. Allora la Ka‘ba e la
Pietra Nera giungeranno dalla Mecca e le città si incontreranno su uno stesso piano
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Ibn al-Gawzi (m.1201)
“Tutti i fiumi che scorrono sulla terra, le nuvole, i mari e i venti hanno origine da un luogo sottostante la
Cupola della Roccia […] Perciò Gerusalemme è benedetta, perché ogni acqua pura proviene dalla fonte
della Roccia”.
Omaggia Saladin per la riconquista di Gerusalemme, in quanto la città è:
“una delle quattro città del paradiso, dove abitarono i patriarchi ebraici, Mosè e poi Maria e Gesù, dotata
di un tempio da Salomone, luogo di rivelazione e prima qibla designata da Muḥammad”
Sihab al-Din Abu Sama (1267)
L’esito della guerra è che Gerusalemme, sullo stesso piano di Mecca e Medina, si riunisce alle due città
sante
La Kaʽba saluta felicemente la liberazione della propria sorella al-Aqṣà [...] La fede esiliata dal proprio
santuario ritrova oggi la propria dimora.
Al Qaysarani, poesia di corte del XII-XIII secolo
Che la città di Gerusalemme sia purificata dal sangue!
Il Sāḥil [il territorio costiero] si purifichi dalla polvere attraverso la preghiera.
Nūr al-Dīn è sempre fermo nel suo volere e dritto il ferro della sua lancia verso al-Aqṣà
‘Imad al-Din al-Isfahani (m.1201), e la riconquista di Saladino
L’Islam chiedeva in sposa Gerusalemme, pronto a versarle vite in dono nuziale, apportandole un
benefizio per toglier via da lei ogni sciagura, donando un lieto viso per mandar via un corrucciato volto,
facendo udire il grido di dolore della Roccia, che invocava aiuto contro i suoi nemici, la risposta al suo
appello, la pronta eco della sua chiamata; per far sorgere le lampade fulgenti nel suo cielo, e riportar la
fede da essa straniatasi alla sua patria, restituendola alla sua tranquilla dimora, e allontanando da al-Aqṣà
coloro che Dio aveva allontanato con la sua maledizione.
[La Moschea di al-Aqṣà] è la sede dei Profeti, la residenza dei Santi, il luogo di adorazione degli uomini
pii, il posto che visitano i santi della terra e gli angeli del cielo [...] Qui è la Roccia, il cui sempre nuovo
splendore fu preservato da ogni logorio, da cui partì la via dell’Ascensione [del Profeta]; sul suo capo si
innalza la Cupola superba come una corona, lì ha brillato il lampo e di lì è partito Burāq, lì la Notte del
Viaggio Celeste, col calarvi della falce luminosa, ha illuminato il mondo […] E Gerusalemme è la prima
delle due qibla, la seconda delle due Case di Dio, la terza dopo le due zone sacre: è uno dei tre luoghi di
preghiera di cui nei ḥadīṯ è detto: “che alla sua volta si sellino cavalcature, e gli uomini vi leghino le
speranze” […] Essa ha pregi e virtù innumerevoli, partenza e arrivo del sacro Viaggio Notturno, sulla sua
terra si spalancò il cielo, di essa si tramandano le notizie dei Profeti, le grazie dei Santi, le tombe dei
Martiri, i miracoli dei Generosi, i segni dei Dottori. È la città che Davide fondò e raccomandò a
Salomone di edificare […]. È quella con cui si inaugurò un capitolo della Rivelazione. Quanto è mai
illustre e grande, nobile e superba, alta e fulgente, eccelsa e gloriosa! Oh fauste sue benedizioni e
benedetti i suoi fausti auspici! Oh nobile il suo luogo e dolci le sue bellezze!
Al-Sibt Ibn al-Gawzi (m.1293), vive a Damasco presso la corte ayyubbide. Testimonia la sesta crociata.
[Quando] giunse la notizia della consegna di Gerusalemme ai Franchi si rivolsero tutti i paesi dell’Islam.
Il fatto fu così grave che si indissero pubbliche cerimonie di lutto […]. È stato chiuso l’accesso a
Gerusalemme alle compagnie dei pii visitatori! O desolazione dei devoti ivi stanziati, quante mai
prosternazioni di preghiera si sono per loro compiute in quei luoghi, quante loro lacrime si sono sparse in
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quelle dimore! Per Allāh, se i loro occhi fossero fonti vive non potrebbero pagare intero il loro debito di
pianto, se i loro cuori si spezzassero dal cordoglio non potrebbero soddisfare l’angoscia. Possa Dio
abbellire l’onore dei Credenti! O vergogna dei sovrani musulmani! Per un tale evento si versano lacrime,
si spezzano per i sospiri i cuori, si leva alto il cordoglio.
Sihab al-Din al-Maqdisi (1364). Ritorna l’immaginario sul potere di unificazione della città e sui “meriti”
di Gerusalemme.
Non vi è maggiore dolcezza che quella che si propaga da sotto la Roccia di Gerusalemme […] Il Profeta
disse: quattro sono i fiumi che attraversano la terra e Adamo ha bevuto da ciascuno di essi. Ma tutti
sgorgano da sotto la Roccia […] Questa è la Terra santa in cui Dio ha benedetto i due mondi, poiché ogni
acqua dolce sgorga dalla sorgente della Roccia che si trova a Gerusalemme e discende dal cielo sulla terra
per poi in essa defluire.
Benjamin de Tudela
“[Gerusalemme] è una piccola città, cinta da tre mura. E’ piena di gente, che i Musulmani chiamano
Giacobiti, Siriani, Greci, Georgiani e Francesi, e di persone di tutte le lingue.
Vi si trova una casa della tintura, per la quale gli Ebrei pagano un piccolo affitto annuale al re, a condizione
che nessun altro tintore, oltre agli Ebrei, sia ammesso a Gerusalemme. Ci sono circa 200 Ebrei che vivono
sotto la Torre di Davide in uno dei lati della città. La parte bassa del muro della Torre di Davide, lunga circa
dieci cubiti, è parte dell’antica costruzione eretta dai nostri antenati, mentre la parte restante è stata costruita
dai Musulmani. In tutta la città non c’è struttura più potente della Torre di Davide. In città ci sono anche due
edifici, uno dei quali – l’ospedale – ospita quattrocento cavalieri; ed al suo interno tutti i malati che
giungono vengono ospitati ed assistiti in vita ed in morte. L’altro edificio è noto come il Tempio di
Salomone; è il palazzo costruito da Salomone, re d’Israele. Vi sono ospitati trecento cavalieri, che ne escono
ogni giorno per le esercitazioni militari, oltre a coloro che vengono dalla terra dei Franchi e da altri luoghi
della cristianità, essendosi impegnati a servire laggiù un anno o due, fino a che il loro voto sia compiuto.
A Gerusalemme c’è una grande chiesa detta del Sepolcro, dove c’è la tomba di Gesù, presso cui i Cristiani si
recano in pellegrinaggio. Gerusalemme ha quattro porte: la porta di Abramo, la porta di Davide, la porta di
Sion, e la porta di Gushpat, che è la porta di Giosafat, di fronte al nostro antico Tempio, ora chiamato
Templum Domini. Sopra il sito del santuario Omar ben al Khataab eresse un edificio con una grande e
splendida cupola, nella quale i Gentili non portano alcuna immagine o effige, ma vi si recano unicamente
per pregare. Davanti a questo luogo c’è il muro occidentale, che è uno dei muri del Santo dei Santi. E’
chiamato la Porta della Misericordia, e vi giungono tutti gli Ebrei per pregare di fronte al muro del cortile
del Tempio.
A Gerusalemme, accanto al palazzo che apparteneva a Salomone, vi sono le stalle da lui fatte costruire, che
compongono una struttura molto solida, fatta di grandi pietre, che non ha pari in tutto il mondo. C’è anche,
conservata fino ai giorni nostri, la vasca usata dai preti prima dell’offerta dei sacrifici, e gli Ebrei che vi
giungono scrivono i loro nomi sul muro. La Porta di Giosafat conduce alla valle di Giosafat, che è il luogo
dell’incontro delle nazioni. Qui c’è la colonna detta Mano di Absalon, ed il sepolcro del Re Uzziah. Nelle
vicinanze c’è anche un’ampia sorgente, chiamata Acque di Siloam, collegata al fiumiciattolo di Chidron.
Sopra la sorgente c’è una grande struttura che risale ai tempi dei nostri antenati, ma vi è poca acqua, e la
gente di Gerusalemme per la maggior parte beve acqua piovana, raccolta nelle cisterne delle case. Dalla
valle di Giosafat si sale sul Monte degli Ulivi: solo la valle separa Gerusalemme dal Monte degli Ulivi. Di
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qui si può vedere il Mare di Sodoma, e a breve distanza da questo c’è la Colonna di Sale in cui fu
trasformata la moglie di Lot; le pecore la leccano continuamente, ma torna sempre alla sua forma originaria.
Si può vedere tutta la pianura e la valle di Shittim fino al Monte Nebo. Di fronte a Gerusalemme c’è il
Monte Sion, sul quale non vi sono costruzioni, tranne un luogo sacro appartenente ai Cristiani. Davanti a
Gerusalemme per una distanza di tre miglia ci sono i cimiteri appartenenti agli Israeliti, che nei tempi antichi
seppellivano i loro morti in grotte, e sopra ogni sepolcro c’è un’iscrizione con la data, ma i Cristiani
distrussero i sepolcri e ne utilizzarono le pietre per costruire le proprie case. Questi sepolcri arrivano fino a
Zelzah nel territorio di Benjamin. Intorno a Gerusalemme ci sono alte montagne. Sul Monte Sion vi sono i
sepolcri della Casa di Davide ed i sepolcri dei re che regnarono dopo di lui. Il luogo esatto non può essere
individuato, in quanto quindici anni fa il muro della chiesa del Monte Sion crollò. Il Patriarca ordinò al
caposquadra di prendere le pietre delle vecchie mura e ricostruire la chiesa. Così egli fece ed assunse dei
lavoratori con compensi stabiliti: venti uomini portarono via le pietre dalla base del muro di Sion. Fra questi
uomini ve ne erano due che erano amici giurati. Un giorno si dilungarono e dopo il pasto tornarono al
lavoro, quando il caposquadra disse loro “perché oggi avete fatto tardi?”; ed essi risposero “Perché vi
lamentate? Quando i nostri compagni andranno a mangiare noi faremo il nostro lavoro.” Quando giunse
l’ora di cena e gli altri lavoratori andarono a mangiare, loro esaminarono le pietre e ne sollevarono una che
era l’ingresso di una grotta. Quindi uno dei due disse all’altro: “Andiamo a vedere se troviamo del denaro
laggiù”. Entrarono nella grotta e giunsero ad una grande stanza poggiata su pilastri di marmo ricoperto
d’argento e d’oro. Davanti vi era una tavola d’oro ed uno scettro ed una corona. Era il sepolcro del Re
Davide. A sinistra di essa, nello stesso stile, c’era il sepolcro di re Salomone; seguivano poi i sepolcri di tutti
i re dei Giudei che vennero sepolti lì. C’erano anche delle casse chiuse, il cui contenuto nessuno conosce. I
due uomini tentarono di entrare nella stanza, quando un forte vento giunse dall’entrata della grotta
colpendoli con violenza, ed essi caddero a terra come morti, rimanendovi fino a sera. Giunse poi un vento
come voce umana, che gridava: “Alzatevi ed uscite da questo luogo!”. Allora essi corsero fuori pieni di
terrore, andarono dal Patriarca e gli riferirono tutto questo. Il Patriarca mandò a chiamare il Rabbino
Abraham el Constantini, il pio eremita, che era uno dei dolenti di Gerusalemme, e gli riferì tutto quanto gli
era stato raccontato dai due uomini. Il Rabbino Abraham rispose: “Questi sono i sepolcri della Casa di
Davide; appartengono ai re dei Giudei, e domani ci andremo io e te e questi uomini, e scopriremo che cosa
c’è”. L’indomani mandarono a chiamare i due uomini, e li trovarono entrambi stesi sul letto terrorizzati, ed
uno disse: “Noi non entreremo là, poiché il Signore non vuole mostrare ciò a nessuno.” Allora il Patriarca
ordinò che quel luogo fosse chiuso e restasse nascosto fino ad oggi. Queste cose mi furono dette dal
Rabbino Abraham. Gerusalemme dista due parasanghe da Betlemme, che è chiamata dai Cristiani BethLeon, e là vicino, a distanza di circa mezzo miglio, al bivio della strada, c’è la colonna della tomba di
Rachele, che è composta di undici pietre, corrispondenti al numero dei figli di Giacobbe. La sormonta una
cupola che poggia su quattro colonne, e tutti gli Ebrei che vi passano accanto incidono i loro nomi sulle
pietre della colonna. A Betlemme ci sono due tintori ebrei. E’ una terra piena di corsi d’acqua, e vi si
trovano pozzi e sorgenti. A sei parasanghe di distanza c’è S.Abram de Bron, che è Hebron; l’antica città era
sulle montagne, ma è ora in rovina; l’attuale città si trova nella valle accanto al campo di Macpela.
Felix Fabri e il decalogo del pellegrino
“Ora, quando entrammo in città (Ramle) erano circa le nove del mattino, così il Padre Guardiano fece
disporre e preparare un altare nel giardino all’interno della casa dove erano le abitazioni dei nostri capitani,
contro il tronco di una grande palma carica di datteri. Poi, dopo aver convocato i pellegrini in quel giardino e
sbarrate le porte, così che gli infedeli non potessero interromperci, uno dei frati celebrò la messa. Dopo la
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messa il Padre Guardiano fece una bella predica in Latino, perché era italiano e non conosceva il tedesco.
Così, dal momento che non aveva con sé nessuno che parlasse questa lingua e che potesse tradurre il suo
discorso a noi tedeschi, egli mi chiese di stare accanto a lui e tradurre le sue esortazioni ai pellegrini
tedeschi. Questo io feci volentieri, stando al suo fianco e, quando aveva terminato una frase in latino, io la
prendevo dalla sua bocca e la ripetevo nella comune lingua germanica.
In più, nel suo discorso egli dettò ai pellegrini alcuni articoli contenti le regole e il metodo con cui si
dovevano visitare i Luoghi Santi e che bisognava osservare dimorando tra i Saraceni e gli infedeli in Terra
Santa, per non incorrere in qualche pericolo a causa della ignoranza di tali indicazioni.
Il Decalogo del pellegrino.
Articolo I - Se per caso qualche pellegrino fosse arrivato senza il dovuto permesso papale, ed era perciò
incorso nella sentenza di scomunica, costui doveva presentarsi a lui al termine della messa per essere assolto
da questo colpa in virtù della autorità apostolica che gli era stata affidata…
Articolo II - A nessun pellegrino era permesso girovagare da solo per i Luoghi Santi senza una guida
Saracena, perché era molto pericoloso. Io, fra Felix Fabri, non ho osservato strettamente questo articolo,
come si vedrà in seguito.
Articolo III - Il pellegrino prenderà cura di non calpestare i sepolcri dei Saraceni, perché essi si arrabbiano
molto quando vedono questo e tirano pietre a quelli che lo fanno, perché pensano che il nostro passaggio
tormenti e disturbi i defunti.
Articolo IV - Dovesse un pellegrino essere colpito da un Saraceno, sia pure ingiustamente, non deve
rispondere con un altro colpo, ma si lamenterà contro colui che lo ha colpito presso il Guardiano, il
dragomanno (interprete) o Calino (il capo dei dragomanni), che cercheranno di raddrizzare il torto se
possibile; se no, sapendo che i giovani si comportano a volte con arroganza e sfrontatezza, i pellegrini
dovranno sopportare e avere pazienza per la gloria di Dio e per loro maggior merito.
Articolo V - I pellegrini si guardino dal distaccare frammenti dal Santo Sepolcro o da edifici di altri luoghi,
danneggiandone le murature, perché questo è proibito sotto pena di scomunica.
Articolo VI - I pellegrini di nobile nascita non devono imbrattare i muri disegnandovi i loro stemmi, o
scrivendovi i loro nomi, o appiccicando sulle pietre fogli di carta con la rappresentazione dei loro stemmi, o
facendo graffi sui marmi e sulle colonne, o addirittura dei buchi con strumenti di ferro, per lasciar traccia del
loro passaggio. Da questo modo di comportarsi i Saraceni prendono grande offesa, e li ritengono dissennati.
Articolo VII - I pellegrini procederanno nella visita dei Luoghi Santi ordinatamente, senza confusione e
dissensi; e nessuno cercherà di arrivare prima degli altri, perché spesso si causa un gran disordine nei luoghi
e la devozione di molti per questo si affievolisce.
Articolo VIII - I pellegrini si guarderanno dal mettersi a ridere tra di loro mentre camminano per le strade di
Gerusalemme nel visitare i Luoghi Santi; ma devono comportarsi in maniera grave e devota, sia a motivo dei
Luoghi Santi che per l’esempio che danno agli infedeli, ma anche perché questi non abbiano sospetto che si
rida di loro, ciò che gli dà estremo fastidio. Sono sempre sospettosi del riso e del divertimento dei pellegrini.
Articolo IX - I pellegrini si guardino soprattutto di far gesti o sorrisi nei riguardi di uomini o bambini dei
Saraceni coi quali si dovessero incontrare perché, anche se fatti con tutte le buone intenzioni, molti guai
sono sorti da simile condotta. In questo modo, qualunque cosa ridicola sia da questi compiuta, i pellegrini si
gireranno dall’altra parte e rimarranno seri, e saranno così lasciati in pace.
Articolo X - I pellegrini siano attenti a non guardare le donne che abbiano a incontrare, perché tutti i
saraceni sono estremamente gelosi e un pellegrino potrebbe, senza saperlo, cadere in qualche pericolo
provocato dalla furia di qualche geloso marito.
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Articolo XI - Se qualche donna dovesse fare segnali o invitare un pellegrino dentro una casa, lui non dovrà
farlo assolutamente, perché quella donna fa questo tranello a istigazione di qualche uomo, di modo che il
Cristiano, quando sarà entrato, possa essere derubato o addirittura ucciso. Chi non è prudente in questo
campo incorre grandi pericoli.
Articolo XII - Si guardi il pellegrino dall’offrire ad un saraceno vino, se gli chiede da bere, tanto lunga la via
che altrove. Il primo sorso gli dà già alla testa e il primo uomo che attacca è il pellegrino che gli ha dato da
bere.
Articolo XIII - Ogni pellegrino mantenga l’asino che dal conducente ha ricevuto all’inizio, e non lo scambi
con quello di qualcun altro, a meno che sia col consenso del conducente, se no avverrà qualche disturbo.
Articolo XIV - I pellegrini di nobile stirpe si guardino dal rivelare il loro stato in presenza dei Saraceni; è
cosa imprudente farlo per molte ragioni.
Articolo XV - Nessun pellegrino si ponga in testa un turbante di colore bianco, né avvolga panni o tessuti
bianchi attorno alla sua testa in presenza di Saraceni, perché essi considerano questo un loro privilegio, un
segno con cui si distinguono dagli altri popoli. Né sopportano di vedere Cristiani vestiti di vesti bianche…
Articolo XVI - Nessun pellegrino porti appeso ai suoi fianchi un coltello o altro, altrimenti gli sarà strappato
via e sequestrato. Né può portare armi di qualsiasi tipo.
Articolo XVII - Se un pellegrino avrà fatto amicizia con un Saraceno, si guarderà dal fidarsi troppo di lui
perché sono traditori. In modo particolare si guarderà di toccargli la barba o il turbante anche solo appena
sfiorandolo, perché questo è giudicato male da loro e ogni gesto precedente di benevolenza è dimenticato e
s’infuriano. Di questo fatto, io fra Felix Fabri, ho avuto esperienza diretta.
Articolo XVIII - Ogni pellegrino prenda cura della propria roba e non la lasci abbandonata in un posto dove
ci sono dei Saraceni, altrimenti presto scomparirà, qualunque cosa sia.
Articolo XIX - Se un pellegrino ha una fiasca di vino e vuole berne, è meglio che non si faccia vedere dai
Saraceni che sono presenti; può chiedere a un altro di mettersi davanti a lui, o coprirsi col suo mantello e
bere di nascosto. Perché, siccome bere vino è loro proibito, ci invidiano che noi beviamo e molestano coloro
che lo fanno.
Articolo XX - Un Cristiano non farà patteggiamenti di denaro coi Saraceni, eccetto in maniera tale da essere
certo di non venire imbrogliato; perché essi cercano di imbrogliarci in tutti i modi anzi credono di servire
Dio con l’ingannarci e imbrogliarci…
Articolo XXI - Se i pellegrini avranno da fare accordi coi Saraceni, non dovranno litigare, né alzar la voce,
né arrabbiarsi con loro, perché essi sanno che queste sono cose contrarie alla dottrina cristiana e quando
vedo qualcosa di questo tipo subito gridano: “Cattivo cristiano!” perché tutti sanno dire queste parole in
italiano o tedesco… Cristiano è un nome che implica giustizia, bontà, onestà, sopportazione.
Articolo XXII - I pellegrini stiano attenti a non entrare nelle moschee, cioè i templi e gli oratori dei Saraceni,
perché se vi sarà trovato dentro in alcun caso ne uscirà indenne, se pure ne uscirà vivo…
Articolo XXIII - Specialmente stia attento il pellegrino a deridere o canzonare i saraceni che pregano o
praticano le posture richieste dalla loro religione, perché questo assolutamente non lo possono tollerare.
D’altra parte loro stessi si trattengono dal molestarci o deriderci quando noi facciamo le nostre preghiere.
Articolo XXIV - Se un pellegrino sarà trattenuto a Ramle o altrove un po’ più a lungo di quanto egli voglia,
sopporti questo con pazienza e non pensi che questo sia per colpa del Padre Guardiano, mentre è dei
Saraceni che fanno quello che a loro piace in queste cose, e non quello che conviene a noi.
Articolo XXV - I pellegrini non devono crucciarsi se gli tocca pagare un po’ di denaro per salvarsi dalle
varie molestie che possono capitare, ma quando c’è da pagare del denaro lo diano subito senza protestare.
Nello stesso tempo nessuno è tenuto a dare denaro al conducente del suo asino, perché questo è pagato dal
capitano, a meno che uno voglia dare al suo conducente un quartino per comperare del foraggio per il suo
asino, cosa che tuttavia non è obbligato di fare.
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Articolo XXVI - I pellegrini devono dare qualcosa al gestore dell’ospizio in cui abitano, al fine che l’edificio
possa essere riparato e ricostruito dalle rovine.
XXVII e ultimo articolo - I pellegrini avranno rispetto del povero convento dei Frati di Monte Sion a
Gerusalemme, dal quale i pellegrini vengono accolti nel loro viaggio in Terra Santa, e lo sosterranno con le
loro elemosine in aiuto a quei poveri frati che dimorano tra gli infedeli per dare conforto ai pellegrini e sono
disposti a servire i pellegrini con tutte le loro forze, anche mettendosi sotto i loro piedi se necessario. E se
qualcuno dei pellegrini non si vedrà servito secondo i suo desideri e necessità non faccia colpa ai frati di
questo, perché se dovessero dare pane e vino a tutti quanti, si ritroverebbero loro stessi senza il necessario
per vivere. In ogni caso, essi sono disposti ad curare i pellegrini ammalati con ogni diligenza e attenzione,
assistendoli ed accogliendoli con tutta carità nella loro infermeria.
Questi articoli furono letti a voce alta ai pellegrini in latino e in tedesco.”
Il viaggio di George Sandys
[Il diario è indirizzato al Principe]
“Mio Signore, L’eminenza del rango nel quale Dio e la Natura vi hanno collocato, attira lo sguardo e la
fiducia delle vostre Virtù conquista l’amore di tutti gli uomini. Siccome la Virtù è in un individuo un
ornamento esemplare, in un Principe si manifesta per essere una benedizione per tutti. E come il Figlio del
mondo, così porta sia la luce che la vita in un regno: una luce per guidare con l’esempio glorioso e una vita
di gioia con un governo benevolo. Dalla cui considerazione giusta e seria sorge nelle menti non rozze una
riconoscente corrispondenza di affetto e di dovere che ancora insistono per esprimersi nel tentativo di
rendere un servigio. Questo ha portato anche me (nobilissimo Principe) non provvisto di risorse migliori, ad
offrire con umile zelo al vostro sguardo generoso questi miei ripetuti viaggi, in passato compiuti con fatica e
pericolo e ora narrati con sincerità e accuratezza. Le parti che tratto riguardano i paesi e i regni più celebri:
un tempo ospitarono gli Imperi più gloriosi e vittoriosi, furono gli scenari di azioni valorose ed eroiche, i
territori arricchiti da tutte le felicità di questo mondo, i luoghi dove la Natura ha prodotto le sue opere
meravigliose, dove le Arti e le Scienze sono state inventate e perfezionate, dove la saggezza, la virtù, i buoni
costumi e la civiltà si sono insediate e hanno prosperato e da ultimo dove Dio stesso pose il suo dominio,
donò leggi e oracoli, ispirò i suoi Profeti, inviò gli Angeli a parlare agli uomini, soprattutto dove il Figlio di
Dio discese per diventare uomo, dove onorò la terra con i suoi bei passi, compì l’opera della nostra
redenzione, trionfò sulla morte e ascese alla gloria.
I paesi un tempo così gloriosi e famosi per la loro lieta condizione sono ora colpiti dal vizio e
dall’ingratitudine, diventano gli spettacoli più deplorevoli della miseria estrema: le bestie feroci dell’umanità
vi sono entrate con la forza e hanno estirpato tutta la civiltà e l’orgoglio di un Tiranno inflessibile e barbaro
possiede i troni del potere antico e giusto. Chi aspira solo alla somma grandezza e sensualità ha nel corso del
tempo ridotto una parte del mondo così grande e così bella in questa deplorevole angoscia e schiavitù nella
quale (con lo stupore degli osservatori dotati di discernimento) ora si indebolisce e geme. Quelle ricche terre
al momento rimangono incolte e ricoperte da arbusti, ricettacoli di bestie feroci, di ladri e di assassini, vasti
territori spopolati o scarsamente abitati, belle città devastate, edifici sontuosi in rovina, Templi gloriosi
corrotti o prostituiti all’empietà, la vera religione umiliata e oppressa, tutta la Nobiltà estinta, nessuna luce di
sapere permessa, nemmeno la Virtù prediletta, la violenza e il saccheggio oltraggiano ovunque e non
lasciano alcuna sicurezza tranne per una mente abietta e aperta alla povertà, e le loro calamità così grandi e
meritate sono per il resto del mondo ammonimenti minacciosi. In esse per offrire il mio aiuto, non ho solo
narrato cosa ho veduto della loro condizione attuale, ma nei limiti della convenienza, ho presentato un breve
giudizio sulle passate condizioni e sui costumi antichi di quei popoli e paesi per trarre quindi un’immagine
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corretta della fragilità dell’uomo e della mutevolezza di qualsiasi cosa terrena e la certezza che come non vi
è nulla di immutabile tranne Dio, così non vi è nulla di stabile tranne la sua grazia e la sua protezione.
Accettate grande principe questi deboli sforzi dettati da un forte desiderio: che siano sempre volti a rendere a
vostra Altezza ogni servigio gradito e che sempre si rallegrino della vostra prosperità e letizia”.
Brano tratto da: George Sandys, A Relation of a Journey Begun Ad Dom 1610, Londra, 1615
Lo spirito critico di Henry Maundrell
Quando, nel 1697, Henry Maundrell, cappellano della English Levant Company ad Aleppo, visitò la
Palestina mostrò ancor più disprezzo per le «sciocchezze» delle «vane apparizioni» che avevano scosso i
suoi antenati. E si interessò tanto alle antichità greche e romane quanto ai luoghi biblici. Quando partecipò
alla cerimonia del Fuoco Sacro, si indignò di fronte all'estasi della folla, che gli sembrò pura «follia», «un
pandemonio».
Fu particolarmente disgustato dall'antagonismo tra greci e latini per il sepolcro di Cristo: “a volte si erano
ingiuriati ed erano passati a vie di fatto, addirittura all'ingresso del sepolcro, mescolando il loro sangue a
quello sacrificale. A riprova di tale furore il padre guardiano [francescano] ci mostrò una grande cicatrice su
un braccio, dicendoci che era il marchio lasciatogli da un robusto sacerdote greco in uno di questi empi
scontri.
Era inutile sognare una nuova crociata per liberare questi luoghi sacri, perché «anche se dovessero essere
recuperati, chissà quali deplorevoli scontri bisognerebbe aspettarsi per il loro possesso, dal momento che
anche nell'attuale stato di cattività hanno dato origine a una rabbia e a un'animosità assolutamente non
cristiane”.
Brano tratto da H. Maundrell, A Journey from Aleppo to Jerusalem at Easter, a.d. 1697 Garnet Publishing Ltd, 2009
Costantin François de Chassebeuf, detto Volney. Gerusalemme e il viaggio filosofico
“[…] progettai dunque di compiere un viaggio. Restava da deciderne la scena; la volevo nuova, o almeno
brillante. Il mio paese e gli Stati vicini mi sembravano troppo conosciuti, o troppo facili da conoscere;
l'America nascente e i selvaggi mi tentavano; altre considerazioni mi indussero infine a scegliere l'Asia;
soprattutto la Siria e l'Egitto […].
È in quelle regioni - mi dicevo - che ha avuto origine la maggior parte delle idee che ci governano; da quelle
terre si sono diffuse le concezioni religiose che tanto fortemente hanno influito sulla nostra morale pubblica
e privata, sulle nostre leggi, su tutta la nostra legislazione sociale. Sarà dunque interessante conoscere i
luoghi in cui tali idee sono sorte, gli usi e i costumi su cui si fondavano, lo spirito e il carattere dei popoli che
le hanno consacrate. Sarà interessante vedere fino a che punto quello spirito, quei costumi, quelle usanze si
siano alterati o conservati; esaminare quali possano essere state le influenze del clima, gli effetti del governo,
le cause di certe abitudini: in una parola, giudicare dalla situazione attuale la situazione di un tempo”.
La decadenza della città di Gerusalemme: “… a vedere le muraglie abbattute, i fossati riempiti di detriti, si fa
fatica a riconoscere quella celebre metropoli che ha lottato contro gli imperi, che ha tenuto testa per un istante
alla potenza di Roma stessa; e che per un bizzarro gioco della sorte, riceve oggi nella sua caduta omaggio e
rispetto; riconoscere in una parola si fa fatica a riconoscere Gerusalemme: “situata in un terreno scabro e privo
d’acqua, circondata da burroni e da altezze difficoltose, scartata da tutti grandi passaggi, non sembrava adatta a
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diventare né un avamposto commerciale né un centro di consumi: ma essa ha vinto tutti gli ostacoli per provare,
senza dubbio alcuno, quello che può l’ostinazione di un legislatore abile, o favorito da circostanze positive.
L’economia: “Voglio parlare dei rosari, dei reliquari, dei santuari, delle croci, delle passioni, degli Agnus Dei,
degli scapolari.
La fabbricazione di questi utensili di pietà è il ramo dell’industria che fa vivere la maggior parte delle famiglie
cristiane e musulmane di Gerusalemme e dei dintorni; uomini, donne, bambini, tutti sono occupati a scolpire, a
incidere il legno, il corallo; e a ricamare in seta,. In perle e con fili d’oro e d’argento. Il solo convento dio
Terrasanta ne ricava ogni anno 50.000 piastre, e quelli degli armeni, dei greci e dei copti riuniti, per una somma
ancora più forte: questo genere di commercio è tanto più vantaggioso tanto ai fabbricanti quanto alla
manodopera, visto che costituisce il suo unico salario. Questi oggetti, esportati in Turchia, in Italia, in Portogallo
e soprattutto in Spagna, costituiscono una rendita di somme considerevoli, a titolo di elemosina o di pagamento.
A questi articoli i conventi aggiungono un altro ramo non meno importante la visita dei pellegrini
Dopo la conclusione negativa delle Crociate “lo zelo degli europei si è raffreddato di giorno in giorno, e il
numero dei pellegrini è molto diminuito; si riduce a qualche monaco dall’Italia, dalla Spagna e dalla Germania;
ma non così per gli orientali. Fedeli allo spirito dei tempi passati, hanno continuato a guardare il viaggio a
Gerusalemme come ad un’opera di grande merito…. I greci assicurano che il pellegrinaggio fa acquisire
indulgenze plenarie, non solo per il passato, ma anche per l’avvenire, e che li assolve, non solo dall’omicidio,
dall’incesto e dalla pederastia; ma anche dall’infrazione dei giorni di festa, che ritengono una mancanza ben più
grave.
Questi incoraggiamenti non sono senza effetti; e ogni anno partono dal Peloponneso, dall’arcipelago, da
Costantinopoli, dall’Anatolia, dall’Armenia, dall’Egitto e dalla Siria, una folla di pellegrini di tutte le età e di
tutti i sessi; ce ne fu un numero di 2.000 nel 1784. I monaci non cessano di dire che la religione deperisce e che
lo zelo dei fedeli si spegne. Ma bisogna convenire che questo zelo è un po’ rovinoso, poiché il più semplice
pellegrinaggio costa almeno 4.000 lire.
Descrizione del pellegrinaggio: “I costi: i religiosi dicono che l’alloggio è gratuito, ma che non sarebbe onesto
non fare un’offerta… non ci si può dispensare dal pagare le messe, i servizi, gli esorcismi. Poi bisogna comprare
crocifissi, rosari… La domenica delle palme ci si va a purificare nel Giordano e questo viaggio esige un
contributo supplementare, per la scorta e il diritto di passaggio.
I tatuaggi sono numerosi, con lo scopo di essere riconosciuti si fanno incidere sulle mani o sulle braccia delle
figure di croci, di lance e le iniziali di Gesù o di Maria.
Queste folle lasciano nella città somme considerevole... una parte va alla gente e ai commercianti; un’altra parte
va al governatore e ai suoi impiegati; la terza resta nei conventi. Ci sono lamentele sull’uso che ne viene fatto dai
scismatici. Si parlano con scandalo del loro lusso, delle loro porcellane, dei loro tappeti che arredano le loro
celle. Gli armeni e i franchi sono molto più modesti: per i primi è virtù che deriva dalla necessità perché sono
poveri; ma è virtù di prudenza per i secondi che non lo sono”.
Brano tratto da Volney, C.F, de Chassebeuf, Voyage en Egypte et en Syrie, pendant le années 1783, 1784 et 1785, Parmentier
Libraire, Paris 1825
La spedizione napoleonica…… commenti vari…
Testimonianza dello storico Jabarti:
“Se qualche musulmano veniva da loro allo scopo di esaminarli, essi non gli impedivano di penetrare nei
loro luoghi più cari […] e se trovavano in lui qualche brama o desiderio di conoscenza essi gli mostravano
la loro amicizia e amore per lui, e gli facevano vedere ogni genere di disegni e cartine, e animali e uccelli e
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piante, e storie degli antichi e delle nazioni e racconti dei profeti… Io mi recai spesso da loro, ed essi mi
mostrarono tutto ciò”.
Brano tratto da A.Hourani, Storia dei popoli arabi, Mondadori, Milano 1998, p.209
Testimonianza di Jean-Baptiste-Joseph Fourier, segretario dell'Institut d’Egypte:
“Posto tra Africa e Asia, facilmente raggiungibile dall'Europa, l'Egitto occupa il centro dell'antico
continente. Questa terra evoca solo ricordi grandiosi; è la patria delle arti e conserva innumerevoli
monumenti; i templi più importanti e i palazzi un tempo abitati dai sovrani esistono tuttora, nonostante il
fatto che i meno antichi tra questi edifici furono terminati prima della guerra di Troia, Omero, Licurgo,
Salone, Pitagora e Platone, tutti si recarono in Egitto per studiare le scienze, la teologia, le leggi. Alessandro
vi fondò una città opulenta, che a lungo ha mantenuto la propria supremazia commerciale, e che ha visto
Pompeo, Cesare, Marco Antonio e Augusta decidere tra loro il fato di Roma e quello del mondo intero. Si
può dunque dire che sia proprio di questo paese attrarre l'attenzione dei principi illustri, che governano il
destino delle nazioni.
Nessuna nazione, né in Occidente né in Asia, ha mai raggiunto una potenza considerevole senza volgersi di
conseguenza verso l’Egitto, considerandolo in un certo senso una preda a lei naturalmente destinata!”.
Brano tratto da Préface historique della Description de l’Egypte, citato da E.W. Said, Orientalismo, cit.
Victor Hugo, Lui:
Au Nil je le retrouve encore
L'Égypte resplendit des feux de son aurore;
Son astre impérial se lève à l’orient.
Vainqueur, enthousiaste, éclatant de prestiges,
prodige, il étonna la terre des prodiges …
Les vieux scheiks vénéraient l'émir jeune et prudent;
Le peuple redoutait ses armes inouïes
sublime il apparut aux tribus éblouies
comme un Mahomet d'occident.
Brano citato da E.W. Said, Orientalismo, cit.
… in occasione dell’apertura del Canale di Suez
“Il 17 novembre, la più grande impresa di ingegneria di questo secolo vedrà celebrato il proprio buon esito
in una magnifica festa di inaugurazione, alla quale quasi tutte le famiglie reali d'Europa invieranno speciali
rappresentanze. L'occasione sarà davvero eccezionale. L’apertura di una linea di comunicazione via mare
tra l'Europa e l'Est è un sogno secolare, che ha conquistato le menti di greci, romani, sassoni e galli, ma solo
negli ultimi pochi anni la civiltà moderna si è davvero incamminata sulla via degli antichi faraoni, i quali,
molti secoli or sono, avevano costruito un canale tra i due mari, le cui tracce sono ancor oggi qua e là
distinguibili [...]. Ogni aspetto dei lavori [moderni] è stato compiuto in scala gigantesca, e un’attenta lettura
dell'opuscolo che li descrive, dalla penna del Cavalier de St. Stoess, ci impressiona ancor più fortemente
rivelandoci il genio del grande artefice - il signor Ferdinand de Lesseps - la perseveranza, lungimiranza e
quieta audacia del quale hanno trasformato in un fatto reale, tangibile, il sogno di epoche intere [...], il
progetto di avvicinare le nazioni dell'Ovest e dell'Est, e cosi unire civiltà di epoche diverse”.
Thomas Cook in Excursionist and Tourist Advertise, 1 luglio 1869, citato da E.W. Said, Orientalismo, cit.
1862. Bornier vince il premio messo in palio dall'Académie française per celebrare l'epopea del Canale,
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con la seguente poesia:
Al lavoro! Lavoratori che la nostra Francia invia,
tracciate, per l'universo, questa nuova via!
I vostri padri, eroi. Fin qui sono arrivati;
come loro, intrepidi, siate determinati,
come loro combattete ai piè delle piramidi,
che i loro quattromila anni contemplino anche voi!
Sì, è per l'universo! Per l'Asia e per l'Europa,
per quei climi lontani che la notte avvolge,
per il perfido cinese, per l'indiano seminudo,
per i popoli felici, liberi, umani e coraggiosi,
per i popoli cattivi, per i popoli schiavi,
per coloro ai quali il Cristo è ancora sconosciuto.
Brano tratto da: E.Said, L’Orientalismo…cit
Discorso dell’Inviato del Papa il giorno dell’inaugurazione del Canale: “Si può certamente affermare che
l'evento appena verificatosi è non solo uno dei più solenni di questo secolo, ma soprattutto uno dei più
importanti e decisivi per l'umanità nella sua storia terrena. Questo luogo, dove confinano, senza ormai più
toccarsi. Africa e Asia, questa grande festa del genere umano, questa riunione solenne e cosmopolita, tutte
le razze del mondo, tutte le bandiere e gli stendardi che garriscono gioiosamente sotto questo cielo radioso e
immenso, la croce alzata e da tutti rispettata, di fronte alla mezzaluna, quante meraviglie, quanti affascinanti
contrasti, quanti sogni, un tempo chimerici, divenuti palpabili realtà! E in questo insieme di tanti prodigi,
quanti temi di riflessione per il pensatore, quante gioie nell'ora presente e, nelle prospettive dell'avvenire,
quante gloriose speranze! Le due estremità del globo si avvicinano: avvicinandosi, si riconoscono;
riconoscendosi, tutti gli uomini figli di un unico e medesimo Dio, avvertono il trasalimento gioioso della
loro mutua fraternità! O Occidente! O Oriente! Avvicinatevi, guardatevi, riconoscetevi, salutatevi,
abbracciatevi! [...] Ma al di là del fenomeno materiale, lo sguardo di chi riflette scopre orizzonti più vasti
degli spazi misurabili, gli orizzonti senza limiti ove maturano i più alti destini, le più gloriose conquiste, le
più immortali certezze del genere umano [...]. O Dio, che il tuo soffio divino discenda su queste acque! Che
passi e ripassi, da Occidente a Oriente, a Oriente a Occidente! O Dio! Serviti di questa via per avvicinare gli
uomini gli uni agli altri”
Brano tratto da: E.Said, L’Orientalismo…cit
Chateaubriand: il dispotismo
“[…] Il malgoverno come pretesto per l’intervento: “Gerusalemme è lasciata a un governatore pressoché
indipendente, a un mufti e a un cadi che possono fare impunemente tutto il male che loro aggrada, salvo fare
poi i conti con il pascià. Si sa che il governatore, il giudice e tutti quelli che a loro piace delegare hanno il
diritto di togliere agli uomini la proprietà e la vita. La sola cosa che si capisce in questo paese è che si
potranno ricevere 300 colpi di bastone e che verrà tagliata la testa. Un atto di ingiustizia che una ingiustizia
più grande. Se si spoglia un contadino, bisognerà anche spogliare il vicino; perché per ottenere dal pascià
l’impunità per il primo, bisogna averne un secondo per soddisfare la cupidigia del padrone.
… Si potrebbe credere che il pascià nel giro nel suo pascialato porti un rimedio a questi mali e ascolti le
lamentele: lo stesso pascià è il più grande flagello, e gli abitanti di Gerusalemme temono il suo arrivo come
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quello di un nemico: fuggono nelle montagne, chiudono i loro negozi, fingono di essere morenti sui loro
giacigli, si nascondono nei sotterranei fino a che il flagello sia passato”.
[…] il pascià dopo aver sottratto tutto quello che ha potuto a Gerusalemme, parte per continuare il suo giro.
Ma per non pagare le guardie della città, e sotto pretesto della carovana della Mecca, porta con se tutti i suoi
soldati. Il governatore resta solo con una mezza dozzina di sbirri che non sarebbero sufficienti alla polizia
della città, e a maggior ragione al paese. L’anno passato, fu lui stesso obbligato a nascondersi a casa sua per
sfuggire alle bande di ladri che oltrepassavano la notte le mura della città e che favoriti da un compare
all’interno, incominciarono a saccheggiare Gerusalemme.
[…] Appena il pascià se ne andò, un’altra disgrazia cominciò. I villaggi in rovina e senza la protezione dei
soldati, si sollevarono; si attaccarono gli uni agli altri per soddisfare le vendette ereditarie, dei partiti dei
capi, e infine per evitarer di essere spogliati. Non si può più passare sui sentieri senza pagare un pedaggio e
senza trattare. L’agricoltura muore: i contadini vedono la notte estirpare le vigne e tagliare gli olivi da parte
del loro nemico. La miseria aumenta con le sue devastazioni. L’anno successivo il pascià ritorna: esige gli
stessi tributi in un paese dove gli uomini sono diminuiti, e la miseria aumentata. Bisogna allora che raddoppi
l’oppressione, che stermini interi villaggi. Poco a poco il deserto si estende, la desolazione della Giudea
aumenta: non si vedono più che villaggi e villaggi alla porta dei quali sono immensi cimiteri, dove i morti
sono ben più numerosi dei vivi: ogni anno vede estinguersi una famiglia, e nel giro di qualche anno non resta
più che un cimitero le cui pietre sepolcrali si confondono con le rocce”.
R. Chateaubriand, L’itinearario da Parigi a Gerusalemme, 1811
Volney: il dispotismo in Turchia
“Giudicate dunque quali possono essere gli effetti di un simile regime, giudicate gli abusi di un potere
illimitato in mano a potenti che non conoscono né la sofferenza, né la pietà, a parvenus avidi di godere e
fieri di comandare e a subalterni bramosi di far carriera; e giudicate, di conseguenza, se certi scrittori
speculativi abbiano avuto ragione di affermare che il dispotismo in Turchia non è quel gran male che si
pensa, in quando essendo accentrato nella persona del sovrano, non deve pesare che sui grandi che lo
circondano! Probabilmente, come dicono i turchi, la sciabola del sultano non si abbassa fino alla polvere, ma
questa sciabola egli la depone nelle mani del visir, che l’affida al pascià, il quale la passa al mutassallim,
all’aga, e così via fino all’ultimo suddito; in tal modo quella sciabola può raggiungere tutti e decapitare
anche le teste più umili
Volney, Viaggio in Egitto e i Siria, Longanesi, Milano 1974, p. 412
L’abito della donna egiziana
È abitudine della donna egiziana “indossare un paio di pantaloni molto grandi e sborsati, di broccato o di
satin, o spesso di seta color ciliegia brillante. I pantaloni sono allacciati sopra al ginocchio e scendono a
sbuffo fino a terra e hanno l’aspetto quasi di una sottana rigonfia. Sopra ai pantaloni porta una camicia di
seta d’organza, trasparente, dalle maniche lunghe le quali, come l’orlo del collo, sono ricamate in oro e seta
a vivaci colori. L’orlo conferisce alla camicia la foggia di una specie di tunica appoggiata su pantaloni con
un effetto grazioso. Sopra indossa un abito lungo di seta, aperto davanti e sui lati. L’usanza impone che
questo abito sia, seppur di poco, più lungo della donna che l’indossa, così che le tre strisce in cui è diviso
possano toccare appena il terreno quando la donna calza un paio di alti zoccoli di legno che si usano per il
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bagno, ma che risuonano spesso in tutta la casa. Le strisce degli zoccoli che fasciano il piede sono molto
elaborate e talora sono ornate di diamanti. L’abito ha maniche piuttosto strette e abbastanza lunghe da
raggiungere terra. Non attorno alla vita, ma appoggiato sui fianchi ha un ampio scialle di cashemere e la
grazia dell’insieme dipende dal modo in cui esso viene portato. D’inverno sopra questi capi di vestiario
indossa un abito lungo di panno o di velluto, oppure di lana d’angora”
Brano tratto da R.Curzon, Visit to the Monasteries in the Levant, P.Putnan, New York 1849, in A Brilli, Il viaggio in oriente, Il
Mulino, Bologna 2009, pp. 143-44
Gerusalemme e la Palestina secondo Chateaubriand
L’ingresso a Gerusalemme: “La guida ha gridato al-Quds, Gerusalemme. Mi fermai, gli occhi fissi sulla
città santa, misurando l’altezza delle mura e ricevendo tutti insieme i ricordi della storia, da Abramo a
Goffredo di Buglione; sentendo la voce di Roger, di Davide, dei profeti; pensando al mondo intero cambiato
dalla missione di un oscuro figlio di Maria, morto ignominiosamente dentro queste mura; infine vedendo
sotto i miei occhi quello che potevo appena credere, la realizzazione della parola: non resterà pietra su
pietra”.
Le atmosfere locali: “notai che, dopo aver molto chiacchierato, cadde il silenzio, a eccezione dello shaykh
che continuò a parlare, e che apparentemente raccontava qualche storia. Vedevo alla luce del fuoco i suoi
grandi denti bianchi, la sua barba nera, i suoi gesti espressivi, le diverse forme che dava al suo mantello
continuando il racconto; sentivo la sua voce grave e le intonazioni di una lingua fortemente ispirata. Gli altri
ascoltavano con profonda concentrazione, talvolta si protendevano avanti, la figura sul fuoco, talvolta
ripetevano con una sorta d’enfasi i gesti del narratore; qualche testa di cavallo e di mulo che si che si
sporgeva sul gruppo e che si profilava alla luce della fiamma davano a questo quadro un carattere assai
pittoresco. Lo contemplai a lungo con una sorta di piacere, perché mi ricordava altre scene di selvaggi, e le
mie corse intorno ai laghi e nelle Americhe, e, con questi ricordi, un ritorno alle inquietudini e ai sogni e alla
mia giovinezza passata”.
Il malgoverno come pretesto per l’intervento militare delle Potenze occidentali: “Gerusalemme è
lasciata a un governatore pressoché indipendente, a un mufti e a un cadi che possono fare impunemente tutto
il male che loro aggrada, salvo fare poi i conti con il pascià. Si sa che il governatore, il giudice e tutti quelli
che a loro piace delegare hanno il diritto di togliere agli uomini la proprietà e la vita. La sola cosa che si
capisce in questo paese è che si potranno ricevere 300 colpi di bastone e che verrà tagliata la testa. Un atto di
ingiustizia che una ingiustizia più grande. Se si spoglia un contadino, bisognerà anche spogliare il vicino;
perché per ottenere dal pascià l’impunità per il primo, bisogna averne un secondo per soddisfare la cupidigia
del padrone.
[…] Si potrebbe credere che il pascià nel giro nel suo pascialato porti un rimedio a questi mali e ascolti le
lamentele: lo stesso pascià è il più grande flagello, e gli abitanti di Gerusalemme temono il suo arrivo come
quello di un nemico: fuggono nelle montagne, chiudono i loro negozi, fingono di essere morenti sui loro
giacigli, si nascondono nei sotterranei fino a che il flagello sia passato”.
[…] Il pascià dopo aver sottratto tutto quello che ha potuto a Gerusalemme, parte per continuare il suo giro.
Ma per non pagare le guardie della città, e sotto pretesto della carovana della Mecca, porta con se tutti i suoi
soldati. Il governatore resta solo con una mezza dozzina di sbirri che non sarebbero sufficienti alla polizia
della città, e a maggior ragione al paese. L’anno passato, fu lui stesso obbligato a nascondersi a casa sua per
sfuggire alle bande di ladri che oltrepassavano la notte le mura della città e che favoriti da un compare
all’interno, incominciarono a saccheggiare Gerusalemme.
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[…] Appena il pascià se ne andò, un’altra disgrazia cominciò. I villaggi in rovina e senza la protezione dei
soldati, si sollevarono; si attaccarono gli uni agli altri per soddisfare le vendette ereditarie, dei partiti dei
capi, e infine per evitarer di essere spogliati. Non si può più passare sui sentieri senza pagare un pedaggio e
senza trattare. L’agricoltura muore: i contadini vedono la notte estirpare le vigne e tagliare gli olivi da parte
del loro nemico. La miseria aumenta con le sue devastazioni. L’anno successivo il pascià ritorna: esige gli
stessi tributi in un paese dove gli uomini sono diminuiti, e la miseria aumentata. Bisogna allora che raddoppi
l’oppressione, che stermini interi villaggi. Poco a poco il deserto si estende, la desolazione della Giudea
aumenta: non si vedono più che villaggi e villaggi alla porta dei quali sono immensi cimiteri, dove i morti
sono ben più numerosi dei vivi: ogni anno vede estinguersi una famiglia, e nel giro di qualche anno non resta
più che un cimitero le cui pietre sepolcrali si confondono con le rocce”.
L’insolenza dei turchi: “I frati hanno messo la biancheria a lavare, l’amido colato al di fuori ha imbiancato
una pietra. Un turco passa, vede questa pietra bianca, va a riferire al mufti che i padri hanno restaurato la
loro casa; il mufti va sul posto, dichiara che questa pietra che era nera è diventata bianca e che bisogna
pagare 50 borse. Ricevono insulti insopportabili tutti i momenti: un turco mangiava per caso in viaggio in
viaggio con uno dei frati, si asciuga le dita sull’abito del Padre, che non osa dire nulla per paura di un colpo
di pistola. Mai sicurezza della vita: il padre procuratore, che è arrivato questa mattina da Ramla, è stato
minacciato della corda o del pugnale da un domestico dell’aga in presenza dell’aga stesso che
impassibilmente fumava la sua pipa e arrotolava i suoi baffi senza degnarsi di dire una parola a questo cane.
Le tradizioni della Terra santa sono più sicure di quelle degli altri paesi, perché sono innanzitutto
tradizioni dei luoghi, molto più facili da conservare di quelle delle cose; e poi perché sono di natura
religiosa. I ricordi non sono confidati a un piccolo numero di uomini istruiti che possono influenzare gli
annali dei tempi, e che per conseguenza possono facilmente dimenticare o alterare i fatti, ma i ricordi
religiosi sono affidati alla memoria di un popolo intero che trasmette fedelmente e pressoché
macchinalmente la storia del dio che adora in tutti i momenti della vita.
La veridicità della bibbia. Non bisogna credere che queste montagne della Giudea fossero del tutto
identiche a quelle che vediamo oggi. Si può con facilità spiegare, per diverse provincie di questo stato, le
contraddizioni dei geografi e degli storici sulla fertilità e sterilità della Giudea; ma è inutile ricorrere a questi
mezzi né alla spiegazione di Sain Jerome che vuole che si intenda in senso spirituale quello che le scritture
affermano a proposito della fertilità della terra promessa. Questa spiegazione è giusta, vera e buona senza
dubbio, ma c’è n’è un altra più idonea. Si può provare in mille modi che le montagne della Giudea erano un
tempo molto meno sterili di oggi. Questi luoghi sono citati dalle scritture per gli alberi da cui erano coperti:
il torrente dei cedri, il monte degli olivi, le rose di Gerico, le palme di Cedés e mille altri; c’erano ovunque
vigne e fichi; le acque erano abbondanti; le palme, i pini, i gelsi, le palme da dattero, i cipressi, che si vedono
in alcuni giardini di Gerusalemme, provano che gli alberi crescevano perfettamente su queste montagne.
Salomone aveva bei giardini, ornati di tutti i tipi di piante. C’era abbastanza deserto per conferire a questi
ebrei i sentimenti fieri ed esaltati che si riscontrano nei popoli delle montagne, e verosimilmente tanti alberi
per i bisogni di questo popolo e per rompere l’aspetto continuativo della solitudine.
[…] L’assenza di movimento aumenta ancora, sul suolo e nel cielo, il senso di solitudine: non si vede volare
alcun uccello all’infuori dei passeri, qualche allodola della brughiera; ai bordi del Giordano qualche airone;
nelle montagne della Giudea delle gazze, dei colombi e qualche avvoltoio; ma tutto questo è così raro che
non interrompe affatto il riposo del deserto. Gli uccelli sono senza dubbio stati sempre rari in questo clima;
ciò non dimeno le Scritture non si prestano alla comparazione che sull’aquila, il barbagianni il passero e la
colomba. Lo stesso riposo nel cielo dove ci sono raramente nuvole; sulle rive del mare e sulle pianure di
Rama fino alle montagne, ho notato solo nuvole bianche e leggere.
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Dappertutto rocce, polvere e un sole senza ombra; i piedi bruciano sulla terra e l’abitante di Gerusalemme
stordito da una luce che riflette una pietra come il gesso, perde la vista o resta con gli occhi indeboliti o
infiammati.
Le case: pesanti massi quadrati di pietra e di calce, basse senza finestre che terminano in terrazze appiattite o
in piccole cupole da moschea, che assomigliano a prigioni o sepolcri. Tutto appare allo stesso livello e si
confonderebbero queste case con massi montagnosi se le cupole delle chiese cristiane, i minareti delle
moschee, le cime di qualche cipresso, di qualche pino, di qualche palma, di qualche olivo, di qualche fico
d’india… non interrompesse l’uniformità del livello. Questo è l’esterno di Gerusalemme, delle prigioni di
pietra rinchiuse in un paesaggio di pietra; si resta qualche tempo a chiedersi se non si tratti di monumenti
confusi di un grande cimitero in mezzo al deserto o se non si tratti di montagne spoglie, di quei giochi di
roccia che imitano qualche volta nelle montagne, le apparenze di un castello o di una città in rovina.
[…] All’interno niente vi consola della desolazione esterna: piccole strade non pavimentate o piuttosto stretti
sentieri circolano intorno a queste specie di prigioni di cui vi ho parlato. Delle volte o delle arcate gettate da
una casa ad un’altra aumentano l’oscurità e la tristezza di questi ambienti; bazar coperti e infetti riescono a
togliere la luce a questa città desolata. Si sale e si scende senza tregua su pietre rotonde e in mezzo o in
mezzo a nugoli di polvere. Non si incontra nessuno né alle porte della città , né per le strade; per i tre quarti
del tempo i pochi negozi che ci sono sono chiusi per il timore del passaggio di un pascià, di un comandante,
di un cadi; solo si vede passare rapidamente un contadino che nasconde sotto il suo vestito frutta o uova che
porta al mercato, con la paura che un soldato gliele strappi; solo fra le macerie di una chiesa cristiana e in un
luogo nascosto, si trova un macellaio che sgozza un agnello appeso per i piedi a un muro in rovina, con l’aria
torva e feroce di chi ha appena ucciso un uomo piuttosto che un agnello. L’unico rumore i passi dei cavalli
dei giannizzeri che hanno appena ucciso l’arabo o che vanno a saccheggiare un contadino, e la voce dei
religiosi cristiani che nel loro convento chiedono invano al cielo che liberi una città di cui Gesù Cristo ha
predetto rovina e disgrazie”.
Brani tratti da R. Chateaubriand, Journal de Jérusalem, Librairie Classique Eugène Belin, Paris 1950
Il pellegrinaggio alla Mecca
Gerard de Nerval. “Si trattava ora di andare a vedere l’ingresso dei pellegrini, che affluivano già all’inizio
del giorno, ma che durava fino a sera. Non sono cosa da poco circa 30.000 persone che vengono tutto d’un
colpo a ingrossare la popolazione del Cairo […] Era come se una nazione in cammino andasse a fondersi in
un popolo immenso, costeggiato a destra dalle cupole del vicino Muqattam, a sinistra delle migliaia di
edifici, di solito deserti, della Città dei Morti”.. “Non c’era niente di più barbuto, irto e selvaggio
dell’immensa sarabanda dei maghrebini, composta da gente di Tunisi, Tripoli, del Marocco e anche dei
nostri compatrioti di Algeri […] era proprio tra loro che si distinguevano le più numerose confraternite di
santoni e dervisci, che urlavano sempre con entusiasmo i loro canti d’amore, intramezzati dal nome di Allah.
Le bandiere di mille colori, le aste cariche di mille simboli e stemmi, e qua e là gli emiri e gli sceicchi in
abiti suntuosi, con i cavalli bardati, ruscellanti d’oro e di gemme, aggiungevano a questo corteo un po’
disordinato tutto lo splendore immaginabile. Erano molto pittoresche anche le numerose portantine delle
donne, oggetti singolari, una specie di letto sormontato da una tenda e posta di traverso sul dorso di
cammello. Intere famiglie sembravano sistemate comodamente con bambini e mobilio in questi padiglioni,
per lo più decorati da colori brillanti”.
G. De Nerval, Voyage en Orient, Flammarion, Paris1980
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Richard Burton arriva a Mecca: “Ecco finalmente la meta del mio lungo, spossante pellegrinaggio e la
realizzazione di piani e di speranze di anni e anni. La fantasia investiva come un miraggio incantevole
l’imponente catafalco e il suo tetro contorno. Devo dire la verità, fra tutti i fedeli che si afferravano
piangendo al tendaggio, o che pressavano i loro cuori pulsanti alla pietra, nessuno poteva eguagliare
l’intensa emozione che provava il pellegrino che veniva dal lontano nord. Era come se le poetiche leggende
degli arabi dicessero la verità e, invece della dolce brezza mattutina, fossero le ali degli angeli a increspare e
a gonfiare la tenda che copriva il sacrario. Se la loro era espressione dello zelo religioso, la mia era l’estasi
dell’orgoglio che trova la propria gratificazione”.
[…] Come un miraggio, la fantasia rivestiva il possente catafalco e il suo drappo funereo di un incanto
particolare. Non c’erano giganteschi frammenti di veneranda antichità come in Egitto, non rovine di una
beltà armoniosa e piena di grazia come in Grecia e in Italia, non la magnificenza barbarica come nei templi
dell’India, eppure la vista era strana, unica, e quanto pochi sono stati coloro che hanno gettato lo sguardo sul
famoso santuario”
R.Burton, Personal narrative of a Pilgrimage to Al-Medinah and Meccah, New York 1855
John Burckhard “Le malattie e l’alta mortalità che fan seguito alle fatiche del viaggio, o che sono causate
dalla scarsa protezione, dagli alloggi malsani della Mecca, dal cibo cattivo, se non talora dal digiuno,
riempiono la moschea di cadaveri trasportati in questo luogo per ricevere la preghiera dell’imam, o di malati,
molti dei quali, allorché la morte si avvicina, vengono sistemati sotto il colonnato perché traggano sollievo
dalla vista della Kaaba, o almeno perché abbiano la soddisfazione di spirare nel sacro recinto. Si vedono
poveri hajji che trascinano lungo il colonnato i loro corpi emaciati, sfiniti dalle malattie e dalla fame, e
quando non hanno più la forza di allungare la mano per chiedere al passante l’elemosina, depongono per
terra una tazza accanto alla stuoia in cui giacciono. Quanto sentono giungere la fine, si coprono delle loro
vesti consunte e spesso passa un giorno prima che ci si accorga che sono morti”.
“E’ finito il tempo, e probabilmente per sempre, quando pellegrini da tutte le regioni del mondo musulmano
giungevano qui a folle immense per poter visitare i luoghi sacri dell’Hejaz. La crescente indifferenza verso
la religione e l’aumento delle spese per il viaggio scoraggiano gran parte dei Maomettani dall’adempiere alla
legge del Corano che impone loro di compiere un viaggio alla Mecca, almeno una volta nella vita …
Quando lo zelo musulmano era più ardente, le difficoltà del viaggio erano considerate un merito e
costituivano un incitamento ulteriore ad aggregarsi alle carovane e a compiere l’intero viaggio via terra. Ma
oggi la maggior parte dei pellegrini non si unisce alla carovana, ma raggiunge Gidda via mare dall’Egitto o
dal Golfo Persico, visto che il commercio e il guadagno sono diventati la spinta principale del viaggio”.
J. L. Burckhard, Travels in Arabia, London 1829
Isabel, moglie di Richard Burton, racconta i pericoli corsi dal marito “Significava vivere sul filo del
rasoio, fra compagni di viaggio stranieri e selvaggi, adottando le loro maniere, trascorrendo almeno nove
mesi nei climi più caldi e insalubri, e assumendo un cibo repellente, sentendosi nel più completo isolamento
da tutto ciò che rende tollerabile la vita, da qualsiasi forma di civiltà e di costumi naturali, con il cervello in
continua tensione per non tradire il ruolo che si era assunto”.
I.Burton, The Life of Captain Sir Richard Burton, new York 1898
Carlo Guarmani si rifugia presso gli Ataiba: “Mi trovavo nel nascondiglio più sicuro con i feriti, le donne e
le masserizie. Di tanto in tanto riuscivo a muovermi fra i cavalli legati agli arbusti per studiarli con
attenzione, incurante delle pallottole che mi fischiavano sopra la testa o che, ormai inoffensive, mi
fioccavano ai piedi. Presi delle annotazioni molto interessanti, perché i cavalli Ataiba sono i più forti del
deserto. A volte era distratto dai gemiti dei feriti che venivano portati al riparo per essere curati e dalle grida
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delle donne che li accoglievano con gioia e li spingevano a ritornare in battaglia dopo che con terra e
carbone avevano tamponato loro il sangue e avevano fasciato le ferite da taglio”.
Conclusa la vicenda tutto si smobilita, spengono i fuochi, si raduna la roba si tolgono le tende: “mi veniva
quasi da piangere quando lo sceicco mi abbracciò e rimasi solo con le guide nell’immensa pianura intrisa di
sangue. Corvi, sciacalli, lupi, avvoltoi stavano divorando i cadaveri. I miei cavalli tremavano di paura.
Passai tutta la notte ad osservarli e ad accarezzarli, lasciandoli alle cure dei miei compagni solo sul far del
mattino, quando mi misi in cerca di qualche ciuffo d’erba”.
C. Guarmani, Il Neged settentrionali: Itinerario da Gerusalemme a Aneizeh nel Cassim / di Carlo Guarmani - Gerusalemme 1866
Gerusalemme secondo Aly Bey al-Abassi
“Le strade di Gerusalemme sono tollerabilmente regolari, pavimentate e con passaggi pedonali, ma strette….
Le case sono generalm di due o tre piani, poche finestre e piccolissime porte... Camminando nella città ci si
sente come in una galleria o come in una prigione. In contrasto con le strade di Mecca che sono così ornate e
così gaie! Non mi sarei mai aspettato di trovare questi svantaggi in una città gestita dai cristiani da tanti anni.
Sono ben costruite […] alcune hanno piccoli giardini. Ma porte cosi piccole che ci si deve piegare in due per
entrare. Non c’è considerevole spazio libero. Pur occupando un terreno minore di Mecca conta circa 30.000
anime senza contare la popolazione esterna di qualche sobborgo”.
Brano tratto da ‘Ali Bey, Travels of Ali Bey in Morocco, Tripoli, Cyprus, Egypt, Arabia, Syria and Turkey, Paternoster-Row,
London 1816
Una donna americana all’Haram. Sarah Barclay
“Non potevo credere che fosse possibile godere del privilegio di passeggiare nel sacro luogo della spianata
del Tempio, di stare vicino ai cupi cipressi, e di posare i piedi nel luogo del Sancta Sanctorum; non riuscivo
a convincere me stessa che non era un sogno, fino a che non fui vestita nel loro costume, curioso e difficile
da maneggiare. La trasformazione fu completa. Dieci minuti prima, nel mio semplice abito americano, e ora
truccata così perfettamente alla turca che mia madre non mi avrebbe riconosciuta. I miei amici erano divertiti
e deliziati. Quello che mi creava più problemi erano le ciabatte, e scoppiavo a ridere ogni volta che provavo
a camminare. Il particolare passo danzante delle donne orientali deve essere imparato, come una
salvaguardia aggiuntiva contro la rivelazione; e grande fu il divertimento che suscitavo ad ogni tentativo di
camminare nella stanza, che le enormi ciabatte mi rendevano quasi impossibile fare. Avrei certamente perso
le ciabatte, e il velo sarebbe certamente caduto; per evitarlo fu stretto forte intorno al mio viso.
Il mio costume consiste di pantaloni di seta, una tunica strisciante il cui bordo era per sicurezza fissato alla
cintura, un abito ricamato, grandi stivali gialli di pelle, e sopra essi le ciabatte dello stesso materiale... Un fez
rosso fu piazzato sulla mia testa, e attorno ad esso un turbante di garza bordato da una frangia di palline
d’oro.
[…] ritornando a casa mia, quale fu la mia sorpresa nell’essere salutata in arabo: tanto completa era la mia
metamorfosi col mio abito turco. Ero molto divertita, e determinata a portare avanti lo scherzo, e mantenere
l’incognito il più a lungo possibile. Secondo gli accorsi rimasi in perfetto silenzio […]. E ci vollero alcuni
minuti prima che gli occupanti della mia stessa casa mi riconoscessero”.
Brano tratto da S. Barclay Johnson, Hadji in Syria or Three Years in Jerusalem, Arno Press, New York 1977
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Gli anni Trenta del XIX secolo secondo Robert Curzon
A colloquio con Mohammed ‘Alī, Curzon racconta: “Il Pascià al tempo era un gagliardo con e spalle larghe
e dal volto grande: la sua corta barba grigia era su entrambe le guance. Le sue narici erano molto aperte; e,
con i suoi occhi veloci e taglienti, assomigliava ad un gran leone grigio. L’espressione del suo viso era
fortemente intelligente, ma ad eccezione di questo non vi era nulla di particolare nel suo aspetto. Era vestito
con un abito Nizam in tessuto blu. Questo costume consiste in un berretto rosso, una giacchetta con maniche
fluttuanti, un panciotto con maniche strette sotto di esso, uno scialle rosso intorno alla vita, un paio di
pantaloni molto grandi [...]. Tutto il costume è sempre fatto dello stesso tessuto, blu o nero. Aveva calze
bianche e scarpe di pelle gialle.
Ibrahim Pascià: “Nell’aspetto era non alto, dalle ampie spalle, con un viso rosso, occhi piccoli e una
espressione grave. Era coraggioso come un leone; le sue abitudini e le sue idee erano rudi e rozze,
grossolane; ma aveva un che di raffinato nell’insieme; ma anche se avevo letto dei suoi eccessi di crudeltà
sui giornali europei, non ho mai sentito nessun aneddoto autentico sulla sua crudeltà, e non credo che avesse
nessuna predisposizione selvaggia, né che le sue truppe rivaleggiassero in ogni modo con gli orrori
commessi in Algeria dalle civili e fraterne truppe francesi. Era un soldato audace e determinato. Aveva
riverenza e rispetto per suo padre, che era davvero da ammirare nei suoi costumi patriarcali”.
La cerimonia del sacro fuoco. Ibrahim Pascià arriva “coi giannizzeri, coi loro colbacchi e con le fruste fatte
con corde intrecciate. Il pascià mangia in una galleria, su un divano che i monaci hanno preparato per lui tra
le due colonne vicino alla cappella greca. È iniziata una sorta di processione in suo onore che nulla aggiunge
alla solennità della scena […].
Il Pascià veste pantaloni scuri, una giacchetta color lillà e un copricapo rosso senza turbante. Quando si siede
i monaci gli portano una bevanda rinfrescante, fatta in modo eccellente; e siccome le nostre sedie erano
vicine al grande uomo vedemmo ogni cosa facilmente e agevolmente. E quando fu annunciato che il pascià
era pronto, il miracolo cristiano del sacro fuoco si realizzò”.
“[…] gente che prende il fresco sotto gli olivi nel pendio della valle di Ghion, nel fresco della sera, sedendo
sui loro tappeti, fumando il narghilè in dignitoso silenzio. Ma quello che mi colpì di più erano alcuni vecchi
ebrei con la barba bianca che tenevano il gruppo dei loro amici o discepoli sotto le mura della città dei loro
padri, e si dilungavano sulle gloriose azioni della loro razza nei tempi passati. Gerusalemme è stata descritta
come una rovina deserta e malinconica, che colpisce le menti con immagini di desolazione e decadenza, ma
non ho avuto questa sensazione. È ancora una città compatta, e, come descritto nelle scritture. Le mura
saracene hanno ancora un aspetto magnifico, costruite come sono di grandi e massicce pietre”.
Gli ebrei nati a Gerusalemme “sono una bella razza chiara, con modi effeminati. I giovani uomini hanno
lunghi riccioli sulle due guance che con gli abiti di seta li fanno sembrare donne. Gli ebrei di entrambi i sessi
sono amanti dei bei vestiti, e anche se quando camminano all’esterno hanno un aspetto sporco e squallido, in
casa hanno ricchi abiti di costosa seta damascena. Le donne sono coperte d’oro e vestono di broccato con
molti ricami. Alcune sono belle; e una bimba di circa 12 anni, che era promessa al figlio di un ricco vecchio
rabbino, era la più graziosa creatura che io abbia mai visto: la sua pelle era più bianca dell’avorio, e i suoi
capelli che erano neri come l’inchiostro, erano adorni di paillettes e cadevano intrecciate fin quasi al
pavimento. Era di famiglia spagnola e la lingua abitualmente parlata dagli ebrei fra loro è lo spagnolo”.
Brani tratti da R. Curzon, Visits to the Monasteris of the Levant, John Murrat, London 1850
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Gli anni Trenta secondo Maria-Joseph De Geramb
“Da quattro o cinque giorni Gerusalemme è nei disordini. Gli egiziani se ne sono appena impadroniti. È la
diciannovesima volta che la città viene presa. Diciotto volte è stata saccheggiata; che cosa succederà questa
volta? I turchi di questo paese e gli arabi sono furiosi. Questi tamburi, questi flauti, queste baionette oggi
adottate dai loro nemici, in generale tutto quello che si avvicina alle usanze militari europee, fa loro orrore.
D’altro canto, siccome il vincitore si mostra molto favorevole ai cristiani, essi temono che se essi gli
resteranno sottomessi, li si costringerà a rinunciare alle vessazioni di ogni tipo che credono di dover
esercitare, e all’abitudine che hanno di estorcere giornalmente denaro agli individui senza protezione. Queste
paure sono diventate ancor più forti, dal momento che è apparso un ordine di Ibrahim nel quale intima ai
cristiani di rifiutare immediatamente ogni tipo di tributo.
Questa condotta di Ibrahim è ispirata da un lodevole sentimento di generosità? O non si tratterebbe piuttosto
di un artificio per conquistare i cristiani, artificio che potrebbe facilmente mascherare l’intenzione di
spogliarli più tardi? Io lo temo e lo credo nello stesso tempo. Credo anche che i conventi, quello dei Latini
soprattutto, non dovrebbero smettere tutto d’un colpo di pagare ai turchi quello che hanno loro dato da così
lungo tempo; potrebbero pagar meno, ma sempre converrebbe loro di dare qualcosa: perché se l’Egitto fosse
mai forzato ad abbandonare la Palestina, le vessazioni non avrebbero più freno, e l’immaginazione non
saprebbe troppo stupirsi dalle conseguenze certe di un rifiuto”.
Brano tratto da M J. De Geramb, Pélérinage à Jérusalem at au Mont Sinai en 1831, 1832 et 1833, Librairie d’Adrien Le Clere et
C, Paris 1840
Gli anni Trenta secondo Alphonse de Lamartine
“Gerusalemme non è come ci è stata presentata, masso informe e confuso di rovine e di cenere sul quale
sono gettati qualche capanna di arabi, o piantata qualche tenda di beduini; non come Atene, caos di povere e
di muri scrostati, dove il viaggiatore cerca invano l’ombra degli edifici, la traccia delle strade, la visione di
una città: ma città brillante di luci e di colori, che presenta nobilmente agli sguardi le sue mura intatte
dentellate, la sua moschea blu con le colonne bianche, le sue migliaia di cupole risplendenti, sulle quali la
luce di un sole d’autunno cade e rigenera un vapore accecante. Le facciate delle sue case tinte dal tempo e
dalle estati del colore giallo e dorato degli edifici di Pestum e di Roma; le sue vecchie torri, guardiane delle
sue mura, alle quali non manca né una pietra, né una finestra, né un parapetto […].
I turchi guardiani del Sacro Sepolcro sono i “soli che hanno diritto di chiudere o di aprire. Quando ci passai,
cinque o sei figure venerabili di turchi, dalle lunghe barbe bianche, erano inginocchiati sul divan, ricoperto
di ricchi tappeti di Aleppo; tazze di caffè e narghilè erano attorno a loro su questi tappeti; ci salutarono con
dignità e grazia, e diedero ordine ai sorveglianti di accompagnarci in tutte le parti della chiesa. Non vidi
nulla sui loro volti, nei loro propositi o nei loro gesti di quella irriverenza di cui li si accusa. Non entrano
nella chiesa, si fermano sulla porta; parlano ai cristiani con la gravità e il rispetto che il luogo e l’oggetto
della visita comportano. Proprietari, per diritto di guerra, dei monumenti sacri dei cristiani, non i
distruggono, non ne gettano la cenere al vento; li conservano, vi mantengono un ordine e un sistema di
polizia, un silenzio riverente che i gruppi cristiani, che se lo disputano, sono ben lontani dal mantenere loro
stessi. Vegliano affinché tutte le reliquie comuni di tutti quelli che portano il nome di cristiani siano
preservati per tutti, affinché ciascuna comunità gioisca, a sua volta, del culto che essa vuole rendere alla
sacra tomba. Senza i turchi, questa tomba, che si disputano i greci e i cattolici, e le innumerevoli
ramificazioni dell’idea cristiana, sarebbe già stata cento volte oggetto di lotta tra queste comunità astiose e
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rivali, sarebbe di volta in volta passata dagli uni agli altri, e sarebbe stata proibita senza dubbio ai nemici
della comunità trionfante. Io non vedo di cosa accusare o ingiuriare i turchi. Questa pretesa intolleranza
brutale, di cui gli ignoranti li accusano, non si manifesta che con la tolleranza e il rispetto per quello che altri
uomini venerano e adorano. Ovunque il musulmano vede l’idea di Dio nel pensiero dei loro fratelli, si
inchina e lo rispetta. Lui pensa che l’idea santifichi la forma. È il solo popolo tollerante. Che i cristiani si
interroghino, e si domandino onestamente che cosa avrebbero fatto se il destino della guerra avesse dato loro
la Mecca e la Kaaba. I turchi potrebbero venire da tutte le parti dell’Europa e dell’Asia a venerare in pace i
monumenti conservati dell’islam?”
“Il governatore di Gerusalemme ha il suo serraglio in un edificio adiacente ai giardini e ai muri della
moschea. Noi andiamo a fargli visita di ringraziamento. Il cortile del serraglio era contornato di cactus di
celle di prigione dietro cui scorgemmo qualche figura di bandito di Gerico e di Samaria, che attendevano la
liberazione o la sciabola del pascià. Dei cavalieri coricati ai piedi dei loro cavalli, degli sceicchi del deserto e
degli arabi di Nablus erano raggruppati qua e la sulle scale o sui depositi, attendendo l’ora del ricevimento...
Il governatore, venendo a sapere del nostro arrivo, ci mandò il figlio per farci salire. Questo giovane uomo,
di circa trent’anni, è il più bello degli arabi, e forse degli uomini che ho visto in vita mia. La forza, la grazia,
l’intelligenza e la dolcezza sono fuse in una tale armonia nei suoi tratti, e brillano tutte insieme nei suoi occhi
blu con una evidenza così attraente, che noi restammo tutti colpiti dal suo aspetto. È un samaritano […].
Il governatore di Gerusalemme, suo padre, è il più potente degli arabi di Nablus. Perseguitato da Abdallah, il
pascià di Acri, e sovente in guerra con lui durante la dominazione turca, era stato forzato a rifugiarsi, con la
sua famiglia sulle montagne al di là del Mar Morto; la vittoria di Ibrahim Pascià su Abdallah l’aveva
ricondotto in patria. Aveva ritrovato le sue ricchezze e la sua influenza; aveva cacciato i suoi nemici dal
paese, e il pascià d’Egitto, per supplire all’insufficienza delle sue truppe egiziane in Giudea, gli aveva
affidato il governo della Samaria e di Gerusalemme. Non c’erano altre truppe se non qualche centinaio di
cavalieri della sua tribù, con l’aiuto dei quali manteneva l’ordine e il dominio di Ibrahim su tutta la
popolazione dei dintorni […].
Noi entrammo nel divan, una grande sala senza alcun ornamento se non qualche tappeto, dei narghilé e delle
tazze di caffé sul suolo. Il governatore, circondato da un certo numero di schiavi, di arabi armati e di qualche
segretario inginocchiato che scriveva sulle mani, era occupato ad amministrare la giustizia e a dare ordini. Al
nostro arrivo si alzò e venne verso di noi. Fece togliere i tappeti dal divano, suscettibili di contagiare la
peste, e li fece sostituire con tessuti d’Egitto, che non la trasmettono. Noi ci sedemmo e ci offrì il narghilè e
il caffè: il mio dragomanno gli fece a nome mio i complimenti d’uso, e io stesso lo ringrazia di tutte le
attenzione che aveva voluto prendere perché degli stranieri come noi potessero visitare senza pericolo i
luoghi sacri per la loro religione. Mi rispose con un sorriso di circostanza che non faceva che il suo dovere;
che gli amici di Ibrahim Pascià erano suoi amici; che lui rispondeva di ogni capello della loro testa; che era
pronto, non soltanto a fare per me quello che aveva fatto, a ancora a marciare lui stesso, se io l’avessi
ordinato, con le sue truppe, e accompagnarmi ovunque la mia curiosità o la mia religione mi ispirassero il
desiderio di andare, nei limiti del suo governo; perché tale era l’ordine del pascià.
Poi si informò delle notizie sulla guerra, e della partecipazione che le potenze europee prendevano alla
partecipazione di Ibrahim Pascià. Gli risposi in modo da soddisfare i pensieri reconditi: che l’Europa
ammirava in Ibrahim Pascià il conquistatore civilizzatore; che sotto questo rapporto esse erano interessate
alle su vittorie; che era giunto il tempo che l’oriente partecipasse ai vantaggi di una migliore
amministrazione; che il Pascià d’Egitto era il missionario armato della civiltà europea in Arabia; che la sua
bravura e la capacità tattica che dimostrò gli dava la certezza di vice re il gran visir, che avanzava a
incontrarlo; che secondo tutte le evidenze, lui avrebbe riportato una grande vittoria e avrebbe marciato su
Costantinopoli; che non ci sarebbe entrato, perché gli Europei non glielo avrebbero permesso, ma avrebbe
fatto la pace con la loro mediazione, e avrebbe mantenuto sull’Arabia e sulla Siria la sua sovranità
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permanente. Era questo che toccava il cuore del vecchio ribelle di Nablus: il suo sguardo beveva le mie
parole, e i suoi figli e i suoi amici allungavano la loro testa sulla mia per non perdere una parola di questa
conversazione, che era per loro l’augurio di una lunga e pacifica dominazione sulla Samaria […].
Quando vidi il governatore così ben disposto, espressi il desiderio, non di entrare nella moschea di Omar,
poiché sapevo che una tale richiesta sarebbe stata contraria alle usanze del paese, ma di contemplarla
dall’esterno. “Se voi lo chiede, mi rispose lui, tutto vi sarà aperto; ma io mi esporrò a irritare profondamente
i musulmani della città: loro sono ancora ignoranti; credono che la presenza di un cristiano nei recinti della
moschea faccia loro correre grandi pericoli, perché una profezia dice che tutto ciò che un cristiano chiederà a
dio all’interno de el-Sakkarah, lo otterrà; ed essi non dubitano che un cristiano non chieda a dio la rovina
della religione del profeta e lo sterminio dei musulmani. Per quanto mi riguarda, non credo nulla: tutti gli
uomini sono fratelli, e adorano, ciascuno nella loro lingua, il padre comune; non da niente agli uni a spese
degli altri; fa splendere il suo sole sugli adoratori di tutti i profeti; gli uomini non sanno nulla, ma dio sa
tutto; Allah kerim, dio è grande” e inclinò la testa sorridendo. “Dio mi preservi, gli dissi, dall’abusare della
vostra ospitalità; e di esporvi per soddisfare una vana curiosità di viaggiatore! Se fossi nella mosche di elSakkarah, io non pregherei per lo sterminio di alcun popolo, ma per la luce e il benessere di tutti i figli di
Allah”.
A queste parole ci alzammo; egli ci condusse attraverso un corridoio a una finestra del suo palazzo, che dava
sul cortile esterno della moschea: noi non potemmo cogliere bene l’insieme di questo luogo, come si faceva
dall’alto del Monte degli olivi: noi non vedemmo che i muri della cupola, qualche portico moresco
dall’architettura elegante, e le cime dei cipressi che crescono nei giardini interni. Presi congedo dal
governatore annunciandogli il mio progetto di passare otto o dieci giorni accampato nei dintorni della città, e
di partire il giorno dopo per andare al Mar Morto, al Giordano, a Gerico”.
Brani tratti da A. Lamartine, A pilgrimage to the holy Land, comprising recollections, sketches and reflections made during a tour
in the east in 1832-1833, Carey, Lea e Blanchard, Philadelphia 1835.
Gli Anni Trenta secondo Neophitos
Il 25 di aprile 1834, Ibrahim Pascià convocò tutti i leader e notabili dei distretti della Samaria e della Giudea:
Egli disse. “noi come mussulmani abbiamo come eterni nemici le nazioni nazarene? È o non è necessario per
noi avere un buon esercito?”
Essi risposero: “Certo, è senza dubbio necessario”
Il Pascià continuò “se è così, da chi dobbiamo prendere gli uomini per un tale esercito?
Essi replicarono: “tra i musulmani, certamente!”
Egli disse: “Voi avete risposto correttamente. Perciò è necessario per voi, se voi siete veri musulmani e
desiderate il bene della nazione, reclutare giovani uomini da ogni città e da ogni villaggio, in modo che essi
possano imparare da giovani l’arte della guerra ed essere addestrati, e perciò pronti al momento del
bisogno”.
Un lungo silenzio cadde fra gli astanti, e poi replicarono: “i vostri ordini saranno eseguiti, ma non c’è
bisogno per noi di dare i nostri ragazzi e giovani uomini per la guerra. Quando il nemico della nostra
religione entrerà nel nostro paese, tutti noi, giovani e vecchi, andremo a combattere e verseremo il nostro
sangue per la nostra fede e per la terra dei nostri padri”.
Il Pascià replicò: “Come posso pensare di vincere la guerra se voi non ne conoscete l’arte”.
Essi replicarono: “L’arte della guerra, conosciuta dai nostri padri, che contrastò i nemici e difese la loro terra
fino ad oggi, è conosciuta anche da noi, e come fu in passato lo sarà anche in futuro”.
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Il pascià replicò: “La guerra non è il luogo per gente impreparata: tecnica e abilità sono necessarie. Questa è
la mia decisione. Un giovane ogni cinque musulmani deve essere arruolato, e addestrato nelle tattiche della
guerra. Questo ordine deve essere eseguito senza indugi, a cominciare da Gerusalemme”.
Tutti i musulmani di questo distretto furono fortemente irritati, e seppero cosa fare. Si radunarono e
qualcuno decise la rivolta, dicendo “è meglio morire con le armi in mano che dare i nostri amati figli in
schiavitù, senza più la speranza di rivederli”.
Mercoledì 8 maggio. “I ribelli circondano Gerusalemme e proibiscono alla gente di abbandonare la città o di
entrarvi. In breve 10.000 persone dalla Samaria, Hebron, Giudea e Gerusalemme si assemblano. Il giovedì
mandano un messaggio ai soldati della cittadella invitandoli a lasciare Gerusalemme e andare dove vogliono.
Il sindaco e il colonnello replicano che non hanno intenzione di andarsene, ma di resistere fino alla morte
[…].
All’inizio alcuni abitanti di Gerusalemme si schierano col Pascià, altri dichiaravano di essere indifferenti, ma
dentro di loro tutti sapevano di essere dalla parte dei contadini.
Le guarnigioni del pascià abbandonano la cittadella e la città. Il sindaco chiede ai notabili di abbandonare la
città, ma loro che non è saggio per loro combattere contro i fellahin […].
Ibrahim Pascià era a Jaffa quando scoppia la rivolta. Decide di fermarla subito e chiama truppe dall’Egitto e
dal Libano […].
Quando le guardie videro il pascià arrivare andarono a riferirlo al sindaco e agli altri. Non c’erano più ribelli
né dentro né fuori […] la gente della cittadella corre alle torri per vedere coi propri occhi l’arrivo del Pascià.
Urlavano festanti, suonavano strumenti musicali e trombe […] ma non c’erano nemici da trovare, perché
cittadini e contadini avevano avuto il tempo di scappare. Il sindaco e il colonnello aprono la porta di Davide
per ricevere il Pascià, che li abbraccia e li bacia con grande gioia. Il cannone spara in saluto. Il Pascià si
avvicina alla città ma rifiuta di entrare. Si ferma davanti alla porta di Davide sotto il sole cocente. E non
consente ai soldati di entrare ma li manda al campo sul monte Sion.
Il Pascià era stanco e assetato e chiede un po’ d’acqua. Un franco di Gerusalemme immediatamente gli porta
l’acqua. Egli beve e la passa al colonnello. Poi arriva un nativo ortodosso con altra acqua, e il pascià beve
anche di quella. Molta gente, ortodossi, franchi, armeni e anche ebrei vengono a omaggiare il pascià. Non un
musulmano giovane o vecchio era visibile.
Il pascià chiese ai cristiani chi era presente, se avevano avuto timore nelle mani dei ribelli e se avessero
sofferto per causa loro. Augurandogli lunga vita gli spiegarono cosa era successo, e lui li consolò dicendo:
“non preoccupatevi più. Io sono venuto specialmente in vostro soccorso. Dove sono i musulmani di
Gerusalemme? che cosa è accaduto a tutti loro? Perché non si sono fatti vedere?
Essi risposero che i musulmani lo temevano ed erano scappati. Egli disse: “perché avere paura? Io non ho
nessun proposito contro di loro”. Durante questa conversazione alcuni armeni arrivarono con sherbet e caffè
[…]
Avendo parlato per una mezzora con la gente, egli li salutò e salì sul suo cavallo, procedendo verso il monte
Sion dove si accampò prima di Pasqua.
Un’ora più tardi un araldo passò nelle strade ordinando a tutti i cittadini, mussulmani, cristiani ed ebrei, di
aprire i loro negozi senza timore, e di continuare a comprare e vendere come prima.
La domenica il Pascià entrò a Gerusalemme”.
Brani tratti da Neophitos, Manuscript Monk Neophitos of Cyprus translate from the Greek by S. N. Spyridon, Jerusalem 1838
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I primi missionari a Gerusalemme visti dal console James Finn
“La disperazione mostrata dal convento latino al primo profilarsi dell’ombra protestante è così raccontata:
“Fisk e i suoi compagni arrivarono a Gerusalemme con una scatola di bibbie in arabo e in altre lingue da
vendere o distribuire. Il governatore locale li arrestò, perché, disse, ‘i latini dissero che i libri non erano né
per gli ebrei, musulmani né cristiani’. La scatola fu requisita e sigillata. Vi fu una proclamazione per strada,
che vietava alle persone di comprare o accettare volumi da questi stranieri, e si ordinava che tutte le cose
comprate o regalate venissero restituite. I due missionari vengono condotti davanti al governatore e al
giudice e poi costretti a passare la notte al posto di guardia con i soldati. Il giorno dopo fu loro consentito di
dare o vendere i loro libri, purché non a musulmani; e quando fu fatta pressione per punire gli intrusi, il
governatore realizzò che non aveva alcun potere di procedere con i possessori di un firmano per viaggiare”.
J. Finn, Stirring Times, or Records from Jerusalem Consular Chronicles 1853 to 1856, C. Kegan Paul & Co., London 1878
In Palestina con James Finn
“La società europea nella città santa consisteva delle famiglie consolari, dei missionari religiosi (cattolici
romani e protestanti), dei medici di varie nazionalità, e di alcuni commercianti. C’erano anche alcuni inglesi
che vivevano per conto loro […].
Ovviamente non c’erano attività commerciali sul posto eccetto qualche offerta degli abitanti e anche se a
Gerusalemme. arrivano annualmente dall’estero somme immense, la città non esportava nulla. Si ricevevano
merci europee, ma nessuna esportazione era fatta in cambio, eccetto il sapone dai porti del levante.
Questa assenza di movimento commerciale e manifatturiero era dovuto al solenne carattere storico e
religioso della città che aveva e che ancora ha.
Per le persone ispirate con abiti vivaci di ogni luogo, era chiaro che il luogo appariva monasticamente lento,
tardo. Non c’erano soltanto viaggiatori francesi, conosciute per le loro giaculatorie accompagnati da scrollate
di spalle, ma anche alcuni inglesi, anche se non molti, si erano uniti alla tetra atmosfera locale. I piaceri che
potevano essere consentiti altrove non potevano trovar posto a Gerusalemme. Balli, divertimenti teatrali e
abbigliamento elegante che potevano essere trovati a Beirut, erano impossibili alla maestosa regalità della
religione, e ai sentimenti ispirati da Gerusalemme […].
La più grande espressione di malinconia fu espressa da un gentleman italiano che risiedette a lungo fra noi
“ah, disse, la tristezza di Gerusalemme: è sulla porta di questa città che dovremmo scrivere i versi di Dante:
Per me si va nella città dolente / per me si va nell’eterno dolore. Senza omettere la frase: “lasciate ogni
speranza o voi che entrate”.
Dopo la guerra di Crimea. “Così nel vero momento della vittoria e del trionfo sopra la Russia, garanzie
furono date ai sudditi cristiani del sultano, e garanzie come parte delle leggi dell’impero ottomano, grandi
privilegi e piena libertà più di quanto non sia mai stata goduta da sudditi delle nazioni europee cristiane.
C’è più tolleranza religiosa in Turchia che in numerosi paesi cristiani in Europa. I turchi sono neutrali fra
loro, obbligano le chiese cristiane rivali a sopportare la reciproca presenza”.
J. Finn, Stirring Times, or Records from Jerusalem Consular Chronicles 1853 to 1856, C. Kegan Paul & Co., London 1878
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Moses Montefiore a Gerusalemme
“ Se il mio piano riuscirà, sono certo che esso varrà ad apportare felicità e abbondanza nella terra santa. In
primo luogo chiederò a Muhammed Ali una concessione di terreno per cinquant’anni; cento o duecento
villaggi che gli rendano il 10-20% più d’ora. Ma il terreno e i villaggi dovranno essere liberi, per la durata
della concessione, da ogni tassa e balzello al pascià o al governatore dei vari distretti e devono avere la
libertà di disporre dei prodotti in ogni angolo del mondo. Ottenuta questa concessione formerò, piaccia al
Cielo, una compagnia per la coltivazione del suolo e per incoraggiare i nostri fratelli d’Europa a tornare in
Palestina. Sono sicuro che essi saranno felici nel godimento dell’osservanza della nostra santa religione in
un modo che è impossibile in Europa”.
“La gente non capiva il preciso obiettivo della sua missione. Era allora e lo è oggi difficile per le persone pie
e fanatiche capire il punto di vista dei fratelli in Europa, e la ragione che li conduceva a incoraggiare utili
industrie che avrebbero consentito al popolo di vivere, anche se ore dedicate allo studio e alla preghiera
avrebbero dovuto essere ridotte. Molti invero fra i ricchi ebrei in Eu avrebbero piuttosto controllato che
incoraggiato il ritorno dei loro fratelli a Gerusalemme, a meno che non ci fosse alcun piano organizzato per
guadagnarsi il pane. Ma come potevano gli zelanti rabbini capire questi sentimenti? Per loro era molto
impietoso scoraggiare per qualsiasi ragione lo zelo che spinge gli israeliti a ritornare alla terra dei loro padri,
e spendere i giorni restanti della loro vita in devozione, nel digiuno, nello studio dei libri sacri, nella
intercessione per tutta Issale, e poi e poi lasciare le proprie ossa sul terreno più venerabile secondo al loro
fede.
Sir Moses Montefiore, consapevole, lui stesso devoto e credente nel futuro destino della sua nazione, poteva
tener conto pienamente dei sentimenti descritti sopra. Ritornò in Palestina per convincerli dei benefici che
potevano avere, ad esempio col provvedere l’educazione per tutti, e lavorare per le tante esigenze […] i piani
agricoli per molti anni occuparono l’attenzione di Montefiore. Nella precedente visita aveva raccolto molte
informazioni utili, ma i suoi fondi erano in quella occasione soprattutto per il sollievo della miseria
attraverso la distribuzione di denaro sotto forma di carità.
[…] fu con grande soddisfazione che vedemmo cominciare i lavori di costruzione nelle terre acquistate da
Montefiore. Questo dava impiego ad alcuni dei nostri vecchi operai, e a pochi altri che andavano a lavorare
con i contadini arabi o a pulire i pavimenti per l’Austrian Hospice. Finalmente l’idea di vivere del proprio
lavoro cominciava a prender piede fra gli ebrei; e non credemmo che in tempi brevi con la perseveranza
della gente di fuori si sarebbe capito che avevano bisogno di aiuto per poter imparare a badare a loro stessi
con il proprio lavoro.
Finn. “Una formazione agricola sistematica era ovviamente impossibile in queste condizioni, ma l’idea di
lavorare per il cibo di tutti i giorni è incoraggiata. Qualche costruzione, qualche piantagione fu realizzata; si
fece un po’ di vino e si raffinò un po’ d’olio. Furono fatte delle scope con le canne crescite per questo scopo,
e un piccolo raccolto di granturco, lenticchie e frutta” […] ma rimaneva una grande quantità di miseria
umana senza soccorsi nel quartiere ebraico, dove migliaia di persone che avrebbero ringraziato per poter
lavorare, andavano gradualmente verso la morte per fame.
J. Finn, Stirring Times, or Records from Jerusalem Consular Chronicles 1853 to 1856, C. Kegan Paul & Co., London
31
Americani in Palestina: il diacono Dikson secondo Melville
“Bisogna dire che tutti questi movimenti che combinano agricoltura e religione in riferimento alla Palestina,
sono basate sull’impressione che è arrivato il tempo per il profetico ritorno degli ebrei alla Giudea, e perciò
deve essere preparata per loro dai cristiani, sia stabilendo il loro diritto alla loro fede e al loro fare
l’agricoltore – in altre parole preparando il terreno letteralmente e simbolicamente […].
La tenuta. La casa e l’ambiente erano quelli ordinari delle migliori classi degli arabi. Una dozzina di acri
erano coltivati. Alberi di gelso, aranci, melograni – grano, orzo, pomodori etc. nella piana di Sharon nella
direzione delle montagne di Ephraim.
A casa fummo fatti entrare in un ambiente confortevole, una sorta di appartamento in una baracca nel cortile
e presentati a Ms Dickson, una rispettabile anziana signora. Prendemmo le sedie. Dopo alcune osservazioni
di introduzione ebbe luogo la seguente conversazione:
o HM (herman Melville), Vi siete insediato qui in modo permanente?
o MD (Mister Dikson), Insediato permanentemente sulla terra di Sion, con una sorta di ostinata enfasi.
o Mrs D (come se temesse che suo marito si occupasse del suo hobby e fosse in pena per lui) – La
passeggiata è un po’ confusa, vero?
o HM to Mr D. Avete degli ebrei che lavorano per voi?
o Mr D. Non possiamo permetterci di assumerli. Faccio il mio lavoro con mio figlio. Inoltre gli ebrei
sono pigri e non amano lavorare
o HM. E non pensate che sia difficile farne degli agricoltori?
o MrD. E’’ così. I Cristiani Gentili possono insegnare meglio loro. Il fatto è che è giunto il tempo. I
cristiani Gentili devono preparare la strada.
o Mrs D a me. C’è in America una buona situazione per parlare degli sforzi di Mr Dicson qui?
o Mr D. Si, credono nella conversione degli ebrei?
o HM. Non posso davvero rispondere.
o Mrs D. Credo che molta gente creda nella profezia…
Hanno due figlie sposate qui con due tedeschi, vivono vicino, destinate a generare una progenie di ibridi
vagabondi. Il vecchio Dickson sembra un uomo dall’energia puritana, inoculato con questa assurda ebreomania, si decise a farsi carico del suo donchisciottismo fino alla fine.
Mrs non sembra d’accordo, ma si sottomette. L’intera situazione è per metà melanconica e per metà
farsesca, come tutto il resto del mondo.
Rapporto sul caso Dikson da parte del Console americano di Gerusalemme al Console
Generale a Costantinopoli
Signore,
è mio doloroso dovere informarvi che nella notte dell’11 gennaio 1858, un attacco è stato sferrato contro la
casa di Walter Dickson, un cittadino americano che risiede a Jaffa. C’è stata un’irruzione in casa e lui stesso
colpito a terra da uno sparo in testa, sua figlia e sua moglie violentate e Frederick Steinbeck, un prussiano
ma con carte di protezione americane, ammazzato. La casa è stata derubata di quasi tutti i suoi contenuti. Al
momento dell’avvenuta conoscenza dell’accaduto ho incontrato il Sig. Rosen, il Console prussiano di
Gerusalemme. Abbiamo interamente convenuto riguardo le misure da prendere. Insieme siamo andati dal
Pasha di Gerusalemme; gli abbiamo esposto l’urgenza del caso e la necessità del suo agire in modo diretto
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ed energetico al riguardo. Il Pasha ha subito spedito una nota al governatore di Jaffa, dicendogli di usare i
mezzi più forti per scoprire i colpevoli. Ha anche inviato uno dei suoi Consoli per accertarsi che queste
misure fossero messe in pratica all’istante.
Il giorno dopo andai a Jaffa. Il quindici presentai il caso dinanzi al Governatore di Jaffa, il funzionario
inviato dal Pasha e l’intero Consiglio, durante un Medjlis. Utilizzai un linguaggio estremamente
convincente, ma non sconveniente, facendo loro capire che ero determinato ad affrontare la questione con il
massimo impegno, che il mio Governo mi avrebbe sostenuto completamente, che c’erano molte navi da
guerra americane nel Mediterraneo, i cui capitani sarebbero sicuramente venuti a sapere dell’atroce vicenda
nel giro di pochi giorni; ma non utilizzai nessuna minaccia. Credo di aver provocato un grande effetto: ogni
membro del Consiglio mi assicurò che avrebbe fatto tutto il possibile. Al che risposi che non volevo le loro
proteste, bensì le loro azioni e conclusi dicendo che non avrei permesso l’abbandono del caso fino alla sua
completa risoluzione, per quanto qualcosa, date le circostanze, possa risolverlo.
Questa era la sostanza di ciò che dissi, nonostante l’udienza sia stata molto lunga. Il console prussiano ed io
abbiamo offerto una ricompensa di mille piastre per le informazioni che potessero condurre
all’individuazione e alla condanna dei colpevoli. Ho assunto un ex capo della polizia, un uomo molto
efficiente, con la promessa della stessa ricompensa. Ho assunto anche molti agenti segreti ed efficienti. Il
console prussiano, rimasto a Gerusalemme, è perfettamente d’accordo con me. Le persone di qui conoscono
poco il potere e l’influenza degli americani a causa dell’esile rapporto che hanno avuto con loro. Li metterò
davanti alla nostra potenza e all’influenza del nostro Consiglio; è veramente evidente che deve essere fatto
ogni sforzo possibile nel caso presente. Di modo che un caso simile non accada mai più. Ho fatto e farò ogni
sforzo possibile per questo risultato e ho fiducia che mi sarà dato il più attivo ed efficiente appoggio.
Scusatemi se vi do l’impressione di gestire la situazione, ma io suggerirei che debba essere chiesto un
Firmano al Sultano, nel quale sia richiesto che il Pasha di Gerusalemme e il governatore di Jaffa non usino
solo la loro autorità e la loro influenza adesso, ma anche che preservino la sicurezza degli individui e le
speranze per il futuro. Il Pasha è un nemico dei cristiani e non interverrà nella questione fino a quando non
sarà costretto.
Siccità e carestia durante la guerra di Crimea
Il 1855 fu caratterizzato dalla mancanza di pioggia, che fece salire i prezzi alle stelle.
“Alla fine lo stato delle cose era così serio che gli Effendi musulmani, guidati dal Pascià, camminarono in
processione (ovviamente scalzi) intorno al Dome of the Rock, con l’offerta di preghiere speciali per avere la
benedizione della pioggia. Gli ebrei per alcuni tempi osservarono uno stretto digiuno con preghiere nelle
sinagoghe. Anche i cristiani fecero la loro parte nelle suppliche”.
Ma la pioggia non arrivava ancora.
Alla fine il Pascià mandò un messaggio agli ebrei offrendo loro ingresso libero nel santuario del tempio, in
modo che potessero pregare alla sacra roccia per la pioggia. Gli ebrei declinarono l’invito per motivi
religiosi, ma chiesero di avere il premesso di pregare alla tomba di Davide, cosa che fu garantita per il 17
dicembre. La pioggia cominciò a cadere prima che l’ora arrivasse e continuò per molte ore, e un delicato
arcobaleno comparve nel nord della città prima del tramonto.
“Uno deve aver vissuto nei climi orientali, dove la pioggia cessa ovviamente durante i mesi estivi, per capire
le sensazioni intense di sollievo con cui quelle poche ore di pioggia furono accolte dopo l’ansia di due mesi
in cui la pioggia aveva ritardato. Ma anche allora il rifornimento fu insufficiente. Il tempo divenne freddo e
luminoso; il terreno rimase riarso e i pozzi erano vuoti”.
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Il giorno dell’Epifania, il pascià andò a pregare nella chiesa cristiana del Sacro Sepolcro. Solo allora la
pioggia cominciò a cadere seriamente, senza lasciare neppure il tempo al pascià di raggiungere la propria
abitazione.
I cristiani dissero che la pioggia era caduta perché il Pascià aveva pregato nella chiesa e “il giorno
successivo il terreno fu coperto dalla neve, che dall’agricoltura fu considerata una benedizione ancor più
grande della pioggia”. Ma ovviamente ci volle tempo, un anno, prima che la situazione si assestasse di
nuovo.
Il pascià visitò tutte le istituzioni caritative della città, elargendo elemosine, che era probabilmente un modo
per ringraziare a nome del popolo.
“La fontana della valle Kedron riprende a scorrere abbondantemente durante i primi mesi del 1856 […]. I
contadini furono molto contenti del loro raccolto e le condizioni materiali del paese divennero a quel tempo
decisamente prospere; il paesaggio attorno era incredibilmente bello, coperto da ricca vegetazione; gli alberi
coprirsi di gemme, e le colline coperte da innumerevoli fichi selvatici, di alberi rosa. Mai la terra di Palestina
era sembrata più bella che in quella primavera: e la notte di Pasqua la luna mandò i suoi dolci raggi sopra
tutta la regione”
J. Finn, Stirring Times, or Records from Jerusalem Consular Chronicles 1853 to 1856, C. Kegan Paul & Co., London
Nuove infrastrutture. La ferrovia Giaffa - Gerusalemme
“Or, dunque, per opera della civiltà, una ferrovia congiunge Jaffa, porto di mare, a Gerusalemme, che è sulla
montagna. Il tragitto è di tre ore e mezzo. Parte un sol treno, ogni giorno, […] alle due e mezzo pomeridiane.
Per una costante combinazione di orario […] il viaggiatore, lo spinga la fede o lo muova la curiosità, non fa,
ordinariamente, che sbarcare a Jaffa, salire al Jerusalem-hotel, lavarsi le mani, far colazione, ripartire, con la
bocca bruciata da una tazza di caffè, bevuta in fretta, per Gerusalemme. Jaffa, chi la vede, chi l’ammira?
Nessuno: quasi nessuno. […] Chi può vedere le altre grazie di Jaffa con l’orario di questa ferrovia?
[…] Questo viaggetto in ferrovia, è caro: costa quindici lire. Le classi sono due: la prima e la seconda. Ma la
prima coi suoi banchi di legno appena lucidato, senza un cuscino, senza un appoggio per la mano, somiglia alle
nostre terze classi: e la seconda somiglia alla quarta, sulle linee di terz’ordine, rurali. Ambedue sono legate fra
loro, da una semplice porta a vetri, quasi sempre aperta: la comunanza è assicurata largamente. Si parte,
perlopiù, con tre quarti d’ora di ritardo, poiché i turchi non sanno mai bene quanta gente possa arrivare, poiché
essi perdono flemmaticamente la testa, mentre i viaggiatori, in tutte le lingue, protestano e gridano.
[…] Vi è sempre qualche intoppo, per la via. Alla stazione di Sejed, noi, per esempio, non abbiamo trovato
acqua per la macchina: quaranta minuti di fermata. Ripartendo il macchinista cerca di guadagnare il tempo
perduto, dando tutta forza alla locomotiva: profondo e segreto sgomento di chi viaggia. Le carrozze sono
piccole e costruite alla meglio […] le curve di questa strada improvvisata si seguono continuamente, in un
serpeggiamento mai interrotto: la locomotiva e i vagoni ondeggiano sulle guide di ferro come una barca in
mare, ed è preferibile raccogliersi, non guardare dai finestrini e aspettare gli avvenimenti. Gli sviamenti non
sono infrequenti: sino ad ora, però, non sono accaduti incidenti gravi.
[…] Ebbene, nulla è più antipatico di questa ferrovia. […] Viaggiare in compagnia di turchi poveri e di turchi
ricchi, che egualmente fumano, sonnecchiano, dormono, si svegliano, si tolgono le scarpe (quando i turchi
hanno le scarpe non vedono l’ora di levarsele), che si prendono un piede con la calza o senza la calza, in mano,
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nella loro posizione favorita: viaggiare con questi ebrei pallidi, dai capelli riccioluti sulle orecchie, dai berretti
di lana, dai berretti di pelliccia spelata: sudici, emananti cattivi odori, facenti capolino, con occhio fra curioso e
beffardo dalla porticina della seconda classe: dover subire tutte le noie triviali, consuete di ogni viaggio che,
altrove sono insignificanti e qui danno un grande fastidio
M. Serao, Nel Paese di Gesù. Ricordi di un viaggio in Palestina, Tipografia Aurelio Tocco, Napoli 1898
Costi di un viaggio in Terrasanta
“Un viaggio in Palestina, fatto con una certa larghezza, con perfetto agio, con perfetta comodità, andando
dappertutto, in sicurezza di spirito e di corpo, un viaggio che dura sei settimane, costa duemilacinquecento lire,
e può arrivare sino a tremila, volendo far le cose senza risparmio. […] Se si ha un compagno di viaggio, non
bisogna raddoppiare la somma, non aumentarla della metà, ma di un solo terzo; e più la comitiva s’ingrandisce,
meno è la spesa, per ognuno. […] Sui battelli italiani, austriaci, francesi, russi, egiziani, la spesa del viaggio con
vitto e ogni cosa, è da trenta a quaranta lire al giorno […]. Al Jerusalem Hôtel di Jaffa, si pagano dieci lire
italiane di pensione, al giorno; al New Grand Hôtel di Gerusalemme, dodici lire e mezzo; ambedue le pensioni,
essendo destinate agli inglesi, sono eccellenti. Un dragomanno — necessario, indispensabile — costa otto lire
al giorno in Gerusalemme, dodici lire al giorno, quando si va in escursione vicina, quindici in escursione
lunghissima. Un beduino di scorta, armato sino ai denti, costa un napoleone al giorno: ma è necessario solo
nella gita a Gerico, al Mare Morto, al Giordano, che dura tre giorni: un cavallo, buono, cinque lire al giorno:
idem, il cavallo per il dragomanno. Naturalmente, in comitiva, si risparmia. Un palanchino, per le persone
pigre, o malate, o troppo avanzate negli anni, costa otto lire al giorno”
“ […] Voi dite: dunque, solo chi ha due o tremila lire, può darsi questo godimento del cuore e degli occhi che è
la Siria, che è il paese di Gesù? Ma no. Tutto si può fare con misura, con economia, con previdenza: si può
spendere assai di meno, anche non rinunziando alle comodità del viaggio. Le seconde classi, sui piroscafi
stranieri, sono ancora buonissime. Quando siete in Palestina, potete trovare degli improvvisati compagni di
viaggio, con cui dividere le spese del dragomanno, della carrozza, della scorta: tutto si accomoda, per chi ha
pazienza, prudenza, discernimento. Con millecinquecento lire si viaggia sempre benissimo, laggiù, sei
settimane, purchè non si sprechi il denaro. E l’ospitalità francescana non la contate per nulla? Invece di
spendere all’alberguccio o al Grand Hôtel di Gerusalemme, voi ve ne andate a Casa-Nova, dove l’ospizio è
buono quanto l’albergo, forse migliore, non pagate nulla, lasciate solo una elemosina, quel che volete, anche
cinque lire, dopo esservi stato alloggiato e nutrito, per quindici giorni. Dovunque vi sono ricoveri, ospizi, per i
pellegrini […].
Anche con mille lire, si può andare in Palestina, con l’aiuto di Cristo e della sua fede, con l’aiuto di quanti sono
suoi seguaci, per il suo esempio e per la sua dottrina! ».
M. Serao, Nel Paese di Gesù. Ricordi di un viaggio in Palestina, Tipografia Aurelio Tocco, Napoli 1898
Il dragomanno secondo James Finn e Matilde Serao
I dragomanni “sono per necessità nativi della Turchia perché non si possono trovare inglesi o altri stranieri
capaci di parlare, leggere, scrivere le lingue orientali, Turco e arabo, necessari per le transazioni di affari.
Bisogna anche ammettere che i fondi a disposizione dei vari consoli non sono sufficienti a permetter loro di
pagare salari adeguati alle persone competenti per svolgere le mansioni richieste a un dragomanno
consolare. Queste mansioni sono molto spesso assai delicate, ed era essenziale assicurarsi gentiluomini in
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adalonni 11/1/10 19:02
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cui poter riporre fiducia. A volte vengono impiegati nativi parzialmente istruiti in eu. Gli altri consolati eu
erano in grado di assicurare l’attaccamento di questi interpreti attraverso un sistema di trattamento più
liberale di quello adottato dal sistema inglese.
I dragomanni che servono con fedeltà il consolato erano obbligati a rompere i rapporti col loro governo e per
questo non c’era alcuna ricompensa, anche dopo molti anni di servizio mal pagato. Non c’era né pensione né
statuto particolare conferito, così un dragomanno dopo aver servito durante i migliori anni della sua vita, ed
essere incorso in ostilità tanto maggiori quanto più grande era la sua fedeltà e zelo nel servizio, era soggetto
ad essere lasciato alla deriva, a ricominciare da zero ed essere esposto alla malevolenza in cui non sarebbe
mai incorso se non avesse subordinato i propri personali interessi a quelli della nazione presso cui era stato
temporaneamente impiegato. Come ho già detto le altri nazioni europee le altre nazioni europee gestiscono
queste cose meglio di come abbiamo fatto noi”
J.Finn, Stirring times… 1878
Non litigare mai col proprio dragomanno e col proprio beduino! Sono essi i custodi della vostra salute e del
vostro denaro, sono i regolatori dei vostri piaceri estetici e della vostra igiene, e ci tengono, è il loro
interesse, che voi viaggiate bene e che non vi stanchiate, che dormiate bene e che nessuno vi molesti!
[…] Prima della compagnia Cook, il dragomanno era un signore ed era una potenza: egli aveva cavalcature,
palanchini, tende, letti, attrezzi da cucina e servizi da tavola, in modo che si contrattava con lui un cottimo di
tanti giorni, per tante persone ed egli vi conduceva, vi forniva di tutto, vi dava il pranzo, il tetto, la scorta…
tutto infine”.
E naturalmente il dopo; e per il dragomanno era la disfatta. Era l’agenzia Cook a occuparsi di tutto e il
dragomanno riduceva la sua attività a quella di guida turistica, e senza autonomia alcuna.
La rabbia verso questo nemico, verso il carnefice di tutti i dragomanni di Palestina, era grande, ma altrettanto
grande era il senso di impotenza mi pregò di scrivere anche qualche cosa contro Cook, il suo grande nemico,
il carnefice di tutti i dragomanni di Palestina, colui che ha loro rubato il mestiere e il pane, colui che da 30 o
40 franchi al giorno, li ha ridotti a prendere da 10 a 15 lire, oltre il cibo: mentre i viaggiatori pagano molto
più a Cook e Cook ha 100 milioni! Egli lo detestava questo Maometto, sir Thomas Cook, e s’indignava
contro la regina d’Inghilterra che lo aveva fatto baronetto, un birbone di quella forza…..
M. Serao, Nel Paese di Gesù. Ricordi di un viaggio in Palestina, Tipografia Aurelio Tocco, Napoli 1898
Le saghe familiari: gli obiettivi
Bertha Spafford. “Ho incominciato a registrar le esperienze dei miei genitori in Gerusalemme e altrove in
modo che servissero da memoria ai miei figli e nipoti”
B. Spafford, Our Jerusalem. An American Family in the Holy City. 1881-1949
Sirine Husseini Shahid, Souvenirs de Jerusalem. Residente in Francia
A partire dagli anni Venti (nel 1924, all’età di 4 anni, Sirine fu iscritta alla scuola materna dell’American
Colony)
“Ho scritto queste pagine sulla mia infanzia e sulla Palestina di un tempo per i miei figli e per le generazioni
a venire, che ignorano forse tutto di noi e del nostro modo di vita. É importante mi sembra, preservare la
memoria di quei giorni scomparsi, in effetti, la speranza di un avvenire migliore non può che nutrirsi di una
vera conoscenza del passato”
Sirine Husseini Shahid, Souvenirs de Jerusalem.
Said Aburish. “Gli Aburish, in termini di risultati raggiunti non meritano un libro. Comunque
rappresentano un microcosmo esemplare di vasti cambiamenti sociali che hanno trasformato la Palestina e il
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MO arabo da una rigida società feudale basata su legami familiari e tribali in una che registra una mancanza
di direzione e continuità e che soffre di una imperfetta, spesso superficiale, comprensione da parte del modo
di pensare occidentale”
Said Aburish,Children of Betany. The story of a Palestinian Family, 1991
John Melkon Rose. “Mio padre era inglese, mia madre armena, e io sono nato e cresciuto in Palestina nella
città cosmopolita di Gerusalemme”
“Mio padre incontrò mia madre durante la prima guerra mondiale” ... “ dopo il servizio militare in Belgio fu
mandato in Egitto e poi in Palestina dove arrivò nel 1917 con le forze inglesi del generale Allenby”.....
John Melkon Rose, Armenians of Jerusalem. Memories of life in Palestine, New York, 1993
La poetica del vagabondaggio
Iniziatore è stato Camilo José Cela: la sua è una “filosofia dell’andare” “e tutto ciò che accade è sempre il
meglio che possa capitare”. La descrizione dei suoi viaggio si sviluppa nel senso dell’onestà documentaria.
Ha una visione del mondo polifonica: “invece del dato il colore; al posto della citazione, il sapore; in cambio
della schedatura, l’odore del paese, del suo cielo, della sua terra, dei suoi uomini e delle sue donne, della sua
cucina, delle sue cantine, dei suoi costumi, della sua storia, delle sue fissazioni”.
“questo libro non è un romanzo, ma piuttosto una geografia; nel romanzo vale tutto, a patto che sia
raccontato con buon senso, ma nella geografia, come è naturale, non vale tutto e si deve dire sempre la
verità, poiché è come una scienza”.
“La strada è fatta per essere percorsa a piedi, non per andare da qualche parte, ma per il piacere sempre e
angelico di percorrerla a piedi”.
“il vagabondo sa per esperienza che la spinta che muove i piedi è più istinto gratuito che pensiero deliberato;
i primi sentieri non si tracciarono affinché l’uomo li percorresse, ma furono tracciati a poco a poco
dall’uomo, mentre camminava”.
“a volte il vagabondo sostiene che i piedi abbiano un’anima, come ce l’ha il cuore in viaggio sono i piedi a
pensare, ad amare e a soffrire”.
“Si cammina con la valigia in spalla e una pace infinita nel cuore”.
“Il viaggiatore è più a suo agio con la geografia che con la storia, la geografia è lo scenario che Dio ha
dipinto affinché gli uomini vi rappresentassero il dramma o la farsa della storia”.
Camilo José Cela, Viaje a la Alcarria
Muri, lacrime, zatar
“La Palestina non esiste” mi disse un giorno un giovane soldato con le lentiggini al check point di Qalandia,
controllando i miei documenti sulla strada per Ramallah. “Che cosa vai a fare di là? Non c’é niente da
vedere!”
Così cominciò nel settembre del 2004 un viaggio nel tempo e nello spazio, che portò via due anni della mia
vita tra andate e ritorni, in quella regione del mondo senza confini certi che alcuni chiamano Samaria,
Giudea e Gaza, altri Territori palestinesi occupati, altri semplicemente Israele, altri quel che resta della
Palestina, e altri ancora Terra Promessa, Terra Santa o Waqf islamico.
Per me era qualcosa di indefinito, che volevo conoscere, spinto dal desiderio di lasciare i corridoi e gli uffici
del Palrlamento europeo e da quello di approfondire i mei studi di arabo”.
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“Una sera, in un fresco e silenzioso salone del convento di San Salvatore, un padre francescano mi
confessò: “Ci sono troppi fedeli che vengono in pellegrinaggio in Terrasanta, si fermano qui a Gerusalemme
e non vedono niente”. Se potessi solamente dare un paio di consigli ai pellegrini che si avventurano in Terra
santa e ai turisti ignari dell’esistenza di una Palestina, io direi loro:
a. venite pacifici come colombe, ma astuti come serpenti, e addentratevi nei villaggi dispersi sulle
colline della Cisgiordania o nelle campagne della galilea, chiedendo e curiosando;
b. non fatevi convincere da chi vi dirà che é pericoloso stare tra i palestinesi, perché vi consiglierà il
falso ...
c. scendete dai vostri autobus Grand Luxe, restate a pranzo in villaggi conme Betania, Taybeh o
Sebastia e visitate i luoghi attraversati da cristo; vi costerà un pò di tempo raggiungerli, a causa delle
restrizioni alla mobilità imposte dalle autorità israeliane, ma con la vostra presenza onorerete luoghi
di cui alcuni si augurerebbero la scomparsa dalle carte geografiche
d. entrate in sinagoghe, moschee e chiese di altre confessioni cristiane, per conoscere e apprezzare la
ricchezza della diversità della rivelazione divina
e. raccoglietevi in qualche monastero o restate da qiualche contadino per alcuni giorni, per sfuggire alla
velocità della vita moderna e acquistare un poco del vigore silenzioso degli olivi di quelle terre
f. tenete presente che non si può essere pellegrini né tantomeno viaggiatori fino in fondo senza essere
cittadini del mondo, senza ascoltare il lamento che emette la terra impregnata di sangue antico e
recente, senza ascoltare le storie di chi vive o di chi vi é morto; alla fine dei conti, conta più il
contadino che continua a pascolare le capre della tomba di uno dei nostri profeti.
Brani tratti da G.Solera, Muri, lacrime e zatar, nuovadimensione, Portogruaro 2007
Vittorio Arrigoni. Restiamo umani
“Il mio appartamento di Gaza da sul mare. Ha una vista panoramica che mi ha sempre riconciliato il morale,
anche quand’ero affranto per la miseria a cui é costretta una vita sotto assedio. Prima di stamattina. Quando
dalla mia finestra si é affacciato l’inferno.
Ci siamo svegliati sotto le bombe oggi a Gaza, e molte sono cadute a poche centinaia di metri da casa mia. E
molti miei amici ci sono rimasti sotto”.
Da Israele giunge una minaccia terribile: questo é solo il primo giorno di una campagna di
bombardamenti che potrebbe protrarsi per due settimane. Faranno il deserto e lo chiameranno pace. Il
silenzio del ‘mondo civilé é molto più assordante delle esplosioni che ricoprono la città come un sudario di
terrore e morte
Israele ha trasformato gli ospedali palestinesi in tante fabbriche di Angeli, non rendendosi conto dell’odio
che fomenta non solo in Palestina, ma in tutto il mondo. Le fabbriche degli angeli sono in produzione a ciclo
continuo anche questa sera, lo avverto dai fragori delle esplosioni che sento fuori dalle mie finestre”.
Osservare e agire, un doppio ruolo. “Ieri, al campo profughi di Jabalia, caccia F-16 hanno lanciato missili
contro un’ambulanza, sono morti un medico, Ihab El Madhoun, e il suo infermiere di fiducia, Mohammed
Abu Hasira. Per questo oggi noi, internazionali dell’Ism, abbiamo indetto una conferenza stampa davanti
alle telecamere di una delle televisioni palestinesi più popolari. Per informare Israele che da stanotte
salteremo sulle ambulanze per dare una mano nei soccorsi, sperando che la nostra presenza funga da minimo
deterrente ai crimini contro l’umanità di cui si sta macchiando Israele”.
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La testimonianza diventa un dovere, un atto di condivisione, una partecipazione, nel senso dell’esser di
parte in modo consapevole: “Il console mi ha gentilmente pregato di cogliere quest’ultima opportunità,
agggregarmi alla suora e scampare da questo inferno. L’ho ringraziato per la sua generosa offerta ma da qui
non mi muovo, non ce la faccio.
Per i lutti che abbiamo vissuto, prima ancora che italiani, inglesi, spagnoli australiani, in questo momento
siamo tutti palestinesi. Se solo per un minuto al giorno lo fossimo tutti, come molti sono stati ebrei durante
l’olocausto, credo che tutto questo massacro ci verrebbo risparmiato”.
Vedere in TV il proprio quotidiano. “A volte ci annoiamo perché durante il giorno non c’é elettricità e la
notte ce l’abbiamo solo per circa 4 ore; e quando c’é guardiamo il notiziario in TV. E vediamo bambini e
donne feriti o morti. Così viviamo l’assedio e la guerra”
Lo spettacolo dal di fuori. Yasmine, moglie di un giornalista: “ L’altro ieri siamo andati a vedere Gaza dal
di fuori. I giornalisti del mondo sono tutti ammucchiati su una collinetta di sabbia a un paio di km dal
confine. Decine di telecamere puntate verso di voi. Si sentono aerei che ci sorvolano, ma non si vedono,
sembrano solo illusioni mentali finché non si vede il fumo nero salire all’orizzonte. La collina é diventata
anche meta turistica per gli israeliani della zona. Con grandi binocoli e macchine fotografiche vengono a
vedere i bombardamenti dal vivo”
Brani tratti da: V.Arrigoni, Restiamo umani, Il Manifesto libri, Roma 2009
video su internet
http://www.youtube.com/watch?v=Py8jd4ptciQ
http://www.youtube.com/watch?v=IonetYPi9dc&feature=related
http://www.youtube.com/watch?v=nuVQajWe8XM&feature=related
Mourid Barghuti, Ho visto Ramallah
“Finalmente! Eccomi, con la mia sacca, a camminare sul ponte di legno, lungo appena pochi metri e
trent'anni di ghurba.
Come hanno potuto, questi pochi metri di legno scuro, separare un'intera nazione dai suoi sogni?
Impedire a intere generazioni di prendere un caffè in case che prima appartenevano a loro? Come hanno
potuto darci tutta questa pazienza e questa morte? Come hanno potuto dividerci tra espulsioni, tende,
partiti politici, sussurri impauriti?
Io non ti ringrazio, piccolo ponte senza importanza. Non sei un mare né un oceano da poter giustificare
il nostro terrore. Non sei una catena di monti abitati da bestie feroci e da mostri fantastici da dover far
affidamento ai nostri istinti per difenderci da te. Ti avrei ringraziato, ponte, se fossi stato su un altro
pianeta, in un luogo che una vecchia Mercedes non avrebbe potuto raggiungere in mezz'ora. Ti avrei
ringraziato se fossi stato creato da un vulcano, terrore color arancio, ma sei stato costruito da miseri
falegnami, con i chiodi infilati tra le labbra e la sigaretta sull'orecchio. Non ti dico grazie, piccolo
ponte. Dovrei sentirmi a disagio di fronte a te? Sei vicino come le stelle di un ingenuo poeta, lontano
come il passo di un paralitico. Perché questo imbarazzo? Io non ti perdono e tu non perdoni me.
Il legno scricchiola sotto i miei piedi.
Fairuz lo chiama il ponte del ritorno. I giordani lo chiamano il ponte di re Hussein. L'Autorità Palestinese lo
chiama il passaggio di al-Karama. La gente, gli autisti dei bus e i tassisti lo chiamano il ponte di Allenby.
Mia madre, e prima di lei, mia nonna, mio padre e Umm Talal, la moglie di mio zio, lo chiamano
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semplicemente "il ponte".
Lo attraverso ora per la prima volta dopo trent'anni. L'estate del 1966 e immediatamente dopo, senza
esitazione, l'estate del 1996.
Qui, sii quelle assi di legno proibite, cammino e racconto a me stesso I lilla la mia vita. La racconto,
senza emettere un suono e senza interruzioni. Momenti, come fotogrammi, appaiono e scompaiono
incoerentemente”.
La vita. “… vado a trovare Umm Khalil all'Associazione per il Sostegno alle Famiglie.
Faccio un giro tra i diversi reparti dell'Associazione: cucito, ricamo, artigianato, preparazione e confezione di
cibo in scatola. I figli e le figlie dei martiri, dei detenuti e dei prigionieri, imparano a lavorare per sostenere le
loro famiglie. I ferri da lana argentati si muovono rapidamente tra le mani e si urtano come due uccellini
innamorati che si scambiano baci veloci. I due ferri si trascinano dietro una scia di fili colorata, che si
trasforma in una coperta variopinta, oppure in uno scialle che proteggerà il calore di un corpo e la bellezza di
due spalle.
A un altro tavolo le dita delle ragazze si destreggiano con l'ago, mischiando, per settimane, colori su colori
e punti su punti che, giorno dopo giorno, prendono forma sulla stoffa e danno infine vita a un bell'abito
palestinese ricamato con decine di migliaia di piccole e meravigliose geometrie colorate.
Sculture in legno d'ulivo, argento, cera, vetro, specchi dalle cornici lavorate, abiti per bambini, uomini e
donne, una cucina enorme che produce centinaia di pasti al giorno per famiglie dove lavorano entrambi i
genitori. Un pianoforte, un liuto, un flauto, una dahka, canzoni tradizionali e popolari, danza e moltissime
altre attività. Per oltre trent'anni l'Associazione ha aiutato i più bisognosi. I fondi provengono da ricchi
uomini d'affari palestinesi e non, oppure dagli aiuti di alcuni paesi arabi. Umm Khalil ha fondato
l'Associazione due o tre anni prima che Ramallah fosse occupata dagli israeliani nel 1967. La visita ha inizio
con il Museo del Folklore Palestinese, pronto per essere inaugurato qualche giorno dopo, e finisce
nell'ufficio di Umm Khalil. Prima di lasciare l'Associazione, mi aspetta la bellissima sorpresa del coro dei
bambini che si esibiscono per me, accompagnati al piano dalla signora Tarazi. E uno spettacolo bello e
commovente.
Questo ammirevole sforzo locale ha attirato l'attenzione di tutti i palestinesi, non solo degli abitanti di
Ramallah e Bireh.
L'Associazione è riuscita a creare posti di lavoro per i più bisognosi. Ha assecondato e sviluppato il talento
artistico e letterario di centinaia di bambini. E cominciata come una piccola esperienza, che è cresciuta pian
piano fino a diventare un esempio di cosa possono realizzare le iniziative locali, proprio perché chi è di qui
conosce meglio la realtà del luogo e i suoi bisogni in continua evoluzione”.
Errori commessi dalle vittime. “Si è nuovamente risvegliato in me il desiderio di prendere in
considerazione gli errori commessi dalle vittime. Non basta tenere conto soltanto degli errori degli altri,
dell'occupante, del colonialista, dell'imperialista.
Le sciagure non piombano sulle nostre teste dal cielo, come stelle comete per dare vita a un incantevole
spettacolo naturale. Abbiamo le nostre colpe, non siamo stati lungimiranti. L'ho già detto prima, in un
altro luogo e un altro momento?
Ricordo di averlo già detto o scritto in passato. Perché ora Io ripeto? Non lo so. Sono convinto che non
siamo sempre stati un incantevole spettacolo naturale. Anche se questa verità non assolve il nemico dal suo
crimine originale, inizio e fine di ogni male.
So che la cosa più semplice è dare la colpa agli altri e minimizzare i propri errori. Perciò, dopo ogni nuova
sconfitta, mi chiedo quali siano stati i nostri errori, le stonature del nostro canto. Mi chiedo se la
complessa natura del mio attaccamento alla patria può essere resa attraverso un canto a lei dedicato. Il poeta
vive nello spazio o nel tempo? La nostra patria è data dal tempo che vi abbiamo vissuto”.
Brani Tratti da M. Barguthi, Ho visto Ramalla, Illisso, Cagliari 2005
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Raja Shahade, sette sahra sulle colline di Ramallah
“Mio nonno amava andare a fare una sahra con suo cugino, Abu Amin… “prendevano un po’ di provviste,
si incamminavano verso le aperte colline, e scomparivano per tutta la giornata, talvolta per settimane e per
mesi. Spesso non avevano una meta precisa. Partire per una sahra vuol dire girovagare liberamente, a
piacimento, senza limiti. La forma verbale del termine significa liberare il bestiame al pascolo il mattino
presto, lasciandolo vagabondare e brucare in libertà… un uomo che parte per una sahra vaga senza meta,
senza limiti di tempo né di spazio, va dove il proprio spirito lo conduce, per nutrire l’anima e ritrovare
freschezza. Partire per una sahra significa lasciarsi andare . è una cosa tutta palestinese, uno sballo senza
droghe. Questo libro è formato da sette sahra”.
“Mentre lavoravo a questo libro mi sono reso conto che l’atto stesso di scrivere costituiva l’ottavo viaggio.
Non sapevo dove mi stavo dirigendo in questa particolare ricerca, né come si sarebbe conclusa. Mentre la
scrittura procedeva ho capito che talvolta ero colpevole di omissione e parzialità, esattamente come quei
viaggiatori del XIX secolo che avevo criticato.
La scrittura come terapia: “non posso andare avanti con questa rabbia, che altrimenti consumerà ogni mia
energia. Finirei per sprecare la vita nel rimpianto e nel rimorso. Viene un tempo in cui si dev e accettare la
realtà, per quanto difficile possa essere, e trovare il modo di conviverci senza perdere la propria autostima e i
propri principi. Non è forse quello che hanno fatto i monaci e gli eremiti nel corso dei secoli, allontanandosi
dal mondo, aggrappandosi a ciò che avevaano, aspettando che il vento cambiasse, mentre intorno a loro tutto
ciò che consideravano sacro veniva violato? Era giunto per me il momento di dedicarmi a un progetto
diverso, un progetto che potessi far procedere senza che nessuno riuscisse a levarmelo. Scrivere mi avrebbe
aiutato ad andae avanti in questo periodo, ma soltanto una scrittura ionesta e coraggiosa avrebbe saputo
penetrare gli abissi che mi accerchiavano e mi paralizzavano”.
“Le colline sono state rivendicate una dopo l’altra, e uno via l’altro sono stati creati gli insediamenti. Poi gli
insediamenti sono stati uniti fra loro a formare blocchi di insediamenti. Tra questi raggruppamenti si sono
aperte delle strade, e porzioni sempre più grandi di territorio circostante sono state riservate alla loro futura
espansione, privando altri villaggi del terreno agricolo da cui dipendevano per sopravvivere. Così dunque è
stato creato il blocco di insediamenti a nord di Ramallah, un altro a est e molti altri a sud. E, tra i blocchi a
est, hanno cominciato a sorgere insediamenti più piccoli chiamati avamposti, così che quando la notte
guardavo verso nord vedevo una distesa continua di insediamenti e di strade che creavano un cappio intorno
a Ramallah. Poi, a peggiorare le cose, è stato progettato un muro lungo 670 km che attraversa la
Cisgiordania, dividendo ulteriormente Ramallah dai villaggi che la circondano, complicando
incommensurabilmente la nostra vita e creando un danno incalcolabile al nostro meraviglioso paesaggio”.
“il penultimo viaggio mi ha portato a confrontarmi con un giovane colono ebreo che è cresciuto qui e ha
trascorso i suoi 25 anni di vita su queste stesse colline. Sapevo che gran parte del suo mondo è fondato su
menzogne. Probabilmente è stato allevato sulla fondamentale bugia che la sua casa sia stata costruita su una
terra che apparteneva esclusivamente al suo popolo, sebbene si trovi in prossimità di Ramallah.
Probabilmente nessuno gli ha mai detto che è stata espropriata a quei palestinesi che vivono a pochi
chilometri di distanza. E tuttavia, malgrado i miti che si formano sulla visione del mondo, come posso
affermare che il mio amore per queste colline annulli il suo? E cosa significa questa ammissione per il futuro
di entrambi e per quello dei nostri rispettivi paesi?”
“Al quartier generale dell'insediamento mi aspettavo di incontrare il diavolo incarnato, gente fanatica e
folle, religiosi ispirati e sognatori: coloro che ci stavano costringendo allo scontro e ad anni di
massacri. La prospettiva di ritrovarmi faccia a faccia con questi coloni mi riempì di un senso di
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eccitazione e avventura. Mi chiedevo che aspetto avesse e come agisse questa gente malvagia. Come si
sarebbero comportati con me? Sarei stato al sicuro in mezzo a loro?
Ci incontrammo con degli uomini dall'aspetto serio, senza donne. Ci servirono il tè in tazze di plastica,
seduti attorno a un lungo tavolo. Mi sentii un testimone di come probabilmente avevano vissuto i primi
coloni sionisti. Immagino che le loro controparti contemporanee vivano di un antico sogno. Erano sulla
trentina e indossavano jeans, molti avevano la barba e un'aria cortese. Non erano sognatori ma uomini
ostinati, totalmente assorbiti da quello che stavano facendo, e non gli passava per la testa che cosa avrebbe
pensato di loro Albina, la vittima delle loro azioni, né sembrava che gli importasse. Se avessi esposto
loro le mie convinzioni e le mie argomentazioni forti contro il progetto dell'insediamento, dubito che mi
avrebbero ascoltato, tanto erano convinti del proprio scopo.
Il loro entusiasmo era contagioso. Non fossi stato dalla parte opposta, me ne sarei innamorato. Si
accampavano letteralmente sul territorio, respingendo i nemici ed espandendo la superficie del loro stato,
forse trascinati in una personale sarha. Che cos'era qualche obiezione legale contro l'eccelsa nobiltà del loro
scopo? Non avevano né l'aspetto né le maniere che attribuivo alla gente malvagia.
Non erano neppure dei pazzi. Erano uomini d'affari efficienti e calcolatori che volevano risolvere
questo ostacolo legale. Ciò che mi sorprese ancora di più era la mancanza di senso di colpa che
dimostravano di fronte a me. Ero il rappresentante del proprietario del terreno che si stavano prendendo, o
meglio, che stavano rubando. Mi ero aspettato che si mostrassero perlomeno contriti o intimiditi in mia
presenza. Invece no. Non si preoccupavano granché dei palestinesi di Bayt 'Ur, che erano in quel
villaggio da secoli e ora stavano per essere estromessi dal nuovo insediamento che questi uomini stavano
progettando dal loro ufficio, a neanche cinquecento metri di distanza. Né si facevano scrupoli, come
scoprii in seguito, a utilizzare ogni sorta di inganno o sotterfugio per raggiungere lo scopo. Per loro il
fine sembrava giustificare l'uso di qualsiasi mezzo. Ecco come si comportavano coloro che credevano di
essere al servizio di un fine più alto” (68-9)
"Lo sospettavo che fossi arabo, ma non ero sicuro. Gli arabi non fanno passeggiate".
"E tu come lo sai? Ne conosci molti di arabi?"
"No. Neanche uno".
"E allora come ci sei arrivato a questa conclusione?" "Perché guardo la gente dei villaggio vicino a
noi. Non li ho mai visti fare passeggiate o sedersi vicino al torrente".
"Forse perché hanno paura?"
"E perché dovrebbero?"
"A causa tua". "Sì. Non hai una pistola?"
"Vorrei non averla. E pesante, ed è una rottura. Ma ti ripeto, devo tenerla".
Non riuscii a fare a meno di dire: "Devi certamente" in tono duramente sarcastico, anche se me ne pentii
quasi subito. Era un invito alla rissa, quando non avevo né il fegato né l'inclinazione per infilarmici dentro.
"Che cosa vuoi dire?" scattò il colono.
"Per proteggere la terra che ci avete preso" dissi in tono realistico, rassegnato a quel che sarebbe
seguito.
"Non abbiamo preso la terra di nessuno. Dòlev è costruita tutta su suolo pubblico".
"Presupponendo che sia vero, perché voi dovreste essere gli unici a trarne beneficio?"
"Perché ci è stato promesso. Tutto 'Erets Yra'el è nostro". "E secondo te noi dove dovremmo vivere?"
"Voi avete il vostro posto; noi abbiamo i nostri".
"Ma continuate a espandervi, e vi prendete altra terra. Noi non ne abbiamo quasi più per costruire il nostro
stato".
"Che bisogno avete di un altro stato? Ci sono già ventuno stati arabi. Noi ne abbiamo soltanto uno".
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Ci passavamo l'un l'altro il bocchino, e il fumo gorgogliava nell'acqua. Inalavo e ascoltavo il mormorio
leggero del ruscello che scivolava tra le rocce, e gli uccelli che cantavano e tutti i rumori e panorami che
avevo chiuso fuori. Incominciai a sentirmi in colpa per quello che avevo scelto di fare, e cioè condividere
queste colline con un colono. E poi pensai: queste sono ancora la mie colline, indipendentemente da come
vanno le cose, tuttavia appartengono anche a chiunque le sappia apprezzare.
Questo ragazzo era un artista nel preparare un buon nargila, pensai. Aveva talento.
"Che cosa c'è dentro?" chiesi.
"Hashish oppiato".
Ero pienamente consapevole della tragedia, della guerra che incombeva e stava di fronte a tutti e due, l'arabo
palestinese e l'ebreo israeliano. Ma in quel momento lui e io eravamo capaci di sedere insieme a riposare,
a fumare, temporaneamente uniti dal nostro mutuo amore per il territorio. Sentimmo degli spari in
lontananza, rabbrividimmo entrambi.
"Vostri o nostri?" domandai. Ma chi poteva dirlo? Concordammo di ignorarli, per il momento, e per un
po' l'unico rumore che sentimmo fu il confortante gorgoglio del nargila e il mormorio dolce di
quell'acqua preziosa che stillava tra le rocce.
Brani tratti da Raja Shahade, Il Pallido dio delle colline, EDT, Torino 2009
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