Abstracts rivisti - Musée du Petit Palais

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Abstracts rivisti - Musée du Petit Palais
International Conference
Images and Words in Exile
Avignon and Italy in the first half of the 14th century
(1310-1352)
Organized by Elisa Brilli, Laura Fenelli, Gerhard Wolf
Kunsthistorisches Institut in Florenz – Max-Planck-Institut
in collaboration with
Musée du Petit Palais d’Avignon &
Université d’Avignon Université d’Avignon et des Pays de Vaucluse
Abstracts
Firenze & Avignon
7-11 April 2011
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Session 1
Exclusion from the Civitas
Chair: Jean-Claude Maire Vigueur (Università di Roma Tre)
Exile from Modena. Giovanni Villani, Nuova Cronica
Città del Vaticano, BAV, Chig. L.VIII-296, f. 96v
Thursday 7 April, 09:00
Firenze, KHI (Palazzo Grifoni)
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Images and Words in Exile
Session 1 – Exclusion from the Civitas
Fabrizio Ricciardelli (Georgetown University at Villa Le Balze)
Le modalità dell’azione politica a Firenze in età comunale
Nella storia della Repubblica fiorentina la pratica dell’esclusione ha sempre costituito un efficace strumento
di azione politica sistematicamente impiegato dai ceti dirigenti per affermare, e quindi rafforzare, il proprio
potere. La lunga serie di condanne al confino e al bando che contraddistinsero la storia della città gigliata
nella piena età comunale non potrebbero essere comprese a fondo se tale fenomeno non fosse letto in questa
prospettiva. Sarebbe infatti difficile spiegare i motivi per i quali la storia di una delle maggiori e più
significative repubbliche italiane fu contrassegnata da un permanente attrito tra le forze sociali e politiche;
sarebbe difficile spiegare come queste fossero incapaci, nell’ambito della contesa per il potere, di
raggiungere risoluzioni pacifiche. Salvo rari e brevi periodi di coesistenza nei quali esponenti di fazioni
diverse avevano accettato di convivere negli organismi comunali (suddividendosi gli incarichi per quote o
ammettendo un rapporto dialettico relativamente pacifico tra la parte predominante e l’opposizione),
infatti, nella storia della Repubblica fiorentina la norma vigente prevedeva che i vincitori occupassero tutti
gli spazi del potere e gli sconfitti venissero esclusi da ogni partecipazione pubblica, venendo discriminati
penalmente in vario modo fino alla confisca del proprio patrimonio e all’esilio. Ma quali erano le modalità
dell’esclusione in epoca comunale? Come era possibile cancellare gli oppositori del sistema costringendoli
ad andarsene definitivamente dalla propria città? Quali erano i margini entro i quali i governi cittadini
agivano per escludere una parte di coloro che costituivano la comune civitas? Questo saggio si propone di
ricostruire i tempi del conflitto politico nella Repubblica fiorentina tra fine Duecento e primo Trecento e di
individuare la natura dei rapporti tra i gruppi sociali e i punti di tensione tra i centri di potere. Privilegiando
la paradigmaticità del caso fiorentino, questo lavoro si concentrerà sul riconoscimento delle dispute al fine
di osservare come la ricomposizione conseguente al conflitto fosse possibile grazie all’esclusione degli
oppositori utilizzata come elemento ordinatore. Definito il lessico relativo alla materia, metterà in evidenza
come in epoca comunale l’esclusione divenne uno degli strumenti per ottenere legittimazione politica, un
mezzo attraverso il quale venivano consolidati i ceti dirigenti alla fine dei conflitti di strada, una pratica
capace di aprire, nel quadro politico delle realtà cittadine di età comunale, le uniche, anche se a volte
precarie, prospettive di stabilità politica.
Matteo Ferrari (Scuola Normale di Pisa)
“Avaro, traditore”. Tradizione figurativa del bando politico tra Lombardia e Toscana
Nella prima metà del XIV secolo, i Comuni dell’Italia centro-settentrionale ricorsero con costanza a
raffigurazioni infamanti di personaggi accusati di aver agito o di tramare contro il governo. È stato
evidenziato come, a fronte dell’assenza di un’esplicita regolamentazione normativa, le cronache
contemporanee registrino diversi esempi di pitture infamanti rivolte a perpetuare il ricordo di atti di
insubordinazione e ad oltraggiare la memoria dei ribelli. Diversamente da quanto finora inteso, però, al
fenomeno non sembra corrispondere una riduzione del ventaglio d’azione della pittura infamante, dal
momento che i testi statutari trecenteschi riprendono più antiche norme dirette a punire in tal modo falsari
ed ufficiali pubblici corrotti (talvolta, è anzi solo adesso che queste fanno la loro comparsa). La punizione in
effige del traditore si presenta invece come prosecuzione di una tradizione secolare, che i cronisti – poco
sensibili alle pratiche quotidiane della giustizia – registrano per l’eccezionalità e per l’impatto di immagini
che si segnalavano per l’incremento dei dettagli iconografici infamanti.
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Images and Words in Exile
Session 1 – Exclusion from the Civitas
Tra lo scadere del XIII secolo (ma si ricordano casi già negli anni Sessanta) e la prima metà del XIV,
responsabili di consegne proditorie di castelli ai nemici giurati del Comune o funzionari passati al campo
avversario sono raffigurati ad eterna infamia sui palazzi pubblici di Parma, di Padova e di Bologna. Le fonti
ricordano la presenza – del resto rispondente alla prassi – di iscrizioni recanti “nomi e cognomi” degli
infamati (generalmente contumaci), ma difficilmente i cronisti s’attardano sugli aspetti figurativi dei dipinti,
a tali date ancora piuttosto variabili: i traditori potevano comparire “attaccati alle forche” (così a Verona nel
1354), essere effigiati accanto alla rappresentazione dell’impresa bellica del Comune (come a Reggio nel
1315) …
In questa prospettiva, un particolare rilievo è assunto dalla pittura eseguita a Firenze all’indomani della
cacciata di Gualtieri di Brienne (1343), infamato sul campanile del Bargello in compagnia dei suoi più stretti
collaboratori. Infatti, il perduto dipinto era ancora visibile al Vasari ed al Baldinucci, che restituiscono i
tratti principali di una figurazione giocata sulla combinazione di elementi allusivi ai fatti trascorsi e ai rituali
giudiziari, e che affidava a stemmi ed iscrizioni il compito di identificare i personaggi e di eternarne la colpa.
Il dipinto invita a riflettere sul carattere effimero di tali figurazioni (Vasari ancora lodava le qualità esecutive
dell’opera e le cronache ricordano interventi a sua protezione) o sulla possibile influenza delle allegorie
politiche di Giotto dipinte a pochi passi di distanza (in tal senso, la tarda attribuzione a Giottino è
significativa). Come per altri episodi in cui il governo aveva corso gravi pericoli (Verona, Reggio …) la
pittura fu corredata da eloquenti iscrizioni; espressivi versi in volgare accompagnavano i personaggi,
insistendo sull’avaritia del Duca (espressa anche dagli “animali rapaci” che gli ronzavano sul capo) e del suo
principale fautore, evidentemente accusati d’aver sottomesso l’interesse pubblico all’ambizione personale.
La figurazione fiorentina si inseriva così in un preciso filone della riflessione “politica” comunale, già da
tempo tradotto in immagini. Tornano alla memoria gli affreschi di Siena e le prime teorizzazioni del Bene
comune in Remigio de Girolami, ma gli studi più recenti consentono di rintracciarne i prodromi
nell’iconografia politica dei Comuni padani e, in particolare, nelle più antiche figurazioni infamanti di
traditori, nate in contemporanea alle prime applicazioni giudiziarie della pena. Queste si caratterizzano per
una precoce, e finora ignota, stabilizzazione dell’iconografia del traditore presentato non come nemico di
una fazione ma del Comune e rappresentato secondo un modello che, stando ai documenti noti, sarà poi
impiegato nella raffigurazione degli ufficiali corrotti (Padova).
Nel 1251 – dunque, con dieci anni di vantaggio sulla prima attestazione finora nota – a Mantova si
consegnava alla pittura il fresco ricordo del tradimento di Marcaria; i colpevoli erano effigiati nell’atto di
siglare l’accordo, accompagnati da iscrizioni che ne rivelavano l’identità, mentre la borsa al collo – attributo
codificato dell’avaro – li accusava di aver cercato un vantaggio personale nella cessione di un bene del
Comune. La stessa immagine fu ripresa a Brescia una trentina di anni più tardi, portando però a
compimento quel percorso di astrazione simbolica che dalla rappresentazione narrativa del crimine porta
alla pura raffigurazione dell’infamato. Il Popolo bresciano volle qui fornire una versione iconica delle liste
dei banditi politici, dando un volto a generazioni di famiglie che la borsa al collo qualificava come
accaparratrici dei beni pubblici. L’identità degli infami era poi rivelata non solo dalle iscrizioni, ma anche
dagli stemmi – un elemento di riconoscimento che ritorna nella pittura fiorentina – che, ripetendosi,
dimostravano la potenziale pericolosità di certe famiglie, tradizionalmente ostili al governo popolare.
Al mutare della situazione politica, il valore documentario condannò le pitture bresciane e mantovane; non
così accadde a quella fiorentina inserita in un programmatico intervento di celebrazione della libertà
“repubblicana”. L’azione del governo di Firenze contro il Duca d’Atene non si limitò infatti alla
denigrazione del nemico; nonostante il dissenso di alcuni, l’episodio fu assunto anche a simbolo della
rigenerazione del Comune di Popolo, come dichiarano i risvolti simbolici del conservato affresco delle
Stinche e l’eco di una campagna politica che raggiunse i cronisti delle città padane.
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Images and Words in Exile
Session 1 – Exclusion from the Civitas
Gaetano Curzi (Università degli Studi G. D’Annunzio)
La “condanna” dei Templari: tracce materiali e memoria negata tra Francia e Italia
L’inchiesta sulle gravi colpe attribuite al Tempio, promossa da Filippo il Bello nel 1307, il conseguente
arresto dei cavalieri e la soppressione dell’ordine, decretata nel 1312 da Clemente V, scandiscono le tappe
di un evento senza precedenti nella storia della cristianità medievale.
Nel giro di pochi anni venne infatti messa fuori legge un’istituzione che nei due secoli precedenti era stata
protagonista della lotta contro i musulmani, proprio nel momento in cui si moltiplicavano i progetti per la
riconquista della Terrasanta e il dibattito sulla crociata riceveva nuovo slancio.
Le sconfitte militari subite oltremare e la ricchezza accumulata anche con operazioni finanziarie, avevano
sicuramente minato nei decenni precedenti il prestigio della milizia e la sua immagine pubblica, agevolando
il progetto del sovrano francese.
Nonostante all’inizio del Trecento avessero conosciuto una grave crisi d’identità, i Templari godevano
ancora di notevole potere e di un patrimonio ingentissimo, forte di una rete di case che copriva tutta
l’Europa, comprese ovviamente Roma e Avignone, e di vastissimi possedimenti agricoli, mentre le cappelle
– stando alle parole di Giacomo di Molay, l’ultimo gran maestro – erano dotate di un corredo suntuario e di
reliquie tale da poter competere con quelli delle cattedrali.
Tutto questo venne azzerato in un repentino day after, mettendo in luce una sistematica cancellazione della
memoria ma anche un evidente paradosso.
Le disposizioni del pontefice, che prevedevano che le loro proprietà di ogni natura passassero integralmente
agli Ospedalieri, furono rispettate prevalentemente per gli edifici e i beni fondiari, i quali spesso
conservarono denominazioni e dedicazioni originarie, tanto che il riferimento al Tempio è giunto fino all’età
moderna nella toponomastica di molte città, diversamente nella penisola Iberica la presenza di una frontiera
della cristianità aveva favorito la formazione di ordini militari regionali, che si posero come pretendenti alla
successione templare, garantendo spesso una sorta di continuità funzionale di molti complessi.
Una dispersione furiosa si accanì invece contro le opere mobili e le decorazioni che vennero sottoposte ad
una vera cancellazione della memoria, perseguita con sistematico accanimento come mostrano le note di
possesso abrase o ritagliate di alcuni manoscritti, tanto che il riconoscimento dell’originaria pertinenza
templare di tavole, sculture e oreficerie è possibile solo grazie a contingenze fortuite e spesso su base
fortemente congetturale, come dimostrano il caso controverso del trittico Marzolini o la stauroteca di
Astorga.
Questa immagine in negativo, per assenza, del patrimonio mobile del Tempio è tuttavia in parte risarcita da
alcune emergenze documentarie, quali gli inventari eseguiti a seguito della soppressione e soprattutto le
deposizioni dei cavalieri che, nel corso dell’inchiesta, menzionano numerosi manufatti santuari. Vi sono
inoltre testimonianze materiali di questa drammatica congiuntura legata all’inchiesta e ai suoi esiti, come i
graffiti realizzati da alcuni membri della milizia durante la loro detenzione a Domme e a Chinon – ricchi di
iscrizioni e figure allegoriche – o le miniature che raffigurano l’arresto e il rogo dei Templari in alcune
cronache italiane e francesi. Il contributo si propone di analizzare le diverse tipologie di fonti disponibili e di
fornire i primi risultati di una ricerca in corso, volta a restituire una immagine il più possibile sfaccettata del
patrimonio artistico dell’ordine ma, al tempo stesso, anche di riflettere su un clamoroso, quanto anomalo,
caso di damnatio memoriae.
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Images and Words in Exile
Session 1 – Exclusion from the Civitas
Irene Bueno (European University Institute/Leiden University)
Come estirpare le cattive piante. La riflessione sull’eresia nell’opera esegetica di Jacques Fournier
Se il trasferimento della sede pontificia al di là delle Alpi inaugurò un periodo di fioritura culturale, artistica
ed intellettuale, il settantennio avignonese fu d’altra parte caratterizzato da marcati irrigidimenti ideologici
e disciplinari. Soprattutto durante il pontificato di Giovanni XXII, la sede apostolica tradusse la propria
esigenza di autoaffermazione in una crescente intolleranza verso forme religiose ritenute ‘non conformi’ e
l’accusa di eresia divenne una delle armi più spesso usate per colpire nemici politici ed avversari del Papato.
Il cisterciense Jacques Fournier, vescovo di Pamiers e Mirépoix (1317-1327), cardinale e teologo di curia
(1327-1334) ed infine papa con il nome di Benedetto XII (1334-1342), si distinse per un multiforme
impegno – giudiziario, teologico e politico – nella lotta anti-ereticale. Noto per le campagne inquisitoriali
guidate nel Sabarthès, Fournier fu coinvolto da Giovanni XXII in una serie di consultazioni teologiche tese
alla definizione dogmatica della visio beatifica, alla repressione di pratiche magico-religiose, alla condanna di
pensatori come Pietro di Giovanni Olivi, meister Eckhart, Michele da Cesena, Guglielmo d’Ockham. Il suo
contributo nello studio e nell’interpretazione delle sacre scritture è stato scarsamente investigato, ma è
proprio nell’ambito dell’esegesi biblica che troviamo la più completa riflessione teorica di Fournier
sull’eresia.
La Postilla sul vangelo di Matteo di Jacques Fournier, un imponente commentario in sei volumi quasi
interamente inedito, rivela l’intento dell’autore di sviscerare le radici del male ereticale alla luce della
parola divina. Decifrando le simbologie legate alle immagini bibliche di falsi prophetae, lupi rapaces, malae
arbores (tratte da un passo del Sermone della Montagna, Mt. 7,15-20) l’esegeta offre in una sezione del
commentario una meticolosa riflessione sulla natura dell’eresia, nonché una vera e propria legittimazione
delle procedure anti-ereticali seguite da sacerdoti e inquisitori. Composta nel contesto degli accesi dibattiti
che caratterizzavano la curia pontificia al tempo di Giovanni XXII, l’opera testimonia la varietà delle
tipologie documentarie, delle scelte retoriche, dei metodi espositivi dispiegati dall’élite intellettuale
avignonese nella lotta contro l’eresia.
La mia analisi correrà lungo tre direttrici principali: dopo aver chiarito alcuni aspetti relativi all’identità
degli eretici e dei destinatari dell’opera, mi soffermerò sulle soluzioni offerte da Fournier alla questione
ereticale: procedendo dall’analisi delle Scritture, l’autore formalizza infatti le vie da seguire per
estromettere i nemici della fede dalla comunità dei credenti. A questo proposito, emergeranno i rapporti –
le differenze, ma anche la complementarietà d’intenti – tra azione inquisitoriale ed esegesi delle sacre
scritture nella difesa dell’ortodossia. 1) I versetti Mt 7,15-20 sono decifrati da Fournier seguendo il modello
interpretativo ricevuto dai Padri della Chiesa: falsi profeti, lupi rapaci mascherati da pecore e cattive piante
come rovi e triboli sono immagini simboliche dietro alle quali vengono rappresentati gli eretici. La
complessa simbologia legata a queste immagini rivela le caratteristiche degli eretici (falsità, ingiustizia,
pericolosità, cattiveria, ambizione), il loro modo di predicare e di portare i fedeli alla perdizione. A
differenza di trattati polemici e manuali ad usum inquisitoris, il commentario non è diretto contro specifiche
dottrine o sette ereticali, ma delinea un modello rappresentativo fortemente astratto e dunque valido e
applicabile a tutte le eresie, in ogni luogo e tempo. 2) Fournier sostiene che il Sermone della Montagna – ed
in particolare l’imperativo Attendite – sia rivolto soprattutto a magistri e doctores Ecclesiae, da lui individuati
come i responsabili principali della difesa dell’ortodossia. Non è difficile scorgere in teologi e studiosi della
Bibbia i destinatari ideali del commentario: in effetti, l’esegesi biblica viene apertamente definita dal
cardinale teologo Fournier come uno degli strumenti imprescindibili della lotta antiereticale. 3) Quali
risposte al pericolo ereticale vengono formulate nella Postilla? Analizzando il significato del verbo Attendite,
Fournier introduce una legittimazione delle procedure tese al recupero degli eretici (ammonizioni,
persuasione), alla loro esclusione dalla comunità dei credenti (scomunica, anatema), alla coercizione fisica
(carcere) ed infine all’uccisione degli impenitenti. Gli eretici appaiono in ultima analisi come cattive piante
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Images and Words in Exile
Session 1 – Exclusion from the Civitas
da sradicare e ardere sul fuoco (Omnis arbor, quae non facit fructum bonum, excidetur et in ignem mittetur): alla
luce della parola divina, la loro esclusione dalla comunità dei fedeli ed il loro annientamento fisico trovano
nel commentario un fondamento teorico ed una legittimazione. Come mostra la carriera stessa
dell’inquisitore e teologo Jacques Fournier, l’azione giudiziaria degli inquisitori e l’esegesi della Bibbia
appaiono come due strumenti complementari nell’elaborazione di un programma coerente ed articolato di
lotta anti-ereticale.
Fabio Massaccesi (Università di Bologna)
Da Avignone a Ravenna: Giovanni XXII e Aimerico di Châtelus. Immagini e politica in Santa Maria in Porto Fuori
Il contributo intende prendere le mosse dall’analisi della distrutta decorazione della chiesa di Santa Maria in
Porto Fuori Ravenna, eseguita dal pittore Pietro da Rimini, per la quale si conserva una ricca campagna
fotografica dei primi del Novecento.
Già oggetto di studi da me pubblicati gli affreschi dell’arco trionfale con la rara iconografia delle Gesta
dell’Anticristo (rispettivamente da destra a sinistra: l’Anticristo fa decapitare i profeti Elia e Enoch; il Cristo giudice
al centro, e in fine l’Arcangelo Michele fa decapitare l’Anticristo nell’estrema sinistra) sono da considerarsi un
hapax iconografico a livello italiano, da ritenersi riflesso di quanto accadeva sul piano politico.
Papa Giovanni XXII aveva scomunicato l’imperatore Ludovico il Bavaro. Il braccio di ferro intrapreso tra
pontefice e imperatore avrebbe avuto ripercussioni anche a livello locale tra la fazione guelfa e quella
ghibellina. In questi ribollenti eventi Ostasio da Polenta, tiranno di Ravenna, manteneva un atteggiamento
altalenante nei confronti della Chiesa. Una prima sterzata della politica cittadina si ebbe allorquando morì
l’arcivescovo di Ravenna Rainaldo da Concoreggio (1321) che venne sostituito dal partito polentano con la
persona di Rinaldo da Polenta a sua volta vittima di una congiura famigliare l’anno successivo. L’assassinio
giustificò la riserva apostolica di nomina del presule da parte della curia avignonese che nel 1322 si affrettò a
designare quale metropolita il fidato Aimerico di Châtelus, cappellano del papa e suo futuro esecutore
testamentario. Aimerico era in Italia dal 1317 come rettore di Romagna per affiancare l’operato del nipote
del pontefice, Bertrando del Poggetto, eletto quale legato pontificio. Non doveva essere casuale l’elezione
del fidato Aimerico nella terra di Romagna da sempre ostile nei confronti della Chiesa. Nel 1328 le forze
ghibelline capeggiate da Ostasio arrivarono a chiedere infatti un conte imperiale per contrastare la politica di
Bertrando e Aimerico ma nel 1329 la situazione tornava a volgere a favore del legato pontificio che inflisse
una punizione esemplare ad alcuni facinorosi che a Bologna subirono la pena capitale perché confessi di aver
tentato di consegnare la città emiliana a Ludovico il Bavaro.
L’esemplarità della pena inferta da Bertrando nella pubblica piazza bolognese poté avere il suo corrispettivo
nell’altrettanto esemplare Decapitazione dell’Anticristo, icona del potere temporale, nell’affresco portuense
raffigurante il Giudizio Finale dell’arco trionfale. La raffigurazione dell’Anticristo, che già Bisogni (1975)
identificava con il Bavaro, è stata da chi scrive connessa a una indicazione dello stesso arcivescovo e Rettore
di Romagna, Aimerico di Châtelus. Personaggio che ho proposto di riconoscere nella figura di vescovo
effigiata nel sostegno dello stesso arco trionfale in pendant con sant’Antonio abate. Un affiancamento credo
non casuale in cui si esaltava il presule, quale esponente della chiesa imperante, e il santo eremita, simbolo
della vocazione ospedaliera degli agostiniani portuensi. L’intero arco trionfale si articolava quale chiaro
monito per il tiranno locale a non abusare della clemenza apostolica.
A questa lettura non sfugge nemmeno la teoria santorale di personaggi del Vecchio Testamento e profeti
posti sotto l’arco trionfale che in parte sono ancora riconoscibili per i cartigli in bella vista. Un
ammonimento non solo per immagini ma anche attraverso l’autorità delle Sacre Scritture che avevano
rivelato il piano salvifico di Dio anche per mezzo del suo vicario terreno, che in questi anni era messo in
discussione nella sua potestas per il turpe operato dell’Anticristo imperatore (Ludovico il Bavaro) e di quanti
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Images and Words in Exile
Session 1 – Exclusion from the Civitas
lo seguivano, i membra Antichristi (Ostasio da Polenta). La letteratura propagandistica di entrambi i partiti
(pontificio e imperiale) utilizzava la figura dell’Anticristo e delle sue gesta per screditare l’avversario. La
stessa letteratura dell’Anticristo fondava il suo assunto che questo fosse in omnibus Christo contrarius,
contrario e speculare a Cristo un “antimessia” con identici simboli e gesti imitativi. È questa la chiave di
lettura della cappella laterale di destra intitolata a Matteo dove negli affreschi della leggenda sembra essere
sottolineata la contrapposizione del gesto del giusto (Matteo) che libera e risana in nome di Dio, rispetto a
quello imitativo e malefico dei maghi Zaroen e Arphaxat (il riquadro era stato interpretato come Pietro
Peccatore che benedice la folla). Inoltre è presente il tema della conversione esemplificato dalla scena
raffigurante il Battesimo di re Egippo e della sua relativa sottomissione e obbedienza.
Sottomissione e obbedienza che furono negate a Sisto II raffigurato in un riquadro in carcere nel massimo
dell’oltraggio operato dall’imperatore Valeriano. Scena cardine del ciclo di affreschi della cappella laterale
di sinistra, dedicata a questo pontefice. Si profilano abbastanza chiaramente scelte iconografiche coerenti che
proprio in Aimerico potevano trovare il suggeritore più autorevole; ipotesi supportata anche dai legami che
egli intrattenne con i portuensi divenendo persino nel 1343 commendatario temporaneo della stessa
basilica.
L’intervento intenderà cercare di fare luce inoltre sul nodo affascinante e ancora non chiarito che nel
medesimo quadro vede la confezione dell’importante Commentario ai Vangeli, oggi nei Musei Vaticani,
compilato non casualmente da due francesi Godefroy da Picquigny e copiato da Pieres de Cambray e
miniato da Neri e Pietro da Rimini. Il codice fu eseguito per Ferrantino Malatesta tra il 1321 e 1322 quando
era podestà di Cesena. Un indizio fino ad ora non accolto che invece potrà aprire inediti scenari. Dalle
ricerche ancora in svolgimento sappiamo infatti che Aimerico di Châtelus pose la sua residenza a Cesena,
dove stando alle cronache ricostruì l’antica fortezza. Non si può escludere che i due letterati facessero parte
del seguito francese del rettore piuttosto che essere chiamati dalla Francia direttamente dai Malatesta, come
sostenuto dalla critica. La residenza cesenate del rettore doveva apparire come un’enclave di grande
propulsione della cultura francese tanto da poter spiegare storicamente quelle accelerazioni gotiche che
interessarono lo stesso Pietro da Rimini autore di alcune miniature del Commentario come degli affreschi
portuensi. Infine il codice con i suoi commenti scritti in francese potrebbe svelare qualche connessione con
il tema dell’Anticristo ma su questo fronte le indagini sono ancora aperte.
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Session 1 – Exclusion from the Civitas
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Session 2
Self-exclusion from the Civitas
Chair: Sofia Boesch Gajano (Università di Roma Tre)
Bonamico Buffalmacco, Legends of the Anchorites (detail)
Pisa, Museo delle Sinopie
Thursday 7 April, 15:00
Firenze, KHI (Palazzo Grifoni)
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Session 2 – Self-exclusion from the Civitas
Antonio Montefusco (Università di Roma “La Sapienza”)
Exsul pauper. Auto-esclusione e condanna nella tradizione monastica e francescana
Nella mia presentazione vorrei analizzare quello che considero un importante precedente, storico e
ideologico, rispetto all’idea dell’esilio come rivendicata affermazione di sé che caratterizzò il periodo della
cattività avignonese e il capolavoro dantesco. Terreno d’indagine privilegiato sarà la tradizione francescana
due-trecentesca – in particolare la tradizione della dissidenza “spirituale” – vista in relazione all’eredità
monastica, nella quale l’idea del monaco come exsul pauper si incrociò precocemente con l’immagine cristica
del pauper peregrinus. Tale idea di auto-esilio volontario, modellando in profondità l’immaginario medievale,
giunse a maturità nel XIII secolo, trasferendosi nella letteratura volgare e latina di impronta laica e
francescana, proprio in contemporanea con una precisazione delle forme di esclusione dalla comunità civile,
politica ed ecclesiastica. In questo periodo, molto più dell’esilio, furono gli istituti del bando e della
scomunica a costituire i mezzi più efficaci e praticati allo scopo di difendere l’unità del corpo sociale ed
ecclesiastico da quelli che vennero identificati, secondo i vari momenti storici, come i suoi nemici.
Possediamo oggi preziosi strumenti per comprendere con precisione l’utilizzo dello strumento del bando e
il suo significato anche in relazione a come l’istituzione (il Comune) che lo praticò con più sistematicità si
auto-percepì durante la sua parabola storica (mi riferisco in particolare agli studi di Giuliano Milani). Sul
versante della scomunica, che nella sua sostanza e nella sua applicazione è praticamente sovrapponibile al
funzionamento e all’importanza del bando, siamo sicuramente più sforniti (se si fa eccezione del meritorio
tentativo di Véronique Beaulande). Tuttavia si può senz’altro dire che il versante ecclesiastico costituisce
uno dei terreni di indagine più interessanti allorquando ci si proponga di far interagire il problema
dell’esclusione con quello di forme di scelta volontaria di allontamento dal corpo sociale, soprattutto
quando se ne intravede una potenziale interazione – come nelle ricerche di Little, che oggi sono state
allargate anche all’ambito cisterciense.
In questo senso i testi, il pensiero e le vicende dei francescani “spirituali” e del dissenso trecentesco da essi
scaurito permettono di intravedere, anche nella rilettura escatologica dell’esclusione dalla Chiesa,
un’interessante dialettica con le forme di criminalizzazione del dissenso all’interno del Comune. In questo
senso, il caso di Angelo Clareno, e dei suoi scritti apologetici, è molto significativo: in esso è operativa una
dialettica tra ereticazione e scelta di volontario allontanamento del tutto interno al rapporto alla Chiesa,
mentre nei seguaci (come dimostra il caso dei fraticelli fiorentini) ritorna il problema di un rapporto con le
istituzioni municipali. Tale dialettica affonda le sue radici nelle vicende e nel pensiero duecentesco, come
dimostrano i casi (assai differenti) di Iacopone da Todi e Pierre de Jean Olieu. Queste due personalità,
radicalizzando la scelta monastica in un pauperismo più conseguente, preparano il terreno alle lacerazioni
del XIV secolo, quando la questione della povertà di Cristo e degli apostoli comportò, in forza di una nuova
perimetrazione dell’eresia, condanne ed esclusioni che avrebbero a lungo segnato la storia dei movimenti
religiosi. Vorrei esperire tale presupposto proprio mostrando comunanza e differenze di due campioni
(particolarmente significativi nel panorama intellettuale e letterario italiano dell’epoca) dei movimenti
dissidenti dell’epoca. Entrambi furono pienamente inseriti in un contesto municipale ed entrambi furono
colpiti da forme durissime di condanna (scomunica e censura); tuttavia, laddove Iacopone intreccia nel suo
percorso esclusione dal Comune e esclusione dalla Chiesa, in Olivi, in cui il problema dell’esilio assume una
dimensione escatologica e teologica più clamorose, la condanna ecclesiastica si abbatte più volte prima su
una personalità e poi su un gruppo di seguaci pienamente inseriti nel contesto comunale. Queste comunanze
e queste differenze fermentano e si cristallizzano in immagini letterarie e figure teologiche di grande rilievo,
che danno luogo a un pensiero dell’obbedienza e dell’esclusione di notevole importanza, che vorrei
esplorare in questa mia presentazione.
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Images and Words in Exile
Session 2 – Self-exclusion from the Civitas
Stefania Paone (Università della Calabria)
L’immagine di Pietro del Morrone tra l’Abruzzo, Roma e Avignone
La figura di papa Celestino V, ovvero Pietro del Morrone è ancora in larga misura avvolta da una sorta di
oscurità storiografica.
La sua vicenda è inconsueta, sin dalle modalità dell’elezione al soglio pontificio (5 luglio 1294),
dell’incoronazione a L’Aquila (29 settembre) e, soprattutto, per le controverse dimissioni (13 dicembre),
unicum nella storia del papato romano.
Il dibattito storiografico ha affrontato vari temi: l’ingerenza di re Carlo II d’Angiò nella vicenda, la crisi in
cui versava la Chiesa dopo ventisette mesi di interregno, il contrasto tra l’ecclesia spiritualis e l’ecclesia
carnalis, le tensioni escatologiche per un ‘papa angelico’. Ma è soprattutto nell’ambito della feroce critica
dell’operato del suo successore, Bonifacio VIII, che la figura del monaco è stata oggetto di indagine.
La vicenda personale e umana di Pietro può essere letta in termini di auto-esclusione: basti pensare al suo
eremitismo prima dell’elezione e al desiderio di riprenderlo dopo, quando decide di compiere il ‘gran
rifiuto’ stigmatizzato da Dante, se davvero questa espressione può riferirsi alla sua vicenda. Una qualche
forma di “esilio”, già agli occhi dei contemporanei, è rappresentata dal viaggio che dall’Abruzzo lo conduce
a Napoli e alla successiva permanenza forzata presso la corte angioina. Si ricava infatti dall’autobiografia del
monaco e dalle successive ricostruzioni della sua vita che egli si doleva di non riuscire a raggiungere Roma,
meta agognata e in effetti mai raggiunta.
L’Ordo Morronensium, che al principio del XIV secolo cominciò a chiamarsi Ordo Coelestinorum si diffonde per
lo più nell’Italia Meridionale e in Francia: ambiti geografici che sembrano ricalcare quelli della vicenda
umana e della memoria storica del fondatore. Le poche tracce figurative relative a Pietro del Morrone
tardano a palesarsi e risalgono, al di là della casualità dei ritrovamenti, a dopo il trasferimento della curia ad
Avignone, quando il pontefice Clemente V, sostiene fortemente la canonizzazione del monaco avviata con
un’inchiesta nel 1306. In tale contesto, la posizione del cardinale Jacopo Stefaneschi e la sua opera
principale, l’Opus metricum, ampiamente studiato dagli storici e dagli storici dell’arte, sono indicativi di
quanto le figure dell’eremita e del papa siano state strumentalizzate soprattutto subito dopo la morte di
Bonifacio VIII (1303) e dopo la canonizzazione del monaco stesso (1313).
È in questi anni che si delinea l’immagine figurativa di Pietro del Morrone monaco e santo, ma non papa.
Un’immagine insidiosa sin dalle origini per i protagonisti e testimoni di quella vicenda; basti pensare al
trittico realizzato da Giotto per la basilica vaticana su committenza dello Stefaneschi e alla controversa
presenza del monaco, in posizione simmetrica alla figura del cardinale.
Attraverso la committenza dello Stefaneschi e lo studio di altri materiali, soprattutto codici celestiniani di
area napoletana e avignonese e testi pittorici abruzzesi poco noti, si intende avanzare una prima
ricostruzione dell’immagine di Pietro in relazione ai luoghi reali e mentali che il santo monaco percorse e
che finì per incarnare e rappresentare quando, dopo il trasferimento della curia ad Avignone, fu sicuramente
“utile” associarlo alla Roma del Principe degli Apostoli, di cui portava il nome e alla Roma dei Papi, di cui
era stato scomodo esponente.
Marianne Besseyre (Paris, Bibliothèque nationale de France)
Les “Vies des Pères”, un manuscrit italien du XIVe siècle entre France et Italie (Paris, BnF, ms. Fr. 9760)
Héritier d'un siècle qui a connu l’essor des Camaldules et l’appel à la pauvreté radicale de saint François, le
Trecento a laissé dans le domaine de la peinture des témoignages très significatifs de l’intérêt que l’Italie
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Images and Words in Exile
Session 2 – Self-exclusion from the Civitas
porte alors à l’érémitisme. Dominicains, Franciscains, Augustins ont vu dans les Pères d’Egypte des
précurseurs et commandent des cycles illustrant la vie des fondateurs (saint Antoine en particulier). De
mémorables exemples comme la Thébaïde de Buonamico Buffalmaco au Campo Santo de Pise, vers 13301335, ou au début du Quattrocento, celle de Gherardo Starmina (1354-1409/1413), suffisent à rappeler
l’importance du thème dans la Péninsule à cette époque.
L’empreinte de ce succès se remarque également dans les manuscrits. Moines et religieux font exécuter des
ouvrages qui rassemblent les hauts faits de ces promoteurs de l’“auto-exil” physique et/ou mystique. La
Bibliothèque nationale de Vienne possède un spécimen toscan du De origine, fundatoribus et regulis monachorum
et monacharum (Cod. 341) amplement illustré aux environs de 1400. L’histoire des Pères du désert ira au
e
XV siècle jusqu’à pénétrer les cours princières, comme l’atteste le ms. italien 1712 de la Bibliothèque
nationale de France, un superbe exemplaire des Vite dei Padri de Domenico Cavalca offert par Francesco
Sforza et son épouse Bianca Maria Visconti à leur fille Ippolita, à l’occasion de son mariage en 1465 avec
Alphonse de Calabre, fils de Ferdinand Ier d’Aragon.
En revanche, l’énigme demeure entière sur le commanditaire d’un recueil sur les "Vies des Pères" conservé
à la Bibliothèque nationale de France, le manuscrit français 9760. Ce codex abondamment illustré dans le
Centre ou le Sud de l’Italie au cours du second quart du XIVe siècle est un fidèle reflet de la mentalité
religieuse et de la culture littéraire du temps.
Copié par un seul scribe, l’ouvrage comporte trois parties : la première (ff.1-132v) regroupe une traduction
des Verba seniorum, de la Vie de saint Paul ermite, de l’Historia monachorum de Rufin, de la Vie du moine Malchus,
et de celle de saint Frontin; la seconde (ff.133-246) est consacrée aux Dialogues de saint Grégoire ; la
troisième (ff.248-323v) contient la Vie de saint François. Dans la première section, chaque Vita s’ouvre par
une initiale historiée évoquant un moment marquant de la vie de l’ermite. Les emplacements pour
l’ornementation de l’opus de Grégoire étaient restés vierge – seules les lettres d’attente avaient été tracées
en marge – mais il a été comblé plus tard par des initiales ornées et des lettres champies de style parisien.
L’enlumineur italien n’a fait qu’entamer le décor de la troisième section de cette compilation qui fut
complété à Paris, à l’extrême fin du XIVe siècle : la représentation de saint François (f. 248) en tête de
cette dernière partie a en effet été reconnue par F. Avril comme étant de la main du “Maître du Policratique
de Charles V” dans la phase tardive de sa carrière. Le codex lui-même a donc connu l’exil, ultramontain cette
fois, pour des raisons que l’on aimerait éclaircir : mais les armoiries (f.1) et l’ex-libris (f.323v) du
commanditaire italien ont été irrémédiablement effacés avant que le volume ne refranchisse les Alpes … et
ne revienne définitivement en France, au sein du lot de manuscrits achetés pour la Bibliothèque royale par
le successeur de Nicolas Clément, l’abbé Louis de Targny, lors de son séjour à Rome en 1715 (cf. liste dans
Paris, BnF, ms. naf.5806). Nous nous interrogerons donc tant sur le contenu que sur le nomadisme
historique de ce manuscrit des Pères, afin de mieux cerner comment les livres, en véritables compagnons de
route, ont accompagné au plus près les pérégrinations intellectuelles et spirituelles des hommes entre
France et Italie, au XIVe siècle et au-delà.
Alessandra Malquori (Università di Firenze)
L’immagine dell’anacoreta tra mistica e predicazione. Pittura in Toscana nella prima metà del Trecento
La vita eremitica, come scelta individuale di penitenza e di esilio volontario, rappresentò a più riprese per
tutto il Trecento un diffuso fenomeno storicamente documentabile. Ad esempio, in Toscana le donne (dette
cellatae o incarceratae) sceglievano la reclusione in celle poste subito fuori la città, gli uomini invece (detti
remiti o romiti) abbandonavano la comunità civile per luoghi inospitali e rovine dove vivevano spesso come
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Images and Words in Exile
Session 2 – Self-exclusion from the Civitas
bestie selvatiche, per far propria, con l’isolamento e il ripudio dei beni, quella perfezione narrata negli
scritti sui Padri del deserto e ancor di più esemplata nella figura di Elia, del Battista e del Cristo stesso.
Alcuni di loro, dopo la morte, erano oggetto di devozione e la commissione di piccoli dipinti voluti dai
fedeli ne tramandavano l’effige mantenendo vitale il culto.
Tuttavia, in questa sede mi sembra più opportuno evidenziare i termini e le modalità con cui, alla metà
Trecento, si volle raffigurare una scelta di vita estrema e a un tempo antitetica rispetto alla costituzione
stessa della civitas che in quei decenni si andava definendo. Analizzando le immagini più significative, esposte
in maniera ufficiale nei luoghi pubblici, vorrei mostrare come l’anacoresi sia stata presentata in ambito
cittadino e quali furono le intenzioni della committenza e, non ultimo, il messaggio sotteso.
Il grande affresco pisano con le Storie degli anacoreti, affrescato entro il 1342, è senza dubbio l’esempio più
significativo e illustre in tal senso. A differenza di altri dipinti con lo stesso soggetto, di esso è nota la
collocazione, il contesto di raffigurazioni che lo completava e, attraverso la relazione con i domenicani
committenti del ciclo, la contingenza con l’opera di traduzione dal latino in volgare delle Vitae Patrum,
promossa e condotta da Domenico Cavalca pochi anni prima nel convento di Santa Caterina. Il parallelo tra
il testo scritto delle Vitae Patrum e la sua esposizione per immagini è dunque decisiva e apre la strada a
ulteriori considerazioni. Prima di tutte la novità del tema e dell’invenzione compositiva. Seconda,
l’utilizzazione di modelli visivi per exempla, esattamente in parallelo con la letteratura edificante utilizzata
dai domenicani per la predicazione. Terza, l’impiego dell’arte della memoria: le similitudini cui ricorreva il
predicatore durante il sermone erano fissate nella sua memoria attraverso immagini, ma erano immagini
non-visibili perché artificio della mente. Con l’affresco degli Anacoreti i domenicani rivoluzionano gli
strumenti di propaganda a loro disposizione in modo più persuasivo e sofisticato. Quelle immagini mentali
che il predicatore utilizzava per ricordare e che evocava verbalmente nel sermone, a Pisa, vennero rese
visibili con le scene che compongono e strutturano il grande l’affresco e che indicano esempi di virtù. Così
quei concetti – attraverso l’immaginario – suggestionavano l’osservatore guidando la sua riflessione.
In tal senso si fa evidente la dicotomia tra media, cioè tra gli affreschi pubblici, grandiosi ed estesi come il
ciclo pisano e le tavole di piccolo formato, tipiche per queste raffigurazioni. Ne è esempio il Trittico del
1285, firmato dal pittore fiorentino Grifo di Tancredi, con le Esequie di un santo eremita, adesso ad
Edimburgo. Questa singolare e preziosissima raffigurazione – presumibilmente di ambito domenicano e
influenzata dai contatti di quest’ordine col mondo bizantino – rivela il suo carattere prettamente simbolico,
evocativo di temi testamentari legati alla solitudine perfetta e, in linea con l’Ars mnemonica utilizzata dai
domenicani, dichiara la sua funzione di strumento privato per la meditazione e la contemplazione.
Al di là dunque delle raffigurazioni di carattere narrativo con episodi di un singolo romito vissuto sul
territorio, sul piano della cultura patrocinata dai domenicani, i primi a promuovere “in grande” un
manifesto programmatico dell’anacoresi, si coglie il precipuo interesse nel divulgare l’immagine esemplare
di alcune virtù e di pratiche “utili all’anima” sia per la contemplazione individuale e privata, sia, attraverso
esempi morali edificanti, per l’intera città.
Luca Marcozzi (Università di Roma Tre)
Retorica dell’esilio nella poesia lirica di Petrarca
Sull’immagine delle muse esuli, sbandite dal mondo contemporaneo, si basa l’intera poetica classicista di
Petrarca. Essa appare in uno dei punti più intensi dell’Africa (la profezia di Ennio che lo investe della
restaurazione dell’antichità: Ille diu profugas revocabit carmine Musas, IX 229), e su di essa Petrarca fonda, alla
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Images and Words in Exile
Session 2 – Self-exclusion from the Civitas
fine degli anni Trenta, l’illusione umanistica di richiamare dall’esilio l’antichità stessa, e di farla rivivere nel
presente.
Il tema dell’esilio è declinato da Petrarca con grande ricchezza poetica e retorica, in quasi tutte le sue opere.
Il desiderio di avere una patria in Roma è espresso nella Fam. XV 8 del 1532 (ma nell’antica Roma, non nel
moderno paesaggio di rovine che ha potuto contemplare); la senile a Urbano V che torna dall’esilio sulle
sponde del Rodano descrive Avignone (non senza adesione al vero, se non altro per esperienza personale)
come reorum atque exilio damnatorum sedes (Sen., IX 1); nella Posteritati Petrarca afferma di essere stato esule
anzitutto dalla propria epoca che semper [sibi] displicuit. Le articolazioni morali del tema prevalgono su quelle
civili: nel De remediis (II 67, il dialogo de exilio tra Dolor e ratio), l’ingiusto esilio è inizialmente rappresentato
in modo quasi realistico, vicino alla concreta condizione così comune all’epoca; come rimedio contro il
dolore che esso provoca è proposto un elenco di illustri esuli dell’antichità, che l’esilio rese più onesti, forti
e famosi; sulla condizione particolare di cives prevale però quella universale di coloro i quali non furono
meno grandi in esilio che in patria (patria che negli esempi storici allegati è sempre Roma). Il concetto di
patria tende dunque a diradarsi nella consolatio morale: “un esilio breve ti renderà alla patria, uno lungo te ne
darà un’altra, da cui saranno esuli coloro i quali vollero esiliarti”. Ragionamento, questo, in cui appare un
universalismo del tutto nuovo e assai diverso da quello della generazione precedente, costretta a misurarsi
con una dimensione municipale che la Ratio petrarchesca trova angusta: valde enim angustus est animus, qui sic
ad unum terre angulum se applicat, ut, quicquid extra sit, exilium putet. Il concetto di patria deve necessariamente
dissolversi per il filosofo morale, che, seguendo le parole di San Paolo, dichiara di non avere alcuna patria in
terra (Non habemus hic manentem civitatem). Dal punto di vista filosofico, Petrarca sviluppa la metafora
platonica dell’esilio dell’anima sulla terra (cfr. Macrobio, Commentarii, I 21: animorum origo caelestis est sed
lege temporalis hospitalitatis hic exulat), che esprime un concetto assai diverso da quello patristico secondo cui
l’anima è esule dal corpo dopo la morte (cfr. Tertulliano, De resurrectione carnis, PL II 850); la metafora
dell’esilio dell’anima sulla terra, che in Macrobio esprimeva un concetto fisico e filosofico, era poi transitata
alla riflessione morale (cfr. ad es. Innocenzo III, De Miseria condicionis humane, secondo cui l’anima Sustinet
seculum tanquam exilium), per trovare infine posto nella lirica petrarchesca, in cui sono le articolazioni di
carattere morale del tema a risultare più evidenti, e in cui la condizione dell’esule è assunta come paradigma
della vita umana.
Quanto alle strategie retoriche con le quali il tema è trattato nella lirica, Petrarca le riprende dall’elegia
latina, in cui il motivo poetico dell’esilio è largamente presente, rimaneggiandole al fine di esaltarne
l’aspetto morale. Le sue principali fonti letterarie sono l’Ovidio pontico e il Cicerone esule. Petrarca si
sente esiliato tra i barbari contemporanei come Ovidio tra i Daci, ed è a questo poeta che più spesso fa
riferimento. Nello sviluppo poetico del tema dell’esilio appaiono però significativi ribaltamenti di
prospettiva: su uno dei topoi fondativi dell’elegia dell’esule, quello dell’esilio come morte fisica o poetica
(Ov. Pont., 2.3.42: instar et hanc vitam mortis habere puta; Tr., 1.3, 1.8, 3.9, 3.2 ecc.), e viceversa della
morte come aeternum exilium, si innesta, in Petrarca, il motivo platonico-cristiano della vera vita dell’anima
contrapposta alla vita apparente (ma vera morte) del corpo, e della vita come esilio dell’anima sulla terra
(Rvf 285, 4-5: grave exilio contro l’eterno alto ricetto; Rvf 37, 37: duro exilio; Rvf 80, 32: vita-exilio ). Alle
elegie dell’esilio è collegato il tema della navigatio e delle tempeste che impediscono la scrittura (cfr. Ov.
Pont., 1.11), entrambi largamente presenti nei Fragmenta petrarcheschi. Un altro tratto retorico (in comune
tra Ovidio e Cicerone) è la viva raffigurazione della patria, l’immagine mentale di Roma che appare
continuamente ante oculos o negli oculi mentis (es.: Ov. Tr. 3.4b): in Petrarca ciò avviene soprattutto in
relazione alle antichità di Roma, dalla cui grandezza l’umanista si sente – e si descrive – esule, assieme alla
contemporaneità (nella già citata Fam., XV 8).
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Images and Words in Exile
Session 2 – Self-exclusion from the Civitas
Le strategie retoriche utilizzate da Petrarca sono spesso convergenti con quelle delle sue fonti, e vengono
reimpiegate anche nelle composizioni più ardue e investite di impegno politico e civile, o nel discorso
letterario. Così, nella lunga compagine retorica della senile a Urbano V, si ritroverà quell’identità tra
l’esilio da Roma e la morte (Cum gustare ceperint quid est Roma […] siquis homo vel casus eos cogeret unde tam
tristes modo veniunt reverti, crederent vel ad mortem vel ad miserum exilium se compelli) che aveva contraddistinto le
elegie dell’esilio di Ovidio, e che qualificano ancora una volta Roma, in quanto simbolo dell’antichità, come
unica universale patria dalla quale Petrarca temeva che un esilio potesse realmente essere decretato.
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Seminar
Works in Progress on Exile
Chair: Laura Fenelli (KHI)
Anna Fontes Baratto (Université Sorbonne Nouvelle - Paris III)
Présentation d’un projet de recherche du CERLIM sur l’exil dans la littérature italienne médiévale
Alessandra Malquori (Università di Firenze)
Atlante dei temi figurativi della Tebaide
Friday 8 April, 09:00
Firenze, KHI (Palazzo Grifoni)
Visit I
Un’altra Santa Croce:
Una visita selettiva e una lettura in filigrana dei primi programmi decorativi
Andrea De Marchi (Università degli studi di Firenze)
La basilica francescana di Santa Croce si presenta come un testo stratificato, dove alcuni interventi, in
particolare la normalizzazione vasariana, hanno imposto un filtro decisivo. La visita mirerà a leggere in
maniera interrelata le decorazioni e gli allestimenti della prima metà del Trecento, rievocando tutto quanto
è perduto e possiamo però ricostruire in maniera indiziaria ed attirando l’attenzione su frammenti in
apparenza poco significativi, ma che assumono senso in un tentativo di visione d’insieme. Tale sinossi
cercherà di rintracciare dei fili conduttori nel dispiegamento dei programmi iconografici, indicativi di una
forte progettualità, voluta dall’ordine francescano ed attuata con la probabile soprintendenza di Giotto.
Alcuni dei punti che verranno affrontati: omogeneità dei programmi decorativi delle cappelle del transetto;
programma della cappella Velluti-Zati, degli angeli, in relazione alla committenza di monna Gemma Velluti
verso il 1321; interpretazione del palinsesto nella cappella Pulci-Berardi, dei santi martiri; dispute sulla
cronologia della tomba e delle pitture nella cappella Bardi di Mangona, dei santi confessori; interpretazione
della scena di Giudizio nell’avello maschile Bardi di Mangona; tema degli Annunci nella cappella Baroncelli;
assetto originale del polittico Baroncelli di Giotto; ricostruzione e funzione della Disputa di Cristo fra i
dottori sopra l’accesso al convento e prospetto esterno della cappella Baroncelli; posizione e ricostruzione
del tramezzo; vestigia di un ciclo giottesco nell’area del coro, situazione originale delle due lunette di
Taddeo Gaddi e di Maso di Banco con il Compianto su cristo deposto e con l’Incoronazione della Vergine;
sistema di pitture murali nella zona dei laici al tempo della facciata provvisoria fra terza e quarta campata;
primo assetto della sacrestia con funzione pure di sala capitolare.
Si potrà accedere alle cappelle Pulci Berardi, Bardi di Mangona e Bardi di Vernio, normalmente chiuse per
rispetto al culto.
Seguirà una visita alla chiesa inferiore (“sotto le volte”) che aveva funzione funeraria e che è stata stravolta da
un intervento durante il ventennio fascista, quando fu trasformata in sacrario dei martiri della rivoluzione
fascista.
Friday 8 April, 11:00
Firenze, Santa Croce
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Session 3
Displaced persons
Chair: Elisa Brilli (KHI)
Pancharus sings on his way to exile. Richard de Fournival, Je n’ai, quoi ke nuls en die.
Dijon, Bibliothèque Municipale, ms. 526, f. 9v
Saturday 9 April, 10:30
Avignon, Musée du Petit Palais
Images and Words in Exile
Session 3 – Displaced persons
Giuliano Milani (Università di Roma “La Sapienza”)
Appunti per una rilettura del bando di Dante
Il bando da Firenze di Dante Alighieri (1302) ha avuto conseguenze inaudite sulla storia della cultura
occidentale: trasfigurato in auto-esilio è divenuto per il poeta che lo aveva subito una delle condizioni
fondamentali per l’ideazione del viaggio alla base della Commedia. Questa pesante caratterizzazione non
solo ne ha a lungo impedito una valutazione critica e il pieno inserimento nel contesto dell’epoca in cui fu
emanato, ma lo ha fatto diventare esempio tipico e illustrazione di ogni esclusione politica avvenuta
nell’Italia comunale. Condizionati dal giudizio che ne diede una delle sue vittime gli studiosi hanno dunque
qualificato il bando del 1302 e più in generale i bandi comunali precedenti e successivi come misure
totalmente arbitrarie.
Una serie di studi sistematici sul bando in età comunale (come quelli fatti da chi scrive da Ricciardelli, da
Mazzoni) e di edizioni recenti (Campanelli) consentono oggi di riaprire il dossier del bando di Dante, di
ricostruire la vicenda giudiziaria negli anni successivi, di verificarne l’eccezionalità nel contesto della storia
fiorentina anteriore e di quella dell’Italia comunale dell’epoca.
Diviene dunque possibile una rilettura dei provvedimenti di esclusione attuati contro Dante che permette di
rispondere ad alcune questioni che anche le più recenti biografie di Dante non risolvono: Di cosa è accusato?
È colpevole? A quale pena viene condannato? Si tratta di una condanna giustificata? Si tratta di una condanna
di tipo nuovo?
La lettura dei primi provvedimenti di bando giunti sino a noi mostra in modo evidente che Dante è accusato
di malversazione nell’esercizio delle sue funzioni di governo (non di appartenenza alla fazione bianca) e/o di
aver usato la propria posizione dominante per osteggiare Bonifacio VIII, l’arrivo di Carlo di Valois, per
provocare divisioni nella città di Pistoia favorendo una delle due parti a danno dell’altra.
Benché non siamo in grado di provare, oggi, la sua colpevolezza o la sua innocenza, la lettura della Cronaca
di Compagni e altre fonti dimostrano come tale accusa potesse costituire un arma efficace per colpire chi
aveva cercato di promuovere gli obiettivi politici propri o del proprio gruppo di riferimento nell’esercizio
di una importante carica di governo. Essa infatti era stata utilizzata nel corso degli anni precedenti dalla
parte dei bianchi a cui Dante apparteneva contro quella dei Neri.
Dalla stessa lettura emerge con forza il fatto che Dante fu condannato alla restituzione del maltolto, al
pagamento di cinque mila lire nonché al confino per due anni, alla perpetua esclusione dai pubblici uffici in
quanto falsario e barattiere, poi, in una sentenza successiva, per non essersi presentato, al bando, con la
precisazione che se fosse stato catturato sarebbe stato giustiziato. Egli dunque non fu mai condannato
all’“esilio” nel senso di “allontanamento” così come tale pena esisteva nel mondo classico o sarebbe riapparsa
nell’Europa moderna.
Il provvedimento che subì Dante, il bando, costituiva da più di un secolo lo strumento usato dai regimi
comunali per colpire i propri nemici interni. Esso costituiva la solenne sanzione di un’esclusione dalla
comunità cittadina, analoga in campo civile a ciò che la scomunica significava in ambito religioso. Come la
scomunica, d’altra parte aveva una caratteristica fondamentale nella natura “medicinale” e non “mortale”,
cioè nella possibilità di essere revocato in qualsiasi momento mediante una decisione del comune che lo
aveva emanato. Da questo punto di vista, il provvedimento subìto da Dante non desta alcuna sorpresa e può
essere considerato un provvedimento tradizionale
Il bando di Dante, tuttavia, come altri bandi emanati dai regimi comunali di quei primi anni del Trecento
testimonia l’apparizione di alcuni elementi nuovi: la presenza della minaccia di una condanna a morte, lo
stretto aggancio a un reato previsto dall’ordinamento come la baratteria (nel secolo precedente si veniva più
spesso banditi semplicemente per essere stati identificati come nemici), una giustificazione retorica e
ideologica che rinvia ai valori del “popolo” affermati nei decenni appena precedenti.
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Images and Words in Exile
Session 3 – Displaced persons
È in questi elementi nuovi che ritengo si debba cercare ciò che maggiormente dovette colpire
l’immaginazione di Dante, condizionando, da un lato il comportamento che egli tenne negli anni successivi
di fronte alle possibilità che cambiavano a seconda delle contingenze di rientrare a Firenze, dall’altro, più in
generale, la sua valutazione della propria esperienza, destinata a lasciare le tracce preziose che sappiamo.
Dieter Blume (Jena Universität)
Francesco da Barberino. The Experience of Exile and the Allegory of Love
Francesco da Barberino was in exile from Florence from 1304 until 1315 mainly in Padova and Avignon.
During this exile he wrote his most important works of literature. For his personal book of hours he
designed a sort of picture-story, obviously for the use of meditation and devotion, which concern not the
religious salvation, but the overcoming of earthly suffering and sorrow as well as the important role of hope
and virtue – so this series of images answers directly the manifold pressures of exile. But id can use also as a
tool of self-definition and self-affirmation.
In the Documenti d’Amore he developed a complicate analysis of all the virtues under the reign of Amor,
constructed as a series of images, which are described by the Italian verses and the Latin text and
interpreted by the Latin comments. Here he integrates also his own love poems in the manner of the dolce
stile nuovo. The experience of love in the tradition of these poems is very similar to the experience of exile.
The lady is always far away and normally does not speak with the lover. So his desire remains unsolved –
like the desire to turn home again. Exile and love seems to be two different possibilities for articulating and
considering the contradicting world of the self and his disturbing emotions.
The lecture will try to describe and examine the interconnections between images and poetry in the work
of Francesco da Barberino within the cultural context of the regionalism of the Italian city-states and the
internationality of the papal court of Avignon.
Sylvain Piron (École des Hautes Études en Sciences Sociales, Paris)
Les exils de Opicinus de Canistris
Opicino de Canistris a eu un destin relativement commun pour un prêtre séculier guelfe de Pavie dans le
deuxième quart du quatorzième siècle. Exilé un temps à Gênes avec sa famille durant son enfance, il a dû
quitter Pavie, excommunié par son évêque, pour trouver refuge à Avignon à partir de 1328. La rédaction
de quelques opuscules ecclésiologiques dédiés à Jean XXII lui a permis d’obtenir une charge de scribe de la
pénitencerie pontificale. Cette carrière apparemment réussie d’Italien exilé à Avignon se double d’un exil
intérieur qui a laissé un témoignage unique en son genre. Ses célèbres cartes anthropomorphes de la
Méditerranée et son “journal”, récemment édité par Muriel Laharie, sont les traces indéniables de la
psychose dont souffrait Opicino. Déclenchée tardivement, elle est restée assez légère pour lui permettre de
mener une vie sociale. Par l’écriture et le dessin, il a tenté de lutter contre la dissolution de son identité
personnelle. Sa description méticuleuse de la ville de Pavie, réalisée de mémoire plus de deux ans après son
départ, peut également être perçue comme un effort du même ordre. Chargé de rédiger au nom du pape
des lettres d’absolution pour toute la chrétienté latine, il est en même temps tiraillé par les soupçons
d’irrégularité concernant sa pratique sacramentelle – entre une accusation de simonie et l’effet de l’interdit
jeté sur Pavie. Les réflexions du “journal”, qui glissent rapidement dans l’incohérence, portent
fréquemment sur l’opposition entre ses deux états de simple prêtre déchu et exilé et de fonctionnaire
céleste en charge du salut universel du peuple chrétien. La cartographie mystique a été pour Opicino un
puissant moyen de résolution de ces tensions. Elle lui permet d’inscrire simultanément ses luttes spirituelles
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Images and Words in Exile
Session 3 – Displaced persons
dans l’espace de la Chrétienté, dans l’organisation des villes dont il est l’hôte ou le citoyen (Avignon ou
Pavie), et dans son corps propre. Ces étranges, et étrangement belles, projections géographiques et
corporelles peuvent ainsi être abordés comme des expressions pathologiques de thèmes partagés de la
culture du XIVe siècle, particulièrement saisissantes du fait des troubles identitaires qui y sont mis en jeu.
Marina Gagliano (Sorbonne Nouvelle-Paris III)
“Hierosolymitanus exul inter et super flumina Babilonis indignans scripsi”. La polemica antiavignonese di Petrarca e il
modello di Dante exul
In occasione del suo ultimo soggiorno in Provenza (1351-1353), apprestandosi a lasciare dietro di sé
Avignone per trasferirsi definitivamente in Italia, Petrarca si lancia nella redazione di alcuni scritti polemici
volti a denunciare lo stato di corruzione e di degrado in cui giace la curia pontificia: i sonetti 136-138 del
Rerum vulgarium fragmenta – se si accetta la datazione che ne propone M. Santagata – e, certamente, una
prima versione del Liber sine nomine, il cui progetto sarà ampliato e modificato nel corso del soggiorno
milanese presso i Visconti.
Gli eventuali problemi di datazione nulla tolgono alla prossimità di ispirazione di questi scritti che,
all’interno della produzione petrarchesca, si stagliano come un insieme a parte. Se, in effetti, il tema
antiavignonese è sviluppato da Petrarca in altre opere – come in particolare il Bucolicum carmen, diverse
epistole Familiares e Seniles e, al termine della sua vita, l’Invectiva contra eum qui maledixit Italie –, il “modo” da
lui privilegiato nei sonetti 136-138 e nelle epistole Sine nomine conferisce loro una specificità unica, il cui
tratto più visibile è il dispiegamento di una violenza oratoria che fa di Avignone, sede della curia pontificale,
une vera e propria “città infernale”.
L’immagine infernale di Avignone è il punto di partenza del mio studio che, tenendo conto
dell’imprescindibile precedente della Commedia, mira in un primo tempo a sondare l’importanza del
modello dantesco negli scritti presi in esame.
A partire dall’attenzione prestata a un certo numero di spie lessicali presenti nel tre sonetti antiavignonesi –
la cui ideazione sembra precedere la redazione delle epistole sine nomine – lo studio intende mettere in
evidenza le fonti privilegiate da Petrarca, tra le quali spicca in assoluto, e significativamente, la Commedia di
Dante. Petrarca, infatti, non si limita a prendere in prestito al poeta fiorentino alcune immagini – spesso
preesistenti – e alcuni degli argomenti destinati a condannare la corruzione pontificia. Riferendosi a passi
ben precisi del “sacrato poema”, tra i quali un buon numero di quelli in cui Dante delinea progressivamente
la propria fisionomia di poeta-profeta, Petrarca riveste a sua volta i panni di una figura analoga, la cui
autorità si dispiega non solo nei sonetti, ma anche nelle epistole Sine nomine.
In queste ultime, tuttavia, la figura del locutore conosce un’ulteriore evoluzione nella quale il modello
dantesco è ancora attivo almeno in parte. Come il Dante della Commedia, infatti, l’autore delle Sine nomine
lega strettamente il proprio ruolo profetico all’esperienza dell’esilio, pur conferendo alla propria autorappresentazione, e di conseguenza al proprio spazio di comunicazione, delle caratteristiche del tutto
estranee all’exul inmeritus.
Esule all’interno della “città infernale” – e non esiliato da lei, come Dante – oppure ormai libero dalla
schiavitù infernale dopo il suo trasferimento in Italia, il Petrarca delle Sine nomine privilegia una scrittura
epistolare destinata a un ristretto numero di eletti e basata su una strategia della dissimulazione – motivata
da un presunto “pericolo mortale” incombente – che la Prefatio annuncia in modo obliquo e che l’assenza di
un vero e proprio titolo per la raccolta sottolinea ulteriormente.
Qualunque sia l’eventuale fonte di ispirazione di questa figura di “esiliato” dai contorni a volte ambigui, dal
punto di vista dell’enunciazione la strategia della dissimulazione che egli mette in atto dà luogo a una forma
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Images and Words in Exile
Session 3 – Displaced persons
di scrittura ampiamente metaforica e ripartita su due piani – palese l’uno, più segreto l’altro – in cui la
ricerca della “verità” richiede un certo impegno da parte del lettore.
Così, a partire da un confronto costante con l’opera di Dante, da una volontà di emulare, ma anche di
superare l’opera dell’illustre predecessore, Petrarca crea in questi scritti uno spazio di comunicazione
ispirato inizialmente alla figura dell’exul elaborata da Dante nella Commedia, ma che egli si appropria e
reinterpreta a suo modo. Impegnandosi nella sperimentazione di un’originale “scrittura dell’esilio”, Petrarca
prende infatti appoggio sulla lezione di Dante, ma nello stesso tempo fonda una nuova forma di scrittura in
prosa, applicando a essa il principio che lo guida nella creazione poetica e che egli aveva già esposto nella
Collatio laureationis: Eo tamen dulcior fit poesis, quo laboriosius quesita veritas magis atque magis inventa dulcescit.
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Keynote Lecture
Agostino Paravicini Bagliani (Université de Lausanne)
Avignon, une autre Rome?
Saturday April 9, 16:30
Avignon, Musée du Petit Palais
Session 4
Avignon: the Making of a Capital
Chair: Gerhard Wolf (KHI)
Minucchio da Siena,Golden Rose (detail).
Paris, Musée de Cluny
Sunday 10 April, 09:00
Avignon, Musée du Petit Palais
Joëlle Rollo-Koster (University of Rhode Island)
Avignon’s Capitalization and the Legitimation of Transiency
This paper will attempt to show how transiency and mobility became integrated into the language and fabric
of Avignon’s urban life. I will study the many definitions attached to transiency in the record of the
Chamber, up to the 1360s, and then I will gauge the cultural influences of immigration using a few
testaments.
The paper will start with a quick description of the political life of Avignon as it intersected with the
qualification and status of citizen and resident aliens. I will then dwell on several qualifiers found in
contemporary documents to document presumably residents who were not citizens but dwelled in the city.
The terms are numerous: “remain with the court”, (curia romana commorantibus); “inhabitant of Avignon”,
“remaining in Avignon” (habitator Avinionensis or Avinione commorans); “citizen of ..., residing in Avignon”
(civis ... Avinione commorans); “courtiers” (curiales, curiam romanam sequentibus) for the religious and lay
followers of the court, and finally the more general cortisiani for most of the immigrants who entered the
city. The distinction between citizen and “courtiers” hinged on justice. The papal Marshall of Justice
dispensed justice to the courtiers who were not clerical, nor attendants of the house of the pope, cardinals
or camerlingo. The court of The Marshal of Justice had been created in Rome. Its aim was to remove the
“followers of the Roman court”, from the jurisdiction of the many cities the curia visited. Once in Avignon,
the court stood with similar authority, and additional competence: it dealt with the lay agents attached to
one of the curial offices and with immigrants at large.1 Any newcomer to the city obtained the qualifier of
“courtier” (cortisianus/a) when he or she presented the Marshal with the documents or witnesses justifying
his or her motivations to be “in curia”2. The organization of the Marshal’s court, with its specific legal
authority vis à vis the other Avignonese judicial instances, was settled in 1335 and 13373. The Lay citizens of
Avignon depended of Avignon Temporal Court.
All of these distinction became muddled when the papacy bought the city from the Countess of Provence in
1348. It is to note that the records aggregated curiales, curiam romanam sequentes and habitatores Avinionensis to
the more generic cortisiani, cortesiani, cortesani and more rarely civis romane curie. The labels curiales and curiam
romanam sequentes used first in describing religious officers or secular agents of the curia became intertwined
with the cortisiani, that is, anybody who came to live in Avignon after the curia settled within its walls. The
variety of descriptive terms attached to these non-natives, whether curiales, cortisiani, curiam romanam
sequentes or habitatores Avinionensis, indicates that, in fact, no clear distinction separated the ones who served
the curia itself from the rest of the newcomers; they all served the popes and his court in one way or the
other. By enlarging its definition of “courtiers” the papacy was legitimizing the presence of any “transients”
within the city.
After this quite “impersonal” material, my presentation will move to testaments. According to Jacques
Chiffoleau’s La comptabilité de l'au-delà: Les hommes, la mort, la religion dans la région d'Avignon à la fin du moyen
age (1980), immigration dictated Avignon’s social practices: urbanization, migrations, and epidemics had
broken lineage solidarities, and for him most Avignonese were “orphans” unable to return, even in death, to
the land of their ancestors. It remains to check if this was an absolute truth. Did immigrants keep ties with
their homeland, and if so, what kind. Bequests are good indicators of the circulation of goods and feelings. I
will offer examples of immigrants’ post-mortem offerings made to the churches and confraternal
organizations of their home countries.
Guillemain, “Citoyens, juifs et courtisans,” 151.
Piola-Caselli, La costruzione del palazzo dei papi di Avignone, 16 n. 11.
3 Guillemain, La cour pontificale, 435; and Mollat, “Les conflits de juridiction,” 24-15.
1
2
Images and Words in Exile
Session 4 – Avignon: the Making of a Capital
Testaments also point to the various strategies of incorporation in a foreign land. I will discuss the several
cases where testators donated a Gros to the Marshall of the Roman Court. Could it be a fee or a fine that
courtisans had “forgotten” to pay? Why would “paying off” an administrator fit into salvation requirements?
Finally testaments may show signs of a deeper acculturation. Ten women between 1341 and 1395, or close
to 16 percent of my total sample of women’s testaments, asked to be buried dressed with a mendicant
cowl. Now, traditionally priests were buried in their sacerdotal clothes, as were monks. But lay people
were buried naked under a shroud. Searching for this practice rationale, I will canvass various text, like
Gulielmo Durando, Rationale divinorum officiorum (1559), lib. VII, cap. XXXV, § 40-43, p. 454v. and 455
which states: “Debent quoque fideles christiani sepeliri induti sudariis prout provinciales observant, que
sumunt ex evangelio in quo legis de sudario & syndone Christi. Quidam vero cilicio insuuntur ut hac veste
insignia penitentie representent. Nam cinis & cilicium arma sunt penitentium. Nec debent indui vestibus
comunis, prout in Italia fit, & ut quidam dicunt debent habere caligas circa tibias & sotulares in pedibus ut per hoc ipsos
esse paratos ad iudicium representes” [my Italics] and question if this Avignonese practice was a foreign
importation, another consequence of immigration.
Xavier Barral-Altet (Rennes II - Ca' Foscari)
Afficher l’exile à l’extérieur du palais : l’entrée monumentale du palais des Papes d’Avignon
L’entrée monumentale du Palais des Papes d’Avignon affiche une grande sobriété. Le Palais se présente à
l’extérieur comme un château-forteresse, très fermé et protégé. Au dessus de la porte, le blason comme
seule décoration monumentale est un signe fort vers l’extérieur.
A un moment où d’autres commanditaires de châteaux choisissent d’afficher à l’extérieur, au-dessus ou
autour de la porte, de véritables programmes iconographiques, le choix papal à Avignon est certainement le
résultat d’une décision mûrement réfléchie.
Dans cette communication on cherche à situer la façade d’Avignon dans le contexte artistique et surtout
idéologique des entrées des palais-châteaux de la première moitié du XIVe siècle, principalement en France
et en Italie mais sans exclure d’autres réalités européennes. La recherche vise à mieux comprendre les
raisons qui ont porté les princes, les rois et dans ce cas les papes à mettre en scène à l’extérieur de leurs
résidences fortifiées des éléments de leur propre image si différents entre eux ; des messages de propagande
correspondant dans chaque cas à des choix idéologiques précis.
Les papes de l’exile d’Avignon importent d’Italie les meilleurs artistes afin d’enrichir de manière fastueuse
et luxueuse l’intérieur de leur résidence avec des programmes iconographiques au service de leurs idées.
Mais à l’extérieur du palais ils adoptent l’architecture fortifiée de la France méridionale, avec une austérité
du moins apparente qui correspond à des choix de communication et de propagande peu habituels en Italie à
l’époque.
Le décor monumental qui surmonte la porte d’entrée du Palais des Papes d’Avignon connaîtra une belle
fortune contemporaine et une certaine postérité pendant tout le XIVe siècle. On étudie le cas particulier de
l’entrée du Palais du roi Martin l’Humain dans le monastère de Poblet, en Catalogne ; un palais voulu par le
roi pour un exile volontaire et temporaire.
En conclusion on présente une réflexion sur les modèles formels, fonctionnels et idéologiques de l’entrée
du Palais d’Avignon en posant la question des raisons de ce choix d’austérité pour un lieu si fortement
représentatif du pouvoir des papes. L’austérité apparemment presque provinciale de la façade d’Avignon
pourrait correspondre à une volonté d’implantation dans une nouvelle réalité géographique. Mais cette
nouvelle forme d’ostentation monumentale est destinée à connaître une grande fortune.
29
Images and Words in Exile
Session 4 – Avignon: the Making of a Capital
Barbara Bombi (School of History, University of Kent, Canterbury)
The “Avignon Captivity” as Means of Success. The Circle of the Frescobaldi
This paper builds on the seminal work of Giuseppe Billanovich who repeatedly highlighted the legacy of the
intellectual circle gathered around Cardinal Niccolò Albertini da Prato in the dissemination of humanism in
Italy and France in the early fourteenth century. Accordingly, in the first decade of the fourteenth century
Cardinal Albertini’s intellectual circle transferred from Tuscany to Avignon following the move of the papal
curia to the south of France after 1305. In a recent article I have discussed this issue as far as the move of
Francesco Petrarca’s family is concerned and, thanks to unedited documentation discovered in London in
Westminster Archive Muniments, I highlighted the importance of merchants in the cultural transfers
between Italy and France, mainly addressing the Florentine trading company of the Frescobaldi. Indeed,
important figures within the network of professionals working for the Frescobaldi trading company in
Florence from the 1280s onwards are found in the early fourteenth century among those belonging to
Albertini’s humanistic circle in Avignon. We ought to stress that the Frescobaldi were already active in
France from 1289 as well as in England from 1299, when they became money lenders to Edward I, king of
England. In the following decades the Frescobaldi became the main trading company dealing between
Florence, England and France and receiving unique privileges from Edward I, who appointed some
members of the company as royal collectors in Aquitaine and Gascony. Along with the Frescobaldi, a
number of professionals, especially notaries public, moved from Florence to France; they carried on a longterm collaboration with the merchant company, which had already begun in Florence, and they seized new
career opportunities at the papal curia. This massive move to France, which was principally motivated by the
political struggles between the Bianchi and Neri in Florence and the prospect of easy economic gains
abroad, fostered cultural exchanges and created an international environment in Avignon.
My paper particularly focuses on the achievements of some Florentine families that profited from the
“Avignonese exile”, as Petrarca calls it: the Sapiti who managed to build up their fortune in Tuscany, France
and England owing to the career of Andrea Sapiti, representative of the English kings Edward II and Edward
III at the papal curia; the Parenzi dell’Incisa who moved to France along with the Frescobaldi and included
among their members the Italian poet Francesco Petrarca; the Del Bene, who owned a merchant company
in Florence and gained ecclesiastical provisions Scotland, Italy and Germany in the first half of the
fourteenth century; and Simone di Benvenuto d’Arezzo, notary of cardinal Niccolò da Prato and scriptor at
the papal Curia from 1310. In Avignon these professionals had the chance to enhance their personal assets
through their professional activity and to broaden their businesses and cultural interests.
Sources to reconstruct the careers of these individuals are varied. Notarial instruments preserved in
Florence, England and the Archivio Segreto Vaticano, evidence how these individuals were associated with
the Frescobaldi already before the early fourteenth century and were, in some cases, active in France and
England, where they arrived at the service of the trading company in the late thirteenth century. Similarly, a
dossier containing the documentation of the Frescobaldi, which was seized by Edward II’s officials in 1312,
is now preserved in the National Archives in London and sheds new light on the contacts of the trading
company along with the account book, published by Sapori in 1947. Finally, the papal registers provide
important information on this network and emphasize how its members managed to lobby the curia to their
advantage when it came to the provision to benefices in Italy, France, Germany and England.
As it is the case for the intellectual exchanges emphasized in Billanovich’s work, the move to Avignon
represented for these families an important means for internationalization. However, contrary to what
Billanovich argued, the evidence suggests that initially it was thanks to their professional activity and
association with the Frescobaldi rather than with Niccolò Albertini da Prato that these families managed to
survive and enhance their fortune. Their patronage of Cardinal Albertini, which had already begun in
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Images and Words in Exile
Session 4 – Avignon: the Making of a Capital
Florence, became essential after the bankruptcy of the Frescobaldi in 1312, when this cosmopolitan circle of
Florentine notaries, lawyers and scholars flourished in Avignon. Here, these families shared their businesses
as well as their interests in philology and rhetoric; they collected and studied the classics and, as Billanovich
puts it, exported humanistic ideas beyond the Alps.
Etienne Anheim (Université de Versailles-Saint-Quentin-en-Yvelines)
Simone Martini à Avignon: une histoire en négatif
Si les échanges culturels entre la Toscane et Avignon sont nombreux, leurs modalités restent souvent très
incertaines, du fait des lacunes de la documentation. Les historiens de la culture et de l’art en sont donc
réduits à manipuler toujours les mêmes petits fragments de réel, sans aucune garantie qu’ils puissent
s’emboîter les uns dans les autres et constituer une figure cohérente. C’est toute la difficulté posée par le
séjour avignonnais de Simone Martini, sur lequel nous ne savons finalement que très peu de choses :
quelques tableaux, deux sonnets de Pétrarque et de rares documents d’archives, au total moins d’une
dizaine de traces des liens entretenus entre Simone et Avignon. Il est malheureusement fort peu probable
que ce nombre augmente, à moins d’une découverte particulièrement étonnante ; le chercheur est donc
condamné à utiliser de manière intensive les rares éléments qui sont à sa disposition.
Dans cette perspective, la nouveauté d’une analyse ne peut guère venir que d’un réexamen attentif de
toutes les pièces du dossier. C’est ce à quoi nous voudrions procéder dans le cadre de cette communication
à la fois historique et historiographique. En effet, il est impossible de faire l’histoire de Simone à Avignon
sans étudier les reconstructions préalables et leurs grandes variantes (date de l’arrivée, identification de
Napoleone Orsini comme commanditaire du polyptique, nature des liens avec Pétrarque, possibilités
d’allers et retours avec Sienne). Si des hypothèses très convaincantes ont été avancées depuis le XIXe siècle,
donnant au séjour avignonnais de Simone un aspect cohérent, on tentera cependant ici, par choix
méthodologique, de mettre l’accent sur les limites de ces reconstructions, en développant une sorte
d’ « histoire en négatif » d’un personnage dont il faudra aussi être capable d’oublier la qualité de peintre
l’espace d’un instant, pour le traiter comme un simple membre de la communauté siennoise d’Avignon
dont on chercherait à retracer la trajectoire sociale.
L’objectif d’un tel traitement n’est pas de découvrir de nouveaux faits sur Simone Martini à Avignon, mais
plutôt de revoir sous un nouvel angle cette période très importante de la vie et de l’activité de Simone, en
se demandant si ses lacunes et ses incohérences ne sont pas, elles aussi, des données pertinentes pour
l’historien, permettant de mieux resituer la position et le travail de Simone dans le contexte curial.
En effet, la présence de Simone à Avignon, signalée très tôt dans la tradition historiographique et reprise par
Vasari qui la situe au début de sa carrière, a suscité une sorte de mythification de son séjour, dont le poète
Mario Luzi, dans son Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini, se fait l’écho. Mais le travail scientifique luimême a été influencé par cette construction mémorielle et s’est focalisé non seulement sur la discussion
d’éléments positifs de datation mais aussi et surtout sur « l’influence » de Simone sur la peinture
avignonnaise, sur ses liens supposés avec les réflexions théologiques développées à la cour, ou encore sur
son adéquation avec l’esthétique de Pétrarque.
Ces problèmes, au demeurant légitimes, ont parfois conduit à perdre de vue ce que les documents
médiévaux pouvaient apporter à l’historien. L’ « histoire en négatif », dès lors, est aussi celle qui décide
d’essayer de suspendre cette mythologie et poser autrement la question du séjour de Simone.
Dans cette perspective, une fois écartées certaines hypothèses qu’on considérera comme trop fragiles ou
inutiles, on cherchera à mettre l’accent sur deux aspects complémentaires de la présence de Simone à
Avignon. D’une part, on considérera l’univers social de la Curie dans lequel il s’insère, aboutissement
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Images and Words in Exile
Session 4 – Avignon: the Making of a Capital
logique d’une carrière passée au service de commanditaires dont le trait commun est le guelfisme, qui le
met au contact des grands cardinaux italiens mais aussi de Pétrarque dont on pourra reconsidérer la place et
la stratégie culturelle vis-à-vis de Simone. D’autre part, on pourra revenir sur l’activité concrète de Simone
à Avignon, en examinant le fonctionnement de son atelier et la nature quantitative et qualitative de sa
production, pour se demander à quelle pratique du métier de peintre correspond son passage à la cour des
papes.
Au total, on se demandera dans quelle mesure l’épisode avignonnais ne représente pas une « fin de
carrière » couronnée de succès, ouvrant à Simone les portes de la gloire littéraire, mais aussi un moment de
déplacement par rapport à ses pratiques italiennes, au cours duquel le peintre, âgé et célèbre, se détache de
la dimension artisanale de son art pour explorer un nouveau statut social qui est aussi le lieu d’un nouvel
univers esthétique.
Francesca Manzari (Università di Roma “La Sapienza”)
Le opportunità offerte dall’esilio. Elementi multiculturali e libertà di innovazione nella miniatura avignonese del
Trecento
L’insediamento della curia nella cittadina sulle rive del Rodano determina nella miniatura trasformazioni
che difficilmente si sarebbero verificate in centri dalla tradizione stilistica e iconografica più forte. L’afflusso
ad Avignone di miniatori provenienti da aree diverse, non solo della Francia, ma dell’intera Europa, unito
all’esigenza di avviare un’ampia produzione del libro di lusso in una località precedentemente priva di un
mercato librario così consistente, provocano cambiamenti che portano all’elaborazione di un’arte
multiculturale, degna di una capitale.
L’esame dei codici miniati nella prima metà del secolo consente di delineare le dinamiche che portarono
artisti di differente formazione ad armonizzare il proprio linguaggio, all’interno di ampi progetti di
collaborazione, per raggiungere risultati impossibili nelle rispettive aree di provenienza, in cui le aspettative
ben radicate dei committenti rispetto a una data cultura figurativa permettevano di rado di staccarsi dalla
regola stabilita, sia sul piano stilistico che iconografico.
Il vasto pubblico che si stabilisce ad Avignone, non limita le committenze a quelle legate ai pontefici e alla
biblioteca del palazzo, ma, in particolare attraverso quelle di cardinali e vescovi presenti in curia, conferisce
un ampio respiro proprio alla produzione del libro liturgico.
Nel mio lavoro dedicato alla miniatura avignonese, del 2006, ho raccolto oltre 220 manoscritti miniati
riconducibili ad Avignone, ai quali se ne sono aggiunti, negli ultimi anni, solo un piccolo numero. Sulla base
di questo ampio materiale è oggi possibile avere una visione più chiara e definita dei meccanismi di
elaborazione dell’illustrazione del libro nella capitale della curia papale.
Le attività connesse alla realizzazione di codici miniati fioriscono fin dall’inizio del secolo per iniziativa del
primo papa avignonese, Clemente V, che, rivolgendo la sua committenza a botteghe settentrionali e
meridionali, avvia la prassi di riunire personalità di cultura diversa all’interno di uno stesso progetto.
L’accelerazione determinata dalla volontà di Giovanni XXII di rifondare la biblioteca papale, rende
sistematica questa pratica. In tali codici, accanto alle botteghe dei miniatori, troviamo all’opera anche
numerosi calligrafi, che realizzano raffinate iniziali filigranate a penna e inchiostro, destinate a rappresentare
uno degli aspetti di maggior rilievo della miniatura avignonese.
Gli artisti si specializzano nella illustrazione dei libri liturgici, in particolare Pontificali e Messali dagli ampi e
inconsueti programmi miniati. All’ampiezza della produzione non corrisponde sempre un altissimo livello
qualitativo, tuttavia, nell’ambito delle botteghe di cultura prevalentemente francese, spicca l’atelier del Liber
Visionis Ezechielis, che elabora complessi progetti illustrativi didattico-allegorici ma anche innovativi progetti
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Images and Words in Exile
Session 4 – Avignon: the Making of a Capital
ornamentali, nonché il raffinato Maestro dello Speculum Humanae Salvationis, che lavora in più di
un’occasione per committenze legate ai Frati Minori, realizzando cicli illustrativi unici nel panorama
europeo.
Nella prima metà del secolo, di fatto, non si verifica mai una vera fusione tra il linguaggio stilistico italiano e
quello francese, ma è degna di nota la libertà con la quale i due idiomi si trovano affiancati, anche all’interno
della stessa lettera.
È naturale che le opere più straordinarie, come quelle del Maestro del Codice di S. Giorgio, siano frutto di
una personalità geniale, ma è indubbio che proprio nella particolare libertà del contesto avignonese questo
artista abbia potuto raggiungere risultati di totale innovazione nel rapporto immagine-lettera-pagina. Solo
un altro artista italiano di eccezionale livello, il Maestro del Liber Regulae di S. Spirito in Sassia, riesce a
riprendere con puntualità, ma in modo altrettanto innovativo, il suo repertorio, mentre artisti francesi o
catalani più ordinari traducono il suo stile in versioni semplificate, come nel Pontificale di Pierre de SaintMartial.
La stessa varietà di soluzioni, dalle traduzioni più elementari alle interpretazioni più raffinate, si può
ritrovare negli echi della pittura di Matteo Giovannetti; ad esempio, alcuni modelli degli affreschi del
palazzo vengono tradotti in un codice devozionale di qualità modesta, ma di un certo interesse sul piano
iconografico, mentre altri sono ripresi con sottile eleganza nella raffinata traduzione grafica che si osserva in
un meraviglioso ciclo di immagini dell’Apocalisse, rimasto purtroppo incompleto.
La vasta gamma di esperienze elaborate nella sede della curia e della corte papale nell’arco della prima metà
del secolo prosegue nella seconda metà e all’inizio di quello successivo, e la produzione avignonese permane
segnata da linguaggi multiculturali e da grande libertà di invenzione iconografica.
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Images and Words in Exile
Session 4 – Avignon: the Making of a Capital
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Session 5
Exchanging Glances
Chair: Serena Romano (Université de Lausanne)
Roma vidua et sola. Fazio degli Uberti, Il Dittamondo
Paris, Bibl. Nationale de France, Italien 81, f. 18
Sunday 10 April, 14:30
Avignon, Musée du Petit Palais
Images and Words in Exile
Session 5 – Exchanging Glances
Maria Alessandra Bilotta (INHA)
Avignon comme Bologne? Remarques sur le rôle d’Avignon dans la production des manuscrits juridiques
Nel Midi occitano e provenzale le università, spesso specializzate nell’insegnamento del diritto, in
particolare del diritto canonico, hanno svolto certamente, nel XIII e nel XIV secolo, un ruolo rilevante
nell’incremento della produzione e della decorazione di manoscritti giuridici e così pure della loro
circolazione e diffusione: almeno a partire dall’inizio del XIV secolo il Midi dispone infatti di una rete assai
fitta di centri universitari: Montpellier, Tolosa, Avignone, Cahors.
Nel quadro degli studi dedicati alla miniatura avignonese della prima metà del XIV secolo la produzione
miniata di manoscritti giuridici è rimasto un aspetto ancora piuttosto trascurato.
Nella prima metà del XIV secolo la presenza ad Avignone di una istituzione universitaria, insieme con la
presenza della sede papale, con il suo studium Curiae e i suoi tribunali nei quali operavano numerosi uomini
di legge, civilisti (come, ad esempio, Oldrado da Ponte, un padovano che insegnò forse a Siena prima di
giungere ad Avignone, negli anni 1320–1330, dove il papa gli conferì una carica di avvocato concistoriale) e
canonisti (erano canonisti la maggior parte dei prelati attirati dalla curia: per esempio Jean Allarmet, che
divenne cardinale di Brogny e fondò alla fine della sua vita il collegio d’Annecy per accogliere ad Avignone
gli studenti del suo paese natale), deve aver verosimilmente contribuito ad un accrescimento della
produzione e del commercio di manoscritti giuridici e così pure all’arrivo nella città di studenti stranieri e di
codici giuridici trascritti in altri luoghi, in particolare a Bologna, sede, come è noto, di una prestigiosa
università specializzata nell’insegnamento del diritto.
In questo intervento saranno presi in esame alcuni esemplari giuridici che possono fondatamente ritenersi
illustrati e decorati nella città sul Rodano nella prima metà del XIV secolo; tale ricerca permette di
individuare un primo nucleo della miniatura giuridica nel contesto avignonese e di cominciare così a chiarire
il ruolo svolto nella prima metà del XIV secolo dalla città nell’ambito della produzione e della circolazione
di manoscritti giuridici miniati tra Europa continentale e mediterranea.
Quanto è emerso dall’analisi dei manoscritti che verranno presi in esame costituisce aggiunge un nuovo
tassello alla nostra conoscenza della miniatura avignonese della prima metà del Trecento, i manoscritti
giuridici qui analizzati e studiati contribuiscono anche a delineare per la prima volta il quadro di una
produzione miniata avignonese di argomento giuridico, ancora scarsamente esaminata. I codici giuridici
ricondotti ad Avignone sembrano attestare, infatti, nella prima metà del XIV secolo, una circolazione nella
città provenzale di libri giuridici originari di altre aree geografiche, in particolare bolognesi, nei quali si
innestano interventi pittorici condotti da maestranze cittadine. Ciò mostra anche bene come Avignone fosse
divenuto un centro di produzione miniata le cui botteghe erano in grado di rispondere alle diverse richieste,
un centro capace di fornire una vasta gamma di esemplari illustrati e decorati di alta qualità: lussuosi
manoscritti liturgici, testi di carattere didattico-devozionale, libri di argomento giuridico.
Gli esemplari miniati qui riuniti sembrano inoltre essere indici concreti di un fenomeno di trasporto di
codici giuridici bolognesi nella città provenzale, fenomeno già documentato dalle fonti e messo in atto, in
buona parte, dalle compagnie mercantili italiane. Lo stabilirsi dei papi nella città provenzale e il ricorso assai
largo che essi fecero a uomini di legge, la conseguente presenza nella città di uno Studium curiae insieme con
quella di uno Studium generale sono tra le cause di questo fenomeno. Ancora tali esemplari ci permettono di
farci un’idea, sebbene ancora parziale, della locale produzione di libri giuridici, verosimilmente confezionati
anche per l’Università. I caratteri stilistici di questi manoscritti sono apparsi perfettamente consonanti con
quelli della restante produzione miniata cittadina; una produzione che si è rivelata vivace e connotata da
grande originalità e da una circolazione di componenti stilistiche che danno origine ad una combinazione
insolita, a volte eclettica; una produzione sovente contraddistinta dalla compresenza, nello stesso
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Images and Words in Exile
Session 5 – Exchanging Glances
manoscritto e anche nella stessa pagina di artisti di cultura e di origine molto diversa i quali si affiancano
nella decorazione e nell’illustrazione dei singoli esemplari. I miniatori avignonesi selezionano dunque, come
è stato più volte sottolineato, proposte e invenzioni, stilistiche e iconografiche, che giungono dalle diverse
parti d’Europa e ne trattengono alcune rielaborandole e portandole, in alcuni casi, ad eccezionali livelli
qualitativi. Che questo processo di elaborazione si sia svolto anche grazie ai viaggi di possessori, di
committenti e di miniatori e ancora attraverso una fitta rete di nessi, di tramiti, di mediazioni collegati
anche alla circolazione dei manoscritti giuridici è un fatto che questo studio sembra ulteriormente
confermare.
Claudia Bolgia (University of Edimbourg)
Images in the City: Presence, Absence and “Exile” in Rome in the first half of the 14th century
This paper concentrates on the visual response of the City of Rome to the self-imposed absence of the
papacy in Avignon (1305–1378). Commissions from different types of patrons (ranging from long-distance
commissions by the popes themselves to those emanating from civic groups and individuals) serve to
identify some distinctive characteristics of the art produced during this period, and highlight the impact of
this new visual culture which transformed the sacred and civic space of the City. My particular focus will be
on concepts of presence, absence, and exile over a fifty-year period down to 1352.
Utilizing material from my current project on The “Long” Trecento: Rome without the Popes (c. 1305-1420), I
explore the nature of the transformation of the City, and its relationship with papal Avignon. Special
attention will be given to the actual setting and physical context of newly commissioned works of art, and to
changes in the framing and display of pre-existing ones.
The major papal commission of the period was the lost mosaic of the façade of S. Paolo fuori le mura, a
creation of pope John XXII (1325), documented – inter alia – by a drawing at the National Gallery of
Scotland.
In 1327, an image of St. Michael trampling on a dragon was engraved on the city walls of Rome, near Porta
S. Sebastiano, accompanied by an inscription commemorating the victory of the Roman people over “foreign
people” under the leadership of Jacopo Ponziani, capus regionis (head of the district) on the feast day of St
Michael.
Soon afterwards unconventional, often visionary, images made their appearance in various districts of Rome,
generating new toponyms and becoming the guardians and protectors of the various contrade.
Some images are even recorded as being actively involved in the city life, as in the case of the marble statue
of St. Michael on top of the Mausoleum of Hadrian, which bowed in recognition of the Aracoeli icon when
she was carried in procession to end the plague of 1348.
Confraternity insignia begun to mark the exterior of hospitals, hospices, chapels, and property holdings. The
marble portal of the Lateran Hospital combines the insignia of the Confraternity of the Saviour at Sancta
Sanctorum with the names of the notaries Francesco Vecchi and Francesco Rosani, guardians of the
Confraternity and patrons of the work. On the other hand, the symbol of the confraternity, a candlestick
with a burning candle, begun to be engraved on all tomb monuments and slabs of those who had made a
bequest in order that their anniversary Mass be celebrated by the confraternity.
Painted or carved coats of arms marked the facades of palaces, towers, private chapels, and family holdings.
Cola di Rienzo famously ordered the removal and destruction of all the tyrants’ coats of arms painted in
Roman buildings, chief amongst them those of the Orsini, the Savelli and the Colonna.
Famously, Cola himself had political allegories displayed on the walls of the Senatorial Palace (1344) and S.
Angelo in Pescheria (1346), both located in prominent positions, overlooking populated market areas of
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Images and Words in Exile
Session 5 – Exchanging Glances
Rome.
Indeed family stemmi also multiplied inside churches and religious buildings (the great aristocratic families
being gradually outnumbered by the new patriciate).
The staircase of S. Maria in Aracoeli, built as a thanksgiving to the Madonna Advocata for having ended the
plague of 1348, displayed ancient sarcophagi on its side winds.
From these and other examples which will be discussed at greater length, two major strands begin to
emerge: one is the migration of images out of churches, and their appropriation of facades, streets, and
“public” areas, in other words their appropriation of the City. Is this ‘exile’ of images (especially of “religious”
images) from their traditional location to be associated with the papal absence from the city?
The second strand to emerge is that concerning the “privatization” of many churches, that is the increasingly
important role played by lay patrons in artistic and architectural commissions within churches, which
manifested itself through portraits of lay donors, prominent display of family arms and inscriptions
recording the donors’ contribution. This phenomenon will spread even more in the second half of the
century, as attested by the “private” restoration of the Lateran.
A discussion of this “new” presence in connection with the absence of the Curia aims at deepening our
understanding of changes in medieval Rome during (and as a consequence of) the Avignon period, and to a
reappraisal of the dynamics of interaction between Rome and Avignon in the first half of the fourteenth
century.
Theresa Holler (KHI)
L’Aldilà della Cappella Strozzi. I domenicani, l’esilio di Dante e il ritorno dell’Inferno
Centro della relazione sono gli affreschi della Cappella Strozzi di Mantova nella chiesa domenicana di Santa
Maria Novella a Firenze, ciclo datato agli anni ‘50 del Trecento e attribuito a Nardo di Cione. Su queste
pareti il grande tema dell’esilio è presente in modi diversi che devono essere analizzati secondo differenti
livelli di lettura. Il concetto dell’esilio è già implicito nel soggetto della cappella: l’aldilà, un luogo esistente
parallelamente al mondo in cui si vive, però inaccessibile prima della morte. La scelta di rappresentare un
Giudizio Universale sulla parete retrostante l’altare, il Paradiso sulla parete sud e l’Inferno sul lato antistante è
inconsueta per una cappella privata, ma visualizza con grande effetto il concentrarsi della famiglia
committente sull’aldilà nell’ “al di qua”.
Per “localizzare” l’Inferno ci si era ispirati a Dante, il più famoso esiliato della città, eppure nel capitolo
provinciale che si svolse a Firenze nel 1335 era stato proibito ai domenicani sia di possedere sia di studiare le
sue opere in volgare (Prohibemus districte fratribus universis iunioribus et antiquis quatenus poeticos libros sive libellos
per illum qui Dante nominatur in vulgari compositos nec tenere vel in eis studere audeant). Quest’editto significa
quindi un “esilio mentale”, ma bisogna dunque chiedersi se il “ritorno visivo” di Dante nella chiesa
domenicana sia da equipararsi a una riabilitazione dello scrittore solo 20 anni dopo. Per dare una risposta a
questa domanda mi concentrerò nella mia analisi sul modus dell’inclusione della Commedia nel programma
teologico della cappella, prendendo in considerazione tre aspetti.
1. La relazione fra immagine e testo: l’Inferno visivo dell’affresco viene messo a confronto con il testo
poetico, esaminando le strategie sia compositive sia iconografiche impiegate nell’immagine per adeguare
Dante alla teoria domenicana. A livello compositivo è per esempio notevole che la parete sia divisa in sette
registri, un numero che richiama quello dei vizi capitali, mentre l’Inferno di Dante è composto da nove
cerchi. Tutti i cerchi e i gironi sono presenti nell’affresco. Però l’unico cerchio che salta all’occhio è quello
in cui sono puniti gli eretici: rosso fuoco, si estende su tutta la parete e la divide in una parte superiore e una
inferiore,. Questa divisone rispetta la gerarchia del poema in cui il sesto cerchio è il primo della parte
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Images and Words in Exile
Session 5 – Exchanging Glances
inferiore dell’Inferno, ma l’affresco, tramite il cambiamento nella composizione e il colore che attira lo
sguardo, accentua allo stesso tempo una delle missioni principali dell’ordine, cioè la lotta contro gli eretici.
Seguendo il poema dantesco, nella Cappella Strozzi vengono punite anche le autorità ecclesiastiche, ma solo
laddove la critica di Dante si accorda con quella dell’ordine. I peccatori del quarto cerchio, gli avari e
prodighi, sono composti esclusivamente di cardinali, arcivescovi e monaci – ciascuno ben distinguibile
grazie al proprio cappello. Sfruttando il testo letterario l’affresco visualizza così la critica domenicana al
clero e, allo stesso tempo, allude all’obbligo di povertà dell’ordine.
2. La relazione fra immagine e immagine: l’affresco dell’Inferno sarà confrontato con quello del Paradiso.
Quest’ultimo è su tutti i livelli l’antitesi dell’altro: l’asse principale della composizione è verticale, e non
orizzontale; invece di mostrare corpi in movimento, che nella loro concezione lasciano trasparire modelli
antichi, ogni gerarchia dei santi e angeli è definita dall’isocephalia. Il luogo non viene concretizzato da spazi
diversi, ogni riga di figure definisce per sé una gerarchia. Se l’Inferno della Cappella Strozzi riflette il testo
dantesco, nel Paradiso si manifestano invece discussioni teologiche sull’aldilà che nel periodo avignonese
erano di grande attualità. La questione del giudizio particolare e universale deve essere problematizzata,
anche considerando il fatto che si tratta di una cappella privata, dove sono sepolti tre membri della famiglia
Strozzi. 3. La disposizione architettonica degli affreschi: ogni parete non rappresenta solo uno spazio
diverso, ma anche concetti diversi che si basano su una diversa tipologia di testi. L’inconsueta collocazione
del soggetto su tre pareti e la contrapposizione di Paradiso e Inferno potrebbe essere interpretata come una
dichiarazione dei domenicani: la teologia è la “vera via” che porta al Paradiso, la poesia quella “falsa” che
condanna all’Inferno.
Partendo dall’analisi di questi tre punti e sviluppando in particolare le ultime considerazioni è forse possibile
dare una risposta circa questione della presunta riabilitazione di Dante in Santa Maria Novella. Quanto
argomentato invita infatti a concludere che in realtà Dante viene contemporaneamente incluso ed escluso
dal ciclo affrescato della cappella Strozzi.
Francesco Pasquale (IUAV Università di Venezia)
Napoli traslata: Roberto d’Angiò e la sua corte ad Avignone
Esistono alcuni aspetti ancora opachi nella narrazione dei centri di potere del Trecento europeo, che
possono essere meglio indagati servendosi proprio degli strumenti interpretativi che derivano dalla
possibilità d’uso di una prospettiva “esterna”.
Come dislocate al di fuori dal proprio spazio fisico, infatti, Napoli – la capitale del Regno angioino nella
penisola – e Roma – la città dei papi che sopportava inoltre il peso di un passato assai più antico – dovettero
coesistere entrambe, per immagini, tra il secondo e il terzo decennio del secolo, in un nuovo foyer che
conobbe una vita relativamente breve, ma che consentì di confermare altrove e contemporaneamente sia il
potere papale che il prestigio regale.
La storiografia del Regno di Napoli annovera gli anni della permanenza avignonese di Roberto il Saggio solo
come un breve intervallo, seppure questo sia nei fatti piuttosto un periodo ininterrotto che abbraccia gli
anni tra il 1318 e il 1324. Il trasferimento della corte da Napoli ad Avignone si manifesta anzi, già dalla sua
fase preparatoria, come una drammatica messa in scena della stretta alleanza raggiunta tra angioini e papato:
l’allontanamento della corte dalla sua capitale per raggiungere papa Giovanni XXII (che, come Jacques
Duèse, era già stato familiare del padre di Roberto e amministratore della conte angioina di Provenza, poi
cancelliere del regno di Napoli nel 1305).
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Images and Words in Exile
Session 5 – Exchanging Glances
La stessa incoronazione del sovrano era avvenuta ad Avignone “in maiori dicte civitatis ecclesia” nel 1309,
nove anni prima, propriis manibus di Clemente V, e sempre ad Avignone nella primavera del 1317 si era
celebrata la canonizzazione di suo fratello, Ludovico di Tolosa.
Per capire quanto fosse numeroso il seguito di Roberto in occasione del trasferimento ad Avignone nel
1318, i documenti redatti in vista dei preparativi sono particolarmente utili: 236 persone nominate una per
una come membri della corte reale, ai quali vanno aggiunti un gran numero di assistenti di rango inferiore,
che non vengono menzionati col loro nome.
Esiste, probabilmente, una certa abitudine a sottovalutare la circolazione e lo scambio tra Regno di Napoli e
il nuovo straordinario laboratorio cosmopolita avignonese, se nel giudizio della storiografia artistica a questo
come ad altri frequenti percorsi tra Napoli e la Provenza non sembrano far seguito né l’importazione né
l’esportazione di modelli iconografici, di idee e di forme, anche architettoniche. Nel Trecento le due città
risultano invece inestricabilmente legate l’una all’altra, non solo da un punto di vista politico, ma anche e
soprattutto culturale.
Il tempo dell’assenza di Roberto, della regina Sancia e della corte è tuttavia un periodo di intensa attività
nelle vicende dei cantieri di patrocinio reale a Napoli. Ecco dunque che tener conto del soggiorno angioino
in Avignone permette di osservare con sguardo nuovo anche i fatti costruttivi napoletani che continuavano
per impulso di una committenza temporaneamente distante.
Dal 1310 si avvia il cantiere della basilica regia del Corpus Christi (Santa Chiara) a Napoli, probabilmente il
progetto più ambizioso degli anni della terza generazione angioina, il centro della pietà della famiglia
regnante e di importanti avvenimenti politici durante e dopo il regno di Roberto, il fulcro delle processioni
reali e cittadine. È possibile riconoscere un riflesso degli anni avignonesi nel complesso programma
iconografico e funerario di auto-rappresentazione dinastica che dà forma a una vera e propria topografia
memoriale cittadina?
Nel primo Trecento il ruolo giocato da Napoli – per il numero e la mole delle imprese artistiche che vi si
conducono, per la produzione e circolazione di immagini e di artefatti – è quello di uno dei centri più vivi e
significativi d’Europa, capace d’attrarre tra gli altri maestri del rango di Giotto e Tino di Camaino. Dopo la
ripresa, durante lo scorso decennio, di un più marcato interesse storiografico per Napoli angioina, nuovi
contributi hanno messo nella giusta luce anche la natura cosmopolita e alloglotta dell’ambiente napoletano;
una più ampia e sistematica disamina potrebbe meglio raccontarla.
Nel ripercorrere le vicende di Napoli durante i primi decenni del XIV secolo, sarà necessario superare le
categorie di centro e periferia, tanto più se interpretate come sinonimi di innovazione e arretratezza, perché
la corte di Napoli ad Avignone partecipa a un dialogo di idiomi internazionali, di estrazione centro italiana
ma anche inglese, oltre che francese. Si può scegliere Avignone come il giurista inglese Stephen Kettleburgh
nei primi anni ‘20 scriveva al teologo John Luttrell, non solo per il patrocinio offerto dalla curia, ma perché
“the king of Sicily is here, who immensely honors and loads with rewards men of your faculty”.
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Session 6
Mapping Avignon’s Space
Chair: Michel Laclotte (Musée du Louvre)
Opicinus de’ Canistris, Actual State of Christianity
Città del Vaticano, BAV, Pal. Lat. 1993, f. 5r
Monday 11 April, 09:00
Université d'Avignon et des Pays de Vaucluse
Images and Words in Exile
Session 6 – Mapping Avignon’s Space
Sebastian Zanke (Universität Augsburg)
Imagined spaces? John XXII, the Papal Registers and European Policy (1316-1334)
The paper discusses the interdependence of literacy and (papal) politics, thus focusing on the evidence of
the so-called papal registers and the pontificate of John XXII (1316-1334). Following general considerations
about the development of the source as well as its contents, quality and value, the focus lies on a certain
image of Europe, which the registers provide, and the relevant structures of papal politics. The question
remains, whether there was a specific (exile) policy in reaction to the absence from Italy and/or due to the
obligations of an increasing business at the papal court, accompanied by a process of centralisation. The
main source, the papal registers, in turn, could be described as a specific product of the exile.
1. Written expression of exile and legitimation through literacy?
The first part of the paper presents the development of the papal registers, in particular in the period of the
Avignon papacy. Based on preceding examples, the papacy in Avignon increasingly began to file (archive) its
outgoing correspondence in large codices, which are nowadays preserved as so-called papal registers in the
Archivio Segreto Vaticano.
Although being no curial phenomena in particular – several towns and especially courts in the late Middle
Ages developed an archival storage method with the intention of recording extensively (instead of
compiling selectively), which was conceived largely because of jurisdictional and legitimating reasons –,
papal Avignon represented a virtual milestone in this development by keeping a copy of nearly every letter
that left the court to recipients throughout Christendom. Originally restricted to ecclesiastical topics (e.g.
the granting of benefices), it was soon enhanced to political and administrative issues, which obviously had
an impact on the general function and idea of the registers as well. Especially the pontificate of John XXII
played a crucial role in this progress. Not surprisingly, it was this pope, who eventually established the
papacy in Avignon, that was later followed by general administrative and ecclesiastical reforms.
The papal registers have always attracted scholarly attention. Still questions about their specific function,
development and quality arise, including their completeness, contents and transmission. On these grounds,
new insights about the structure and value of the source material will be presented, assessing whether the
registers can be seen as a source for the papal self-identification on a jurisdictional and political base. Was it
a specific Avignon phenomena and thus a written expression of exile? The development and design of the
papal registers was not only a consequence of the increasing literacy (in terms of Schriftlichkeit) of the late
Middle Ages, but also a specific way of self-affirmation and legitimation.
2. Imagined spaces and relevant structures of a policy in exile
The second part of the paper shows the value of the registers for comparative methodological approaches
and examines different types of curial procedures, thus drawing the outlines of a certain Avignon policy
during the pontificate of John XXII.
The curial letters preserved in the papal registers give a lively image of the everyday course of business
conducted at the time and indicate the European regions from a curial point of view. They ensured the
implementation of papal policy in partibus and allow us to reconstruct the structures of papal proceedings,
for example in political matters. Focusing on major political events during the pontificate of John XXII –
like the deposition of Edward II or the conflict with Lewis of Bavaria – the paper analyses the role of given
topics at the curia and exemplifies the relevant papal policy by comparison.
The papal court in Avignon formed an institution where many of the contemporary political, social and
economic processes were reflected. The papacy interacted with most of them, thus creating a distinct
picture of the European regions and their respective political processes – kept in the papal registers. It was
an image and a policy of the exile, influenced by the specific aspects of the Avignon papacy and its popes
combined with a general reactive character. Consequently, it raised serious concerns, evoked critics and
eventually failed.
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Images and Words in Exile
Session 6 – Mapping Avignon’s Space
The paper is part of the upcoming PhD thesis: John XXII and Europe: Papal policy between centre and periphery –
a comparative approach towards papal policy in late Medieval Europe.
Gottfried Kerscher (Universität Trier)
Hofordnung – Rangordnung – Raumordnung: Disruptive Changes in Avignon
Die Exilierung der Päpste in Avignon war keineswegs so sicher, wie das schon Petrarca vermutete und wie
der Terminus „Babylonische Gefangenschaft“ gerne durch die Forschung aufgenommen wurde. Vielmehr
müssen einige Annahmen berücksichtigt werden, wonach es für die Päpste eine individuelle und eine
überindividuelle, dem Amt zugedachte Option von Handlungsmöglichkeiten gegeben hatte. Wenn
Johannes XXII. dort blieb und sich auch für die Ewigkeit einrichtete (d.h., sein Grabmal dort stiftete), so ist
das eine weitgehend individuelle Entscheidung gewesen, war doch Johannes vorher Bischof in Avignon.
Dass sich auch seine Nachfolger dort einrichteten und die Stadt, nicht nur den Palast, veränderten, ist der
Situation in Rom geschuldet. Die Päpste wurden von dort genauso vertrieben wie aus anderen italienischen
Städten.
So müssen in dieser Situation eines disruptive change einige Punkte in Augenschein genommen werden, die
images and words in exile betreffen:
1. Italien wird im neuen Papstpalast repräsentiert, indem der Stationsgottesdienst auf den Palast und die
Stadt übertragen wird und indem
2. italienische Künstler und Bauhandwerker, Superstante und Baumeister dort wirken sollten; dabei wird
eine neue Architektur geschaffen, die nicht mehr auf den Lateran zurück greift, sondern sich an der
Situation bei St. Peter, also dem Vatikan, orientiert bzw. dort später deutlich wird, nachdem die Päpste
wieder zurückgekehrt waren (wichtig ist also, dass man sich vom Jahrhunderte lang tradierten Papstpalast
neben S. Giovanni in Laterano trennt);
3. Dies geschah zusammen in einem Kontext, in dem päpstliche Repräsentation in immer stärkerem Maße
verschriftlicht wird im Papstzeremoniell und seinen Anhängen;
4. Da nunmehr im Verlauf des päpstlichen Lebens nicht mehr ausschließlich die Liturgie eine Rolle spielt
(was aus den Innovationen im Papstzeremoniell deutlich wird), sondern in zunehmendem Maß
repräsentative Faktoren eine Rolle spielten, mussten hierfür Texte geschaffen, gesucht oder generiert
werden, die diese Inhalte umsetzbar machten.
Ein besonderes Augenmerk muss dabei auf eine Innovation gelenkt werden, die außerhalb Avignons
stattfand und durch politische Prozesse zustande kam. Es ist überliefert, dass die mallorquinischen Könige
mehrfach den Papst in Avignon besuchten, um dort Hilfe zu erbitten. Mehr oder weniger gleichzeitig
wurde der Palast in Avignon derart umgebaut, dass eine Raumordnung entstand, die jene der
mallorquinischen Könige strukturell genauestens gleicht. Zusammen mit den schon früher stattgehabten
sowie späteren Veränderungen sowohl in der Architektur wie auch im päpstlichen Zeremoniell verdichtet
sich daher die Vermutung, dass durch diese Beziehungen ein Innovationstransfer stattgefunden hat, der die
Architektur und symbolische Kommunikation (Repräsentation) betraf. Mit anderen Worten: Was sich in
der Architektur deutlich zeigt und was in den Texten ansatzweise greifbar wird, kam vermutlich aus dieser
Quelle. Diese Vermutung basiert auch auf der Erkenntnis, dass bisher kein Text gefunden oder benannt
wurde, der hier als Vorlage gedient haben konnte; außerdem sind auch die Veränderungen in der
Architektur hier wie dort greifbar und wurden bei der Rückkehr nach Italien „mitgenommen“, wo sie z.B.
in Montefiascone und an anderen Orten nachweisbar sind.
Das mallorquinische Königtum repräsentiert sich sowohl, was die Hofordnung, als auch, was die
symbolische Kommunikation und die Architektur betrifft, in den Palästen der Herrscher und in einer
Handschrift, die heute in Brüssel liegt. Die Leges palatinae entstanden in den dreißiger Jahren des 14. Jh. und
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Images and Words in Exile
Session 6 – Mapping Avignon’s Space
lassen erkennen, dass die dortigen Festlegungen ähnlich jenen sind, die von Seiten der Geschichte und der
Philologie als „modern“ in den Papstzeremoniellen aufgefallen waren.
Im Sinn eines disruptive change wird man kaum annehmen können, dass diese 1:1 übertragen wurden, sind
doch die Consuetunines einerseits auf die Liturgie bezogen, während sie andererseits einen Teil der
Hofordnung darstellten. Dennoch wird man sowohl in der Bildtradition der Zeit, wie auch in den Leges
palatinae und ihren Miniaturen (wie auch im Text) Hinweise sehen können, wie man sich bestimmte
Elemente der symbolischen Kommunikation der Zeit am päpstlichen Hof vorstellen muss, was in einigen
wenigen Dokumenten greifbar wird. Selbst, wenn nicht bewiesen werden kann, dass genau diese Texte die
Vorlage waren, so geben doch die Illustrationen der Leges palatinae eine Vorstellung davon, wie ein
repräsentatives Leben am Hof um 1340 vorstellbar war.
Mein Referat wird sich nach kurzer Vorstellung der oben dargestellten Ereignisse vor allem mit den Leges
palatinae und den Miniaturen der Handschrift befassen.
Tina Sabater (Universitat de les Illes Balears)
Intorno all’influenza della corte di Avignone sull’arte. La pittura maiorchina del XIV secolo
Il Regno di Maiorca (1285-1343) ha avuto rapporti particolari con la corte papale di Avignone, per la
vicinanza geografica dei suoi territori continentali, soprattutto il Rossiglione e la signoria di Montpellier.
Rispetto a questo tema gli studi storici hanno messo in evidenza i contatti diretti che vi furono fra i re della
dinastia e la curia, il fatto che i vescovi della diocesi di Maiorca fossero nominati direttamente dal papa e la
presenza nella città di studenti che provenivano da Maiorca.
Questo insieme di circostanze avrebbe influenzato l’attività artistica a Maiorca durante tutto il XIV secolo
anche se le prove documentali sono scarse e poco illustrative di una realtà senza dubbio più ampia. Per
quanto riguarda i committenti, particolare rilievo ebbe la figura del giurista e canonico Reinald Mir,
membro della corte papale all’inizio del decennio 1370-80, data la modernità dell’esecuzione della pala
d'altare e della lapide sepolcrale che fece eseguire per la cattedrale al suo arrivo sull'isola. Rispetto agli
artisti, bisogna citare l'unica figura documentata fra quelle di coloro che, in un modo o nell'altro, al loro
ritorno, riportarono elementi di ciò che avevano conosciuto ad Avignone: l'architetto e scultore Pere
Morey, maestro principale della cattedrale di Mallorca, che si ritrova a Mende nel 1371 e nel 1374, è
documentato come presente ad Avignone. In quanto alle opere, non disponiamo di testimonianze
documentali che giustifichino l'ipotesi di importazioni, anche se la provenienza avignonese è stata proposta
per l’Annunciazione di alabastro che si trova nella cattedrale ed è datata alla prima metà del XIV secolo.
Decenni dopo, un dipinto su tavola raffigurante lo stesso tema, dimostra l’influsso dell’arte avignonese al di
là del suo confine geografico. Infatti, l’Annunciazione attribuita al maiorchino Pere Marçol, datata
all’ultimo terzo del XIV secolo, si distingue per il ruolo preponderante dell’architettura e del paesaggio e,
soprattutto, per l’integrazione che si verifica tra i due scenari, una integrazione insolita nella pittura italiana
anche se spiegabile, senza dubbio, tramite la produzione artistica dei pittori italiani nella corte di Avignone.
Sulla pittura del XIV secolo nell’ambito della corte avignonese si è scritto molto, tuttavia sappiamo ancora
poco, e questo è il principale problema quando si cerca di precisare quale influenza essa abbia avuto sulla
pittura delle zone limitrofe. In Catalogna si è parlato del “viaggio dell’artista” per spiegare i tratti
italianeggianti che definiscono la pittura dei catalani Ferrer e Arnau Bassa. Il problema che poniamo è
esattamente quello contrario perché consiste nel comprendere da dove provenne la cultura artistica che
alcuni maestri del sud della Francia portarono all’arte dell’isola.
Infatti, la proposta che si presenta solleva questioni ancora irrisolte in relazione al periodo cronologico in
esame, domande che riguardano la pittura maiorchina e la rossiglionese e che hanno a che vedere con gli
artisti che potrebbero essersi formati nella cerchia di Avignone. Punto di partenza sarà una visione positiva
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Images and Words in Exile
Session 6 – Mapping Avignon’s Space
dell’esilio, che, nel campo della pittura si è tradotto in proposte innovative, senza le quali non si può capire
l’arte dell’epoca.
Una parte molto significativa del patrimonio pittorico nel territorio insulare del Regno di Maiorca si
definisce per la sua affinità stilistica con l’arte italiana. Nell’insieme di questo patrimonio vanno incluse
opere che si suppone siano state importate, ma anche altre che furono realizzate nell’isola. Concretamente
si tratta di due codici miniati risalenti al periodo compreso fra il 1330 ed il 1340 – il Libro de Privilegios o dei
Re e il Libro de las Leyes Palatinas – alcune opere su tavola e frammenti di pittura murale di carattere
figurativo. Purtroppo però, come avviene anche in ambito architettonico e per quanto riguarda l’opera
scultoria datata fra il 1304 ed il 1343, se ci si attiene alle fonti documentali non è possibile collegare queste
opere ad artisti diversi da quelli che sappiamo provenire dal Rossiglione. Arnau Boas, di cui è documentata
la provenienza da Perpignan, e Joan Loert, che si suppone abbia la stessa origine, sono i nomi che appaiono
in documenti del terzo decennio del XIV secolo riguardo a opere eseguite nel palazzo dell’Almudaina e
nella Cattedrale su incarico del Re Jaime III e del vescovo Berenguer Batle, già prelato a Elna.
Quindi, la realtà dei fatti artistici presenta un problema di difficile soluzione. Per quanto ne sappiamo, la
pittura del Rossiglione non offre evidenza di conoscenze di tecniche italiane paragonabile a quelle della
pittura maiorchina dello stesso periodo. Dobbiamo quindi pensare ad Avignone come il nucleo di
formazione di questi artisti? La grave perdita del patrimonio medievale in Francia rende difficile trovare la
spiegazione.
In definitiva, una migliore comprensione della specificità della fase storica – tema centrale del convegno –
sarà senza dubbio utile a risolvere il problema. Allo stesso modo, i dati storico-artistici che abbiamo
intenzione di fare conoscere pensiamo contribuiranno a una migliore conoscenza del contesto di Avignone,
inteso in senso lato.
Rosa Alcoy (Universidad de Barcelona)
Avignone e la Catalogna dei Bassa
Durante la prima metà del XIV secolo alcuni dei maestri attivi in Catalogna mantennero un’intensa
relazione con diversi centri italiani. Tali contatti, che comportarono numerosi viaggi ed esili dalla Catalogna
all’Italia ma anche dall’Italia alla Catalogna, modificarono radicalmente e definitivamente i modelli artistici
in voga nel territorio catalano, tanto da creare opere che, pur presentando soluzioni originali, si basano sui
nuovi schemi nati in Italia per mano di Giotto e dei suoi migliori compagni e coetanei, tanto nel campo della
pittura come in quello della scultura o delle altre arti. Poco a poco andava perdendo terreno il sistema
figurativo denominato gotico lineare o franco-gotico, che con le sue distinte fasi e realtà aveva dominato la
scena catalana della seconda metà del XIII secolo, fino all’introduzione del primo italianismo (1325-1350).
La ripercussione delle creazioni e dei modelli italiani si avverte in primo luogo nei contesti sociali più
sofisticati laddove i committenti, religiosi o laici che fossero, godevano di maggiori disponibilità per portare
a termine commissioni di rilievo. Nel giro di circa vent’anni, anni decisivi per l’evoluzione successiva di
tutta la pittura gotica realizzata in Catalogna, gli eventi sembrano precipitare. Per comprendere questa
dinamica è necessario entrare in pieno nel secondo quarto del Trecento, senza alcun dubbio il contesto più
suggestivo e creativo del XIV secolo catalano. Un’affermazione che si può fare senza esitazione, nonostante
alcune eccezioni che è giusto tenere in considerazione e che serviranno per valutare l’importanza di alcune
creazioni del secondo gotico lineare e del primo gotico internazionale.
È mia intenzione in questa sede analizzare il ruolo giocato da Avignone nel momento in cui si arriva a questa
fase di profonda trasformazione dell’arte catalana, la più intensa dopo la crisi del Romanico. A questo
proposito terrò in considerazione, innanzitutto, la produzione artistica della bottega dei Bassa, un atelier
aulico e strutturato, nel quale diverse generazioni di pittori ebbero modo di scambiare esperienze. Il
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Images and Words in Exile
Session 6 – Mapping Avignon’s Space
fondatore, Ferrer Bassa, ebbe conoscenza diretta delle creazioni che si erano diffuse nei centri italiani più
all’avanguardia. Al contrario i suoi seguaci immediati, membri e collaboratori di quella bottega che, fondata
a Barcellona si trovava in netta espansione verso il 1340, adottano anche formule autonome, che è possibile
identificare come frutti alternativi di quell’arte nuova che dai centri italiani sarebbe giunta, anche se non in
modo omogeneo, in altre zone d’Europa. L’arrivo di Simone Martini ad Avignone è uno dei fattori
determinanti di questo processo, però nel nostro caso è necessario dirigere lo sguardo anche verso altri
argomenti legati alla “prossimità”. La parola infatti non si limita solo alla questione geografica, come è ovvio
quando si prenda in considerazione la vicinanza territoriale tra la Catalogna e la Provenza, ma anche alla
possibilità di osservare all’unisono singolari forme di coincidenze artistiche previe e immediatamente
successive, che avrebbero favorito il radicamento di schemi toscani in Catalogna. La presenza ad Avignone
di Simone, uno dei grandi maestri della scuola senese, e allo stesso tempo della sua bottega, avrebbe aperto
la strada per l’introduzione di cambi nella pittura realizzata a Barcellona e in altri centri catalani. Per questa
via si sarebbe portata a compimento una trasformazione profonda, senza tuttavia tradire del tutto alcune
delle tradizioni locali precedenti, ancorate alla cultura figurativa che caratterizzava il gotico lineare e le sue
relazioni con il mondo dell’Europa settentrionale, nei tempi che precedettero Ferrer Bassa. Il persistere di
una parte dell’antica eredità creativa non entrerà in conflitto con una nuova atmosfera, sempre più vicina a
quanto era possibile vedere nella città dei papi: si accendeva e si moltiplicava infatti l’interesse verso una
cultura figurativa sofisticata, che in pochi decenni si sarebbe arricchita grazie alle sue ramificazioni locali.
Gli ultimi, duraturi e splendidi momenti della produzione artistica della bottega di Simone condizionarono
quegli schemi che erano arrivati in Catalogna direttamente dall’Italia. Ferrer Bassa, assente dalla scena
catalana dal 1324, aveva contribuito alla loro ben nota e fortunata affermazione, almeno a partire dal 1333 e
fino alla metà del secolo, al ritorno da un viaggio in cui aveva avuto modo di conoscere alcuni dei centri
creativi più rilevanti del territorio italiano. Per comprendere a fondo il peso dell’ultima fase della pittura di
Simone è utile osservare quanto succede poco prima e poco dopo la sua permanenza avignonese. L’attività
di Simone e di altri maestri italiani dal profilo simile nella città provenzale, irrompe con forza inusitata nella
storia della pittura catalana quando raggiungono la maturità i migliori fra i pittori della seconda generazione
bassiana, mi riferisco in particolare ad Arnau Bassa e al Maestro catalano di Baltimora. Tutto ciò ci permette
di capire che vi furono diversi fattori che, ben oltre il contributo immediato dei centri italiani, ebbero un
ruolo nella realizzazione dei prodotti artistici catalani più interessanti di questa tappa, in un momento di
grande effervescenza politica e religiosa. Di conseguenza Avignone costituisce, all’interno del dibattito
sull’italianismo catalano, un capitolo necessario, che non può essere sottovalutato, una volta riconosciuta
l’importanza politica, religiosa, e ovviamente artistica del centro. Le opere realizzate nella città pontificia
ebbero la capacità di fare pressione con autorevolezza sui centri più vicini, come un innesto delle novità che
erano state riprodotte in spazi geograficamente più lontani. Si segue dunque un modello che ha acquisito
un’autonomia sufficiente e che può adattarsi a nuove esigenze. Gli effetti di tale pressione appaiono molto
attraenti e peculiari se li si osserva nella produzione delle botteghe di Barcellona, anche se in certe occasioni
tale influenza finì col generare una reazione contraria a quella prevista in un primo momento o, con meno
frequenza, una risposta negativa. Gli alterchi tra la casa reale catalana ed il papato, tra i massimi
rappresentanti della chiesa locale e alcuni pontefici, si videro riflessi nel campo dell’arte, che offre un
insieme di realizzazioni di grande interesse, nonostante la grave perdita di opere nel periodo dominato
dall’attività dei Bassa.
Alessandro Tomei (Università degli Studi G. D’Annunzio)
Opere e artisti in esilio tra Italia e Provenza (con qualche ritorno): modelli, stili e iconografie
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Images and Words in Exile
Session 6 – Mapping Avignon’s Space
“Ubi papa, ibi Roma”: questa icastica enunciazione, punto di forza del Papato medievale è quasi un
paradigma per uno studio delle tipologie di committenza e della produzione figurativa da esse conseguente
presso la nuova corte pontificia di Avignone.
I punti di riferimento continuano a essere italiani: prima Roma, poi Napoli, Siena e Firenze. È a queste città,
infatti, che i committenti – fino alla metà circa del secolo sostanzialmente coincidenti con quelli che
avevano animato la corte di Bonifacio VIII – guardano per dare forma e volto alla “nuova Roma”, con più di
qualche nostalgia.
I viaggi di opere e di artisti, le committenze da realizzarsi lontano dalla residenza del committente o, al
contrario, le opere eseguite in Francia da inviare in Italia – fenomeni non del tutto estranei all’età medievale
– assumono nel corso del Trecento intensità, varietà e frequenza affatto nuove, tali da creare tra Francia e
Italia un flusso biunivoco di straordinaria portata storica, ancora non del tutto indagato nei suoi aspetti
costitutivi.
Alcune opere e monumenti-chiave per l’interpretazione di questo flusso – affreschi, tavole e manoscritti –
non tralasciando una preliminare trattazione, fondata su una vasta ricognizione documentaria, degli
interventi dei papi avignonesi a favore dei monumenti romani abbandonati alla loro sorte: in primis la basilica
di San Giovanni in Laterano, devastata dall’incendio del 1308 e divenuta simbolo, quasi metafora con
un’appendice letteraria, della Roma senza papa.
La nostalgia di una Aurea Roma sembra infatti essere il leitmotiv di molte opere realizzate in questa fase
cruciale dell’arte occidentale, che è anche uno straordinario bacino di acculturazione e di incubazione per
nuove espressioni formali. Particolare importanza ebbero, in questo processo, le opere d’arte mobili
(soprattutto suntuarie e librarie), sulle quali, proprio perché mobili, sembra concentrarsi l’attenzione dei
committenti.
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Visit II
Décors peints médiévaux avignonnais, entre France et Italie
Marie-Claude Léonelli (Association du Centre International de Documentation et de
Recherche du Petit Palais) & Dominique Vingtain (Musée du Petit Palais d’Avignon)
•
Le décor peint de la livrée de Viviers, atelier français, 1335-1336
•
Les fresques du porche de la cathédrale Notre-Dame des Doms, Simone Martini, vers 1339-42
(cathédrale et salle du Consistoire du Palais des Papes)
•
Les chapelles peintes du Palais des Papes, Matteo Giovannetti, 1344-1348
•
Le décor peint de la livrée d’Albano (clocher de l’hôtel de Ville), atelier italien, vers 1360
Monday 11 April 11, 15:00
Avignon