cineclubivrea - Cooperativa Rosse Torri
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cineclubivrea - Cooperativa Rosse Torri
LIV edizione 2015 - 2016 2015 - 2016 LIV edizione Martedì 1 marzo 2016 ore 15.00, 17.10, 19.20, 21.30 Mercoledì 2 marzo 2016 ore 15.30, 18.00 titolo originale Vivir es fácil con los ojos cerrados / regìa David Trueba / soggetto e sceneggiatura David Trueba / fotografia Daniel Vilar / musica Pat Metheny / montaggio Marta Velasco / scenografia Pilar Revuelta / costumi Lala Huete / interpreti Javier Cámara, Natalia de Molina, Francesc Colomer, Ramón Fontserè Rogelio, Fernández Espinosa, Jorge Sanz, Ariadna Gil / produzione Fernando Trueba Producciones Cinematográficas, in collaborazione con TVE e Canal+ / origine Spagna 2013 / distribuzione Exit Media / durata 1 h e 48’ scheda filmografica 21 Lettere di uno sconosciuto Martedì 8 marzo 2016 ore 15.00, 17.10, 19.20, 21.30 Mercoledì 9 marzo 2016 ore 15.30, 18.00 titolo originale Gu lai / regìa Zhang Yimou / soggetto dal romanzo di Yan Geling / sceneggiatura Zou Jingzhi / fotografia Zhao Xiaoding / musica Chen Qigang / montaggio Meng Peicong, Mo Zhang / scenografia Lin Chaoxiang, Liu Jiang / interpreti Gong Li, Chen Daoming, Zhang Huiwen, Tao Guo, Liu Peiqi, Zu Feng, Yan Ni / produzione Le Vision Pictures, in associazione con Wanda Media Co. Ltd, Edko Beijing Film Limited, Helichenguang International, Culture Media Co. Ltd, Zhejiang Huace Film&Tv Co. Ltd / origine Cina 2014 / distribuzione Lucky Red / durata 1 h e 51’ scheda filmografica 22 Vergine giurata Martedì 15 marzo 2016 ore 15.00, 17.10, 19.20, 21.30 Mercoledì 16 marzo 2016 ore 15.30, 18.00 regìa Laura Bispuri / soggetto liberamente ispirato al romanzo omonimo di Elvira Dones / sceneggiatura Francesca Manieri, Laura Bispuri / fotografia Vladan Radovic / musica Nando Di Cosimo / montaggio Carlotta Cristiani, Jacopo Quadri / costumi Grazia Colombini / interpreti Alba Rohrwacher, Flonja Kodheli, Lars Eidinger, Luan Jaha, Bruno Shllaku, Ilire Çelaj, Drenica Selimaj, Dajana Selimaj, Emily Ferratello / produzione Vivo Film, Colorado Film, con Rai Cinema, Bord Cadre Films, Match Factory Productions, Era Film, in collaborazione con Istituto Luce Cinecittà / origine Albania, Italia, Svizzera, Francia 2015 / distribuzione Cinecittà Luce / durata 1 h e 30’ scheda filmografica 23 The Fighters – Addestramento di vita Martedì 22 marzo 2016 ore 15.00, 17.10, 19.20, 21.30 Mercoledì 23 marzo 2016 ore 15.30, 18.00 titolo originale Les combattants / regìa Thomas Cailley / soggetto Thomas Cailley / sceneggiatura Thomas Cailley, Claude Le Pape / fotografia David Cailley / musica Lionel Flairs, Benoît Rault, Philippe Deshaies, Hit’N’Run / montaggio Lilian Corbeille / scenografia Paul Chapelle / costumi Arianne Daurat / interpreti Adèle Haenel, Kévin Azaïs, Antoine Laurent, Brigitte Roüan, William Lebghil, Thibault Berducat, Nicolas Wanczycki, Frederic Pellegeay, Steve Tientcheu, Franc Bruneau / produzione Nord-Ouest Films, in coproduzione con Appaloosa Distribution, con la partecipazione di Canal+, Cine+, Haut et Court Distribution / origine Francia 2014 / distribuzione Nomad Film / durata 1 h e 38’ scheda filmografica 24 Tutto può accadere a Broadway Martedì 5 aprile 2016 ore 15.00, 17.10, 19.20, 21.30 Mercoledì 6 aprile 2016 ore 15.30, 18.00 titolo originale She’s Funny That Way / regìa Peter Bogdanovich / sceneggiatura Louise Stratten, Peter Bogdanovich / fotografia Yaron Orbach / musica Ed Shearmur / montaggio Nick Moore, Pax Wassermann / scenografia Jane Musky / costumi Peggy A. Schnitzer / interpreti Owen Wilson, Imogen Poots, Kathryn Hahn, Will Forte, Rhys Ifans, Jennifer Aniston, Cybill Shepherd, Austin Pendleton, Joanna Lumley, Richard Lewis, George Morfogen, Ahna O’Reilly, Jake Hoffman, Lucy Punch, Tatum O’Neal, John Robinson, Albert Jones, Sydney Lucas / produzione Lagniappe Films, in associazione con Red Granite International, Venture Forth, Three Point Capital, Holly Weirsma Productions / origine USA 2014 / distribuzione 01 Distribution / durata 1 h e 33’ scheda filmografica 25 Il 1966 è magnifico, anche nella Spagna franchista. Antonio insegna inglese alle medie. Ed usa le canzoni dei Beatles – di cui è scatenato fan – per meglio farsi comprendere. Si dà il caso che in quel periodo John Lennon sia impegnato in Almeria a interpretare Come ho vinto la guerra, di Richard Lester. Il professore allora decide di partire con un registratorino, determinato a incontrarlo. Durante il viaggio, con la sua 850 Fiat raccoglie due autostoppisti in fuga da Madrid: una splendida ragazza, Belén, rimasta incinta e che vuole tornare a Malaga dalla madre e un sedicenne, Juanjo, scappato dal padre severissimo e poliziotto che gli vuole tagliare i capelli. L’improvvisato trio solidarizzerà e si coalizzerà per raggiungere i rispettivi obbiettivi. Il film è ispirato alla storia vera del professor Juan Carriòn che riuscì a incontrare sul set il suo mito John Lennon. Da quell’incontro, sarà che non sarà, i Beatles cominciarono a pubblicare i testi delle loro canzoni sulle copertine dei dischi. Carinissimo e scaltro (e con relativamente poche incongruenze storiche) nell’intrecciare con delicatezza la commedia, lo spirito e le tensioni del tempo (…), La vita è facile ad occhi chiusi prende dei versi dei Beatles a prestito per il titolo, e ha raccolto messe di premi (addirittura 6 i Goya, massima onorificenza cinematografica iberica). L’eclettico David Trueba, sceneggiatore-scrittore-regista, realizza una delle sue opere migliori, potendo confidare sul contributo recitativo e fisico di Javier Cámara, perfetto nel suo essere vero beat a dispetto del fisico tracagnotto e la calvizie (uno dei Goya è per lui mentre il quinto è andato alla solare esordiente Natalia de Molina). Ma occhio al sesto premio: è per le musiche. Saranno tipicamente anni ’60, direte voi. Non solo e non tanto: sono composte ed eseguite dal leg- gendario jazzista Pat Metheny, coadiuvato dal contrabbasso di Charlie Haden! Da soli valgono il biglietto. (Massimo Lastrucci) Una storia d’amore straziante ambientata negli ultimi anni della Rivoluzione Culturale a Pechino. Lettere di uno sconosciuto segna il ritorno a casa (il titolo internazionale è Coming home) di Zhang Yimou, regista che in Cina è stato, negli anni, prima inserito nella lista nera, poi considerato politicamente “redento” tanto da dirigere la cerimonia delle Olimpiadi 2008. Il film segna anche, per il cineasta 64enne, il ritorno del sodalizio con la musa Gong Li: otto film insieme da Lanterne rosse a La città proibita. Ispirato al romanzo di Yan Geling The criminal Lu Yanshi, racconta di un’insegnante che vive con la figlia adolescente. La ragazza non ricorda il padre, intellettuale dissidente spedito nei campi di lavoro. (…) Quando, anni dopo, l’uomo è rilasciato e torna a casa, la moglie lo aspetta alla stazione, ma non lo riconosce. E lui tenta ogni espediente per farsi riconoscere. (…) (Arianna Finos) di melodrammi che risale agli anni del muto, a dive come Ruan Linyu, morta suicida al culmine della carriera negli anni Trenta. Anche se il gioco a tratti è scoperto, ci si appassiona fino alla fine, come non si farebbe con un equivalente europeo o americano, davanti alle ingiustizie del potere che diventano tragedie familiari. E poi il film è anche un omaggio a Gong Li, da parte di un regista che è stato suo compagno di vita e oggi le cuce addosso uno di quei ruoli che ogni attrice a un certo punto vorrebbe interpretare. (Emiliano Morreale) (...) elegantemente tradotto in un titolo italiano, Lettere di uno sconosciuto, che omaggia un capolavoro del mélo, di Max Ophüls. In effetti di un mélo purissimo qui si tratta, efficace e classicamente impaginato. (...) Zhang tiene ‘a vista’ i meccanismi del melodramma: l’amnesia, la rivalità tra madre e figlia e la loro riconciliazione, le lettere in un cassetto, l’eterna attesa alla stazione, i fiammeggianti numeri di balletto. (...) I meccanismi della storia sono riconoscibili anche al pubblico occidentale, ma ereditano anche una tradizione cinese di granStrana legge il Kanun. Là tra le montagne albanesi, all’interno di una società dura, tribale e maschilista, solo agli uomini sono concessi certi diritti. Le donne sono obbligate ed educate alla sottomissione. Con un’eccezione: se accetti di rinunciare al sesso e vivere in rustica castità, allora – giurando in apposita cerimonia – puoi “diventare maschio” e quindi imbracciare un fucile, bere, girare da solo/a per i boschi, essere padrone/a del tuo destino. Insomma: la libertà in cambio dell’identità. E’ quello che l’orfana Hana Doda, accolta dalla famiglia dello zio, accetta di fare trasformandosi in Mark. Ma quando emigra in Italia dalla sorella/cugina Lila, ora sposa e madre, la sua dura scelta di vita torna in discussione e comincia il suo percorso di riappropriazione della propria femminilità. Burnesha: così in originale si definisce la “vergine giurata”, la donna che diventa uomo (ma il percorso inverso è previsto?). A neanche tanti chilometri di distanza da noi, ecco un’usanza così antropologicamente estranea da risultarci barbara e osticamente esotica. Da un romanzo omonimo di Elvira Dones, Laura Bispuri, fin qui autrice di apprezzati e premiati cortometraggi (Passing Time, Biondina, quest’ultimo Nastro d’Argento), debutta nel racconto a dimensione lunga. Lo fa con la timidezza dell’esordiente che attenua però solo in parte la sensibilità dello sguardo. Così, se la parte “italiana” – per così dire – suona un po’ pallida e compita come le caratteristiche della protagonista Alba Rohrwacher (sempre però enigmatica- ( …) “Il personale è politico”, come si diceva una volta, e questa commedia agrodolce, dai toni gentili come quelli del suo protagonista, illumina con una storia apparentemente semplice il significato di questo slogan. (…) Spunti reali, miti musicali e cinematografici confluiscono dunque in un racconto che si allontana dal realismo per assumere i toni di una favola dal forte sapore vintage, accompagnata dalla bella colonna sonora di Pat Metheny che reinterpreta i Beatles, e segnata da un personaggio di maestro (di vita) che non si dimentica facilmente. (Barbara Corsi) Parla il regista In occasione dei 40 anni dalla visita di Lennon in Almeria location di tanti western all’italiana - gli hanno dedicato una statua e pubblicato sui giornali vari aneddoti sul suo periodo là, fra i quali anche la storia del professore. Mi ha subito colpito e mi è venuto in mente un episodio accaduto nella mia famiglia. Io sono il più piccolo di otto figli. Quand’ero appena nato, il secondo dei miei fratelli scappò di casa per ribellarsi a mio padre che voleva si tagliasse i capelli. Questi due fatti si sono uniti nella mia testa e ho pensato a una storia che rendesse omaggio alla generazione che mi ha preceduto, quella capace di reagire e dare nuova luce a una Spagna che veniva da Franco. (…) Racconto questa storia del passato perché parla anche all’oggi, a quei ragazzi che in tempo di crisi sono disillusi. C’è bisogno che reagiscano, che mostrino il loro coraggio. (David Trueba) Parla il regista Quello della Rivoluzione Culturale è un argomento ancora sensibile nel mio paese. Perciò ho voluto scegliere una prospettiva molto personale. Le vicende di una singola famiglia per riflettere la società cinese di quell’epoca. Dal punto di vista stilistico, il film appartiene alla mia cultura personale ma anche alla tradizione cinese: basta guardare alla pittura, che ha una struttura minimalista eppure rappresenta una grande bellezza. (…) Per Lettere di uno sconosciuto ho scelto uno stile monocromatico, non volevo distrarre il pubblico dalle emozioni dei personaggi. Tutti i miei film, grandi o piccoli, hanno al centro sentimenti, storie e destini di uomini e donne. (Zhang Yimou) mente straniante), quella balcanica coinvolge non solo per l’aspetto etnografico, ma anche per la consapevolezza (di idee e di volontà) con cui l’occhio dell’autrice media tra la durezza della montagna d’inverno e quella degli abitanti (…). Per questo, mentre riconosciamo le qualità della cineasta e il coraggio della Vivo Film di Gregorio Paonessa e Marta Donzelli che insieme alla Colorado Film ha investito in una produzione indubbiamente difficile e di non facile appeal, nondimeno ci resta il dubbio di quanto più emotivamente trascinante avrebbe potuto essere se si fosse data appena un po’ più di libertà e spazio al calore, alla passione, alla empatica sporcizia della realtà (per la parte italiana). (Massimo Lastrucci) (…) Vergine giurata è un’opera caratterizzata da grande rigore formale, da uno stile essenziale con cui la Bispuri privilegia l’interazione psicologica, il non detto. Il risveglio dei sensi è l’elemento centrale della narrazione, che prende il via dall’arrivo di Hana/Mark in Italia per andare avanti e indietro nel tempo. (…) Oltre a confermare l’eccellente lavoro di scavo psicologico e di Alba Rohrwacher, che recita anche in albanese, va menzionato il lavoro sulla fisicità dei corpi, su una sensualità che emerge con una forza inedita per il cinema italiano. (Mario Mazzetti) La commedia, più o meno sofisticata, è da sempre un genere perfetto per raccontare la lotta tra i sessi, in maniera non necessariamente conciliante. Negli Stati Uniti, dagli anni Trenta di Accadde una notte a Katharine Hepburn & Spencer Tracy, da Woody Allen ai giorni nostri, è un terreno agonistico che mette ogni volta in scena, volendo, le origini del legame sociale e la forma pura del rapporto tra maschi e femmine. Les Combattants prende alla lettera la lotta tra i sessi, e ambienta il classico “boy meets girl” in una scuola di addestramento paramilitare, e poi in un percorso di sopravvivenza a due nei boschi. Arnaud ha appena perso il padre e con il fratello monta coperture per piscine e strutture simili. Madeleine, di estrazione più borghese, è una misantropa mascolina e aggressiva, ossessionata dalla fine del mondo, che si iscrive al campo per «essere pronta a sopravvivere». I due si combattono dalla prima scena, ma poi sono costretti a collaborare, e comunque è chiaro che si piacciono da subito. Infatti la foresta in cui sopravvivere diventa ben presto un bislacco e certo non troppo confortevole giardino d’amore. Il film è passato con successo alla Quinzaine des Réalisateurs di Cannes e ha ricevuto vari premi César. Il regista, l’esordiente Thomas Cailley, mostra notevole talento di scrittura e di regìa: maneggia un ritmo sospeso e un umorismo sottile, e costruisce le gag attraverso la composizione delle inquadrature. Soprattutto, sa far interagire paesaggio e personaggi: i due giovani protagonisti sono molto efficaci, in particolare Adèle Haenel, buffa e irresistibile Pentesilea moderna (sulla sua fisicità si regge molto del film). Mentre i boschi dell’Aquitania, luogo natale di Cailley, fungono da versione aggiornata del classico Connecticut di Susanna e film simili, mondo verde in cui i conflitti arrivano a scioglimento. Les Combattants, che dapprima può sembrare perfino un po’ esile e svagato, cresce man mano, e riserva un finale sorprendente, metaforico ma non troppo, che suggerisce allo spettatore cosa significa, oggi, «prepararsi a sopravvivere», anche senza bisogno di perdersi nei boschi. (Emiliano Morreale) Valeva la pena di aspettare tredici anni il ritorno sul set di Peter Bogdanovich: il suo She’s Funny That Way è un gioiello di verve, di eleganza e di stile, una commedia sofisticata come non se ne vedono più, a metà strada tra Lubitsch, Woody Allen e Feydeau, ambientata nella romantica New York dei teatri di Broadway, nella magica metropoli che non dorme mai e sa assecondare sogni e desideri, dove è facile incontrare l’amore e liberarsi delle nevrosi. E infatti tutti si innamorano, o si illudono di farlo, in un fuoco di artificio di trovate che coinvolge un cast di prim’ordine, con Owen Wilson, Jennifer Aniston, Kathryn Hahn, Rhys Ifans e Imogen Poots. (Titta Fiore) indipendenti non sono riusciti a chiudere il progetto. All’insegna del risparmio: 30 giorni di riprese in tutto, bisognerebbe dirlo a certi registi italiani. Il cast prestigioso ha fatto il resto. Owen Wilson, Imogen Poots, Jennifer Aniston, Rhys Ifans, Kathryn Hahn, Illeanna Douglas hanno subito risposto sì al regista newyorkese, il cui nome dirà poco al pubblico dei ragazzi, ma non a chi da giovane vide L’ultimo spettacolo, Paper Moon o Saint Jack. In questo clima di affettuoso revival all’insegna della Hollywood che fu, tra omaggi a Lana Turner e Audrey Hepburn, non sorprende l’apparizione a sorpresa di Quentin Tarantino, nel ruolo di se stesso. (...) la commedia, dietro la patina nostalgica, appunto cinefila e citazionista, sfodera un cuore malizioso e una scrittura brillante, dove tutto torna, sin troppo forse, in una chiave da pochade, tra porte che si aprono e si chiudono, coincidenze, equivoci. Per la serie: «Una bella storia non dovrebbe essere rovinata dalla realtà». Pensate a un film di Woody Allen, ma più frenetico e meno senile, soprattutto meno arancione nella fotografia. (...) La frase chiave del film è: «Ridere fa bruciare le calorie più di ogni altra cosa». La ripete Bogdanovich incontrando i giornalisti: forse gli hanno detto che in sala è stato un trionfo di risate. (Michele Anselmi) E tutti risero, verrebbe da dire, parafrasando proprio il titolo di un film di Peter Bogdanovich che inaugurò la Mostra di Venezia nel 1982. Un’ovazione ha accolto She’s Funny That Way, che potremmo tradurre “É divertente (o pazza) così com’è”. Capita spesso ai festival quando, in mezzo a disastri e desolazioni, spunta una commedia all’antica hollywoodiana. Di quelle ritmate e birichine, con un po’ di sesso e New York come sfondo, più le strizzatine d’occhio giuste. (...) questa storia, nata tre lustri fa per lo scomparso John Ritter col titolo bizzarro Squirrels to the Nuts, scoiattoli alle nocciole, ha continuato a ronzargli in testa, finché due produttori Un film d’amore girato come un film d’avventura, con un’eco delle migliori commedie sofisticate americane (amore e rivalità naturalmente, se no che amore è?). Un film d’avventura in cui i paesaggi sono protagonisti quanto i personaggi, ma senza la supponenza di tanto cinema d’autore. La storia di un incontro complicato raccontata con una fantasia e un coraggio (coraggio fisico, non per dire) che coglie il modo di vivere e insieme i sentimenti profondi di tanti giovani d’oggi con una nettezza, uno slancio, una felicità a dir poco insoliti. The Fighters parte in quarta sui titoli di testa e non si ferma più. (...) Ne esce un film in cui i dialoghi nascono sempre dall’azione, e non viceversa, con una naturalezza, un divertimento, una logica emotiva semplice e insieme profonda che dovrebbero far morire d’invidia il 95% dei registi italiani. (...) un percorso di crescita che il primo film di Thomas Cailley, fotografato da suo fratello David, rende con rigore, energia e finezza insieme. Davvero da non perdere. (Fabio Ferzetti) con la collaborazione di Associazione culturale Rosse Torri La vita è facile ad occhi chiusi supplemento al n 3 del 17/2/2016 di varieventuali Federazione Italiana Circoli del Cinema 21 - 30 CINECLUB IVREA SCHEDE FILMOGRAFICHE Martedì 12 aprile 2016 ore 15.00, 17.10, 19.20, 21.30 Mercoledì 13 aprile 2016 ore 15.30, 18.00 titolo originale Bande de filles / regìa Céline Sciamma / soggetto e sceneggiatura Céline Sciamma / fotografia Crystel Fournier / musica Para One / montaggio Julien Lacheray / scenografia Thomas Grézaud / interpreti Karidja Touré, Assa Sylla, Lindsay Karamoh, Marietou Touré, Idrissa Diabate, Simina Soumare, Cyril Mendy, Djibril Gueye / produzione Hold-Up Films & Productions, Lilies Films, in associazione con Arte France Cinéma / origine Francia 2014 / distribuzione Teodora Film / durata 1 h e 52’ scheda filmografica 26 Kreuzweg – Le stazioni della fede Martedì 19 aprile 2016 ore 15.00, 17.10, 19.20, 21.30 Mercolelì 20 aprile 2016 ore 15.30, 18.00 titolo originale Kreuzweg / regìa Dietrich Brüggemann / sceneggiatura Dietrich Brüggemann, Anna Brüggemann / fotografia Alexander Sass / montaggio Vincent Assmann / scenografia Klaus-Peter Platten / costumi Bettina Marx / interpreti Lea van Acken, Franziska Weisz, Florian Stetter, Lucie Aron, Moritz Knapp, Klaus Michael Kamp, Hanns Zischler, Birge Schade, Georg Wesch, Ramin Yazdani / produzione UFA Fiction / origine Germania 2014 / distribuzione Satine Film / durata 1 h e 47’ VARIAZIONE DI PROGRAMMA scheda filmografica 27 Viviane Martedì 3 maggio 2016 ore 15.00, 17.10, 19.20, 21.30 Mercoledì 4 maggio 2016 ore 15.30, 18.00 titolo originale Gett, le procès de Viviane Amsalem / regìa Ronit Elkabetz, Shlomi Elkabetz / sceneggiatura Ronit Elkabetz, Shlomi Elkabetz / fotografia Jeanne Lapoirie / montaggio Joel Alexis / scenografia Ehud Gutterman / costumi Li Alembik / interpreti Ronit Elkabetz, Menashe Noy, Simon Abkarian, Sasson Gabai, Eli Gornstein, Gabi Amrani, Rami Danon, Roberto Pollak, Dalla Begger, Albert Illuz, Avrahram Selektar, Keren Morr, Evelin Hagoel, Rubi Porat-Shoval, Shmil Ben Ari, David Ohayon, Ze’ev Revach / produzione Marie Masmonteil, Sandrine Brauer, Shlomi Elkabetz, per Elzevir & Cie, Riva Filmproduktion, Dbg Films / origine Israele, Francia, Germania 2014 / distribuzione Parthénos / durata 1 h e 55’ scheda filmografica 28 Figlio di nessuno Martedì 10 maggio 2016 ore 15.00, 17.10, 19.20, 21.30 Mercoledì 11 maggio 2016 ore 15.30, 18.00 titolo originale Ncije dete / regìa Vuk Ršumovic / soggetto e sceneggiatura Vuk Ršumovic / fotografia Damjan Radovanovic / musica Jura Ferina, Pavao Miholjevic / montaggio Mirko Bojovic / scenografia Jelena Sopic / costumi Maja Mirkovic / interpreti Denis Muric, Milos Timotijevic, Pavle Cemerikic, Isidora Jankovic, Tihomir Stanic, Borka Tomovic, Goran Susljik, Zinaida Dedakin, Branka Selic, Mihailo Laptosevic, Draginja Voganjac, Marija Opsenica, Ljuba Todorovic, Bora Nenic / produzione Miroslav Mogorovic, per Art&Popcorn, in coproduzione con Vuk Ršumovic, per Baboon Production, Kinorama, RTS / origine Serbia 2014 / distribuzione Cineclub Internazionale / durata 1 h e 37’ VERSIONE ORIGINALE SOTTOTITOLATA scheda filmografica 29 Banana Martedì 17 maggio 2016 ore 15.00, 17.10, 19.20, 21.30 Mercoledì 18 maggio 2016 ore 15.30, 18.00 regìa Andrea Jublin / soggetto e sceneggiatura Andrea Jublin / fotografia Gherardo Gossi / musica Nicola Piovani / montaggio Esmeralda Calabria / scenografia Massimiliano Sturiale / costumi Francesca Sartori / interpreti Marco Todisco, Beatrice Modica, Anna Bonaiuto, Giorgio Colangeli, Camilla Filippi, Gianfelice Imparato, Giselda Volodi, Antonio Zavatteri / produzione Ginevra Elkann e Francesco Melzi D’Eril, per Good Films, in collaborazione con Rai Cinema / origine Italia 2014 / distribuzione Good Films / durata 1 h e 23’ scheda filmografica 30 Un film da non perdere, trascinante come la sua musica (e non solo Rihanna e ‘beautiful like a diamonds in the sky’), commuovente, scanzonato, che ci fa conoscere delle ragazzine, adolescenti, nere delle periferie da vicino e fuori, o meglio contro gli stereotipi in cui vengono solitamente imprigionate. Ma Bande de filles nuovo film di Céline Sciamma non è un film «sulla» vita difficile nelle periferie francesi - casomai sulla vita difficile nell’adolescenza tout court. L’autrice di Tomboy (...) torna infatti alle sue passioni, gender, identità, femminile per comporre un romanzo di formazione, della scoperta di sé e del proprio essere al mondo il cui «strumento» privilegiato è ancora una volta il corpo. E cosa di più esprime disagio di una sedicenne che vive (appunto) nella banlieue francese schiacciata tra un esterno e un interno entrambi di feroce aggressività? (...) La materia narrativa con cui Sciamma si confronta è estremamente delicata: il film «banlieue», la cintura parigina dura di Hlm, le case popolari ad alta concentrazione di scontro, abitate in maggioranza da neri o maghrebini, francesi certo, ma come si dice con quella patina di distorsione ipocrita del linguaggio oggi (‘adieu au langage’ diciamo con Godard) di «origine» altra. Per questo, e non solo, negli anni il paesaggio della banlieue è diventato letteratura (per capirsi in Italia saremmo dalle parti di Scampia/ Gomorra): criminale, poliziesca, compassionevole, punitiva, a suon di rap e di immagini pompate e muscolose, ritmi fagocitati e notti incendiarie. Sciamma sposta il punto di vista radicalmente. Non che quella realtà non vi sia, anzi è presente e con forza drammatica, ma il movimento del racconto che mette al centro la protagonista e le sue amiche cerca piuttosto la dimensione quotidiana di una lotta per la libertà. Confusa come si può esse- re solo da adolescenti, ed eroica nei suoi fallimenti e nella sua incertezza. Lo sguardo della regista segue Marieme e le sue trasformazioni con amore. Le ama queste ragazze che insieme a lei non devono dimostrare nulla, non sono «modelli» sociali anche se somigliano a tante altre che capita di incontrare nel metrò parigino in zona Les Halles. Ma nemmeno incarnano una statistica da cinema «impegnato» che assolutizza i propri tempi. Sono al contrario personaggi unici, e semplicemente se stesse, miscela magnifica di spavalderia e tristezza, dubbi e ricerca incessante di un posto al mondo. Così le filma la regista, piene di vita in una trasformazione anche dolorosa che rifiuta le etichette e i ruoli già decisi, vicine e complici, lei e le ragazze, ma sempre nella distanza di una dimensione narrativa che inventa personaggi senza nascondersi nella «realtà». II «gender» delle ragazze diviene una scommessa di «genere» allargato, campo di battaglia culturale in cui si confrontano i modelli di rappresentazione e di appartenenza dei personaggi (la scena in cui la ragazza arriva nel cuore della notte dal ragazzo amato è bellissima) e della regista che per avvicinarli interroga il cinema (e l’immaginario) scompigliandone le categorie. Col soffio amoroso delle sue indomite stelle. (Cristina Piccino) (…) Diamante nero è (così come lo era Tomboy) un film profondamente politico, e al di sopra di ogni programmatico “messaggio”. (Roberto Nepoti) La traduzione di Kreuzweg è via crucis. E infatti il film diretto dal giovane Dietrich Brüggemann, che lo ha scritto insieme alla sorella Anna, narra le quattordici stazioni della via crucis in quattordici episodi, ma a percorrerle è Maria, una ragazzina di 14 anni. La sua famiglia (madre forte e fanatica, odiosa, padre debole), cattolica ma lefebvriana, vive in una parrocchia dove regnano i lefebvriani. Con questa corrente integralista e anticonciliare della chiesa Wojtila tentò un accordo, ma certamente non è amata da Bergoglio, che predica l’opposto e sembra lottare per il regno di Dio su questa terra. Le stazioni della via crucis di Maria sono tutte, tranne due, raccontate con inquadrature fisse (anche molto lunghe). La prima, che già riassume e lascia prevedere il resto, è una lezione di catechismo: un giovane prete, quattro ragazzine e due ragazzini da preparare alla cresima. Tra di loro è Maria quella che si pone più domande e che ne cerca la risposta. La sua via crucis è quella di una rinuncia ai piaceri del mondo sollecitata, anzi imposta, da una madre fanatica. E anche l’amore con un coetaneo ugualmente cattolico, ma più aperto alla vita, alla terra. I suoi tormenti si accentuano, e la via d’uscita è quella della rinuncia, del sacrificio del bello e del sano in nome della fede e nella speranza che i suoi sacrifici portino alla guarigione del fratellino di quattro anni, che non parla. (…) Il rigore della regìa è assoluto e convincente, Brüggemann sa quel che vuole e si rivela regista di alto valore, perché ogni regìa dovrebbe esser mossa da una scelta e dalla coerenza nell’applicarla e queste sono qualità molto rare. A tratti fa pensare a Bresson e ai nordici più “protestanti”. Sa costruire una storia quasi per atti unici drammaturgicamente autosufficienti, e ciascuno di un’intensità e di una pregnanza inusitate, ha un’idea di cinema non compiacente che invita insieme più alla riflessione che all’identificazione. Sa comunicare allo spettatore la tensione intima di Maria, che è spirituale più che sociale o culturale. Ma, come in un bel film di qualche anno fa, Lourdes dell’austriaca Jessica Hausner, Kreuzweg termina con il dubbio, nella giusta esigenza di rispettare chi ha la fede: è certo che Maria muore perché vittima di un’educazione intransigente e crudele (il giovane prete e sua madre sono figure antipatiche, anzi odiose), ma nel momento in cui muore il fratellino parla. Il suo sacrificio ha prodotto un miracolo? Si resta nel dubbio, e gli autori non scelgono fino in fondo la loro parte. Per rispetto, certamente, più che per opportunità. Lo fanno probabilmente anche in reazione al disgustante materialismo capitalista in cui sguazziamo in attesa della fine e alle disgustanti scorciatoie dei fanatismi religiosi. Ma qualcuno avrebbe dovuto far leggere ai fratelli Brüggemann la Lettera a un giovane cattolico di Heinrich Böll, che probabilmente il papa attuale conosce bene e che probabilmente Wojtila ignorava. Parlo da non credente. Il mistero ci sovrasta, sempre, ma il regno di Dio – ognuno lo chiami come vuole – va costruito su questa terra. (Goffredo Fofi) C’è una sola informazione da sapere prima di lasciarsi andare alla visione di Viviane: in Israele non esiste il matrimonio civile, c’è solo quello religioso, e quindi il divorzio (che esiste) può essere ratificato solo da un tribunale rabbinico, che ha bisogno però del pieno consenso del marito. Fatta questa premessa si è pronti per entrare nell’aula di tribunale dove Viviane e Elisha Amsalem stanno discutendo del loro divorzio: o meglio dove Viviane chiede un divorzio che il marito non sembra intenzionato a concedere. Gli antefatti e le ragioni dei due contendenti li scopriremo scena dopo scena, anzi rinvio dopo rinvio, perché la cosa chiara da subito è che il marito non vuole concedere il divorzio alla moglie, che pure vive ormai fuoricasa, dalla sorella, da tre anni. (...) Costruito con ammirevole economia di mezzi, tutto all’interno dell’angusta aula di tribunale con poche scene nell’adiacente sala d’attesa, ritmato dalle scritte in sovrimpressione che scandiscono il passare del tempo (…), il film è uno dei più forti e commoventi ritratti di tenacia femminile che il cinema abbia offerto negli ultimi anni. E non a caso la critica francese Dominique Martinez ha paragonato alcuni dolenti primi piani della protagonista a quelli di Renée Falconetti nella Giovanna D’Arco di Dreyer. (…) Se lo spettatore finisce per schierarsi con la donna, la messa in scena cerca invece di tenere i due coniugi sullo stesso piano, o comunque di spiegare con equanimità i punti di vista opposti, affidati ora alle parole dei rispettivi legali ora ai silenzi dei due protagonisti. Concedendosi solo qualche significativa scelta di regìa, come quella delle scarpe di Viviane, eleganti e femminili durante il processo, dimesse e «penitenziali» nell’ultima, silenziosa inquadratura. Il perché di questa scelta, lo lasciamo scoprire allo spettatore. (Paolo Mereghetti) (…) Siamo alla fine degli anni 80 del Novecento, tra le montagne della Bosnia. Una fulminante sequenza iniziale ci conduce tra i boschi in compagnia dei cacciatori che sorprendono, circondano e catturano un ragazzino, un bambino che (come il Mowgli di Kipling e il Tarzan di Burroughs) non ha mai avuto contatti con la civiltà e con gli altri esseri umani, è cresciuto tra i lupi. Dunque è nudo e sporco, emette grugniti e ruggiti, morde, non sa camminare eretto. È come un animale. Viene condotto a forza e non senza fatica al villaggio e da lì inoltrato a Belgrado, presso un istituto che è un po’ orfanotrofio un po’ riformatorio. Gli danno un nome, Haris. (…) la vicenda si intreccia, con mirabile fluidità, alla contemporaneità storica. La disintegrazione della Iugoslavia, le guerre, la divisione e la ferocia etnica. Di cui il piccolo Haris, fuggitivo e casualmente coinvolto, non ha ovviamente alcuna consapevolezza. Alcuni dettagli simbolici parlano al posto delle spiegazioni: le scarpe, quelle da ginnastica sostituite con gli anfibi, la comparsa delle armi e della reciprocità di odio tra persone che appena poco prima convivevano. Il senso, che passa appunto attraverso una rappresentazione quasi muta e tutta condivisa con il punto di vista selvaggio e innocente del protagonista, è quello di un percorso che al piccolo Haris ha tolto più che dato (…). Si è parlato di “purezza” per questo film e la definizione è calzante. La condivisione di punto di vista si esprime delicatamente nei tagli di inquadratura che fanno propria l’altezza, variabile nel corso della storia, dello sguardo di Haris, facendo propri tanto la sua diffidenza che i suoi incantamenti. L’inter- prete, che si chiama Denis Muric, fornisce una prova di grande intensità. (Paolo D’Agostini) Ecco un esordio che, pur con le sue fragilità, si segnala per l’originalità di spunto, la freschezza di dialogo e l’accattivante personalità del protagonista (deliziosamente incarnato dall’inedito Marco Todisco). Definito dal regista Andrea Jublin «un piccolo Don Chisciotte della periferia», Banana è in effetti un idealista in lotta contro la mentalità del «catenaccio». Anche se il fatto di essere tondetto e di avere il piede a «banana» gli impedisce di essere un valido calciatore, il ragazzino è convinto che, sul campo da gioco come nella vita, si può aspirare alla felicità del gol (o al gol della felicità), gettandosi con slancio spericolato nella mischia. Così, pur circondato da adulti (i genitori, l’amata sorella, la prof d’italiano) depressi e rassegnati e deriso dai coetanei, Banana parte all’attacco impegnandosi nella romantica impresa di «salvare» dal disastro scolastico la compagna Jessica di cui è innamorato. Ne uscirà malconcio ma più indomito che mai e sarebbe auspicabile che il suo candido vitalismo contagiasse anche noi, stanchi spettatori di questo stanco Paese. Il film di Jublin è come il suo protagonista: sconcertante. Specie secondo i canoni del trito cinema Viviane è uno di quei film miracolosi in cui sembra non succedere niente e invece avvince con momenti drammatici e ironici, con una intensa sceneggiatura e attori eccezionali: specialmente lei, Viviane, l’attrice Ronit Elkabetz, che è anche sceneggiatrice e regista del film assieme al fratello Shlomi. (...) La battaglia tra Viviane ed Elisha (Simon Abkarian) e tra i due difensori, per lui il fratello Shimon (Sassen Gabay), per lei il bell’avvocato Carmel (Menashe Noy) è fatta di parole, di silenzi, di sguardi: irridenti, inflessibili, torvi quelli del marito, sofferenti, ostinati quelli di lei. Viviane ha una bellezza nobile e stanca, un viso pallido e intenso, meravigliosi capelli neri, che la religione considera un’arma di seduzione scandalosa, raccolti sulla nuca e che in un momento di stanchezza e sfiducia lei scioglie e accarezza, un gesto sfrontato davanti ai rabbini che la richiamano immediatamente. Anche gli abiti segnano il crescere della sua insofferenza e voglia di ribellione. Prima vestita castamente di nero e in pantaloni, poi con una camicia bianca femminile, e ancora con le belle gambe nude e i tacchi alti o con una fiammeggiante camicia rossa. Alla fine porterà delle babbucce piatte, come per affrontare un futuro di libertà ma anche di rinuncia. (...) Viviane è l’ultima parte di una trilogia i cui precedenti film non sono stati distribuiti in Italia. Israele l’ha candidato per l’Oscar al film straniero (...). (Natalia Aspesi) Il ragazzo selvaggio dei Balcani: di fronte al convincente film di Vuk Ršumovic, premio del pubblico alla Settimana della Critica veneziana 2014, è inevitabile pensare immediatamente al celebre film di François Truffaut. Anche in questo caso, infatti, il protagonista della storia è un ragazzino cresciuto nei boschi in completo isolamento, miracolosamente sopravvissuto ai rigori della natura, incapace di parlare e di camminare eretto. Entrambi i film narrano due vicende incredibili, ma se Il ragazzo selvaggio raccontava una storia vera di fine ‘700, Figlio di nessuno risulta ancora più scioccante perché ispirato a un fatto realmente accaduto nel cuore dell’Europa ai nostri giorni. (…) Di fronte ad una materia così incandescente, la scelta registica del 40enne regista di Belgrado, al suo esordio, è stata quella di puntare su una messa in scena fredda e raggelata per non cedere ad alcun ricatto sentimentale. Tutto è raccontato con una tensione crescente che esplode in un epilogo forte e imprevedibile, simbolo di un incontenibile dolore metafisico, perché la vera barbarie il protagonista la vive sulla propria pelle da civilizzato. È implicito il confronto fra il percorso esistenziale di Pucka e le vicende politiche della Jugoslavia, tradita e disintegrata. (Franco Montini) giovanilista italiano. Ecco perché malgrado i suoi difetti (perché ogni personaggio sente il dovere di fare più battute di Woody Allen?), è impossibile non provare tenerezza per il primo film di un eccentrico cineasta candidato all’Oscar nel 2008 per il corto Il supplente. Anche qui Jublin (attore efficace ne La solitudine dei numeri primi) riflette sulla necessaria follia della gioventù rispetto alle rinunce della maturità. La cosa migliore è il ‘Banana’ di Marco Todisco (già visto nel delizioso Febbre da fieno): sgraziato, volgare, romantico. Appena 16 anni ma che personalità. (Francesco Alò) (Alessandra Levantesi Kezich) Le proiezioni si svolgono presso il Cinema Boaro di Ivrea (Via Palestro, 86) secondo gli orari indicati nelle schede filmografiche. SI RAMMENTA CHE IL PROGRAMMA POTRÀ SUBIRE VARIAZIONI PER CAUSE DI FORZA MAGGIORE. CINECLUB IVREA 2015 - 2016 LIV edizione Arrivederci a settembre per l’edizione 2016 - 2017, la L V LV Schede filmografiche 21 - 30 [email protected] Diamante nero