103 - Centro Studi Cinematografici

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103 - Centro Studi Cinematografici
SOMMARIO
n. 103
Anno XVI (nuova serie)
n. 103 gennaio-febbraio 2010
Bimestrale di cultura cinematografica
Edito
dal Centro Studi Cinematografici
00165 ROMA - Via Gregorio VII, 6
tel. (06) 63.82.605
Sito Internet: www.cscinema.org
E-mail: [email protected]
Aut. Tribunale di Roma n. 271/93
Abbonamento annuale:
euro 26,00 (estero $50)
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intestato a Centro Studi Cinematografici
Spedizione in abb. post.
(comma 20, lettera C,
Legge 23 dicembre 96, N. 662
Filiale di Roma)
Si collabora solo dietro
invito della redazione
Direttore Responsabile: Flavio Vergerio
Direttore Editoriale: Baldo Vallero
Cast e credit a cura di: Simone Emiliani
Segreteria: Cesare Frioni
Redazione:
Marco Lombardi
Alessandro Paesano
Carlo Tagliabue
Giancarlo Zappoli
Hanno collaborato a questo numero:
Veronica Barteri
Elena Bartoni
Luca Caruso
Chiara Cecchini
Marianna Dell’Aquila
Tania Di Giacomantonio
Silvio Grasselli
Elena Mandolini
Diego Mondella
Fabrizio Moresco
Danila Petacco
Francesca Piano
Manuela Pinetti
Valerio Sammarco
Stampa: Tipostampa s.r.l.
Via dei Tipografi, n. 6
Sangiustino (PG)
Nella seguente filmografia vengono
considerati tutti i film usciti a Roma e
Milano, ad eccezione delle riedizioni.
Le date tra parentesi si riferiscono alle
“prime” nelle città considerate.
Alice in Wonderland ...........................................................................
6
Amante inglese (L’) ............................................................................
4
An Education .....................................................................................
22
Anno Uno ...........................................................................................
3
Baciami ancora ..................................................................................
40
Battaglia dei tre regni (La) .................................................................
29
Bocca del lupo (La) ............................................................................
7
Casa sulle nuvole (La) .......................................................................
23
Concerto (Il) .......................................................................................
2
Crazy Heart .......................................................................................
20
Dieci inverni .......................................................................................
8
Donne senza uomini ..........................................................................
38
Figlio più piccolo (Il) ...........................................................................
32
Genitori & figli: agitare bene prima dell’uso .......................................
35
Genova ..............................................................................................
14
Invictus – L’invincibile .........................................................................
9
Io & Marilyn .......................................................................................
26
Lourdes ..............................................................................................
24
Meno male che ci sei .........................................................................
41
Mine vaganti ......................................................................................
36
Missionario (Il) ...................................................................................
31
Niko – Una renna per amico ..............................................................
19
Nine ...................................................................................................
15
Onda (L’) ............................................................................................
12
Popieluszko .......................................................................................
42
Piovono polpette ................................................................................
11
Riccio (Il) ............................................................................................
34
Single Man (A) ...................................................................................
27
Tra le nuvole ......................................................................................
17
Uomo che verrà (L’) ...........................................................................
39
Videocrazy – Basta apparire .............................................................
28
Tutto Festival – Venezia 2009 ..........................................................
42
Film
Tutti i film della stagione
IL CONCERTO
(Le concert)
Francia/Romania/Belgio/Italia, 2009
Regia: Radu Mihaileanu
Produzione: Alain Attal, Radu Mihaileanu per Les Productions
du Trésor/Oï Oï Oï Productions/Castel Film Romania/Panache
Productions/France 3 Cinéma/Mars Films/Europa Corp./ Radio Télévision Belge Francophone (RTBF)/ BIM Distribuzione
Distribuzione: BIM
Prima: (Roma 5-2-2010; Milano 5-2-2010)
Soggetto: Héctor Cabello Reyes, Thierry Degrandi
Sceneggiatura: Radu Mihaileanu, Alain-Michel Blanc, Matthew
Robbins
Direttore della fotografia: Laurent Dailland
Montaggio: Ludovic Troch
Musiche: Armand Amar
Scenografia:Stanislas Reydellet, Christian Niculescu
Costumi: Viorica Petrovici, Maira Ramedhan Lévy
Co-produttori: Valerio De Paolis, André Logie, Vlad Paunescu
Line producer: Bogdan Moncea
Direttore di produzione: Xavier Amblard
Casting: Gigi Akoka, Hervé Jakubowicz
ndreï Filipov è stato il più grande direttore della famosa Orchestra del Bolshoi dell’Unione Sovietica. Licenziato proprio durante un’importante esecuzione di fronte a tutto il pubblico, perché si rifiutò di separarsi dai suoi
musicisti ebrei, si ritrova trent’anni dopo
a lavorare al Bolchoi, come uomo delle
pulizie. Un giorno, Andreï, mentre si trova
nell’ufficio del direttore, trova casualmente
un fax indirizzato al direttore stesso: è il
Théâtre du Châtelet che invita l’orchestra
a suonare a Parigi. Andreï decide di riunire i suoi vecchi amici musicisti, che come
lui non vivono più di musica, e portarli a
A
Aiuti regista: Hany El-Sayed, Julie Grumbach, Olivier Jacquet,
Ovi Morariu, Michaël Pierrard
Operatore steadicam: Alessandro Brambilla
Art director: Vlad Roseanu
Arredatore: Gina Stancu
Trucco: Daniela Busoiu, Michèle Constantinides, Bernard Floch
Acconciature: Catherine Crassac, Adelina Popa
Supervisori effetti visivi: Benjamin Ageorges, Stephane
Bidault
Suono: Pierre Excoffier
Interpreti: Aleksei Guskov (Andreï Filipov), Dmitri Nazarov
(Sacha Grossman), Mélanie Laurent (Anne-Marie Jacquet),
François Berléand ( Olivier Morne Duplessis ), Miou-Miou
(Guylène de la Rivière), Valeri Barinov (Ivan Gavrilov), Anna
Kamenkova Pavlova (Irina Filipovna), Lionel Abelanski (JeanPaul Carrère), Alexander Komissarov (Victor Vikitch), Ramzy
Bedia (proprietario del ‘Trou Normand’), Laurent Bateau
Durata: 120’
Metri: 3300
Parigi, spacciandosi per il Bolshoi. L’amico e musicista Sacha e la moglie Irina, lo
spronano e aiutano nell’impresa. In soccorso arriva il loro ex impresario Ivan, proprio colui che trent’anni prima li aveva
umiliati; Sacha accetta con difficoltà il suo
aiuto, non avendolo ancora perdonato del
tutto. Ma, proprio grazie ad Ivan, la ritrovata orchestra chiede e ottiene tutte le opzioni contrattuali proposte al direttore
Jean-Paul Carrère di Parigi, fra cui anche la presenza della giovane e famosa
solista Anne-Marie Jacquet. Andreï e Sacha parlano di Anne-Marie in modo tale,
da far supporre che in realtà la ragazza
2
sia proprio figlia di Andreï. Con difficoltà,
arrivano finalmente a Parigi. Le prove saltano per dispiacere di Sacha e Andreï, visto
che tutti i componenti dell’orchestra stanno approfittando del soggiorno parigino per
fare soldi, dimenticandosi del concerto in
programmazione la sera successiva. Andreï
riesce ad incontrare Anne-Marie, nonostante le remore di Guylène, manager della ragazza. Durante la cena, Andreï le racconta di quel concerto e di tutte le loro vite
spezzate, mettendo particolare enfasi sulla storia della solista di allora, Lena e del
marito Izac, anche lui musicista dell’orchestra. Anne-Marie lo lascia al tavolo,
dicendo che lei non potrà mai sostituire
quella ragazza, per cui lei non parteciperà al concerto. Sacha, vedendo l’amico in
pezzi, decide di parlare con Anne-Marie,
facendole capire che tutto quello che crede
di sapere su suoi genitori morti, sono solo
bugie e che proprio alla fine del concerto
troverà il suo vero padre e madre. Incredula, Anne-Marie all’inizio rifiuta per poi andare nell’albergo dove alloggia l’orchestra;
proprio lì viene vista da un componente dell’orchestra che sembra quasi riconoscerla.
A tutti i musicisti dell’orchestra arriva un
sms in cui viene espressamente chiesto di
andare a suonare in ricordo di Lena. La sera
del concerto tutti sono presenti, persino Ivan
resta in teatro per bloccare in uno sgabuzzino, il vero direttore del Bolshoi, giunto disgraziatamente a Parigi per una vacanza
in famiglia. Inizia il concerto: tutti suonano egregiamente e Anne-Marie si commuo-
Film
ve. Mentre dirige, Andreï si ricorda di Lena
ed Izac, i veri genitori di Anne-Marie, entrambi morti in un campo di concentramento; per salvare la loro unica figlia, la affidarono a Sacha e Andreï che, a loro volta,
la diedero a Guylène che stava andando a
lavorare a Parigi.
Il concerto finisce: tutti applaudo. Parte un tour mondiale di grande successo.
n concerto d’emozioni. Tutto il film
è un crescendo, proprio come la
musica di Cajkovskij, che culmina nella scena madre. Il finale riconciliatore di Andreï col suo passato, di Anne –
Marie con i fantasmi dei propri genitori ritrovati, di ogni personaggio col proprio
conto in sospeso, è ben scritto ed egregiamente recitato. Inevitabile, quindi, commuoversi di fronte alle lacrime della giovane violinista, o con la passione per la musica del protagonista.
Grottesco e divertente, Il Concerto miscela con astuzia scene drammatiche e
non, grazie anche a una sceneggiatura ben
scritta che scorre come un ingranaggio ben
U
Tutti i film della stagione
oliato. Giocato bene il colpo di scena dell’identità dei genitori di Anne – Marie. Per
come sono seminati gli indizi e per quella
convenzione implicita, per cui il protagonista è al centro di ogni plot del film, si pensa
che Andreï sia il vero padre della ragazza;
invece, altri non è che la figlia di due cari
amici ormai morti e di cui Andreï si sente il
diretto responsabile di tale tragedia.
Presentato al Festival del Cinema di
Roma, Il Concerto affronta bonariamente le
differenze culturali fra occidente e oriente,
simboleggiate dal direttore di Parigi, JeanPaul Carrère e da Ivan. Il quadro della Russia che viene ritratto non è certo dei più
moderni o accattivanti; tant’è vero che finchè non ci viene mostrata Parigi, o lo stesso
Jean-Paul, si pensa che il film sia ambientato negli anni Ottanta. Così ben orchestrato
questo gioco temporale, che quando la falsa orchestra si trasferisce in Francia, sembra quasi esserci stato un vero e proprio salto
nel tempo. Il merito del film è sicuramente
quello di mostrarci tali differenze, con relative difficoltà interpersonali, senza deridere
nessuna delle due parti e senza eccedere:
semplicemente ci mostra ciò che è la realtà,
è il pubblico che osserva e capisce.
Il film resta, in primis, la storia di un
riscatto, di una rivalsa che ha aspettato
trent’anni per compiersi. Pazienza e paura, desiderio e timore, si mescolano in
Andreï; così anche nello spettatore che
parteggia inevitabilmente per il protagonista e sogna con lui di raggiungere quel
palcoscenico e poter così concludere il
sospirato concerto. Così ben girato e interpretato che, non appena Andreï si trova di fronte all’orchestra, è così palpabile
la sua emozione, che inevitabilmente si riflette sul pubblico. Viene quasi voglia di
incitarlo a incominciare, nonostante la paura sua e nostra, che possa rivelarsi un
fiasco totale.
Radu Mihaileanu, già regista di Train
de vie e Vai e vivrai, esegue un film degno
di attenzione, dirigendo con maestria i
competenti attori; su tutti l’interprete di
Andreï, Alexeï Guskov.
Si ride, si piange, proprio com’è la vita.
Elena Mandolini
ANNO UNO
(Year One)
Stati Uniti, 2009
Regia: Harold Ramis
Produzione: Judd Apatow, Clayton Townsend per Columbia
Pictures/Ocean Pictures/Apatow Productions
Distribuzione: Sony Pictures Releasing Italia
Prima: (Roma 6-11-2009; Milano 6-11-2009)
Soggetto: Harold Ramis
Sceneggiatura: Harold Ramis, Gene Stupnitsky, Lee Eisenberg
Direttore della fotografia: Alar Kivilo
Montaggio: Craig P. Herring, Steve Welch
Musiche: Theodore Shapiro
Scenografia: Jefferson Sage
Costumi: Debra McGuire
Produttore esecutivo: Rodney Rothman
Produttore associato: Andrew Epstein
Co-produttori: Harold Ramis, Laurel A. Ward
Casting: Tara Duncil, Chris Gray, Jeanne McCarthy
Aiuti regista: Dieter ‘Dietman’Bush, Mark Cotone, E.J. Foerster,
Jon Mallard, Dawn Massaro, Matt G. Sheets, Yumiko Takeya
Operatori: Brown Cooper, Robert Foster, Tom Hutchinson,
Monty Rowan, Gerard Sava
Art director: Richard Fojo
Arredatore: Dorree Cooper
Trucco: Kim Ayers, Robin Beauchesne, John Blake, Stacey
Herbert, Ann-Maree Hurley, Jack Lazzaro, Courtney Lether,
Rose Librizzi, Roz Music, Kim Perrodin, Viola Rock, Yolanda
nno uno. Zed e il suo amico Oh
vivono in una tribù di uomini primitivi, divisa in raccoglitori e cacciatori, dominata dal violento Marlak. Zed
A
Sheridan, Nicole Sortillon
Acconciature: Yvonne Depatis-Kupka, Patricia Gundlach, Jules
Holdren, Jennifer Jane, Norma Lee, Ann Marie Luddy, Maxine
Morris, Roz Music, Theraesa Rivers, Tommie Strawther, Tony Ward
Supervisore effetti speciali: Bob Shelley
Supervisore effetti visivi: Jamie Dixon (Hammerhead
Productions)
Coordinatori effetti visivi: Collin Fowler, Kelly Rae Kenan
(Hammerhead Productions)
Supervisore costumi: Careen Fowles
Interpreti: Jack Black (Zed), Michael Cera (Oh), Oliver Platt
(Gran Sacerdote), David Cross (Cain), Christopher MintzPlasse (Isaac), Vinnie Jones (Sargon), Hank Azaria (Abraham),
Juno Temple (Eema), Olivia Wilde (Principessa Inanna), June
Diane Raphael (Maya), Xander Berkeley (Il Re), Gia Carides
(La Regina), Horatio Sanz (Enmebaragesi), David Pasquesi
(Primo Ministro), Matthew Willig (Marlak), Harold Ramis
(Adam), Rhoda Griffis (Eve), Gabriel Sunday (Seth), Eden
Riegel (Lilith), Kyle Gass (Zaftig l’eunuco), Bill Hader (lo
sciamano), Marshall Manesh (venditore di schiavi), Rion Hunter
(beduino Sheik), Gene Stupnitsky (guardia), Lee Eisenberg
(Sodom Sentry), Lacie Manshack (ragazza con la banana),
Matt Besser (tizio della folla)
Durata: 100’
Metri: 2750
ama non corrisposto la bella Mya, che gli
preferisce Marlak, mentre il delicato e sensibile Oh non riesce a far colpo sulla giovane Eema. Un giorno, Zed decide di as3
saggiare il famigerato frutto proibito e
questo gli dà un’inaspettata forza. Stufo di
quella tribù, Zed decide di partire in cerca di
nuovi posti e nuovi popoli, seguito dal fedele
Film
Oh. I due si imbattono in due fratelli in lite,
Caino e Abele, e assistono all’uccisione di
Abele da parte di Caino. Zed e Oh si recano
con Caino dalla sua famiglia dove conoscono il padre Adamo. Il giorno dopo, in un
mercato, i due rivedono Maya e Eema, rapite e rese schiave. Ridotti anche loro in schiavitù, Zed e Oh riescono a scappare nel deserto. Decisi a liberare le due donne amate, i
due decidono di recarsi nella mitica città di
Sodoma. Durante il viaggio si imbattono in
Abramo che sta per sacrificare il figlio Giacobbe e riescono a fermarlo. Ospiti di Abramo, i due restano colpiti dai racconti dell’uomo su Sodoma e Gomorra, città dove regna
incontrastato il vizio. Giunti a Sodoma in
compagnia di Giacobbe, i due si imbattono
di nuovo in Caino e vengono arruolati tra i
soldati dell’esercito. La città è dominata dal
re che ha una figliastra bellissima, la principessa Inanna. Sulla popolazione grava un
periodo di grave carestia: per invocare l’arrivo della pioggia, il re presenzia alla brutale cerimonia del sacrificio delle vergini. Quella sera i due vengono invitati a un banchetto
dove regna il vizio: Oh viene indorato e costretto a fare la statua vivente e Zed viene
corteggiato dalla principessa. Mentre Oh viene circuito dall’orrido Gran Sacerdote che
lo costringe a massaggiarlo sul suo laido
corpo peloso, Zed, scambiato per l’’Eletto’,
viene costretto dalla principessa a entrare nel
“sancta santorum” e a parlare con gli dèi.
Dentro il santuario incontra Oh e pronuncia
una serie di preghiere. Subito dopo, però, i
due vengono fatti prigionieri dal re e condannati per i crimini più svariati. Condotti
al patibolo, di fronte al re e al popolo, i due
vengono condannati a essere lapidati. Zed
arringa il popolo che inneggia a lui come
“l’Eletto” e lo salva. Ma, poco dopo, Maya
Tutti i film della stagione
e Eema vengono condotte sul patibolo per
essere sacrificate. Con una serie di atti eroici, Zed salva tutti, mentre il Gran Sacerdote
viene gettato nel fuoco sacrificale. Improvvisamente la pioggia cade copiosa. La città
è salva. Zed e Oh sono vittoriosi, conquistano l’amore delle loro donne e la principessa
li ringrazia. Le strade dei due ora si dividono in cerca di nuove avventure.
spasso nel tempo. Ancora una
volta in chiave demenziale. E già,
il cinema italiano della ditta Vanzina bros., qualche anno fa aveva riletto in
chiave comica i viaggi nel tempo mandando
su e giù per la storia i suoi sguaiati protagonisti (l’ex coppia d’oro della commedia italiana Boldi-De Sica) in un film intitolato appunto A spasso nel tempo (era il 1996 e dato il
successo un anno dopo fu subito sequel).
A dire il vero, più che alla ditta italica, il
regista Harold Ramis sembra essersi ispirato a un film come La pazza storia del mondo
con Mel Brooks. Qui, a zonzo nel tempo e
nello spazio, a metà strada fra eventi storici
e biblici, ci va qual faccione buffo e simpatico di Jack Black, accompagnato dal faccino
imberbe di Michael Cera (già visto nella commedia Juno nei panni di un padre adolescente). Ma, a dire il vero, si viaggia un po’ troppo
a casaccio, spaziando da episodi dell’Antico Testamento, come l’omicidio di Abele da
parte di Caino o il sacrificio di Isacco, per
finire (naturalmente) a Sodoma.
L’effetto comico dovrebbe (il condizionale
è d’obbligo) scaturire dalle battute (rigorosamente attuali) pronunciate dai due cavernicoli che passeggiano per l’antichità.
Spesso si scade nella volgarità che noi
italiani, abituati a prodotti come i ‘cinepanettoni’, conosciamo bene. E tra rumorac-
A
ci e battutacce, citiamo due “perle”: Black
che assaggia le feci e Cera che si fa la
pipì in faccia mentre è appeso a testa in
giù in prigione.
Inutile dire che Harold Ramis ha fatto
di meglio dirigendo l’esilarante Terapia e
pallottole e, ancora prima i simpatici Mi
sdoppio in quattro e Ricomincio da capo,o
scrivendo la sceneggiatura di un ‘cult’ come
Animal House.
Qui quel che resta è ben poco: il faccione buffo di Black, l’altro faccione di Oliver
Platt, gustoso nei panni di un laido ‘Gran
Sacerdote’, la bellezza ipnotica di Olivia
Wilde nei panni della principessa Inanna.
Il resto è demenzialità già vista.
Siamo a metà strada tra la satira dei
Monthy Python e lo stile “antenati”, ma si
resta sospesi a metà, indecisi tra il biblico
e il preistorico. Siamo comunque lontani
dalla farsa irriverente degli argomenti biblici di Brian di Nazareth (1979) con i Monthy Python scatenati e ancora al gran completo. Ma siamo distanti anche da ‘cult’ del
genere preistorico come il nostrano Quando le donne avevano la coda, diretto nel
lontano 1970 da Pasquale Festa Campanile, sedicente farsa grossolana e pecoreccia (nonostante il soggetto rechi la firma di un fine letterato di nome Umberto
Eco).
Qui le donne non hanno la coda, ma
hanno bellezza e intelletto superiore ai due
protagonisti, pasticcioni e un po’ addormentati, anche se uno dei due addenta
arditamente il frutto proibito. D’altronde i
tempi sono cambiati … oppure no?
Non ci resta altro, si invochi un diluvio
(universale) di fischi.
Elena Bartoni
L’AMANTE INGLESE
(Partir)
Francia, 2009
Regia: Catherine Corsini
Produzione: Michel Seydoux, Fabienne Vonier per Pyramide
Productions/ Caméra One/ VMP/ Solaire Production; con la
partecipazione di Canal+/ CinéCinéma e in associazione con
Cofinova 5
Distribuzione: Teodora Film
Prima: (Roma 5-3-2010; Milano 5-3-2010)
Soggetto e sceneggiatura: Catherine Corsini, Gaëlle Macé
Direttore della fotografia: Agnès Godard
Montaggio: Simon Jacquet
Musiche: Georges Delerue, Antoine Duhamel
Scenografia: Laurent Ott
Costumi: Anne Schotte
Direttori di produzione: Marc Fontanel, François Pascaud
Casting: Brigitte Moidon
Aiuti regista: Olivier Genet, Marc Mameaux
Coordinatore effetti visivi: Émilie Feret
Suono: Olivier Dô Hùu, Benoît Hillebrant
Interpreti: Kristin Scott Thomas (Suzanne), Sergi López (Ivan),
Yvan Attal (Samuel), Bernard Blancan (Rémi), Aladin Reibel
(Dubreuil), Alexandre Vidal (David), Daisy Broom (Marion),
Berta Esquirol (Berta), Gerard Lartigau (Lagache), Geneviève
Casile (madre di Samuel), Philippe Laudenbach (padre di
Samuel), Michèle Ernou (sig.ra Aubouy), Jonathan Cohen
(banchiere), Hélène Babu (Dorothée), Mama Prassinos (sig.ra
Dubreuil ), Philippe Beglia ( antiquario ), Asun Planas
(trentenne), David Faure (capo del personale), Sali Cervià (ragazza alla stazione di servizio)
Durata: 85’
Metri: 2330
4
Film
n una bella villa della provincia
francese del midi, Suzanne, giunta anni prima dall’Inghilterra,
vive con il marito Samuel, ortopedico
presso la clinica locale e due figli. Suzanne vuole riprendere la sua attività di chinesiterapista, abbandonata al momento di
mettere su famiglia; per questo Samuel le
attrezza uno studio in un locale abbandonato, affidandolo per la ristrutturazione
a una piccola impresa edile di un conoscente.
Vi lavora come operaio Ivan, simpatico catalano dal passato un po’ difficile
(un anno in galera) e dal presente ugualmente difficile (brutto rapporto con l’ex
moglie che a stento gli fa vedere la bambina).
In seguito a un banale incidente che
impedisce a Ivan di guidare per recarsi in
Spagna un giorno dalla figlia, Suzanne si
offre di accompagnarlo. È solo un piccolo
bacio sfuggente che avviene tra i due in
territorio spagnolo ma è quello che basta
per far scoppiare tra Suzanne e Ivan una
passione sconvolgente al loro rientro in
Francia.
Suzanne perde del tutto la testa e confessa, non sapendo vivere una vita di
menzogne, tutto al marito. Questi, a parte
lo sdegno e l’ira per lei, afferma che non
la lascerà mai libera perchè è sua moglie e il suo posto è in casa sua con la
sua famiglia. Dopo un’ultima scenata a
base di schiaffi Suzanne se ne va senza
voltarsi indietro. Qui cominciano i problemi. I due amanti infatti sono senza un
soldo e ogni loro iniziativa per mantenersi è resa vana da Samuel, uomo potente, ammanigliato in provincia con la
gente che conta e quindi fortissimo. Per
prima cosa Ivan perde il lavoro nell’edilizia, è il sindaco, amico di Samuel a fargli terra bruciata; Suzanne, a cui è ritirata la carta di credito non riesce neanche a fare la cassiera in un supermercato; insieme tentano di sbarcare il lunario raccogliendo la frutta per i mercati
generali. Poi Suzanne decide di dare la
svolta: in casa del marito c’è anche molto di suo che le è stato regalato o che lei
ha contribuito a comprare, quadri, preziosi etc. È giusto che il dovuto (in fin
dei conti un’eventuale causa di divorzio
dovrà pure riconoscerle qualcosa) torni
in mano sua. Un giorno in cui il resto
della famiglia è fuori, Suzanne e Ivan
entrano in casa e portano via quadri e
oggetti di valore. Samuel risponde senza pensarci due volte e li denuncia: davanti alla casa del ricettatore Ivan trova
la polizia, è la fine. Samuel costringe
Tutti i film della stagione
I
Suzanne a scegliere: se ritorna a casa il
suo amante sarà libero e così è, anche
perchè è lo stesso Ivan ad ammettere che
per loro non c’è futuro.
Suzanne torna a casa e dopo un periodo in cui vive in famiglia come una malata, più morta che viva, una notte carica un
fucile e uccide Samuel nel sonno. Così è
davvero tutto finito.
anno più volte citato La signora
della porta accanto di Truffaut: ma
lì c’era tanta, tantissima passione, uno sconvolgimento che poteva sciogliersi unicamente nella morte di entrambi (“nec cum te, nec sine te vivere possum”, ce ne ricordiamo? Non posso vivere né con te, né senza di te), un amour
fou inquadrato secondo una disperazione tutta personale, tutta intima, carica di
sentimenti, pulsioni e desideri appartenenti esclusivamente alle persone (sappiamo che a Truffaut non interessava il
sociale, né piaceva dare alle storie un taglio pubblico, politico, né, tantomeno, ideologico); lo stesso marito tradito della Ardant era un intellettuale, sensibile, innamorato, che si dimostrava, senza alzare
mai la voce, smarrito e incapace di comprendere tutta la sofferenza che gli veniva gettata addosso.
Qui no, qui il film è duro, violento, è
una guerra tra sessi e ceti sociali, in cui
l’amore e la passione sono mezzi per far
deflagare il conflitto e arrivare alla resa
dei conti. Con la passione Suzanne reclama la propria voglia di autodeterminazione e di libertà, sfidando valori e regole
di una società borghese che più borghese non si può. Samuel rivendica il suo di-
H
5
ritto di proprietà, l’affermazione anche figurativa del proprio status: non chiede alla
donna né amore né dedizione, ma le impone di fare e di essere moglie perchè
moglie è, ora e per sempre, in casa, nella
sua casa, dorata sì, ma di cui nulla le può
appartenere.
Così nelle scene di sesso, anche prima della crisi, per Samuel è sempre un
atto di dominazione da ufficializzare su
una preda abbattuta in un territorio di
caccia. Per Ivan, invece, la passione e il
sesso sono un modo per giocare alla
pari, in cui due corpi imperfetti, ma liberi, sono in grado di piacersi, lontano da
curve e linee televisivamente smaltate,
perchè hanno dalla loro parte la sincerità e la dignità che scambievolmente si
regalano.
Contemporaneamente, però, il sorriso
umano e disponibile di Ivan non può nascondere quello che uno come lui sa da
generazioni mentre a una come Suzanne
pare assurdo: la forza sempre vincente
dell’unica arma che non ha rivali, il denaro. È con il denaro che Samuel piega la
situazione a suo favore; è per denaro che
i due amanti si dichiarano sconfitti, Ivan
per primo, perchè forse ha sempre saputo
come sarebbero andate le cose; è a causa del denaro che Suzanne prima ammattisce e poi uccide.
Bravissimi i tre interpreti, nella loro
violenza, nella loro verità; il cinema francese sa ancora darci passioni ed emozioni che vogliono opporsi al destino, indipendentemente dal prezzo che c’è da
pagare.
Fabrizio Moresco
Film
Tutti i film della stagione
ALICE IN WONDERLAND
(Alice in Wonderland)
Stati Uniti, 2010
Regia: Tim Burton
Produzione: Joe Roth, Jennifer Todd, Suzanne Todd, Richard
D. Zanuck per Walt Disney Pictures/ Roth Films/The Zanuck
Company/ Team Todd
Distribuzione: Walt Disney Motion Pictures
Prima: (Roma 3-3-2010; Milano 3-3-2010)
Soggetto:tratto dai romanzi Alice nel paese delle meraviglie e
Attraverso lo specchio di Lewis Carroll
Sceneggiatura: Linda Woolverton
Direttore della fotografia: Dariusz Wolski
Montaggio: Chris Lebenzon
Musiche: Danny Elfman
Scenografia: Robert Stromberg
Costumi: Colleen Atwood
Produttori esecutivi: Chris Lebenzon, Peter M. Tobyansen
Produttore associato: Derek Frey
Co-produttori: Katterli Frauenfelder, Linda Woolverton
Direttore di produzione: Tommy Harper
Casting: Susie Figgis
Aiuti regista: Katterli Frauenfelder, Sarah Hood, Emma Horton,
Brandon Lambdin, Bryn Lawrence, Gregory J. Pawlik Jr.
Operatori: Adam Meltzer, P. Scott Sakamoto, Martin Schaer
Operatore Steadicam: P. Scott Sakamoto
Art directors: Tim Browning, Todd Cherniawsky, Stefan
Dechant, Andrew L. Jones, Mike Stassi, Christina Ann Wilson
Arredatori: Karen O’Hara, Peter Young
Effetti speciali trucco: Bill Myer, Christopher Allen Nelson,
Arjen Tuiten
Trucco: Corinne Bossu, Leslie Devlin, Tamsin Dorling, Louise
Fisher, Susan Stepanian, Emilio Uribe, Patty York
Acconciature: Terry Baliel, Paul Gooch, Miia Kovero, Paul
Mooney
Supervisori effetti speciali: Michael Dawson (UK), Michael
Lantieri
Supervisori effetti visivi: Craig Barron (Matte World Digital),
David Ebner (CafeFX), Ben Grossmann (CafeFX), Michael C.
Miller, Sean Phillips, Ken Ralston, Tim Sassoon, Jared James
Vest (In-Three Inc), Carey Villegas
Coordinatori effetti visivi: Christopher Blasko, E.M. Bowen
(New Deal Studios), Shari B. Ellis (SPI), Kristy Lynn Fortier,
Wendy Hulbert (CafeFX), Llyr Tobias Johansen, Jeanny Lee,
Sarah Mihalec (Sony Imageworks), Kevin Noel, Caprice Ann
Ridgeway (CafeFX), Ariane Rosier (CafeFX), Amanda Roth
a diciottenne Alice è ospite a una
festa nella signorile villa di un
fortunato armatore, il quale le ribadisce di non avere sfruttato la morte del
padre di lei; di lui Alice ha un fortissimo ricordo, unito a immagini del proprio “viaggio nel Paese delle meraviglie”, le quali stanno ritornandole alla memoria proprio in
mezzo a questa situazione. Mentre il figlio
del suo ospite sta facendole l’ufficiale dichiarazione di fidanzamento, ella è confusa; si
allontana; presso un albero cade in una buca
e finisce a testa in giù in una stanza, la cui
uscita è una minuscola porticina. Su un tavolo ci sono una chiave e una boccetta, Alice
beve e diventa piccolissima; ma lascia la
chiave sul tavolo: per fortuna, trova una fet-
L
(Legend Films), Anthony Ruey (CafeFX), Alessandra Serrano
(CafeFX), Beth Tyszkiewicz
Supervisore effetti digitali: Danny Braet (CafeFX)
Supervisori costumi: Anthony Almaraz (Mocap), Donna
O’Neal
Supervisori animazione: Marco Marenghi (SPI), David
Schaub, James Straus (CafeFX)
Animazione personaggi: Chris Endicott (SPI), Dave Hardin, Ken
Satchel King (SPI), Andrew Lawson, Nathan McConnel (SPI),
Ray Pena (CafeFX), Ana Maria Alvarado, Benjamin Cinelli,
Jeremy Collins, Joel Foster, Dave Hardin, Sebastian
Kapijimpanga, Michael Kimmel, Pericles Michielin (SPI), Ryan
Page, Jim Winquist, Paul Wood
Animazione: Wade Hampton (CafeFX), Paul Newberry
(CafeFX), Zach Parrish, Ray Pena (CafeFX), Roger Vizard
(SPI), Christopher D. Williams, Ryan Yee (SPI), A. Ibrahim
Basha, Ian Blum (CafeFX), Rahul Dabholkar, Claudio de
Oliveira, Hope Omen Ferdowsi, Robert Fox, Michael Galbraith,
Josh Gridley, Jordan Harris, Blake Kenneth Johnson, Ken
Kaiser, Claus Pedersen, Sandra Ryan-Moran, Denis Samoilov,
Pushparaj Sethu, Keith W. Smith, Liron Topaz, Chris Tost,
Carolyn Vale, Jeff Kim, Mike Beaulieu (Sony Imageworks),
Jacques Daigle, Derek Esparza
Interpreti: Mia Wasikowska (Alice), Johnny Depp (Cappellaio
Matto), Helena Bonham Carter (Regina Rossa), Anne Hathaway
(Regina Bianca), Crispin Glover (Fante di cuori), Matt Lucas (Pinco
Panco/Panco Pinco), Stephen Fry (Ghignagatto), Michael Sheen
(Bianconiglio), Alan Rickman (Bruco), Barbara Windsor (Ghiro),
Marton Csokas (Charles Kingsleigh), Tim Pigott-Smith (Lord
Ascot), John Surman, Peter Mattinson (collaboratori), Lindsay
Duncan (Helen Kingsleigh), Geraldine James (Lady Ascot), Leo
Bill (Hamish), Frances de la Tour (zia Imogene), Jemma Powell
(Margaret Kingsleigh), John Hopkins (Lowell), Eleanor Gecks
(Faith Chattaway), Eleanor Tomlinson (Fiona Chattaway), Michael
Gough (Dodo), Imelda Staunton (volto degli Alti Fiori), Mairi Ella
Challen (Alice a sei anni), Holly Hawkins (donna con il grosso
naso), Lucy Davenport (donna con grandi orecchie), Joel Swetow
(uomo con la grande pancia), Ethan Cohn (uomo con il grande
mento), Richard Alonzo (uomo con la grande fronte), Harry Taylor
(capitano della nave), Jessica Oyelowo, Christopher Lee, Rebecca
Crookshank, Timothy Spall, Paul Whitehouse
Durata: 108’
Metri: 2960
ta di torta, la mangia, cresce e prende la chiave, beve di nuovo e può aprire la porta. Mentre fa queste azioni, sentiamo due voci: “Hai
preso l’Alice sbagliata”; “È quella giusta”;
sono voci che si ripeteranno alle varie azioni della ragazza; sono quelle dei due personaggi che erano stati inviati a cercarla. E lei
ripeterà spesso che “questo è un sogno” e
che certo si sveglierà. Alice entra in uno stupendo giardino e, a una tavola imbandita,
trova il Cappellaio Matto che con altri personaggi le mostra un rotolo di pergamena
dove è scritto che proprio lei deve liberare il
paese dal dominio della Regina Rossa e del
mostro volante Ciciarampa, che le assicura
il potere e le permette di mandare in malora
il regno. All’arrivo del Fante di Cuori, cava6
liere della Regina Rossa, tutti fuggono e lei
ordina ai suoi di cercare la ragazza.
Alice si è persa, ma compare lo Stregatto che la porta del Cappellaio, il quale riesce fortunosamente a farla arrivare dalla
Regina Bianca, esiliata nella Rocca Tetra.
Per uccidere il Ciciarampa ad Alice serve
una spada magica, che riesce a recuperare,
sempre aiutata dai personaggi buoni, dalla
tana del ghiro; raggiunge, con la Regina
Bianca, la sua reggia, Marmorea. Si prepara la battaglia tra i due eserciti e lo Stregatto dice ad Alice che “non si vive per accontentare gli altri” e che nella battaglia
sarà sola; ma lei risponde che suo padre
sapeva guardare lontano e lei gli somiglia.
Così, più che la battaglia, si scatena il duello
Film
Tutti i film della stagione
rocambolesco tra Alice e il mostro, che lei
decapita. A questo punto, i soldati rossi si
arrendono, la Regina Bianca torna sul trono ed esilia la Rossa. Gli amici chiedono
ad Alice di restare, ma lei: “Che bella folle
idea; ma non posso, ci sono cose che devo
fare”. Esce da dove era entrata, ritrova la
situazione di festa che aveva appena lasciato, dice al fidanzato: “Non sei l’uomo giusto per me; questa è la mia vita”. Dice una
parola a tutti i familiari; e al suocero: “Con
voi devo discutere di affari”. Vediamo così
che entra in società con lui e apre nuove vie
commerciali, con la Cina: eccola su un veliero in partenza per un viaggio in Oriente.
na sequenza di spericolati movimenti di macchina su una specie
di città, che è scura, ostile: il computer li elabora frenetico per buttarci direttamente in questo incubo di Alice, la quale
ci appare subito dopo, a letto, agitata e consolata dal padre. Sembrerebbe che Burton
abbia voluto firmare il film all’inizio: suoni e
movimenti e colori sono nel suo gusto. Il
regista non poteva mancare di scatenare
la sua passione per la narrazione “gotica”
in ognuno di questi tre elementi, di cui i primi a colpirci sono i colori esasperati, i quali
elaborano quelli che il romanzo di Alice già
suggerisce, per i costumi e gli ambienti. Burton ha sviluppato negli anni il suo particolare rapporto con il mondo del cartoon, impiegando la computerizzazione per esaltare, talvolta in modo parossistico, la trasformazione di esseri viventi e di oggetti, per
creare movimenti impossibili e situazioni altrettanto impossibili, per esaltare il fantasy
gotico e l’avventuroso in modo molto personale. Ma in queste scenografie esasperate, che intersecano luci e colori chiari con
luci e colori scuri, quali vicende si realizzano? Vicende mai serene, spesso una guerra continua tra male e bene, con personaggi buoni e personaggi cattivi, mai realistici,
neppure quando hanno entrambi sfumature di una qualche verità.
Edward mani di forbice ha saputo darci una vicenda dove le diverse psicologie
dei personaggi e i loro rapporti sociali erano offerti allo spettatore con una sceneggiatura e uno stile di ripresa perfetti, perché la storia suscitasse una riflessione critica senza danneggiare il racconto. Tra tutti
gli altri film di Burton, pochi hanno avuto
questo equilibrio, e pure sembrano cercarlo, come questo Alice . Dal sogno plurimetaforico della Alice di Carroll (il film si ispira a entrambi i romanzi su di lei), Burton
ha voluto dare una modernizzazione, cercando di mantenere la “ favola “ sono passati 13 anni da quando la bambina ha avuto il sogno del mondo delle meraviglie, che
U
le ritornava ogni tanto e la realtà è pressante: Alice sta per entrare nella società
concreta e non le piace, è infastidita dal
fidanzamento e, non è un caso, che compaiano i personaggi del vecchio sogno proprio ora. Ma, anche nel mondo delle meraviglie, non riesce a credere che non sia
un sogno, continua a stupirsi di tutto; la sua
lontananza è ribadita anche dal fatto che “
ha perso la sua moltezza “, come dice il
Cappellaio. Alla fine, tuttavia, rimpiange di
non potersi fermare lì, da dove ricava la
forza per dire chiaramente che i rapporti
sociali non le vanno bene e per fare così
l’attività del padre; abbiamo quindi una Alice “di oggi”, che sa fare l’imprenditrice e
che segue le orme del padre come potrebbe fare un figlio maschio.
Ma questa attualità si realizza in una
scena che la suggerisce, non di più; non è
neppure ben preparata nel corso del racconto, salvo qualche frase qua e là di Alice
e di altri personaggi; la simbolicità che, nel
suo che piccolo, ognuno degli abitanti nel
mondo delle meraviglie ha si disperde lungo la storia; la “ trovata “ di una Alice che
ama la sua adolescenza, ma ne è anche
infastidita, una Alice che entra finalmente
nel mondo sociale e che vuole essere diversa dai rapporti insulsi che i parenti tentano di crearle non riesce ad approfondirsi
(e forse non sarebbe stato davvero possibile farlo), ma anche il mondo pur bellissimo della fantasia finisce per produrre semplicemente la guerra di un eroe che aiuta il
gruppo dei buoni a sconfiggere e distruggere quello dei cattivi; che l’eroe sia una
eroina e che nel duello finale non abbia quasi nessun aiuto ormai non è una grande
novità. Certo, l’avventura funziona come
sempre e senza dubbio il fatto di vederci
venire incontro le farfalle di un giardino, o i
fendenti delle spade in battaglia è un’accattivante novità per grandi e bambini.
Danila Petacco
LA BOCCA DEL LUPO
Italia, 2009
Regia: Pietro Marcello
Produzione: Francesca Cima, Nicola Giuliano, Dario Zonta per Indigo Film/L’Avventura Film B.V./La Fondazione San Marcellino
Distribuzione: BIM
Prima: (Roma 19-2-2010; Milano 19-2-2010)
Soggetto e sceneggiatura: Pietro Marcello
Direttore della fotografia: Pietro Marcello
Montaggio: Sara Fgaier
Musiche: Marco Messina, Massimiliano Sacchi per Era
Direttore di produzione: Michela Bianchi
Suono: Emanuele Vernillo, Riccardo Spagnol
Ricerca repertori: Sara Fgaier
Interpreti: Vincenzo Motta (Enzo), Mary Monaco (Mary)
Durata: 76’
Metri: 2100
7
Film
ilm documentario che narra la
vita, l’amore e la miseria dei vinti al giorno d’oggi. Ambientato in
una Genova affatto turistica, La bocca del
lupo si sofferma in particolare sulla vicenda
umana e sociale di Enzo, al secolo Vincenzo
Motta, quattordici anni di galera alle spalle
e un volto da cinema, di quello che non si fa
più. Ad aspettarlo pazientemente negli anni,
Mary, conosciuta in carcere nella sezione
transessuali, con cui condivide un piccolo
sogno: una casetta in campagna, un nido
d’amore tranquillo.
F
ietro Marcello (classe 1976), premiato con questo documentario
come Miglior Film al 27° Torino
Film Festival, si conferma capace di uno
sguardo unico e prezioso, come aveva già
dimostrato nel precedente Il passaggio della linea, che si era aggiudicato il Premio Pasinetti Doc alla 64° edizione della Mostra del
Cinema di Venezia (sezione Orizzonti). Ad
attirare la sua attenzione, qui, sono la miseria e le piccole, spesso inarrivabili, ambizioni dei personaggi che vivono ai margini dei
margini della società. Li vediamo raccogliersi intorno a un fuoco improvvisato tra le grotte
a ridosso del mare, dormire all’aperto, svegliati da un’alba che arriva troppo presto,
P
Tutti i film della stagione
muoversi invisibili e ignorati tra la gente indaffarata della città di Genova, mai così bella e disperata, protagonista quanto le persone in carne e ossa. Il passato e il presente
si contendono l’ammirazione dello spettatore, attraverso i filmini, amatoriali e non, realizzati da genovesi di lunga generazione.
Impagabile il lavoro di Sara Fgaier (montaggio e ricerca repertori), che con la collaborazione della Mediateca Regionale Ligure (La
Spezia) ci regala attraverso immagini scelte
la nostalgia di un tuffo spensierato, o di una
partenza verso il nuovo mondo, di quel che
poteva essere e non è stato, o non è più.
Proprio come Enzo, che ha trascorso gran
parte della sua vita in carcere, quando poteva essere un divo del cinema, di quei western che non si girano più, o, semplicemente, una persona come tutti gli altri.
Casertano, Pietro Marcello si è mosso
tra caruggi e crêuze con lo sguardo di un
forestiero curioso, e quasi in punta di piedi
ha raccontato, in soli 76 minuti, un mondo
intero. Per lui la città ligure era esistita, finora, nei ricordi del padre marittimo che da lì
si imbarcava, e raccontava al figlio di quella bella città del nord che guardava a sud.
Da sempre attento alle realtà marginali
– in passato è stato educatore in carcere –,
Marcello qui racconta la cronaca di un senti-
mento amoroso attraverso una narrazione
non lineare, miscelando abilmente passato
e presente. Il percorso di Enzo, e di Enzo e
Mary, si compone di frammenti: ascoltiamo
la loro corrispondenza amorosa registrata su
audiocassette ai tempi della prigione prima
ancora di vederli nella stessa immagine e
scopriamo senza fretta le loro storie personali, fatte di scelte sbagliate e resistenza.
Il film nasce da un’idea della Fondazione San Marcellino Onlus, gesuiti di
Genova, che da anni assiste in diversi modi
la comunità di senza tetto, emarginati, raminghi e indigenti della città ligure. Che uno
dei due protagonisti sia un transessuale,
ha avuto ben poca rilevanza. L’intento era
di raccontare non tanto l’attività della Fondazione, quanto il mondo a cui questa si
rivolge, le persone e la città. E il giovane
regista ha senz’altro centrato il bersaglio.
L’approdo finale, senza stacchi, è di
lampante semplicità: Enzo e Mary, finalmente insieme sotto lo stesso tetto (che
non è quello del carcere), si raccontano e
si stuzzicano e si riesce quasi a toccar con
mano il loro amore, mentre i loro tre piccoli cani, animati da un’incredibile vitalità,
saltano loro in braccio, festanti.
Manuela Pinetti
DIECI INVERNI
Italia/Russia, 2009
Line producer: Maria Sharabidze (Russia)
Direttore di produzione: Nicola Rosada,Irene Abrescia,
Marianna De Liso, Alessandro Del Vecchio
Casting: Béatrice Kruger, Veronika Mancino
Aiuti regista: Ciro Scognamiglio, Andrea Piazza
Operatore: Roberto de Franceschi
Trucco: Valentina Iannuccilli, Anna Gubareva
Acconciature: Donatella Borghesi
Suono: Guido Spizzico, Sergei Bubenko
Interpreti: Isabella Ragonese (Camilla), Michele Riondino
(Silvestro), Glen Blackhall (Simone), Sergei Zhigunov (Fjodor),
Sergei Nikonenko (prof. Korsakov), Liuba Zaizeva (Liuba), Alice
Torriani (Clara), Sara Lazzaro (Maria Antonietta), Francesco
Brandi (Niccolò), Luca Avagliano (Ermanno), Francesca Cuttica
(Elena), Roberto Nobile (padre di Camilla), Luis Molteni (dottore), Vinicio Capossela (se stesso)
Durata: 99’
Metri: 2740
Regia: Valerio Mieli
Produzione: Roberto Bessi, Elisabetta Bruscolini, Elio Cecchin,
Lora Del monte, Domenico Maselli per Centro Sperimentale
di Cinematografia Production/Rai Cinema/UFC-United Film
Company
Distribuzione: Bolero Films
Prima: (Roma 11-12-2009; Milano 11-12-2009)
Soggetto: dal romanzo omonimo di Valerio Mieli
Sceneggiatura: Valerio Mieli, Davide Lantieri, Isabella Aquilar,
Federica Pontremoli (Supervisione), Andrei Selivanov
(Supervisione)
Direttore della fotografia: Marco Onorato
Montaggio: Luigi Mearelli
Musiche: Francesco de Luca, Alessandro Forti
Scenografia: Mauro Vanzati
Costumi: Andrea Cavalletto
Co-produttori: Uliana Kovaleva, Igor Porshnev, Rezo
Sharabidze, Roberto Bessi
l’inverno del 1999 quando Camilla lascia la sua città per andare a studiare Letteratura russa all’università di Venezia. In una fredda
sera sulla laguna, mentre il battello la porta verso la sua nuova casa, Camilla scorge tra i passeggeri un ragazzo dallo sguar-
È
do un po’ sfacciato, ma sorridente. È Silvestro, un suo coetaneo che decide di seguirla per le calli di Venezia fino a chiederle di essere ospitato per quella notte.
Dopo aver superato le prime ore di diffidenza, Camilla tenta un approccio, ma
colpita dalla freddezza di Silvestro si al8
lontana. Camilla e Silvestro si ritrovano,
quasi per caso, dopo un anno dal loro primo incontro. Colti dalla sorpresa, ma anche da una strana gelosia reciproca, i due
ragazzi incominciano lentamente ad avvicinarsi. Ma Silvestro è fidanzato e, nonostante il legame nato tra loro, Camilla sce-
Film
glie di andare a studiare a Mosca. Tra i
due ragazzi incomincia una fitta corrispondenza che li spinge ad aprirsi l’uno all’altro ogni giorno di più.
Tornato single e dopo essersi trasferito
nella casa lasciata vuota da Camilla, Silvestro decide di raggiungerla in Russia, ma
qui scopre che lei è sentimentalmente legata al regista per il quale lavora. Deve passare un altro anno prima che si possano rincontrare. Finita la storia con il regista, infatti, Camilla torna in Italia e va a vivere
nella vecchia casa con Silvestro. Il legame
tra loro due si intensifica sempre di più, fino
al giorno della laurea di Camilla, quando
lei si allontana da Silvestro per incontrare
per l’ultima volta il suo ex compagno venuto appositamente dalla Russia. Tornata a
casa, Camilla scopre che Silvestro ha trascorso la notte con un’altra ragazza.
Passano gli anni e Camilla, fidanzata con
il migliore amico di Silvestro, aspetta un bambino. La scoperta sconvolge Silvestro al punto
di spingerlo verso un ultimo disperato tentativo di dichiararle il proprio amore.
Ormai sono passati dieci anni e, fallita
la convivenza con il suo compagno, Camilla
torna a casa del padre. Dopo averla ritrovata in uno stato di confusione e isolamento,
Silvestro decide di allontanarsi da lei anco-
Tutti i film della stagione
ra una volta. Sarà solo in occasione dell’asta
giudiziaria per la vendita della loro vecchia
casetta sulla laguna, che i due ragazzi si ritroveranno, questa volta definitivamente.
ieci inverni, opera prima del giovane regista Valerio Mieli, fa ben
sperare nel futuro del cinema italiano. Co-prodotto da Italia e Russia e acclamato alla sezione Controcampo Italiano del Festival del Cinema di Venezia 2009
(edizione caratterizzata non solo da un red
carpet da serata dei Telegatti, ma anche
dal numero davvero irrisorio di riconoscimenti alle pellicole italiane), Dieci inverni
ci fa sperare che il nostro cinema possa
riscoprire la delicatezza delle inquadrature, delle luci, dei volti e degli sguardi, del
senso delle parole dette, ma anche dei
silenzi, delle atmosfere e di tutti quei dettagli ripresi dalla camera e riscritti sul
grande schermo. Dieci inverni non è solo
la storia di un amore tra due ragazzi (interpretati da Isabella Ragonese e Michele Riondino), ma è la storia del passaggio alla maturità, alla scoperta dei cambiamenti della vita. È la storia di due che,
in fondo, non si perdono mai, ma che vanno avanti tra mille speranze, ma soprattutto con il dubbio e l’incertezza di com-
D
piere le scelte giuste e di essere adatti l’uno
per l’altro.
Valerio Mieli ha il merito di raccontare
l’amore affidando alla macchina da presa il
vero compito di parlare. Sono le inquadrature degli sguardi, dei volti, di Venezia coperta dalla nebbia o di Mosca nella morsa
del freddo, del vapore che fuoriesce dalle
bocche degli attori e dal dondolio del battello a raccontarci l’amore che nasce, che
cambia e che matura fino a superare l’ostacolo delle paure e dell’incomunicabilità.
Tuttavia, se da un lato il film ci fa riscoprire il piacere di un cinema puro (anche
grazie ai due attori principali sui quali i
personaggi sembrano cuciti su misura),
dall’altro bisogna ammettere che risultano un po’ troppi i dieci anni in cui si svolge
la storia e che forse sarebbe stato preferibile un arco temporale un po’ più breve.
Questo avrebbe permesso, quasi sicuramente, di evitare quei vuoti narrativi che si
avvertono in alcuni raccordi temporali tra
un periodo e l’altro della storia. In alcuni
momenti, lo spettatore è spinto a domandarsi, senza avere risposta, cosa è accaduto ai due personaggi nel periodo temporale che non viene raccontato.
Marianna Dell’Aquila
INVICTUS – L’INVINCIBILE
(Invictus)
Stati Uniti, 2009
Regia: Clint Eastwood
Produzione: Clint Eastwood, Robert Lorenz, Lori McCreary,
Mace Neufeld per Warner Bros. Pictures/Spyglass
Entertainment/Revelations Entertainment/Mace Neufeld
Productions/Malpaso Productions
Distribuzione: Warner Bros. Pictures
Prima: (Roma 26-2-2010; Milano 26-2-2010)
Soggetto: tratto dal libro Ama il tuo nemico di John Carlin
Sceneggiatura: Anthony Peckham
Direttore della fotografia: Tom Stern
Montaggio: Joel Cox, Gary Roach
Musiche: Kyle Eastwood, Michael Stevens (II)
Scenografia: James J. Murakami
Costumi: Deborah Hopper
Produttori esecutivi: Gary Barber, Roger Birnbaum, Morgan
Freeman, Tim Moore
Direttore di produzione: Tim Moore
Casting: Fiona Weir
Aiuti regista: Dale Butler, Bongani Dlamini, Peter Dress, Donald
Murphy, Vuyo Oyiya, Michael Swan, Marcelleno Trout
Operatori: Stephen S. Campanelli, Liz Radley, Michael Snyman
Art directors: Tom Hannam, Jonathan Hely-Hutchinson
Arredatore: Leon Van Der Merwe
Trucco: Christine Beveridge, Natasha du Toit, Raine Edwards,
Nancy Hancock, Samantha Katzen, Nadine Prigge
Acconciature: Deena Adair, Benson David, Kay Georgiou,
Simone Stubbs, Megan Tanner, Francesca Van Der Feyst
Supervisore effetti speciali: Cordell McQueen
Supervisori effetti visivi: Geoffrey Hancock, Michael Owens
Coordinatori effetti visivi: Eva Abramycheva,
Manovigianek Jehman, Kerry Joseph (CIS Hollywood), Riley
McDougall, Curtis Tsai (CIS Vancouver)
Supervisori effetti digitali: Randy Goux, Sean Lewkiw
Supervisore costumi: Jayne Forbes, Nick Scarano
Interpreti: Morgan Freeman (Nelson Mandela), Matt Damon
(François Pienaar), Tony Kgoroge (Jason Tshabalala), Patrick
Mofokeng (Linga Moonsamy), Matt Stern (Hendrick Booyens),
Julian Lewis Jones (Etienne Feyder), Adjoa Andoh (Brenda
Mazibuko), Marguerite Wheatley (Nerine), Leleti Khumalo
(Mary), Patrick Lyster (Mr. Pienaar), Penny Downie (Mrs.
Pienaar), Sibongile Nojila (Eunice), Bonnie Henna (Zindzi),
Shakes Myeko (Ministro dello sport), Louis Minnaar (allenatore delle Antilopi), Danny Keogh (presidente del Rugby), Dan
Robbertse (Boer), Robin Smith (Johan De Villiers), David
Dukas (capitano dei 747), Grant Swanby (co-capitano dei 747),
Josias Moleele (ritrattista), Langley Kirkwood, Robert Hobbs,
Melusi Yeni, Vuyo Dabula (guardie presidenziali), Jodi Botha
(ragazzo del liceo), Henie Bosman (coach del liceo), Refiloe
Mpakanyane ( Jessie), Jakkie Groenewald ( poliziotto di
Johannesburg)
Durata: 133’
Metri: 3670
9
Film
udafrica. L’11 febbraio 1990 Nelson Mandela, leader carismatico
che si è battuto contro le leggi
razziali, è stato liberato dopo 27 anni di
carcere. I cittadini di colore inneggiano per
strada davanti al campo di una squadra di
rugby di soli bianchi che si sta allenando.
Nel 1994 diventa Presidente del proprio
paese grazie alle libere elezioni. Arrivato
il primo giorno nell’ufficio presidenziale,
riunisce tutto il personale e invita i dipendenti bianchi, che avevano già fatto le valigie pensando di essere rimossi, a restare.
Poi, per la scorta presidenziale, assume
altri bodyguard che si scontrano subito con
quelli fedeli di colore. Intanto, tra le sue
molte attività, va a vedere una partita della nazionale della squadra di rugby, gli
Springbocks, bandita dagli anni ’80 da tutti
i campi di gioco a causa dell’apartheid. I
tifosi erano nella stragrande maggioranza bianchi e quelli di colore, ai quali veniva destinato un misero settore dello stadio, tifavano solitamente per quella avversaria. Nel match contro l’Inghilterra, Mandela entra nello stadio e va a salutare il
pubblico, ma riceve numerosi fischi. La
squadra, il cui capitano è François Pienaar, perde malamente, mentre il presidente, nel corso dell’incontro, parla con la sua
assistente di investimenti nella politica
estera. Per il 1995, il Sudafrica è stato scelto per ospitare i mondiali di rugby. Mandela avverte che questo evento rappresenta una grande occasione per portare avanti
il processo di riconciliazione. Mentre ce
la sta mettendo tutta per guidare al meglio
il Paese e si sta appassionando sempre più
a questo sport, la sua vita privata non procede altrettanto bene; una sera ci resta
male dopo che la sua domestica gli dice
S
Tutti i film della stagione
che la figlia ha disdetto l’appuntamento per
il fine settimana. Alcuni movimenti di cittadini di colore hanno indetto intanto una
riunione per cambiare colore ed emblema
alla maglia della nazionale. Il Presidente
però si presenta e dice a tutti i presenti che
si oppone a questa soluzione. Poi, un giorno invita il capitano Pienaar a prendere il
té da lui. La squadra intanto va in cerca di
maggiore appoggio andando a visitare diversi quartieri e a giocare con i bambini.
Mandela, invece, inizia a conoscere sempre meglio la nazionale e ha ormai imparato i nomi di tutti i giocatori riconoscendo i loro volti sul giornale.
Il mondiale inizia bene. A Città del
Capo, nella prima partita, il Sudafrica
batte l’Australia. Poi Pienaard e la squadra vanno a visitare la prigione in cui è
stato rinchiuso Mandela e il capitano resta colpito quando entra nella cella occupata da lui. Dopo aver passato il girone a
punteggio pieno, sconfigge Samoa ai quarti
di finale, la Francia in semifinale e arriva
in finale con la temutissima e fortissima
Nuova Zelanda. Tutto è pronto per il grande evento allo stadio di Johannesburg.
Provoca un po’ di apprensione un jet che
arriva radente poco prima del match. L’incontro è tiratissimo e, alla fine, termina 1512 per il Sudafrica. Il paese è in festa. Un
bambino di colore che sentiva la partita
vicino la radio di una macchina della polizia, alla fine festeggia con gli agenti. Il
Presidente attraversa la città in festa. Una
frase, tra tutte, rappresenta il suo motto:
“Sono padrone del mio destino”.
L
a Storia, quella realmente accaduta, diventa epica in Invictus.
Come se il film fosse tratto da un
10
grande romanzo di formazione, anzi, idealmente da un’immaginaria biografia di
Mandela scritta negli anni dopo la sua liberazione nel 1990 e nel corso della sua
presidenza, in cui racconta quello straordinario campionato mondiale di rugby. Il
cinema di Eastwood trasforma, con una
linearità impressionante, tutto quello che
inquadra facendo vedere altro, oltre ciò che
mostra. Nel corso degli anni è sempre più
straordinaria la profondità del suo cinema
evidente anche in un’opera come questa,
estremamente classica nel racconto, all’interno della quale, però, emerge una dimensione ipnotica che in alcuni momenti oltrepassa la realtà e la trasforma in visione.
La finale del Sudafrica con la Nuova Zelanda, caratterizzata anche da quel frammento della danza degli avversari prima
della partita, che porta nelle zone di un’attraente ritualità inafferrabile, potrebbe essere una magnifica illusione/ossessione
soggettiva di Mandela, portato sullo schermo da Morgan Freeman con una grandiosa aderenza emotiva più che fisica. Più che
quello che è accaduto realmente, Eastwood in Invictus sembra mostrare quei mondiali di rugby come una specie di proiezione del desiderio del protagonista, che, proprio in quell’evento, può mettere in pratica
il suo disegno politico/umano, incentrato
sul perdono e la riconciliazione. Del resto,
nel suo cinema, le forme del biopic vengono sempre alterate. Come nel caso di Mandela in questo film, anche la figura di Charlie Parker in Bird sembrava dargli soprattutto l’occasione per una personale riflessione sull’arte (come questo film lo è sulla
politica e sulla Storia) e si trasformava in
una specie di film notturno, in cui la musica si fondeva nella cupezza dell’oscurità.
Ovviamente Invictus è un’esemplare
pellicola sportiva e la sua tensione richiama i migliori esempi del genere del cinema degli ultimi 30 anni: da Momenti di gloria di Hudson a Fuga per la vittoria di Huston. Inoltre, colpisce il modo in cui sono
filmate le partite di rugby, con piani ravvicinatissimi e la macchina da presa che
sembra essere attaccata alle figure dei giocatori, evidenziandone in maniera esemplare la fisicità dello scontro come era avvenuto negli incontri di boxe di quel capolavoro che è Million Dollar Baby. Poi quest’opera rappresenta un altro sguardo sul
Sudafrica dopo il didascalico, ma comunque appassionato, Grido di libertà di Attenborough (realizzato nel 1987 quando
Mandela era ancora in carcere) e il vibrante
‘viaggio all’inferno’ di In My Country di
Boorman, primo film su questo paese dopo
l’apartheid. In Invictus c’è tutto Eastwood,
che da Mystic River in poi, continua una
Film
sfida personale con se stesso, realizzando in sequenza grandissimi film senza
nessun cedimento, anzi con un’energia
che si rinnova ogni volta. Innanzitutto la
figura di Mandela potrebbe essere quasi
una specie di reincarnazione di Frankie
Dunn di Million Dollar Baby e del reduce
della guerra di Corea Kowalski di Gran
Torino, ma anche di Christine Collins di
Changeling, tutti personaggi divisi, separati dalla loro famiglia. Negli altri esempi,
l’aspetto è più evidente, qui più nascosto.
Basta vedere, però, l’espressione del leader dopo che la sua domestica gli dice che
la figlia ha annullato la sua visita del fine
settimana, o la sua reazione quando una
guardia del corpo bianca gli chiede notizie sulla sua famiglia. Eastwood non calca
mai la mano, anzi ha un pudore e un rispetto assoluti nel modo in cui si affaccia
Tutti i film della stagione
nella sfera privata di Mandela e comunque riesce a restituirne il dolore di una cicatrice mai rimarginata. Resta anche
esemplare il modo con cui riesce a costruire la tensione con nulla. All’inizio del film,
il protagonista sta camminando quando è
ancora buio assieme a due bodyguard e
sulla strada c’è un camioncino che sembra pedinarlo, come se gli volesse fare un
attentato. In realtà si tratta del distributore
dei giornali. Da questo punto di vista vanno ricordati anche la prima uscita di Mandela durante una partita, il jet che sorvola
lo stadio e, a livello più umano, il malore
che lo colpisce. Tutti dettagli mai estremizzati, ma che restano impressi in maniera
indelebile. E poi bastano anche i lampi
mélo emozionanti come il ragazzino che
festeggia con i poliziotti al termine della
partita con la Nuova Zelanda, o lo sguar-
do tra Pienaar (ottimo Matt Damon, felice
contrasto tra una fisicità esibita e una gestualità tutta in sottrazione) e la sua domestica, alla quale dà il biglietto per la finale, che hanno una potenza emotiva assoluta; come tutto l’ultimo cinema di Eastwood, legato a una classicità perduta di
Hollywood, ma anche di sconvolgente
modernità. Un cinema che sa convivere da
sempre con gli spettri (la visita di Pienaar
nella cella dove Mandela è stato rinchiuso
per 27 anni è in questo senso esemplare)
e che sta ridisegnando in maniera estremamente lucida la storia moderna mostrando gli effetti del passato sul presente
in maniera davvero unica. Dove il cinema
e il pensiero sono ormai una cosa sola.
Unica e indivisibile.
Simone Emiliani
PIOVONO POLPETTE
(Cloudy with a Chance of Meatballs)
Stati Uniti, 2009
Regia: Phil Lord, Chris Miller
Produzione: Pam Marsden per Sony Pictures Animation
Distribuzione: Sony Pictures Releasing Italia
Prima: (Roma 23-12-2009; Milano 23-12-2009)
Soggetto: dal libro omonimo di Judi Barrett e Ron Barrett
Sceneggiatura: Phil Lord, Chris Miller
Musiche: Mark Mothersbaugh
Scenografia: Justin Thompson
Produttore esecutivo: Yair Landau
Produttore esecutivo animazione: Andrea Miloro
Co-produttori: Lydia Bottegoni, Chris Juen
Direttore di produzione: Mary Ellen Bauder
Direttore di produzione digitale: Julie Groll
Casting: Mary Hidalgo
Art director: Michael Kurinsky
Effetti: Sony Pictures Iageworks Inc.
Supervisore effetti visivi: Rob Bredow
in da bambino, Flint Lockwood ha
sempre avuto la passione per le
invenzioni, dal prototipo di scarpe-spray al traduttore simultaneo per capire il linguaggio delle scimmie; guardato
con sospetto dalla comunità e dal padre
Tim. Quando l’economia della città, basata sulla lavorazione delle aringhe, entra
in crisi e l’intera popolazione è costretta a
smaltire tutte le scorte rimaste invendute
dei magazzini, Flint cerca un modo per
aiutare la sua gente inventando una macchina capace di trasformare l’acqua in
cibo. Al momento di essere messo in funzione, il dispositivo finisce però per mandare in corto circuito l’interno sistema elettrico della cittadina e dalla potenza dello
scoppio viene catapultato verso il cielo. Im-
F
Coordinatori effetti visivi: Kristy Lynn Fortier, Amy R.
Gordon
Supervisore effetti animazione: Carl Hooper
Coordinatore animazione: Lia Abbate
Supervisore effetti digitali: Daniel Kramer
Voci originali: Bill Hader (Flint Lockwood), Anna Faris (Sam
Sparks ), James Caan ( Tim Lockwood ), Andy Samberg
(Baby Brent), Bruce Campbell (sindaco Shelbourne), Mr.T
(Earl Devereaux), Bobb’e J. Thompson ( Cal Deveraux ),
Benjamin Bratt (Manny), Neil Patrick Harris (Steve), Al Roker
(Patrick Patrickson), Lauren Graham (Fran Lockwood), Will
Forte (Joe Towine), Max Neuwirth (Flint da piccolo), Peter
Siragusa (Rufus), Angela Shelton (Regina Devereaux), Neil
Flynn (produttore del notiziario), Liz Cackowski (insegnante di Flint)
Durata: 90’
Metri: 2470
provvisamente iniziano a piovere dal cielo
hamburger, polpette e qualsiasi altra pietanza desiderata, che fanno subito la gioia degli abitanti di Swallow Falls e quella
di Flint, il quale finalmente si sente apprezzato e amato dai suoi concittadini. Ben presto gli strani fenomeni atmosferici di Swallow Falls catalizzano l’attenzione dei media, mentre il sindaco vede nell’invenzione di Flint nuove prospettive di guadagno
e gloria personali. L’ingordigia del sindaco e degli abitanti di Swallow Falls porta
ben presto al surriscaldamento del macchinario di Flint che inizia a creare porzioni sempre più grandi e impossibili da
smaltire e che ben presto rischiano di seppellire tutta Swallow Falls. Flint decide di
bloccare la macchina prima che sia trop11
po tardi e insieme a Sam, giovane meteorologa giunta in città per studiare il fenomeno, e un gruppo di amici fidati si imbarca su una navicella da lui brevettata.
Su nella stratosfera, l’invenzione di Flint
si è trasformata in una gigantesca polpetta protetta da cibi mutanti e fenomeni atmosferici alimentari. Tutto sembra perduto quando Flint si lascia sfuggire dalle
mani il dispositivo USB con sopra il codice di disattivazione della macchina, ma,
mentre sulla terra la situazione peggiora
di ora in ora con il rischio che una valanga travolta la cittadina, grazie a una sua
invenzione di tanti anni prima (all’epoca
miseramente fallita), Flint riesce a “imbrigliare” e distruggere la macchina. Tornato in città, Flint è ormai veramente l’eroe
Film
di tutti, guadagnandosi l’amore di Sam e,
per la prima volta, anche il rispetto di suo
padre Tim.
entre aleggia ancora il ricordo di
Up e delle sue meraviglie difficilmente raggiungibili dalla con
correnza, arriva nelle sale durante il periodo
natalizio il terzo film della divisione specializzata in animazione della Sony Pictures. Pur
senza essere dei capolavori, i due film precedenti (Boog e Eliot a caccia di amici e
Surf’s up) avevano lasciato intuire delle potenzialità non indifferenti, sia dal punto di vista tecnico sia da quello contenutistico. Piovono polpette rappresenta l’approdo degli
esperimenti precedenti della Sony ed è sicuramente uno dei migliori film d’animazione apparsi quest’anno, indirizzato a un target ampio ed eterogeneo e, quindi, più complesso e difficile da accontentare.
Piovono polpette si sforza di rappresentare senza cinismo, ma nemmeno autocompiacimento, la difficile realtà dei nostri giorni, nella quale la quantità conta più
della qualità, in una società ormai sempre
più dominata dal consumo folle e dall’accumulo inutile di risorse. Il bieco sindaco
di Swallow Falls (gioco di parole di impos-
M
Tutti i film della stagione
sibile traduzione che rimanda insieme all’ingozzarsi e all’essere sommersi) è la
rappresentazione metaforica eppure immediatamente riconoscibile di questo atteggiamento, con la sua ingordigia che
aumenta smodatamente di pari passi con
l’aumento del suo peso corporeo fino all’obesità. L’invenzione del genio nerd Flint
viene prima accolta come soluzione al problema reale della cittadina, ovvero il dover
smaltire i quintali di sardine invendute a
causa della crisi, per poi trasformarsi in un
ennesimo prodotto di consumo nel quale
il cibo perde la sua funzione originale di
sostentamento e di veicolo di piacere per
diventare solo avidità, sfizio, divertimento,
portando gli abitanti di Swallow Falls a
mangiare non più per fame ma per gola.
Rimanendo nei limiti imposti da un
genere tradizionalmente indirizzato a un
pubblico infantile, Piovono polpette gioca
abilmente con una morale più a misura di
bambino / pre-adolescente, facendo di Flint
un personaggio di immediata identificazione nel suo sentirsi diverso e fuori posto a
causa dei propri interessi e, soprattutto,
della propria intelligenza, che lo pone in
contrasto sia con la famiglia che con la
comunità; alla fine, sarà accettato da tutti
proprio per questa sua intelligenza, per il
suo essere nerd e quindi diverso.
Ispirandosi all’omonimo libro illustrato
di Judy e Ron Barrett, i registi sono riusciti
nel creare un immaginario notevole e di
grande effetto, affidandosi anche alla nascente tecnologia 3D, senza abusarne e
farne il centro del film. Per chi è abituato a
un tratto più realistico, o comunque meno
deformante nella creazione grafica dei
personaggi, il film risulterà difficilmente
godibile, ma il tutto rientra coerentemente
nell’ottica della Sony di distaccarsi ove
possibile dalla Pixar per creare uno stile
proprio e il più possibile riconoscibile.
Ottima la scelta italiana di non ricorrere a doppiatori “improvvisati” e dal dubbio
richiamo pubblicitario e di affidarsi a seri
professionisti. In inglese le voci sono di Bill
Hader, Anna Faris, James Caan, Benjamin Bratt, Bruce Campbell e Mister T., il
mitico “Pessimo Elemento” del telefilm anni
’80 A-team.
Il titolo originale significa letteralmente “nuvoloso con possibilità di polpette”,
rifacendo il verso al linguaggio tipico degli
annunci metereologici.
Chiara Cecchini
L’ONDA
(Die Welle)
Germania, 2008
Casting: Franziska Aigner-Kuhn, Uwe Bünker
Aiuti regista: Hendrik Holler, Matthias Nerlich
Art director: Petra Ringleb
Arredatore: Tilman Lasch
Trucco: Dörte Dogkowitz, Irina Tübbecke-Bechem, Renate
Wetzel-Wagner, Mieke Willaert
Supervisore effetti visivi: Abraham Schneider
Supervisore musiche: Pia Hoffmann
Suono: Hans Bramm
Interpreti: Jürgen Vogel (Rainer Wenger), Frederick Lau (Tim),
Max Riemelt (Marco), Jennifer Ulrich (Karo), Christiane Paul
(Anke Wenger), Elyas M’Barek (Sinan), Cristina do Rego (Lisa),
Jacob Matschenz (Dennis), Maximilian Vollmar (Bomber), Max
Mauff (Jevin), Ferdinand Schmidt-Modrow (Ferdi), Tim Oliver
Schultz (Jens), Amelie Kiefer (Mona), Odine Johne (Maja),
Fabian Preger (Kaschi), Teresa Harder (madre di Karo)
Durata: 101’
Metri: 2750
Regia: Dennis Gansel
Produzione: Christian Becker, Peter Schiller per Rat Pack
Filmproduktion GmbH/ Constantin Film Produktion/ B.A.
Produktion/ Medienfonds GFP
Distribuzione: BIM
Prima: (Roma 27-2-2009; Milano 27-2-2009)
Soggetto: tratto dal romanzo Il segno dell’onda di Morton Ruhe
e dal film TV The Wave (1981) di Johnny Dawkins e Ron
Birnbach
Sceneggiatura: Peter Thorwarth, Dennis Gansel
Direttore della fotografia: Torsten Breuer
Montaggio: Ueli Christen
Musiche: Heiko Maile
Scenografia: Knut Loewe
Costumi: Ivana Milos
Co-produttori: Antonio Exacoustos, David Groenewold, Franz
Kraus, Franz Kraus
Direttore di produzione: Ulrike Fauth
ermania, giorni nostri. In un liceo qualunque tutto è pronto – o
quasi – per la settimana dei corsi speciali, durante i quali materie che normalmente non vengono insegnate trovano
qualche giorno di notorietà. Per Marco
andrà bene quel che sceglierà Karo, la sua
G
ragazza, mentre altri con sconforto scoprono chiuso l’accesso al corso che interessava di più. Rainer Wenger, insegnante di
Storia – ma, cosa per noi italiani insolita,
anche di educazione fisica – ha un’idea
stramba che gli gira per la testa: un corso
sull’anarchia. C’è poco da stupirsi, il prof
12
è un rockettaro che va a scuola con la maglietta dei Ramones e la giacca di pelle
nera. La preside lo informa di essere arrivato un po’ tardi, e propone una diversa
opzione: una settimana sull’autarchia, il
regime di un solo uomo (o di un gruppo
ristretto di persone) che usano un Paese a
Film
proprio piacimento. Proprio malgrado,
Wenger accetta.
Al primo incontro, molti dei ragazzi
appaiono delusi: è il solito seminario sul
nazismo, cose di cui hanno sentito parlare
fino alla nausea. Alla domanda “Sarebbe
possibile, oggi, in Germania, il ritorno di
un fascismo?” gli studenti rispondono annoiati, ma anche arrabbiati: non hanno
nulla a che fare con le colpe di chi li ha
preceduti, loro, è ora di finirla. La discussione prosegue, a suon di definizioni, domande e risposte. Il professore – cui gli
studenti si sono sempre rivolti soltanto per
nome – esige adesso di essere chiamato
“signore”, pretende che si alzi la mano per
poter prendere parola, riporta in auge stilemi educativi ormai desueti: alzarsi in
piedi per parlare e per salutare rispettosamente un’autorità, insegna a muoversi
all’unisono con il resto della classe. “Al
potere si arriva attraverso la disciplina e
l’obbedienza”, spiega il professore. Kevin,
giovane leader di un trio di amici, non ci
sta, e va via con i suoi - un po’ recalcitranti in verità -, molti altri sono invece divertiti, affascinati dal nuovo gioco sociale.
L’idea di una divisa semplice e uguale
per tutti – jeans, camicia bianca e sneaker
a buon mercato - viene accolta con altalenante entusiasmo. C’è chi offre al compagno in difficoltà il vestiario adatto che possiede in più, e chi, come l’”etnica” Mona,
proprio non può accettare di perdere la
propria identità personale e abbandona il
corso. Ma c’è anche chi prende la cosa
talmente sul serio da fare nel giardino di
casa un falò del proprio abbigliamento firmato. Il giorno seguente, l’unica a indossare qualcosa di non omologato, una vivace maglietta rossa, è soltanto Karo. Durante la lezione viene ignorata da professore e compagni di classe. Abbattute le differenze sociali grazie all’uniforme, lo spirito del gruppo si rafforza, tanto che persino Tim e Lisa, generalmente introversi e
poco partecipi alla vita di classe, sono un
fiume in piena di proposte e interventi.
Dopo essersi dati un nome – l’Onda –
e un saluto (un gesto sinuoso di braccio e
mano) che appartiene soltanto a loro,
l’esperimento sociale inizia a uscire fuori
dall’edificio scolastico: nottetempo i ragazzi piazzano il loro logo (la stilizzazione di un’onda, per l’appunto) un po’ in
tutta la città e sotto varie forme (adesivi,
graffiti); Tim, in particolare, dà prova di
coraggio arrampicandosi tra gli altissimi
ponteggi di un edificio in costruzione per
lasciare un segno ben visibile a tutti i cittadini. Mentre il professor Wenger si scontra con la propria compagna proprio a
causa del corso, l’indipendente Karo vede
Tutti i film della stagione
la storia con Marco giungere al capolinea,
visto che lui è fomentato dal resto del gruppo a lasciar perdere chi non è come loro,
secondo il principio del “chi non è con noi
è contro di noi”. L’ex timida Lisa si dà
molto da fare per conquistare il ragazzo,
ovviamente supportata dagli altri.
Durante una partita di pallanuoto, i
ragazzi della squadra della scuola, tra i
quali troviamo anche Marco e guidati dal
solito Wenger, possono contare su una tifoseria strepitosa, tutta in jeans e camicia
bianca d’ordinanza e la vittoria arriva facile; la povera Karo non riesce neanche
ad accedere al palazzetto dello sport, per
via di un integerrimo servizio d’ordine
autogestito.
È evidente che il movimento non finirà
con la fine del corso scolastico: l’Onda si
è trasformata in una piena potentissima, e
neanche il professore e ideatore, acclamato e idolatrato dagli studenti come un leader – o come una rockstar – sembra possa
fare qualcosa per arginarla. Ascolta con
attenzione le loro confidenze personali, che
raccontano disagi e assurdi comportamenti
imputabili all’adesione – o meno – all’Onda e decide di raccogliere in classe, in un
compito scritto, ciò che rappresenta per
loro il movimento.
Durante un’assemblea affollatissima,
dopo aver letto alcune frasi degli elaborati, il professore è deciso a dichiarare la fine
del movimento, ma a modo proprio: spinge all’estremo gli ideali dell’Onda e promette che non terminerà con la fine del
corso, pronunciando frasi da vero dittatore; quando Marco prende parola contro di
lui, accusandolo di manipolazione, la situazione precipita pericolosamente verso
la rivolta; si arriva a sfiorare l’esecuzione
13
del dissidente davanti alla piccola comunità biancovestita, che però, poco a poco,
si rende conto della gravità della situazione. Wenger parla chiaramente con i ragazzi, li invita a tornare a casa a riflettere su
quanto è avvenuto. Tim, il più fomentato
di tutti, senza dubbio il più disperato, estrae
una pistola – ad aria compressa, ma comunque pericolosa – e ferisce un compagno. Poi minaccia il professore, ma comprendendo l’inutilità del gesto la infila in
bocca e si suicida.
Le autorità portano via Wenger in manette, mentre le ambulanze caricano il ragazzo ferito e il corpo esanime di Tim. La
domanda posta all’inizio del corso sulla
possibilità di un ritorno della dittatura
nella Germana odierna ha prodotto un risultato sconcertante quanto imprevisto,
soffocando – chissà quanto definitivamente – ulteriori strascichi dell’incredibile vicenda.
ennis Gansel, già regista e sceneggiatore di NaPolA - I ragazzi
del Reich, torna ad affrontare i
temi a lui cari del totalitarismo e del nazismo e – soprattutto – a interrogarsi sulla
possibilità del ritorno di un governo autocratico nel democraticissimo mondo di
oggi. In L’Onda – un caso l’omonimia con
il movimento studentesco italiano – trova
una risposta, e non è né piacevole, né
scontata. Punto di partenza – ma si può
parlare di una sorta di filiazione – è il romanzo di Morton Ruhe Die Welle (L’Onda,
per l’appunto), classico della letteratura per
ragazzi e lettura obbligatoria in molte scuole tedesche, a sua volta ispirato a vicende
realmente accadute negli Stati Uniti, in
California. Nell’autunno del 1967 Ron Jo-
D
Film
nes, docente di storia della Cubberley High
School di Palo Alto, sperimenta nella sua
classe una ferrea disciplina che limita enormemente le libertà degli studenti. Sorprendentemente, questi ultimi accolgono con
entusiasmo la novità, che si protrae per
ben cinque giorni – contro la sola giornata
prevista – e si estende rapidamente all’intera scuola. Il movimento, denominato “La
terza onda”, sarà causa anche di aggressioni fisiche verso i ragazzi che non vogliono partecipare e vedrà verificarsi episodi di fanatismo, tanto da costringere il
professore a sospendere l’esperimento in
tutta fretta.
Quarant’anni dopo, Gansel torna a cercare di capire il fenomeno, traslando nella
Germania, che tutti immaginiamo vaccinata ed esente dall’autarchia, il curioso esperimento e immaginando risultati sorprendenti quanto agghiaccianti. La preoccupazione – la tesi – del regista risiede nella comune opinione di ritenere impossibile una
ricaduta nel baratro del totalitarismo, di dare
per scontato la sanità di una nazione che
ha pagato duramente per gli errori commessi, di essere assolutamente certi dell’illuminata maturità democratica raggiunta. E allora instilla dubbi, mostra quanto sia facile
ammalarsi ancora oggi della “sindrome dell’uomo al balcone”, propone ai rampolli del
Tutti i film della stagione
duemila l’allettante nazionalismo “buono”,
quello che annulla le differenze sociali, etniche, economiche e religiose, lo stesso che
unisce tutti quando gioca la nazionale di
calcio e nasconde, dietro tante belle parole, quello che umilia e perseguita i dissidenti.
Fin da subito, ci si domanda quanto possa
durare un simile giochino. Nel mentre, mai
più studenti di serie b e nessun dubbio su
cosa indossare per venire a scuola – grazie all’uniforme – e nemmeno brutti voti: copiare dal compagno più bravo è lecito, anzi
va incoraggiato, perché fa progredire l’intera classe.
La teoria è interessante, la pratica un
po’ meno, ma ci cascano quasi tutti. O,
meglio, i più deboli, quelli che non perseguono un obiettivo personale, o provengono da una famiglia più o meno disastrata, o si sono sempre nascosti nella massa
con abiti griffati e comportamenti omologati. Azzerando i ruoli sociali, anche i timidi, gli emarginati e i bulletti possono ambire a prendere parola e proporre idee, provando l’ebbrezza di essere ascoltati e
magari applauditi come dei leader in miniatura. Troppo facile? Fare massa è
senz’altro una delle caratteristiche umane, talvolta è un istinto di sopravvivenza,
ma seguire senza fiatare istruzioni che
vengono dall’altro, e che magari vanno
contro la propria coscienza e le proprie
convinzioni, è tutt’ora inspiegabile. E mentre c’è chi azzarda parallelismi tra lo spirito di corpo, il nazismo – ma anche il fascismo – e i comportamenti – per esempio di taluni soldati americani nelle “prigioni per
terroristi islamici” tipo Abu Ghraib, il film si
risolve in tanto fumo e niente più. Tutto è
tanto rapido, quasi automatico, oltremodo
schematico, come un piatto teorema che
si ha fretta di dimostrare. Sia chiaro, senza nulla togliere alle – si presume – nobili
intenzioni dell’autore, la sensazione è che
si sottolinei in modo eccessivo proprio la
facilità con cui si può cadere nell’equivoco
dittatoriale e di come gli ingenui adepti si
stratifichino con rapidità fino a trasformarsi in corpo, forza e potere dell’uomo di turno al balcone. E, magari, esenti pure da
colpe: il background di provenienza come
giustificazione per una scelta sbagliata?
Per fortuna, in fin dei conti, è soltanto
un film, fra l’altro con tutti i meccanismi
comportamentali bene in vista. Godibile
senz’altro per le ottime interpretazioni delle
ragazze e dei ragazzi – ma Gansel è un
ottimo direttore d’orchestra, si sa – e, magari, buono come spunto per una chiacchierata. Ma nulla di più.
Manuela Pinetti
GENOVA
(Genova)
Gran Bretagna, 2008
Line producers: Phillip Koch, Melissa Parmenter
Direttore di produzione: Josh Hyams
Casting: Wendy Brazington
Aiuti regista: Charlie Reed, Anthony Wilcox
Operatori Steadicam: Barney Davis, Julian Morson
Interpreti: Colin Firth (Joe), Catherine Keener (Barbara),
Hope Davis (Marianne), Willa Holland (Kelly), Perla HaneyJardine ( Mary ), Margherita Romeo ( Rosa ), Alessandro
Giuggioli (Lorenzo), Dante Ciari (Fabio), Gherardo Crucitti
(Mauro), Monica Bennati (Elena), Kerry Shale (Stephen),
Demetri Goritsas ( Steve), Trevor White (Michael), Gary
Wilmes (Dan), Kyle Griffin (Scott), Gabriella Santinelli (moglie di Danny)
Durata: 92’
Metri: 2520
Regia: Michael Winterbottom
Produzione: Andrew Eaton, Michael Winterbottom per
Revolution Films/Aramid Entertainment Fund/Film4/Moviola
Film och Television AB
Distribuzione: Officine UBU
Prima: (Roma 16-10-2009; Milano 16-10-2009)
Soggetto e sceneggiatura: Michael Winterbottom, Laurence
Coriat
Direttore della fotografia: Marcel Zyskind
Montaggio: Paul Monaghan
Musiche: Melissa Parmenter
Scenografia: Mark Digby
Costumi: Celia Yau
Produttore esecutivo: Tessa Ross
Co-produttore: Wendy Brazington
n seguito a un tragico incidente
stradale, in cui ha perso la vita
la giovane e bella moglie Marianne e nel quale sono coinvolte anche le due
figlie Kelly e Mary, il professore americano
Joe (assente al momento della disgrazia)
decide di trasferirsi in Italia. Da Chicago
parte, in estate, alla volta di Genova, dove
accetta un importante incarico e dove inol-
I
tre può contare sull’aiuto e sul conforto
morale di Michelle, una sua ex fidanzata.
Il lungo soggiorno nel capoluogo ligure
diventa l’occasione per padre e figlie per
intraprendere una nuova vita dopo il terribile lutto che li ha improvvisamente colpiti, lontano dai tristi ricordi che li legano
a Marianne. Mentre Joe tiene corsi estivi
all’università, le due ragazze scoprono la
14
bellezza della riviera di ponente grazie a
delle piacevoli e spensierate gite al mare.
Oppure trascorrono le loro giornate prendendo lezioni di piano a casa di Mario, che
vive nella parte più antica di Genova, fatta di vicoli stretti. È tra queste stradine
impervie, caratteristiche del centro storico, che la piccola Mary si perde, cercando
di inseguire disperatamente il fantasma di
Film
sua madre, che le sembra di vedere di continuo in ogni angolo della città.
La minore delle due figlie, più sensibile e ancora sconvolta dall’accaduto, prova un lacerante senso di colpa: è infatti
convinta di essere la principale responsabile dell’incidente (nel quale è rimasta
miracolosamente illesa assieme alla sorella) e non riesce quindi a sopportare la perdita.
Invece la più grande Kelly (ha 16 anni
e un carattere meno espansivo), tra piccole avventure sessuali e consumo di droghe
leggere, si lascia andare alla scoperta di
nuove emozioni ed esperienze, sperando
forse di poter colmare l’enorme vuoto lasciato dalla scomparsa della madre.
el panorama del cinema contemporaneo, per di più minato dalla
crisi economica, la parola “versatilità” è un lusso che pochissimi registi possono permettersi. In questa speciale categoria, una specie di riserva indiana (vista
la generalizzata tendenza a preferire prodotti di facile presa), è annoverabile senza ombra di dubbio Michael Winterbottom.
N
Tutti i film della stagione
Sempre pronto a sorprendere il suo
pubblico con pellicole dai toni e dai contenuti differenti (dall’impegno civile addirittura alla fantascienza), questa volta, l’inglese ripercorre le orme del dramma intimista. Dopo le brillanti prove di Go Now
(1996) e With or Without you (1999), torna
a misurarsi con le angosce ed i turbamenti che segnano le relazioni interpersonali
dei nostri giorni.
Sullo sfondo di una Genova formato cartolina, ripresa nei suoi scorci più vissuti e
autentici (chiese, monumenti e, naturalmente, i carruggi), una famiglia spezzata si confronta con l’elaborazione del lutto. Un padre
e le sue due figlie femmine, con il loro carico
di sofferenza ancora vivo e tangibile, si lasciano letteralmente rapire da una città ostile ma, al contempo, complice. Sconosciuta,
perché straniera e ancora tutta da esplorare, eppure così sinistramente familiare quando rievoca l’estinta figura materna.
Tre solitudini cercano, ognuno a loro
modo, di non smarrire la memoria di quella presenza-assenza che nel tempo si fa
tormento, benché siano avvinte da tentazioni contrastanti. C’è chi prova a dare a
tutti i costi una forma a quel ricordo insostenibile (Mary), chi invece esorcizza il dolore attraverso una lenta scoperta di sé e
dei propri desideri di adolescente (Kelly).
Peccato, però, che questa storia di
espiazione non ispiri alcun coinvolgimento emotivo, rivelandosi piuttosto gelida
nella forma e sterile nelle intenzioni. Con
Genova, Winterbottom delude purtroppo le
aspettative e dimostra che, negli ultimi
anni, la sua prolificità creativa non sempre è sinonimo di qualità. Soprattutto quando non è sostenuta da una limpidezza di
sguardo e da un’impalcatura narrativa solida e intrigante.
Di questa 16esima regia dell’autore
britannico, si ricorderanno senz’altro le inconsuete immagini in digitale di una città
poco raccontata e rappresentata al cinema, oltre naturalmente alla prova d’attore
di un Colin Firth che, sebbene stia attraversando una fase di rischiosa sovraesposizione, rimane sempre una spanna sopra
gli altri. I titolo di coda sono accompagnati
dai testi di Jovanotti.
Diego Mondella
NINE
(Nine)
Stati Uniti/Italia, 2009
Regia: Rob Marshall
Produzione: John DeLuca, Rob Marshall, Marc Platt, Harvey
Weinstein per The Weinstein Company/ Relativity Media/ Marc
Platt Productions/ Lucamar Productions/ Cattleya
Distribuzione: 01 Distribution
Prima: (Roma 22-1-2010; Milano 22-1-2010)
Soggetto: tratto dal musical omonimo (1982) di Arthur L. Kopit
(libretto), e Maury Yeston (musiche) ispirato al film 8 e 1/2 di
Federico Fellini (1963)
Sceneggiatura: Michael Tolkin, Anthony Minghella
Direttore della fotografia: Dion Beebe
Montaggio: Claire Simpson, Wyatt Smith
Musiche: Maury Yeston
Scenografia: John Myhre
Costumi: Colleen Atwood
Produttori esecutivi: Kelly Carmichael, Michael Dreyer, Gina
Gardini, Ryan Kavanaugh, Arthur Kopit, Tucker Tooley, Bob
Weinstein, Maury Yeston
Produttori associati: Jodi Hurwitz, Michael Zimmer
Direttore di produzione: Tim Porter
Casting: Kate Dowd, Francine Maisler, Razzauti Teresa
Aiuti regista: Vicki Allen, Filippo Fassetta, Heidi Gower, Martin
Harrison, Luca Padrini, Edoardo Petti, Chris Stoaling
Operatori: Chas Bain, Damien Beebe, Russell Kennedy,
Operatore steadicam: George Richmond
Art directors: Peter Findley, Phil Harvey, Simon Lamont
Arredatore: Gordon Sim
Trucco: Nicola Buck , Tamsin Dorling, Ana Lozano, Paula Price,
Nikita Rae, Maurizio Silvi
Acconciature: Tamsin Dorling, Maria Federico, Paula Price,
Luca Saccuman
Supervisori effetti speciali: Peter Hutchinson, Stephen
Hutchinson
Coordinatore effetti speciali: Helen Badley
Supervisori costumi: Cheryl Beasley Blackwell, Uliva Pizzetti
Supervisori musiche: Paul Bogaev, Matthew Rush Sullivan
Coreografie: John Deluca, Rob Marshall
Canzoni/Musiche estratte: “Cinema Italiano” (eseguita da
Kate Hudson) e “Take It All” (eseguita da Marion Cotillard) sono
di Maury Yeston; “Quando quando quando” è di Tony Renis
Interpreti: Daniel Day-Lewis (Guido Contini), Marion Cotillard
(Luisa Contini), Penélope Cruz (Carla), Sophia Loren (madre di
Guido), Nicole Kidman (Claudia), Judi Dench (Lilli), Kate Hudson
(Stephanie), Stacy Ferguson (Saraghina), Ricky Tognazzi (Dante, il produttore), Giuseppe Cederna (Fausto), Elio Germano
(Pierpaolo), Valerio Mastandrea (De Rossi), Remo Remotti (cardinale), Martina Stella (Donatella), Roberto Citran (dott. Rondi),
Monica Scattini (direttrice della pensione) Andrea Di Stefano
(Benito), Roberto Nobile (Jaconelli), Romina Carancini, Alessandro Denipotti, Alessandro Fiore, Erica Gohdes, Gianluca Frezzato,
Paola Zaccari ( assistenti della produzione ), Roberta
Mastromichele (Roberta), Francesco De Vito (radiocronista), Francesca Fanti (Dinardo), Enzo Cilenti (Leopardi), Enzo Squillino
Jr., Michael Peluso, Jonathan Del Vecchio, Jake Canuso, Eliot
Giuralarocca, Tommaso Colognese, Jennifer Iacono (cronisti),
Giuseppe Spitaleri (Guido da piccolo), Vincent Riotta (Luigi)
Durata: 120’
Metri: 3300
15
Film
inecittà 1965. Il famoso regista
Guido Contini sta per girare un
nuovo film, ma è in piena crisi
creativa. Assediato da giornalisti e fotografi, il regista cerca di schivare le domande sui contenuti della sua nuova opera
mantenendo un alone di mistero. Svela soltanto che il film si chiamerà Italia e avrà
come protagonista la sua attrice-musa
Claudia Jensen, da lui diretta per la nona
volta. Subito dopo la conferenza stampa,
il regista si rifugia all’Hotel Bellavista
Terme a Anzio, registrandosi sotto falso
nome. Guido telefona alla moglie Luisa
chiedendole di raggiungerlo, ma, a sorpresa, arriva nella cittadina la sua amante
Carla. Il regista la fa alloggiare in una pensione per evitare che venga notata dai giornalisti. Ma Contini viene rintracciato dal
suo produttore che ha convocato la troupe
per farlo lavorare al film. Della troupe fa
parte anche la sua costumista di fiducia,
Lilli, che cerca di dargli dei suggerimenti.
Ma Guido continua a sentirsi confuso,
smarrito e si confida con un cardinale ospite dello stesso hotel: non è felice e sente di
essere alla ricerca di qualcosa. Poco dopo,
svegliatosi accanto a Carla, Guido è vittima di una crisi respiratoria. Quella sera il
regista va a cena con i suoi collaboratori
e durante la serata, a sorpresa, arriva la
moglie Luisa, musa ispiratrice dei suoi
primi film. Alla donna ora il duro compito
di salvare il film, ma anche la vita del marito. Improvvisamente, alla cena, irrompe
Carla e Luisa scappa via; Guido porta via
Carla di corsa, seccato con la donna che
non si sarebbe dovuta presentare a quella
serata. Poi il regista va dalla moglie cercando di convincerla che con la sua amante
è tutto finito. Quella notte, Guido prova a
riavvicinasi alla moglie, ma viene interrotto da una telefonata che lo avvisa che Carla
ha tentato il suicidio. Precipitatosi alla
pensione, Guido trova Carla disperata che
non vuole che lui la lasci. Mentre si allontana dalla pensione, Guido incrocia il
marito di Carla. Tornato al suo hotel, il
regista non trova Luisa, ma lo aspetta il
suo produttore che gli dice che devono tornare a Roma: Claudia, la sua attrice, è arrivata e devono iniziare le riprese del film.
Giunto a Cinecittà, Guido telefona alla
moglie: vuole che lei sia al suo fianco in
sala di proiezione per l’annuncio dell’inizio delle riprese, altrimenti lui non sarà in
grado di cominciare. Intanto Claudia Jenssen cerca invano il copione che non esiste.
Stufa, l’attrice lascia il set con Guido. Rimasto solo con Claudia, Guido le confessa il momento di crisi che sta passando, i
dubbi che lo assalgono, le tante domande
che non trovano risposta. Tornato a Cine-
C
Tutti i film della stagione
città, Guido trova Luisa che gli dice per
loro due ormai non c’è più speranza. Rimasto solo, Guido sfoga la sua disperazione riflettendo sui suoi comportamenti;
poi prende coscienza che non può girare
quel film. Ha perso il controllo, ha perso
se stesso, ha distrutto ogni cosa che aveva
e ora vaga sperduto senza una direzione.
In sogno gli appare la madre che lo invita
a trovare da solo la strada per salvarsi. A
Cinecittà, mentre il set viene smontato,
Guido annuncia alla troupe che non ci sarà
nessun film. Due anni dopo, Guido è ad
Anguillara vicino Roma e si confida con
Lilli che gli dice che Luisa ha ricominciato a recitare. Guido confessa che gli manca molto la moglie. Lilli gli consiglia di
tornare a Roma e girare un film: non deve
smettere di essere bambino, quello è il suo
dono e deve usarlo. Contini pensa che
l’unico film che potrebbe fare sarebbe quello su un uomo che cerca di riconquistare
sua moglie. Guido torna a Cinecittà. Dopo
aver spiegato ai suoi due attori protagonisti la scena clou di una riconciliazione,
confessa che oggi è come se ricominciasse
da capo il suo lavoro. Cala il silenzio.
Guido gira il suo nuovo film, Luisa è accanto a lui sul set. “Azione!”.
n remake? Assolutamente no. Un
omaggio? Non proprio, anche se
il regista lo ha definito così. Un’ispirazione, più che altro. Così Nine sembra
stare all’8 ½ felliniano. Conviene fare chiarezza subito. Il film è l’adattamento per il
grande schermo dell’omonimo musical di
Broadway, andato in scena per la prima
volta nel 1982, scritto da Arthur L. Kopit con
musica e parole di Maury Yeston, a sua volta
omaggio al grande regista italiano, a cui
però il maestro negò l’utilizzo del proprio
nome e del titolo del suo capolavoro.
“I miei film sono come la mia immaginazione” dice il regista Guido Contini protagonista di questo Nine, ma non è molto
fervida quella di Bob Marshall, regista che
aveva convinto con il musical Chicago, ma
che, questa volta, compie un grande passo falso nel tentativo di portare sullo schermo la crisi creativa e umana di un regista
di successo che somiglia molto poco a
Federico Fellini se non fosse per quel cognome con cui fa tanto rima. Insomma
nulla dell’autobiografia immaginaria e immaginifica, nulla di visivamente straordinario, nulla della vorticosa girandola di
immagini, ricordi e sogni come nel capolavoro del regista riminese. E che dire dei
temi chiave di quel grande film come l’arte, la morte, la memoria? Brevi accenni
piazzati qua e là con sciatteria e superficialità.
U
16
Veniamo alle intenzioni dichiarate del
regista. Nine dovrebbe essere un omaggio
all’immenso Fellini e al suo 8 ½ e comunque un atto d’amore all’Italia (“Un San Valentino all’Italia”). Ed è proprio qui che saltano agli occhi le perplessità più evidenti.
Di omaggio a Fellini non si può proprio
parlare: si semplifica troppo la figura di
Guido Contini regista-protagonista in crisi
creativa e umana che cita solo nel nome il
Guido Anselmi che fu di Mastroianni in 8 ½,
ma, soprattutto, si compie opera di deformazione del suo cinema, della sua poetica, dei suoi amori. La figura del grande
regista è banalizzata attraverso una serie
di luoghi comuni propri del “fellinismo”: le
sue crisi, le sue fughe, le sue insofferenze
per le conferenze stampa. Ecco qui Guido
Contini, un regista inaffidabile e narciso,
con la mente affastellata da domande che
non trovano risposta, ‘italianamente’ dipendente da mammà, moglie e amante.
Quanto all’atto d’amore nei confronti
dell’Italia ci viene da ridere a vedere messi in scena, ancora una volta, una serie di
piatti stereotipi del belpaese e dei suoi
abitanti: la patria dell’amore per la vita, per
il buon cibo, per il sesso, la danza, il canto, il paese della moda abitato da uomini
‘sciupafemmine’, vestiti elegantemente e
che se ne vanno in giro su auto rombanti.
Un esempio per tutti: il numero della giornalista di moda Kate Hudson (un personaggio assente nel musical originale) che,
sfilando in passerella accanto a bellissimi
ragazzi, intona il suo personale inno al
“Cinema italiano”. Come se non bastasse,
nel tentativo di dare un gusto ancora più
italiano alla pasticciata salsa, si sono chiamati alcuni volti noti del cinema italiano per
mortificarli con una serie di apparizionimacchiette. Eccoli, uno a uno, sfilare, Ricky Tognazzi (l’unico ad avere un ruolo un
po’ più consistente degli altri), Martina Stella, Roberto Citran, Valerio Mastandrea. E
va da sé che la tempesta di colori, suoni,
costumi, canti, balli, ubriaca lo spettatore
(e solo a tratti lo affascina) risultando come
l’esatto contrario della poetica di un maestro inventore di un cinema inimitabile e
sospeso in una bolla onirica che galleggia
tra realtà e fantasia (“I miei film sono spesso basati sui miei sogni” amava ripetere).
Anche la parata di belle donne non sembra ispirare un granché, eccezion fatta per
Marion Cotillard, classe, sobrietà e talento concentrati in un fisico statuario e in un
viso perfetto. Quanto a Daniel Day-Lewis,
alter ego di Fellini-Mastroianni, bisogna
ammettere che, nonostante le indubbie doti
recitative, risulta risucchiato nel confusionario marasma, restando prigioniero dell’angoscia che immobilizza non solo il suo
Film
personaggio ma che finisce per pervadere tutto il film.
Tra tanto rumore per nulla; si salva solo
qualche numero musicale: la Penélope
sexy in guèpiere che si dondola sull’altalena e si muove come una gattina (il suo
ruolo fu nell’originale felliniano di Sandra
Milo), la Marion elegantissima che canta
“Take It All”, la ‘forte’ storia della sua vita e
dei suoi amori (e pressoché perfetta e all’altezza del ruolo che fu di Anouk Aimée),
Tutti i film della stagione
la Stacy Ferguson che indossa i panni della
Saraghina, la formosa prostituta che, improvvisando un balletto sulla spiaggia, incantava il giovane Felini in 8 ½. Peccato
che la cantante (dalla voce senza dubbio
bellissima) si limiti a ‘urlare’ il suo invito alla
mascolinità con l’imperativo “Be italian!”.
Su Judi Dench nei panni della costumistaconfidente, su Nicole Kidman, trasformata da lifting e silicone che tenta di ‘diveggiare’ nei panni di una star a metà tra Ani-
ta Ekberg e Claudia Cardinale e su Sophia
Loren nei panni di mammà che appare in
sogno, preferiamo sorvolare.
La morale è una sola: non tocchiamo i
miti per carità, la loro insondabile complessità deve rimanere tale. E ricordiamoci che
al cinema non funziona come a scuola ...
e un otto e mezzo è meglio che non diventi mai un nove.
Elena Bartoni
TRA LE NUVOLE
(Up in the Air)
Stati Uniti, 2009
Trucco: Kimberly Jones, Jeff Lewis, Brad Look, Diane Maurno,
Lisa Brockman-Kalz
Acconciature: Natasha Allegro, Frances Mathias, Mary
Rockwood-Crabtree
Coordinatore effetti speciali: William Dawson
Supervisori effetti visivi: Justin Jones, Edson Williams (Lola
Visual Effects)
Supervisori musiche: Rick Clark, Randall Poster
Interpreti: George Clooney (Ryan Bingham), Vera Farmiga (Alex
Goran), Anna Kendrick (Natalie Keener), Jason Bateman (Craig
Gregory), Amy Morton (Kara Bingham), Melanie Lynskey (Julie
Bingham), J.K. Simmons (Bob), Sam Elliott (Maynard Finch),
Danny McBride (Jim Miller), Zach Galifianakis (Steve), Chris
Lowell (Kevin), Steve Eastin (Samuels), Marvin Young (Se stesso), Lucas MacFadden (DJ della conferenza), Adrienne Lamping
(Tammy), Meagan Flynn (assistente di volo), Dustin Miles (Ned),
Tamara Tungate (hostess), Laura Ackermann (signora al checkin), Meghan Maguire (donna d’affari), Courtney Kling (inpiegato
dell’aereoporto), Matt O’Toole (voce del marito di Alex), Alan
David (inpiegato dell’Hilton), Erin McGrane (Dianne), Cari Mohr
(commissario di bordo), Jerry Vogel (manager di San Francisco),
Dave Engfer (tizio dei software), Paul Goetz (commesso dell’auto noleggio), Jeff Witzke, Adhir Kalyan
Durata: 108’
Metri: 2960
Regia: Jason Reitman
Produzione: Jeffrey Clifford, Daniel Dubiecki, Ivan Reitman,
Jason Reitman per Paramount Pictures/ Cold Spring Pictures/
DW Studios/ The Montecito Picture Company/ Rickshaw
Productions/ Right of Way Films
Distribuzione: Universal
Prima: (Roma 22-1-2010; Milano 22-1-2010)
Soggetto: tratto dal romanzo omonimo di Walter Kirn
Sceneggiatura: Sheldon Turner, Jason Reitman
Direttore della fotografia: Eric Steelberg
Montaggio: Dana E. Glauberman
Musiche: Rolfe Kent
Scenografia: Steve Saklad
Costumi: Danny Glicker
Produttori esecutivi: Michael Beugg, Ted Griffin, Joe
Medjuck, Tom Pollock
Produttori associati: Ali Bell, Jason Blumenfeld, Helen
Estabrook
Casting: Mindy Marin
Aiuti regista: Sonia Bhalla, Jason Blumenfeld
Operatori: Chris Benson, Matthew Moriarty, Mark Schwartzbard
Operatore steadicam: Matthew Moriarty
Art director: Andrew Max Cahn
Arredatore: Linda Lee Sutton
yan Bingham è un cinico uomo
d’affari, definito un “tagliatore di
teste aziendale”, uno che si guadagna da vivere licenziando la gente in
giro per gli Stati Uniti, per conto di una
società di intermediazione, usata da
grandi aziende quando si rende necessario effettuare riduzioni del personale.
L’uomo vive perennemente in viaggio
(322 giorni l’anno), non ha una vita affettiva e vive tra aeroporti e asettici alberghi a cinque stelle, collezionando in
modo quasi maniacale i punti “mille miglia” dell’American Airlines, sua compagnia aerea preferita. Il suo obiettivo è
quello di entrare a far parte del prestigioso club dei dieci milioni di miglia, per
ricevere la preziosa card di grafite. In
R
quei venti giorni all’anno che è costretto a rimanere a terra, trascorre le sue
giornata in un tristissimo monolocale a
Omaha. Di tanto in tanto, tiene delle
conferenze per trasmettere agli altri la
sua filosofia dell’esistenza: le relazioni
umane e tutti gli oggetti che ne costituiscono il necessario contorno sono una
peso inutile, un fardello che appesantisce lo zaino della vita e rende solo più
faticoso l’andare. Meglio allora vivere
liberi come l’aria, tra le nuvole. I bar
dell’Hilton diventano il suo campo di
conquista; qui infatti conosce Alex, una
donna che pare la sua fotocopia al femminile, viaggiatrice incallita ed esuberante, con cui fa a gara a chi ha accumulato più miglia.
17
Ma qualcosa accade, tra un aereo e
l’altro. Una giovanissima e rampante
collega appena laureata, Natalie, convince il suo capo che viaggiare e licenziare la gente “di persona” comporta
enormi costi aziendali per alberghi e biglietti aerei. Sarebbe senza ombra di
dubbio più semplice e meno dispendioso
farlo per videoconferenza. Questa ipotesi per Ryan costituirebbe una vera rivoluzione e le fondamenta stesse della
sua vita ne sarebbero pericolosamente
minacciate. Niente più viaggi in aereo,
niente più alberghi; nell’orizzonte di
Ryan si profilerebbe la terribile prospettiva di mettere radici. Così viene ingaggiato dal suo capo a lavorare insieme a
Natalie per dimostrarle i vantaggi del
Film
“vecchio” metodo, per poterli poi applicare al nuovo.
Nel frattempo, l’ideologia del viaggiare leggeri senza casa, senza affetti,
senza relazioni se non occasionali, va in
crisi per Ryan, perché gli sporadici incontri con Alex si stanno trasformando
in qualcosa di serio. In occasione del matrimonio della sorella, l’uomo propone
alla donna di accompagnarlo. Durante i
preparativi delle nozze, Ryan ha la possibilità di conoscere meglio le sorelle,
rese quasi estranee dalla distanza e dal
suo stile di vita. Intanto, la giovane Natalie, con estrema freddezza e professionalità, inizia ad applicare le nuove tecniche di videoconferenza e, nonostante
le iniziali difficoltà, tutto sembra procedere. È arrivato dunque il momento per
Ryan di trovare una sistemazione definitiva in sede, ma l’uomo inizia a convincersi che per Alex sarebbe anche disposto a cambiare vita. Decide di farle una
sorpresa e la va a trovare a Chicago, a
casa sua. Ma contrariamente alla sue
aspettative la trova sposata e con figli.
Una donna licenziata da Natalie si suicida e la ragazza, disperata, si licenzia
dall’azienda per prendere altre strade.
Ryan così torna a volare.
iberamente tratto dall’omonimo
romanzo di Walter Kirn, Tra le
nuvole (Up in the air il titolo originale) è una commedia agrodolce di Jason Reitman, che ci pilota su una rotta
costante: l’aridità dei sentimenti. Dopo
essere stato presentato in anteprima
mondiale al Toronto International Film
Festival, il film viene presentato in concorso al Festival Internazionale del Film
L
Tutti i film della stagione
di Roma 2009 e vince il Golden Globe
per la migliore sceneggiatura. Il regista
di Thank you for smoking e Juno, esplora stavolta con meno cinismo, ma sempre con un sottile e sferzante ironia, un’altra figura professionale decisamente scomoda, capace di strappare sorrisi, ma, soprattutto, momenti di riflessione. Le scene che rimangono più impresse, in cui non
si ride affatto, sono quelle dei licenziamenti. Per renderle il più veritiere possibile, Reitman e la sua troupe sono andati
per il casting nelle città più colpite dalla
crisi, “reclutando” veri neo-disoccupati. In
questo modo hanno raccolto le testimonianze commoventi di chi veramente ha
perduto il lavoro e ha potuto sfogare le
proprie frustrazioni davanti alla telecamera.
Quello di Ryan è un lavoro sporco;
come può guardarsi allo specchio una volta tornato a casa? E il punto è proprio questo: lui una casa non ce l’ha, tutti i suoi
averi entrano in un trolley leggero e maneggevole che non lascia spazio a niente
di più pesante di uno spazzolino, qualche
cravatta e due camicie. Ryan passa la
maggior parte del suo tempo in business
class, sospeso in aria ed è forse proprio
questa distanza, tra cielo e terra, a consentirgli di non farsi carico di alcuna responsabilità.
La sua specialità è spacciare degli
ingiusti e crudeli “congedi” per delle imperdibili opportunità di riconquistare i
propri sogni e rivoluzionare in positivo la
propria vita. Ma lo fa con stile, con formule che attutiscono l’impatto con la realtà e costituiscono quello che nella sua
filosofia da venditore egli definisce “limbo”, dove si accompagna la vittima pri-
18
ma di buttarlo nella voragine. Ogni personaggio compie un’evoluzione e un
passaggio: la spietata collega si rivela
essere una ragazzina impaurita e indebolita da una delusione d’amore e la relazione con la sensuale e seducente
manager si risolve in un risvolto stucchevolmente romantico, che però non ha lieto fine. Molto coinvolgente la metafora
dello zainetto che Ryan utilizza nelle sue
conferenze, durante le quali paragona il
carico del bagaglio con il carico umano
e affettivo che ognuno di noi si porta dietro. E se all’inizio il suo stile di vita “leggero” viene sbandierato da lui con orgoglio, alla fine arriverà la consapevolezza
che qualcosa gli manca, a partire dal legame con la sua famiglia, oltre ovviamente all’esistenza di un “co-pilota”, indispensabile nel viaggio di ognuno di noi.
Emblematica, a tal proposito, risulta la
sequenza in cui finalmente riesce a raggiungere il record di miglia percorse in
aereo e a entrare nell’esclusivo club dei
“dieci milioni”, composto da sette persone soltanto. Il momento tanto atteso è sopraggiunto, ma quando il pilota dell’aereo gli chiede cosa provi e da dove venga, Ryan non sa cosa rispondere e tristemente afferma“da qui”.
Il film vuole anche far riflettere sulla
natura dei rapporti interpersonali e sentimentali, in un’epoca in cui i mezzi a disposizione come chat, sms, sembrerebbero aver moltiplicato le occasioni di
scambio e comunicazione tra le persone. Tanto che si può arrivare a interrompere una relazione tramite un sms, o a
liquidare una persona tramite un videomessaggio. Il linguaggio diventa sempre
più conciso, distaccato, evasivo e multimediale, privandoci di quell’umanità che
solo lo scambio diretto con l’altro può
darci.
Il film funziona grazie alla bizzarra coppia composta da Vera Farmiga e Anna
Kendrik, ma soprattutto alla disinvolta e apprezzabilissima interpretazione di un sempre capace George Clooney, che riesce a
trasmettere perfettamente anche i risvolti
drammatici del suo personaggio, attribuendogli un’eleganza malinconica e un glamour alla Cary Grant. La sceneggiatura
(che nei temi ricorda in parte l’italiano Volevo solo dormirle addosso di Cappuccio),
la buona regia di Reitman e un finale non
smielato, rendono Tra le nuvole un prodotto da grande pubblico, ma anche una pellicola di qualità.
Veronica Barteri
Film
Tutti i film della stagione
NIKO. UNA RENNA PER AMICO
(Niko - Lentäjän poika)
Finlandia/Danimarca/Germania/Irlanda, 2008
Regia: Michael Hegner, Kari Juusonen
Produzione: Jaana Hovinen, Petteri Pasanen, Kristel Tõldsepp,
Hannu Tuomainen per Cinemaker Oy/ Anima Vitae/ A. Film/
Animaker/ Magma Films Ltd. (I)/ Ulysses/ The Weinstein
Company; in coproduzione con Europool/ TV2 Danmark/
Universum Film (UFA e con la collaborazione di Yleisradio
(YLE) e ZDF Tivi
Distribuzione: Videa-CDE
Prima: (Roma 30-10-2009; Milano 30-10-2009)
Soggetto e sceneggiatura: Hannu Tuomainen, Marteinn
Thorisson
Montaggio: Per Risager
Musiche: Stephen McKeon
Scenografia: Antti Haikala
Produttore esecutivo: Marc Gabizon
iko è una giovane renna che sogna di volare, come le Forze Volanti, le 8 renne che trainano la
slitta di Babbo Natale e di una delle quali
ritiene di essere figlio. Lo scoiattolo Julius, suo amico e maestro, lo esorta a credere veramente in se stesso, mentre gli
amici lo prendono in giro, perché, nonostante i reiterati tentativi, non riesce a spiccare il volo. Niko vive con la sua mandria
nella tranquilla Valle Casa e sa che gli è
proibito uscire da lì, per evitare che i famelici lupi scoprano l’esistenza del rifugio, mettendo a repentaglio la vita del
gruppo. Nessuno intanto crede alla storia,
rievocata da sua mamma Oona, di un eroico padre che vivrebbe colle Forze Volanti
sul Monte di Babbo Natale. Per mostrarsi
bello agli occhi della renna Willow, sua
dolce coetanea, Niko trasgredisce le regole e, accompagnato da lei, va a esercitarsi
per il volo alla Collina Palco. Lì vengono
scoperti da due lupi smilzi e affamati. I due
giovani fuggono; credendo di aver seminato i cacciatori, li conducono invece dritti
dritti alla mandria, provocando il ferimento del capobranco. Le renne sono pertanto
costrette a intraprendere la marcia per
mettersi in salvo. In preda al rimorso e
subissato dalle critiche di tutti, che lo reputano un irresponsabile, Niko decide di
separarsi dal gruppo, partendo verso il
Monte di Babbo Natale, alla ricerca del
padre. Julius lo raggiunge per riportarlo
indietro, Niko però è risoluto. Frattanto,
anche i lupi si mettono in marcia verso il
Monte, insieme a Essie, una barboncina
viola che s’è smarrita dai suoi padroni e
diventa la loro portafortuna. Il progetto è
quello di papparsi Babbo Natale e le sue
N
Co-produttori: Emely Christians, Ralph Christians, Anders
Mastrup
Line producers: Viola Lütten, Lise Ann Mangino
Direttori di produzione: Nick Dorra, Sini Lindberg, Viola
Lütten
Art director: Mikko Pitkänen
Supervisore effetti visivi: Aki Rissanen
Supervisore animazione: Henri Leik
Voci: Olli Jantunen (Niko), Hannu-Pekka Björkman (Julius),
Vuokko Hovatta (Wilma), Vesa Vierikko (Musta Susi), Jussi
Lampi (Räyskä), Risto Kaskilahti (Rimppa / Uljas), Minttu
Mustakallio (Essie), Juha Veijonen (Raavas), Puntti Valtonen
(Hirvas), Elina Knihtilä (Oona)
Durata: 80’
Metri: 2200
renne, per divenire i Lupi Volanti, con il
loro capo, Lupo Nero, quale novello Babbo Natale, ovviamente con nuove regole:
mangiare i bambini.
Nell’alternarsi di albe rosa e tramonti, aurore boreali e tempeste di neve, mentre di tanto in tanto nel cielo sfrecciano le
Forze Volanti, Niko e Julius proseguono
la loro avanzata. A loro si unisce la donnola canterina Wilma, che li salva da un
fatale inseguimento dei lupi, provocando
una valanga. Nuovamente rincorsi, Niko
precipita nel fiume di Sventura Certa, ma
Julius e Wilma lo traggono in salvo. E,
mentre il giovane dorme, ciascuno dei due
racconta la storia della propria vita, e s’innamora un po’ dell’altro. Mentre anche
Essie lega con il tenero lupo Specks.
La vigilia di Natale, guidati da Wilma,
i tre raggiungono il Monte. Julius però è
triste, perché teme di perdere Niko, che per
ora è la sua famiglia (dopo che i lupi ne
hanno divorato zia, moglie e figlia). Superato l’ingresso al Monte, ghiacciato e pieno di insidie, i tre arrivano alla fabbrica
di Babbo Natale e all’aeroporto delle Forze Volanti. Wilma e Julius mettono in guardia Niko, perchè suo padre potrebbe non
essere un eroe, benché lui lo ritenga tale,
quanto piuttosto uno come gli altri. Niko,
sordo a questo ammonimento, si posiziona sulla pista d’atterraggio e fa sbandare
le renne con la slitta. Quindi le avvisa del
pericolo lupi, che avanzano nel labirinto,
ma loro non gli credono. Poi racconta la
sua storia, ma nessuno ammette di esserne il genitore. Sostenendo che la capacità
di volo si trasmette di padre in figlio, le
scanzonate renne lo mettono però alla prova. Niko fallisce nel volo e litiga con Ju-
19
lius, accusandolo di non aver mai creduto
in lui. Frattanto arrivano i lupi. Le Forze
Volanti, per la paura, perdono la fiducia
in se stessi e non riescono più a volare.
Alle renne codarde si contrappongono dei
lupi un po’ maldestri. Niko, per fuggire da
Lupo Nero, si arrampica sulla cima di un
enorme albero di Natale, fino a caderne.
Le renne, sobillate da Julius, che narra loro
le fatiche di Niko, riprendono coraggio e,
mentre piomba giù dall’albero, lo salvano
con la slitta. A essa s’aggrappa però anche Lupo Nero. Julius allora si sacrifica
al fine di proteggere il gruppo: sgancia il
retro della slitta e precipita nel vuoto con
il malvagio Lupo. Per salvarlo dalle sue
fauci, Niko riesce finalmente a volare, mettendo poi in fuga i lupi. Avvenuto l’atteso
riconoscimento col padre, appare quindi
Babbo Natale, che promuove Niko tra le
Forze Volanti. Ma, mentre sono in volo per
la consegna dei regali, Julius li abbandona e si lancia verso casa. Le renne della
mandria non credono a quanto racconta,
fino a quando arriva Niko insieme a Wilma. E, poco dopo, le renne con Babbo
Natale. Il giovane decide di rimanere col
suo gruppo, asserendo: “Mio padre è sempre stato con me” (e indica Julius). Il vero
padre, semmai, andrà a trovarlo dopo Natale… Col permesso della mamma – precisa quest’ultimo. Infine Niko, in volo, indica alle renne una radura dov’è cibo a
volontà, poi s’immerge in una stella di nuvole.
ellicola natalizia per bambini senza grandi pretese, ma davvero
molto gradevole e piena di ritmo.
E a tratti anche parecchio profonda. Un
P
Film
giovane ardimentoso e maturo si contrappone a delle renne mattacchione e goderecce, da lui ammirate ogni volta che sfrecciano nel cielo. Ma quello è un ruolo, l’essenza è poi ben altra. Lo sintetizza alla
perfezione Julius, quando, rivolto al ragazzo che vive nel loro mito, afferma: “Nessuno di questi sciocchi merita di essere tuo
padre. Credi di volare e non avere paura”.
L’intreccio è assai scorrevole e movimentato, con effetti sorprendenti, come la valanga di neve o le furiose cascate. Notevole anche l’utilizzo del correlativo oggettivo: è nella notte che Niko prende la deci-
Tutti i film della stagione
sione di partire, una notte al contempo
esteriore e dell’anima. Nel rifugio della
cosca dei lupi, poi, stalattiti di ghiaccio affilate fungono da parallelo alle loro fauci.
La giovane renna Niko percorre un
cammino di espiazione all’errore, che è
pure un viaggio alle origini della propria
storia, con la ricerca del padre. Che forse
lo delude un po’. Bisogna tuttavia credere
davvero in se stessi e nelle proprie aspirazioni, ma avere fiducia negli altri e confidare nel loro aiuto: quando Niko e Julius
in fuga si ritrovano in un antro, innanzi a
una parete senza scampo, è Wilma a sal-
varli. Ciascuno a sua volta è poi chiamato
a immolarsi per gli altri. Nessuno mostra
reticenze, in verità. Ed è proprio l’affetto
per l’amico che sblocca Niko e lo abilita al
volo. Su tutto trionfa quindi la forza dell’amore: la sofisticata Essie rimane con il
timido lupo Specks, l’esuberante Wilma
con il ruvido Julius, e anche la giovane e
bella renna Willow si riavvicina nel finale a
Niko. I lupi sono sconfitti e le renne trovano una radura felice: la favola si conclude,
ma può ripetersi in eterno.
Luca Caruso
CRAZY HEART
(Crazy Heart)
Stati Uniti, 2009
Acconciature: Mary Hedges Lampert, Jennifer Santiago,
Geordie Sheffer
Supervisore effetti speciali: Scott Hastings
Supervisore musiche: Jeffrey Pollack
Canzone estratta: “The Weary Kind” di T-Bone Burnett e Ryan
Bingham
Interpreti: Jeff Bridges (Bad Blake), Maggie Gyllenhaal (Jean
Craddock), Robert Duvall (Wayne), Colin Farrell (Tommy
Sweet), Ryan Bingham (Tony), Jack Nation (Buddy), Paul
Herman (Jack Greene), Tom Bower (Bill Wilson), Beth Grant
(Jo Ann), Rick Dial (Wesley Barnes), Debrianna Mansini (Ann),
Ryil Adamson (Ralphie), Brian Gleason (Steven Reynolds),
Richard W. Gallegos (Jesus/Juan), J. Michael Oliva (Bear),
David Manzanares (Nick), James Keane (manager), Anna Felix
(barista), Jerry Handy (cowboy), Chad Brummett (ragazzo),
José Marquez (anziano ispanico), LeAnne Lynch (infermiera), William Marquez (dottore), Harry Zinn (barista), Josh Berry
(guardia), William Sterchi (Pat), Annie Corley (Donna), Blake
Williams (avventore bar), Steven Ray Byrd (addetto alla sicurezza di Tommy Swett), Chris Bentley
Durata: 112’
Metri: 3070
Regia: Scott Cooper
Produzione: T-Bone Burnett, Judy Cairo, Rob Carliner, Scott
Cooper, Robert Duvall per Butcher’s Run Films/ Informant Media
Distribuzione: 20th Century Fox
Prima: (Roma 5-3-2010; Milano 5-3-2010)
Soggetto: tratto dal romanzo omonimo di Thomas Cobb
Sceneggiatura: Scott Cooper
Direttore della fotografia: Barry Markowitz
Montaggio: John Axelrad
Musiche: Stephen Bruton, T-Bone Burnett
Scenografia: Waldemar Kalinowski
Costumi: Douglas Hall
Produttori esecutivi: Eric Brenner, Jeff Bridges, Michael A.
Simpson
Line producer: Alton Walpole
Direttore di produzione: Alton Walpole
Casting: Mary Vernieu
Aiuti regista: Sarah Lemon, Chemen Ochoa, Marcia Woske
Operatore steadicam: Beau Chaput
Art director: Ben Zeller
Arredatore: Carla Curry
Trucco: Tarra D. Day, Sheila Trujillo
ad Blake è un cantante country
che ha vissuto troppi anni ‘on the
road’, ha alle spalle diversi matrimoni e un numero incalcolabile di bottiglie di whisky. A 57 anni vive ancora sulle
strade d’America suonando i suoi vecchi
successi in locali d’infimo ordine, per lo
più bar o bowling. È spesso ubriaco e rabbioso verso il mondo e la sua fama è in
discesa. Il suo manager gli chiede nuove
canzoni che non arrivano mai, la migliore
cosa che può sperare è aprire i concerti
del suo ex allievo Tommy Sweet, che, a differenza del suo maestro, è diventato ricco
e famoso.
Un giorno, a Santa Fe, dove è atteso
per un concerto, alla porta della sua camera d’albergo bussa la giovane giornalista Jean Craddock che gli chiede un’in-
B
tervista. Tra i due si instaura subito un clima di complicità. Dopo essersi visti di nuovo, i due finiscono a letto insieme. Blake
va a fare visita a Jean e conosce suo figlio
Buddy, di quattro anni. Pochi giorni dopo,
Blake parte per Phoenix, dove, solo per
soldi, ha accettato di aprire il concerto di
Tommy Sweet. Durante un incontro con il
suo ex allievo, i due ricordano come tra
loro i rapporti si siano incrinati anche a
causa della turbolenta vita privata di
Blake. Ora Bad chiede a Tommy di fare un
album insieme; ma il giovane non può fare
pressioni sulla sua casa discografica e gli
chiede di scrivere qualche canzone per lui.
Dopo il concerto, Blake telefona a Jean:
ha due giorni liberi e pensa di passare da
lei a Santa Fe. Messosi in viaggio stordito
dall’alcool, ha un incidente. In ospedale
20
un medico lo mette in guardia sul suo stato di salute: il suo alcolismo lo sta distruggendo, deve smettere di bere e di fumare e
perdere peso. Blake trascorre sereno la
convalescenza a casa di Jean e si affeziona a Buddy. Jean gli chiede di non bere
davanti al bambino e l’uomo si impegna a
mantenere uno stile di vita più sano. Un
giorno, Blake confida a Jean che ha un figlio di ventotto anni che non vede da quando ne aveva quattro e si separò dalla madre. Il ragazzo non lo ha mai perdonato di
essere stato un padre assente. Prima di
partire per Houston, dove suonerà per
quattro mesi, Blake dice a Jean di amarla
e la invita ad andare a trovarlo. Jean è titubante, non vuole che suo figlio faccia le
spese delle sue scelte sbagliate. A Houston,
Blake rivede il suo vecchio amico Wayne
Film
Kramer, proprietario di un locale e telefona a suo figlio, dal quale apprende che la
sua ex moglie è morta da due anni. Il giovane dice di non volerlo vedere e tronca la
telefonata. Blake si confida con Wayne, gli
racconta di aver spedito una bella canzone a Tommy Sweet e di essere stato costretto
a cederla al suo collega per soldi, poi gli
parla della telefonata avuta con suo figlio.
Poco dopo, Jean gli comunica che avrà
alcuni giorni liberi. La donna arriva a
Houston con il figlio. Rimasto solo a badare a Buddy in un centro commerciale,
Blake si ferma a bere in un bar e perde di
vista il bambino. Per fortuna il piccolo viene ritrovato dopo poco ma Jean non può
perdonare Blake e sé stessa per avergli affidato suo figlio. Jean riparte immediatamente con Buddy. Distrutto, l’uomo si impegna a smettere di bere: si iscrive agli
alcolisti anonimi e si ricovera in una clinica per disintossicarsi. Uscito dalla clinica, ricomincia a comporre, poi va da
Jean, le dice di aver smesso di bere e le
confessa il suo vero nome, Blake non c’è
più.
Sedici mesi dopo. Ad un concerto a
Santa Fe, Tommy Sweet esegue un bellissimo brano scritto da Blake. Dopo il concerto, Blake incontra Jean che ora è felicemente sposata e scrive per un giornale
importante. Blake gli dà una busta con del
denaro destinato ai 18 anni di Buddy. Jean
è felice di vederlo di nuovo in forma.
ra ora! Ci voleva un “cuore pazzo” come quello di Bad Blake, per
fargli raggiungere l’ambita statuetta. È anche lui stropicciato, sfatto, ha
gli occhi gonfi, puzza di alcool e sigarette,
ma non è più il vecchio Drugo. Questa volta Bridges azzecca la giusta armonia musicale per stringere quell’ Oscar per cui è
stato candidato già quattro volte. Dopo aver
cantato e suonato al pianoforte seducenti
cover pop accanto al fratello Beau e alla
splendida Michelle Pfeiffer in I favolosi
Baker, ora, a distanza di vent’anni, gli tocca in sorte la musica country. Una sorte
non facile, un genere musicale particolare, dove non conta molto l’originalità dell’armonia (a dire il vero abbastanza monotona), ma, piuttosto, le parole e l’interpretazione. Ed è proprio qui che Jeff ha
saputo eccellere.
Con facile gioco di parole si potrebbe
dire che il suo Bad è ‘cattivo’ fin nel nome
e, per di più, ‘nero’. Blake è un’anima
‘black’, nera in molti sensi. È un’anima
persa, vaga negli abissi di un cuore infranto, fatto a pezzi e disilluso, il suo volto stanco è stato preso a pugni dalla vita, i suoi
occhi sono resi ancor più gonfi dal troppo
E
Tutti i film della stagione
alcool e dal troppo fumo. Come ‘l’ariete’ dal
volto tumefatto di Mickey Rourke, wrestler
distrutto dalle troppe sconfitte esistenziali
(lo scorso anno la sua ruvida prova di attore e di uomo fu insignita del Golden Globe e della nomination all’Oscar), quello di
Bridges è una specie di cowboy che è andato a dormire troppo tardi per molti anni,
triste cantore dei suoi stessi dolori, colpi
inferti agli altri e a sé stesso. La cornice è
quella dell’America polverosa di motel e
stazioni di servizio in mezzo al nulla di tanto
cinema a stelle e strisce (quello che ha
dato vita a un vero filone definito da alcuni
del “post – Easy Rider”). Impossibile non
farsi venire alla mente le atmosfere ‘on the
road’ di certo cinema di Ashby o Altman.
Proprio impossibile. E tra bar, dove alla
sera si fa musica o bowling scalcinati e
anonimi centri commerciali di oggi (dove
un bambino si può facilmente smarrire)
scorre l’esistenza misera di un uomo in
cerca prima di tutto di se stesso. Lo accompagnano nel viaggio tante caratterizzazioni, forse un po’ troppo scontate, dell’America di provincia, ma nobilitate da
un’ottima squadra di attori. Due sopra tutti. Una bella ragazza vera e virtuosa come
Maggie Gyllenhaal (anche il suo personaggio con un carico di scelte sbagliate alle
spalle), una della realtà più piacevoli del
giovane cinema americano capace di convincere sia nei panni della Secretary sexysadomaso sia in quelli della compagna del
duro Cavaliere oscuro Batman nell’omonimo blockbuster e la presenza carismatica di Robert Duvall, autentico rappresentante dell’America ‘on the road’ (qui anche
produttore, completamente a suo agio nel
ruolo di spalla di un personaggio che richiama molto da vicino il suo cantante
country di Tender Mercies – Un tenero rin-
21
graziamento ruolo che valse anche a lui
l’Oscar). E poi ciliegina sul dolce, il bel
Colin Farrell che appare e incanta cantando, senza nome accreditato nei titoli, arricchendo il quadro di una presenza sempre magnetica.
Ispirato al romanzo di Thomas Cobb, il
film è diretto dall’esordiente Scott Cooper
e impreziosito dall’ottimo apporto musicale del famoso compositore T-Bone Burnett
(autore fra l’altro delle musiche di Fratello
dove sei? dei Coen) e dal chitarrista e compositore Stephen Bruton (morto prematuramente alla fine della produzione del film).
Su tutti i brani, svetta “The Weary Kind”
scritto da Burnett con la star del country
Ryan Bingham (Oscar migliore canzone).
Ma, al di là dei suoi interpreti, il film procede con qualche lungaggine di troppo, verso un risultato che sa di già visto. Le pecche maggiori sono in quella serie di stereotipi che un racconto del genere non poteva
non inanellare: la giovane donna che ha
fatto troppi errori con un figlioletto che ha la
stessa età di quello abbandonato dal protagonista padre-e-marito fallito, l’ex allievo
che è diventato una star, ma che sa tendere una mano al momento del bisogno, il
vecchio amico saggio che è sempre una
buona spalla su cui riversare sensi di colpa
e volontà di redenzione. Non c’è una deriva distruttiva senza ritorno anche grazie a
loro. E il modello già visto tante volte al cinema, ahinoi, si ripete, anche se opportunamente si evita lo zuccheroso finale.
Ma meno male che c’è il nostro Jeff.
La sua personale parabola? Un viaggio di
andata e ritorno nella provincia americana di un attore mai troppo divo (per fortuna ce ne sono ancora). E un percorso circolare sembra chiudersi. Un viaggio iniziato con quell’Ultimo spettacolo del 1971 di
Film
Peter Bogdanovich (stesso clima e stessa
ambientazione provinciale e prima nomination all’Oscar per Bridges), proseguito
tanti anni dopo insieme ai Coen con una
variante, ricca di inimitabile humour, dello
stesso ‘tipo umano’ in un bowling (appun-
Tutti i film della stagione
to) di provincia e concluso qui, in giro per
l’America a bordo di uno scassato pick-up
a cantare in locali dimenticati da Dio, con
un cappello da cowboy calcato a coprire
le troppe rughe e una vita bruciata da troppo alcool, fumo e donne.
Un bel viaggetto tutto sommato. Stereotipi o no, il vero e unico vincitore è lui e
lo sarebbe stato anche senza statuetta tra
le mani.
Elena Bartoni
AN EDUCATION
(An Education)
Gran Bretagna, 2009
Casting: Lucy Bevan
Aiuti regista: Paul Cathie, Joe Geary, Tom Mulberge, Tom White
Art director: Ben Smith
Arredatore: Anna Lynch-Robinson
Supervisore effetti speciali: David Payne
Coordinatore effetti visivi: Edward Randolph (Baseblack)
Supervisore costumi: Amanda Keable
Supervisore musiche: Kle Savidge
Interpreti: Carey Mulligan (Jenny), Peter Sarsgaard (David),
Alfred Molina (Jack), Cara Seymour (Marjorie), Matthew Beard
(Graham), Dominic Cooper (Danny), Rosamund Pike (Helen),
Emma Thompson (preside), Olivia Williams (signorina Stubbs),
Amanda Fairbank-Hynes (Hattie), Ellie Kendrick (Tina), Sally
Hawkins (Sarah), Kate Duchene (insegnante latino)
Durata: 100’
Metri: 2750
Regia: Lone Scherfig
Produzione: Finola Dwyer, Caroline Levy, Amanda Posey per
BBC Films/ Wildgaze Films/ Finola Dwyer Productions/
Endgame Entertainment
Distribuzione: Sony Pictures Releasing Italia
Prima: (Roma 5-2-2010; Milano 5-2-2010)
Soggetto: tratto dalle memorie della giornalista Lynn Barner
Sceneggiatura: Nick Hornby
Direttore della fotografia: John de Borman
Montaggio: Barney Pilling
Musiche: Paul Englishby
Scenografia: Andrew McAlpine
Costumi: Odile Dicks-Mireaux
Produttori esecutivi: Douglas Hansen, Nick Hornby, Wendy
Japhet, Jamie Laurenson, James D. Stern, David M. Thompson
Direttore di produzione: Ciara McGowan
wickenham, Londra 1961. Jenny
Miller ha 16 anni, è una studentessa graziosa, intelligente, frequenta il college e si prepara per l’ammissione a Oxford, dove intende studiare lettere. Un pomeriggio, dopo la lezione di violoncello, la ragazza attende il bus alla fermata, mentre diluvia. Accosta una Bristol
spider bordò e un simpatico trentenne le
offre un passaggio. Si chiama David, è
ebreo, oltremodo garbato e affascinante.
Il giorno dopo, l’uomo le fa recapitare a
casa una cesta di fiori, poi i due si incontrano per strada e lui la invita a un concerto di musica classica e a cena. David si
presenta a casa di Jenny, conosce i suoi
genitori, Jack e Marjorie, e fa breccia nel
loro cuore, perché è arguto, simpatico e sa
lusingare tutti. Così introduce Jenny ai suoi
amici: Helen, bella e superficiale e Danny. La ragazza è vispa e appare curiosa di
conoscere tutte le cose del mondo, mentre
sogna la vita di Parigi. David e company
sono felici di portarla con loro a un’asta
d’arte e poi per un weekend a Oxford. La
notte, Jenny e David dormono insieme, ma
sono molto pudichi: lei vuole attendere i
17 anni. Il giorno dopo, invece, è costretta
a fuggire dalla cittadina insieme alla comitiva in maniera sbrigativa e quasi brutale. Jenny ci resta male e sta per abbandonare i suoi nuovi amici, ma poi David la
adula: lei è intelligente, porta cultura. Il
mestiere di David è quello di accompagna-
T
re famiglie di neri nei palazzi londinesi,
facendo così sloggiare le impaurite vecchiette che vi risiedono. Ora lui le prospetta
due modelli di vita: se rimane a casa, le
canzoni francesi alla radio, le traduzioni
di latino... Se invece va con lui: ristoranti,
viaggi, concerti, film... “Questo è quello che
siamo, Jenny”, così si divertono. Jenny riflette che la sua vita, prima, era noiosa, lei
non aveva fatto nulla. Con David invece è
molto avvincente. Anche suo padre Jack osserva che non ci si annoia mai con David,
che lei è fortunata a conoscerlo, a differenza
di Graham, ragazzo imbranato che le fa la
corte in maniera maldestra. Poiché al college si diffondono le voci sulle frequentazioni
di Jenny, la preside la convoca, ammonendola che rischia di perdere l’opportunità di
sostenere gli esami finali. S’avvicina intanto
il compleanno di Jenny, 17 anni. David la
riempie di regali e la invita a Parigi, città
della quale lei adora la cultura, i libri, i film,
la musica. Jenny è radiosa, incantata, sulle
note di Juliette Greco. E a Parigi decide di
perdere la verginità. Al rientro a scuola, ha
un duro scontro con miss Stubbs, l’insegnante
di lettere, che la vede cambiata, non più interessata allo studio, all’impegno, ma ai nuovi valori inculcateli da David. D’altronde –
ribatte Jenny – a che serve studiare, se poi si
finisce a correggere temi sgrammaticati in
un liceo di periferia? David la porta alle corse dei cani, poi in un club a ballare. Quindi
le chiede: “Mi vuoi sposare?”. Jenny è in
22
crisi: a cosa è servito studiare così tanto? La
rassicura il padre Jack, notando che David
non le avrebbe chiesto di sposarlo se fosse
stata ignorante. Felice della proposta, a Jack
non interessa che la figlia abbandoni gli studi cui finora si è dedicata strenuamente, purché si sistemi. Jenny cambia allora prospettiva: studiare comporta noia e fatica, David
le offre invece bei film, musica, viaggi, divertimento...
Una sera stanno andando a cena tutti e
quattro, David, Jenny e i suoi genitori, ma
la ragazza scopre in auto lettere intestate al
Signor e alla Signora Goldman: David è
sposato. Lei ha lasciato la scuola per lui,
cosa farà adesso? David sostiene che chiederà il divorzio. Ma poi, mentre Jenny attende che lui entri in casa per comunicare
ai suoi genitori la verità, l’uomo fugge via.
Jenny si reca a casa di Helen e Danny, poi
in quella di David, dalla quale esce la moglie, incinta e con un bambino per mano.
Vedendo Jenny, la donna capisce, se ne rammarica, il marito fa con tutte così.
Jenny se la prende coi suoi. Poi piange, ma ha la forza di tornare dalla preside: per la vita che vuole non esistono scorciatoie. Quindi va a casa di miss Stubbs,
per chiedere aiuto.
Arriva infine la lettera da Oxford: Jenny è stata accettata all’università. Il film si
conclude così con l’inizio dell’impegnativo
studio sui libri. Mentre Jenny racconta fuoricampo che un ragazzo che ha conosciuto
Film
Tutti i film della stagione
a Oxford (un ragazzo vero, questa volta!)
la invita a Parigi e lei accetta entusiasta,
desiderosa di visitare la capitale francese,
come se non vi fosse mai stata.
ella vita non esistono scorciatoie
e, per chi può, l’istruzione (An
education) risulta fondamentale,
per quanto costi fatica, o forse proprio per
questo. Ma la formazione salva, oltre che
dalle apparenze di una vita frivola, anche
dalle ingenuità che si possono commettere,
quando ci si lascia abbagliare dalle lusinghe
di un individuo scaltro e del bel mondo che
prospetta. Jenny lo apprende a sue spese.
Nel film sono infatti posti a confronto due
opposti modelli di vita: quello borghese,
mediamente conservatore, che conosce l’importanza del sacrificio e il valore del denaro
e del risparmio; quello invece sbruffone, impenitente, animato da un’impertinente volontà di potenza e di affermazione e che, mediante il denaro, può concedersi tutti i lussi
che desidera, fin quasi a comprare anche
gli affetti. Jenny è sedotta, è tradita, ma fa in
tempo ad arrestare la corsa e a riprendere
con coraggio e umiltà la propria direzione,
prediligendo il faticoso studio accademico
alla vagheggiata ‘università della vita’, alla
quale sostiene di essersi formato il brillante
David in una delle prime scene, quando i
due si conoscono. L’uomo è riuscito a mettere in crisi la vita fino a quel momento tranquilla e contegnosa di una ragazza piccolo
borghese. Jenny si trasforma, è meno timida, più curiosa, viziosetta. Anche il suo
aspetto muta: appare infatti acconciata
come una novella Audrey Hepburn. Alla domanda sul suo passato, ‘A cosa è servito lo
studio?’, subentra in Jenny quella sul proprio futuro, in un’inversione di pensiero, ‘A
cosa servirà studiare ancora?’. Tanto c’è
David che assicura il benessere e i divertimenti di una vita sempre al top. Anche i
genitori di lei sono abbagliati dall’uomo, ritenendolo ben introdotto nell’alta società,
ove coltiva buone conoscenze, che erano
in fondo la loro massima aspirazione da
borghesi; poi è un tipo divertente, estroverso, amabile. Un’eccessiva ostentazione di
doti che rasentano la perfezione, ma servono piuttosto a celare un retroscena non
limpido: David non è un uomo libero e, dalla battuta della moglie alla vista di Jenny, si
apprende che è avvezzo a frequentare le
ragazzine. Jenny, in sostanza, non è la prima né l’unica.
David affascina Jenny prospettandole
l’offerta a profusione di quanto lei, fino a
quel momento, in una vita di tranquillità –
che a posteriori giudica ingiustamente di
noia – aveva potuto solo desiderare: Oxford,
Parigi, film, concerti, balli, divertimenti, la
N
libertà. Ma i traguardi occorre conquistarli,
non piovono gratuitamente dal cielo, a meno
che non vi si celi dietro l’inganno.
La sceneggiatura, firmata dallo scrittore Nick Hornby, si basa sulle memorie
autobiografiche della giornalista Lynn Barber, comparse in un articolo sulla rivista
letteraria inglese Granta. Tipica atmosfera
anglosassone, piovosa, grigia, di un sobborgo inglese agli albori degli anni ’60, le
cui ambientazioni e gli interni sono ricreati
fedelmente. Anche la musica contribuisce
a rendere vivido il clima dell’epoca, esaltando la bravura sia individuale che corale
degli interpreti. Un affresco che ritrae con
delicatezza il cruciale passaggio dall’adolescenza alla maturità, l’educazione sessuale, i sogni, le ambizioni, le scelte, le
delusioni di una ragazza semplice e volitiva, le fatiche per non tradire se stessa, la
solitudine delle decisioni importanti, i disaccordi e le contrastanti visioni del mondo, il miraggio della serenità di una meta
che si traduce in inganno, gli abbandoni e
le difficili riconquiste; insomma: tutta la fatica del vivere.
Luca Caruso
LA CASA SULLE NUVOLE
Italia, 2009
Regia: Claudio Giovannesi
Produzione: Andrea Costantini, Giorgio Magliulo, Hamid Basket per Centro Sperimentale di Cinematografia/Isatituto Luce/Rai Cinema/Shooting Stars
Distribuzione: Istituto Luce
Prima: (Roma 8-5-2009; Milano 8-5-2009)
Soggetto e sceneggiatura: Claudio Giovannesi, Francesco Apice, Matteo Berdini,
Filippo Gravino
Direttore della fotografia: Tommaso Borgstrom
Montaggio: Giuseppe Trepiccione
Musiche: Claudio Giovannesi, Enrico Melozzi
Scenografia: Alessandro Vannucci
Costumi: Giovanni Addante
Direttori di produzione: Gianluca Chiaretti, Nicoletta Maggi
Aiuti regista: Luca Dal Canto, Federico Marsicano
Operatore steadicam: Matteo Carlesimo
Suono: Valentino Giannì
Interpreti: Adriano Giannini (Michele Raggi), Paolo Sassanelli (Franco Vitale), Emilio Bonucci (Dario Raggi), Emanuele Bosi (Lorenzo Raggi), Ninni Bruschetta (Bellini), Faten Ben Haj Hassen (Amina), Tara Haggiag (Sara), Manuela Spartà
Durata: 96’
Metri: 2840
23
Film
n un casolare alla periferia di
Roma, vivono due fratelli, Michele e Lorenzo Raggi: l’uno introverso e solitario, alleva cani di razza, l’altro ventenne musicista jazz, sogna New
York e il successo americano. Una mattina, vedono invadere casa da un uomo e la
sua troupe di periti: è stato tutto venduto
dal loro legittimo proprietario, il padre
Dario scomparso da 12 anni, dovranno
perciò sgomberare al più presto. Affranti
e arrabbiati, i due ragazzi non si arrendono e decidono di andarlo a cercare per riprendersi la casa dove hanno sempre vissuto. Seguendo le poche tracce che hanno,
Michele e Lorenzo arrivano fino in Marocco, a Marrakech, dove imparano a conoscere quel padre che gli si è negato per
così tanto tempo e a prendere coscienza
del sentimento del loro essere fratelli. Michele, cresciuto con la responsabilità del
fratello maggiore, è oppresso dal senso del
dovere. Ha conosciuto bene il padre prima che li abbandonasse e nutre per lui un
profondo rancore, misto a immensa nostalgia. Nel viaggio, imparerà a dare spazio
alle emozioni. Lorenzo il minore, è al contrario affascinato dalla figura del padre,
I
Tutti i film della stagione
dalla sua energia e dal suo anticonformismo. Quando era piccolo ha idealizzato
Dario vedendolo andare via, ora è felice
di poterlo riabbracciare. Un’esperienza on
the road di tre italiani in Nord Africa, nel
coinvolgente e complesso scenario della
comunità magrebina.
ilm riconosciuto di interesse culturale dal Ministero dei Beni Culturali e dello Spettacolo, La casa
sulle nuvole è un lungometraggio che nasce dalla motivazione di raccontare la fuga
di un uomo dall’occidente verso il sud. La
sceneggiatura parte da una documentazione fatta, negli ultimi due anni, sugli italiani
residenti in Marocco e dall’analisi emerge il
risultato sui padri di questa generazione:
uomini che hanno vissuto la propria formazione culturale e morale negli anni ’60 e ’70,
nel proseguimento del sogno rivoluzionario e di ricerca di modelli alternativi di vita,
ritrovandosi poi con la paura dei sentimenti
e la difficoltà a integrarsi nel corpo della società. Claudio Giovannesi, giovane regista
del Centro Sperimentale, per esprimere il
passaggio generazionale, costruisce la trama su tre tipologie chiave: il gallerista, il ri-
F
storatore e l’artista, vittime e creature eccezionali al contempo, che hanno respinto
il ritorno alla normalità, rifiutando di inserirsi nella società borghese della cultura occidentale, continuando a vivere il proprio sogno e la propria irresponsabilità in una cultura straniera. I due ragazzi, inconsapevoli
figli di questa generazione, vanno a cercare il padre e si imbattono nell’artista un po’
hippy, pieno di slanci e contraddizioni. È qui
che inizia il vero legame, con l’alterità paterna ritrovata, con il confronto di un passato lontano e l’accettazione di un uomo
prima che di un padre. Al regista interessa
il contatto con la diversità attraverso la scoperta, l’esplorazione del viaggio; ma è un
viaggio geografico, antropologico, introspettivo. Le profondità psicologiche che stanno
a cuore a Giovannesi, sono però toccate di
rado, e la presenza di alcuni personaggi
“connettivi” come Amina, ad esempio, risultano essere ingombranti piuttosto che conferire atmosfera epica alla storia. Giannini
e Bonucci sono talmente bravi che questo
film una stroncatura cocente proprio non la
merita.
Tania Di Giacomantonio
LOURDES
(Lourdes)
Austria/Francia/Germania, 2009
Costumi: Tanja Hausner
Direttori di produzione: Laurence Farenc, Bruno Wagner
Casting: Markus Schleinzer
Aiuto regista: Georg Mayrhofer
Effetti speciali trucco: Frédéric Balmer, Alexis Kinebanyan
Trucco: Maya Benamer, Silvia Pernegger, Martha Ruess
Acconciature: Loli Avellanas
Suono: Uwe Haussig
Interpreti: Sylvie Testud (Christine), Léa Seydoux (Maria), Bruno
Todeschini (Kuno), Elina Löwensohn (Cécile), Irma Wagner
(Pilgerin), Gilette Barbier (Hartl), Gerhard Liebmann (Nigl)
Durata: 99’
Metri: 2700
Regia: Jessica Hausner
Produzione: Philippe Bober, Martin Gschlacht, Susanne Marian
per ARTE/ Canal+/ Coop 99/ Essential Filmproduktion GmbH/
Société Parisienne de Production/ Thermidor Filmproduktion/
Zweites Deutsches Fernsehen (ZDF)/ Österreichischer
Rundfunk (ORF)
Distribuzione: Cinecittà Luce
Prima: (Roma 11-2-2010; Milano 11-2-2010)
Soggetto: Géraldine Bajard, Jessica Hausner
Sceneggiatura: Jessica Hausner
Direttore della fotografia: Martin Gschlacht
Montaggio: Karina Ressler
Scenografia: Katharina Wöppermann
na casa d’accoglienza per malati, pellegrini a Lourdes alla
ricerca di pace spirituale e di
una possibile guarigione. Cècile, una donna di mezza età energica e autorevole, volontaria dell’Ordine di Malta, comunica il
programma delle visite e delle funzioni religiose al suo gruppo di malati. Invita tutti
alla solidarietà reciproca e alla collaborazione: ci sarà alla fine un premio per il
“miglior pellegrino”. Christine è una giovane donna, minuta e graziosa, colpita
dalla sclerosi a placche, da tempo blocca-
U
ta nella sua sedia a rotelle. Viene accudita
da Maria, una bella giovane volontaria,
che la accompagna in ogni spostamento,
la nutre, la lava e la mette a letto, più per
senso del dovere che con vera partecipazione umana. Christine condivide la stanza da letto con la signora Hartl, un’anziana molto religiosa, tristemente sola. Il primo giorno, il gruppo visita la grotta dell’apparizione della Madonna, poi si aggira per le strade piene di negozi di souvenir e, infine, viene condotto al luogo delle
abluzioni. Christine racconta alla sua ac-
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compagnatrice la sua vita sconvolta dalla
malattia, il vuoto che la circonda e il suo
desiderio di condurre una vita “normale”
e di riallacciare rapporti sociali. Confessa che il viaggio a Lourdes è motivato dal
suo desiderio di svolgere una vita attiva,
più che dalla speranza di guarire o dalla
Fede. Maria a sua volta svolge la sua attività di volontaria per dare un senso alla
sua vita. Ma è al contempo sensibile agli
sguardi d’interesse che le dedica Kuno, un
volontario maturo, di bell’aspetto nella sua
divisa di foggia militare. Il giovane sacer-
Film
dote responsabile del gruppo gioca a carte con Kuno e con un volontario più anziano, dall’aria scettica e disincantata. Maria viene invitata insieme a una compagna
a passare la serata assieme da un coppia
di giovani volontari. Sylvie osserva con invidia i maneggi dei quattro giovani. Il giorno dopo, le due ragazze rievocano ridendo la serata, noncuranti del fatto che uno
degli uomini sia sposato. Durante una cerimonia, Maria abbandona momentaneamente Christine e la signora Hartl la porta in prima fila per ricevere la solenne benedizione, nella speranza di un qualche intervento divino. Cécile rimprovera la volontaria per la sua mancanza e Christine
per la sua supposta ambizione. Durante
una passeggiata, Kuno flirta con Maria,
sotto lo sguardo tristemente invidioso di
Christine. Il volontario scettico racconta
al sacerdote una barzelletta banale un poco
blasfema, mentre in un documentario televisivo un uomo racconta la propria guarigione miracolosa. Durante la confessione,
Christine esprime tutta la sua rabbia per
la sorte che le è capitata:”Perché proprio
a me?”. Si susseguono abluzioni con l’acqua miracolosa, preghiere e omelie con
annunci di speranza, una foto di gruppo.
Mentre addobba il salone per la festicciola finale, Cécile ha un malore, forse un ictus, e viene portata via in barella. Durante
l’ultima notte, Christine inopinatamente
sente tornare le forze e riprende a camminare da sola. Fra lo sguardo ammirato e
invidioso degli altri malati, viene portata
in infermeria dal sacerdote per ottenere la
certificazione del miracolo, ma il medico
spiega che la sclerosi è soggetta a fasi alterne di latenza e di peggioramento. Nel
frattempo, un’altra giovane malata che
aveva dato segni di miglioramento è ripiombata in uno stato catatonico, nella
disperazione della madre; si viene a sapere che Cécile è fra la vita e la morte. Christine, più volte applaudita in pubblico, è
piena di speranza nel futuro e sogna addirittura di mettere su famiglia. Partecipa
addirittura a una passeggiata in montagna
e avvicina Kuno, che confessa il suo turbamento e il suo timore di “farle male”.
Osservati da lontano dalla signora Hartl,
i due si appartano e si scambiano un bacio.
Durante la festa finale, Christine viene premiata come “miglior pellegrino dell’anno”. Un vecchio in carrozzella commenta amaro: “Domani saremo ancora
soli”. Poi si aprono le danze e Christine
invita Kuno a ballare e si offre al suo tenero abbraccio. Ma, improvvisamente, ha un
mancamento e cade a terra. Dopo averla
soccorsa, l’uomo si allontana con una scu-
Tutti i film della stagione
sa. Si fa del karaoke. Risuonano le note
della canzone “Felicità”, intonata da Maria. Christine osserva la scena con un sorriso amaro e si risiede sulla sua sedia a
rotella, nuovamente aiutata dalla signora
Hartl.
ourdes è il terzo lungometraggio
dell’austriaca Jessica Hausner
(Vienna, 1972), già premiata al
suo esordio nella sezione Un Certain Regard a Cannes 2003 con Lovely Rita, un
inquitante ritratto di un’adolescente ribelle
e solitaria. La Hausner ha una scrittura rigorosa e apparentemente astratta (dichiara infatti che un suo modello è Dreyer), con
momenti inaspettati di fredda ironia alla
Kaurismaki.
Il film sin dalla sua presentazione in
Concorso a Venezia 2009, ha provocato
vivaci polemiche (specie da parte cattolica, malgrado il premio ecumenico SIGNIS)
e prese di posizione preconcette. Evidentemente i temi della malattia, della morte,
dei miracoli e della Fede toccano nervi
scoperti sia nei credenti (che hanno accusato il film di anticlericalismo) sia negli
agnostici (che paradossalmente hanno
scoperto nel film una vena agiografica e
fideistica). È il classico esempio di come
la propria posizione ideologica e culturale
impedisca la serena e corretta lettura di
un film. Lourdes non prende posizione sui
temi anzidetti, ma si limita a documentare
la ricerca, confusa, incerta e contraddittoria dell’uomo attorno alle domande anzidette, fondative della nostra esistenza. Film
di interrogativi, non di risposte. La Hausner
osserva i suoi personaggi, rappresentanti
di una povera, ma reale nella sua sofferenza, umanità, rimanendone a debita distanza. I corpi e i volti sono ripresi in campo medio o in piano americano, raramente in mezzo primo piano. Persino la terribile inquadratura finale (Christine che torna
a sedersi nella sua carrozzella-prigione)
L
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ci mostra la protagonista di profilo, in una
luce incerta che non permette di cogliere
la vera natura e il senso del suo sorriso. I
personaggi sono immersi in un acquario
di luce soffusa, con prevalenti toni grigi e
azzurrini, percorsi dalle accensioni del rosso delle divise dei volontari. Nessun tentativo di penetrare le psicologie dei protagonisti, se non per vaghi accenni (un fidanzamento interrotto, un matrimonio infelice…). Ciò che conta sono i fatti, la dipendenza dei personaggi dalla loro malattia, la loro ricerca di “senso” – non solo
e non tanto religiosa, ma anche relazionale –, accomunati da una solitudine esistenziale, descritta dalla regista come una sorta di cappa di vetro contro cui sbattono
senza riuscire a superarlo.
La Hausner ha introdotto elementi di
mistero in questa ricerca, attraverso barriere
alla visione o ellissi: i personaggi non sanno cosa si nasconde dietro la tenda delle
abluzioni, salvo poi scoprire che si tratta di
un banale rito di versamento di un bicchiere d’acqua “santa” sulla testa; la statua della Madonna nella grotta o sull’altare della
Messa non viene mai mostrata, ma lasciata significativamente fuori campo; lo stesso
bacio furtivo fra Christine e Kuno viene visto confusamente dalla signora Hartl, né
sappiamo cosa avviene poi oltre la cortina
degli alberi. Ma anche all’interno di una singola inquadratura ci sono elementi perturbanti e ambigui. Ad esempio, proprio nel
momento in cui il fotografo invita il gruppo
al sorriso prima di scattare Cécile si copre
il viso, quasi a nascondere una sua vera
natura che tiene nascosta (in altre occasioni la vediamo infatti sistemare in segreto il
suo parrucchino, falla dolorosa sulla sua
maschera di perfezionismo).
Anche narrativamente prevale il partito preso della sospensione e dell’interruzione: non sapremo mai nulla di definitivo
sulla sorte dei diversi personaggi (e non
solo di Christine).
Film
La Hausner, che si dichiara atea, affida al conflitto fra le domande pressanti dei
malati e le risposte del sacerdote, gli snodi più inquietanti del film.
La signora Hartl gli chiede, ad esempio, cosa bisogna fare per guarire e il sacerdote le risponde che bisogna prima
“guarire l’anima”, risposta che lascia perplessa la donna. In un’altra occasione, cita
San Paolo che era contento delle sue sofferenze perché lo avvicinavano a Cristo.
Alla domanda fondamentale dello scettico
Tutti i film della stagione
sul perché Dio ha scelto di guarire Christine e non altri il sacerdote risponde con la
classica formula sulla libertà e l’onniscenza divina. Ma si tratta sempre di risposte
un poco preformate e “burocratiche”, che
non placano l’ansia di verità e lo scetticismo di coloro che pongono le domande.
La Hausner non si addentra in questioni
teologiche, descrive piuttosto l’insufficienza di risposte umane al Mistero.
Se il vero tema è la ricerca di felicità
dell’uomo, anche in questo caso il breve e
falso idillio vissuto da Christine non è certo una possibile soluzione dei suoi problemi esistenziali. Amarissimo e cupo, nella
sua banalità, il testo della canzone (“Felicità”, appunto, di Al Bano) che accompagna l’inquadratura finale: “Felicità/è tenersi per mano andare lontano/la felicità/è il
tuo sguardo innocente in mezzo alla gente/la felicità/è restare vicini come bambini
la felicità, felicità”.
Flavio Vergerio
IO & MARILYN
Italia, 2009
Produttori esecutivi: Alessandro Calosci
Direttore di produzione: Nicoletta Maggi, Mauro Maggioni,
Francesco Trifirò
Effetti: Renato Longi, Alessandro Salomone
Suono: Alessandro Bianchi
Interpreti: Leonardo Pieraccioni (Gualtiero Marchesi), Rocco
Papaleo (Arnolfo), Massimo Ceccherini (Massimo), Francesco Pannofino (maresciallo), Biagio Izzo (Pasquale), Suzie
Kennedy (Marilyn), Marta Gastini (Martina), Luca Laurenti
(Petronio), Barbara Tabita (Ramona), Francesco Guccini (psichiatra), Alessandro Paci, Gianna Giacchetti, Luis Molteni, Niki
Giustini,Francesco Brandi
Durata: 96’
Metri: 2640
Regia: Leonardo Pieraccioni
Produzione: Leonardo Pieraccioni per Levante Film in collaborazione con Medusa Film e con il supporto di Mediateca
Regionale Toscana e Toscana Film Commission
Distribuzione: Medusa
Prima: (Roma 18-12-2009; Milano 18-12-2009)
Soggetto: Giovanni Veronesi
Sceneggiatura: Leonardo Pieraccioni, Giovanni Veronesi
Direttore della fotografia: Mark Melville
Montaggio: Stefano Chierchiè
Musiche: Gianluca Sibaldi
Scenografia: Francesco Frigeri
Costumi: Claudio Cordaro
ualtiero è un manutentore di piscine, da poco separatosi dalla
moglie Ramona. La donna ha recentemente intrecciato una relazione con
Pasquale, circense dallo sguardo magnetico, che segue in tournè come sua assistente, trascinando anche la figlia Martina. Per poter incontrare la figlia, Gualtiero è così costretto a fare ogni volta diversi
chilometri. Come se non bastasse, osservando la ex assieme a Pasquale, ha di recente compreso che è ancora innamorato
di lei. Una sera, assieme alla vicina Iolanda e ai suoi più cari amici Petronio e Massimo, coppia gay che gestisce una pasticceria, decide di fare una seduta spiritica.
Il gruppo, per volere dello stesso Gualtiero, chiama la donna più bella che sia mai
esistita: Marilyn Monroe. Apparentemente non accade nulla, tranne un guasto momentaneo alla luce. Gli amici lasciano
Gualtiero da solo, a cui finalmente appare
il fantasma dell’attrice. Credendola una
ladra, chiama i carabinieri; giunti sul posto, non trovano nulla in quanto solo lui
può vederla e sentirla. Gualtiero viene
portato in centrale, dove viene rilasciato
poco dopo con la promessa di non fare più
niente di stupido. Marilyn tenta di spiegargli che è tutto vero e che è giunta da lui
G
perché l’ha chiamata col cuore. Il fantasma, che gli resterà accanto solo per un
periodo di tempo limitato, osserva la vita
di Gualtiero, dall’affetto che lo lega alla
figlia all’amore per Ramona. Credendosi
ormai pazzo, Gualtiero inizia una terapia
psicoanalitica, con tanto di analisi di gruppo, dove conosce lo stravagante Arnolfo.
Il nuovo amico tenta di spiegargli che è
tutto vero e che è addirittura possibile fotografarla utilizzando il flash dell’autovelox: l’intento funziona, ma vengono arrestati dai carabinieri. Gualtiero nuovamente
rilasciato, capisce finalmente che è tutto
reale. Marilyn diventa la sua amica e confidente che tenta di aiutarlo nel riconquistare Ramona. Sembra che tutto funzioni
alla perfezione, ma quando Gualtiero sta
per chiederle nuovamente di sposarlo durante una cena a due, scopre che la donna
sta per sposarsi con Pasquale. Vedendolo
così depresso, Marilyn, per dimostrargli
che chi amiamo resta sempre accanto a noi,
gli mostra con una magia una piazza che è
gremita dai tanti fantasmi di epoche diverse; poi sparisce. Massimo tenta di convincere Gualtiero a non andare alle nozze di
Ramona, anche se Martina ha chiesto
esplicitamente la sua presenza: decide comunque di andare. Durante il ricevimen26
to, Martina lo accusa di non essere stato
abbastanza coraggioso e di non aver mai
tentato veramente di riconquistare la madre. Ferito nell’orgoglio e avendo capito che
è lei la donna più importante della sua vita,
sfida Pasquale: dovrà, dandogli le spalle,
lanciargli i coltelli avendo il suo corpo come
bersaglio. Martina guarda spaventata, ma
con orgoglio, suo padre. È passato del tempo e Gualtiero è rimasto ferito alla gamba.
Ora si trova a casa di Arnolfo che è riuscito
a chiamare Marilyn. Gualtiero è giunto per
salutare la sua amica.
l merito di Leonardo Pieraccioni è
quello di tentare nuove strade. Con
Io & Marilyn affronta addirittura una
commedia romantica dal vago sapore fantasy, accostandosi a film americani come
Se solo fosse vero. La differenza con i cineasti d’oltreoceano è che riescono a osare molto di più. Il regista toscano, infatti,
non affonda il pedale come dovrebbe sfruttando al massimo la potenziale idea. Quel
vago sentore d’innamoramento di Gualtiero per Marilyn (quale uomo in fondo non si
innamorerebbe di lei?) poteva essere maggiormente sviluppato, così anche le situazioni comiche fra lui, Marilyn ed i vivi; senza dimenticare di citare i momenti alla
I
Film
Cyrano de Bergerac. Insomma il fantasma
di Marilyn, al contrario di come appare
anche dal titolo stesso del film, è decisamente poco presente.
Un vanto del percorso di Pieraccioni è
quello di aver abbandonato il solito ragazzo impacciato e timido che corteggiava disperatamente la bellona di turno, come nel
fortunatissimo successo di Il ciclone, affrontando ora matrimoni in crisi e divorzi; il
regista ha ben intuito che sarebbe risultato assurdamente ridicolo continuare sulla
stessa china.
Altra scelta di riguardo quella di abban-
Tutti i film della stagione
donare il campanilismo delle storie precedenti, in favore di una torre di Babele, fra
cui compare non solo il dialetto toscano,
ma anche il napoletano e il romano.
Inevitabile, comunque, quella continua
aria da eterno Peter Pan che pervade l’intera pellicola e non contribuisce a far elevare il
film ad un grado successivo rispetto ai precedenti. Il film non decolla, si sorride a mala
pena. Banalità su banalità vengono centellinate durante la pellicola, che non arriva completamente al cuore del pubblico.
Un unico momento di vera emozione,
a cui contribuisce anche la colonna sono-
ra evocativa e i costumi, è quando Marilyn
mostra a Gualtiero i fantasmi di personaggi storici del passato che continuano a
camminare per le strade delle città senza
che i vivi se ne rendano conto. Il cast artistico è ben assortito fra comici e attrici provenienti dal teatro. Un po’ assurda, Suzie
Kennedy: Marilyn più bambola che artista.
Da sottolineare sicuramente la giovane Marta Gastini; qui interprete di Martina, che è un potenziale artistico da sfruttare e coltivare.
Elena Mandolini
A SINGLE MAN
(A Single Man)
Stati Uniti, 2009
Regia: Tom Ford
Produzione: Tom Ford, Andrew Miano, Robert Salerno, Chris
Weitz per Artina Films/Depth of Field/ Fade to Black
Productions
Distribuzione: Archibald Film
Prima: (roma 15-1-2010; milano 15-1-2010)
Soggetto: tratto dal romanzo Un uomo solo di Christopher
Isherwood
Sceneggiatura: Tom Ford, David Scearce
Direttore della fotografia: Eduard Grau
Montaggio: Joan Sobel
Musiche: Abel Korzeniowski, Shigeru Umebayashi
Scenografia: Dan Bishop
Costumi: Arianne Phillips
Co-produttore: Jason Alisharan
Casting: Joseph Middleton
Aiuto regista: Brian Avery Galligan
Operatori: Chris Blauvelt, Cedric Martin
Operatore Steadicam: Cedric Martin
Art director: Ian Phillips
Arredatore: Amy Wells
962, Los Angeles (California). Il
professore inglese George Falconer ha da poco perso in un incidente stradale il suo compagno Jim, al
quale era legato sentimentalmente da ben
16 anni. Vive di nostalgia, nel ricordo continuo di questo amore e non riesce più a
trovare stimoli per andare avanti e guardare al futuro con ottimismo. Vorrebbe
addirittura farla finita, ma ne non ha il
coraggio. Trascorre le sue giornate tra le
aule del college e la sua casa nel più totale isolamento. Non cerca compagnia ed
evita di fare vita mondana.
L’unica persona di cui si fida è Charley, una sua cara amica di vecchia data,
anch’ella inglese, da sempre innamorata
di lui. La donna, che è stata appena abbandonata dal marito, cerca in George un
po’ di consolazione. Durante una cena a
1
Trucco: Kate Biscoe, Elaine L. Offers, Gigi Williams
Acconciature: Cydney Cornell, Alan D’Angerio, Marie Larkin,
Michael White
Supervisori effetti visivi: Seb Caudron, Dan Schmit
Supervisore costumi: Jonny Pray
Supervisore musiche: Julia Michels
Interpreti: Colin Firth (George), Julianne Moore (Charley),
Nicholas Hoult (Kenny), Matthew Goode (Jim), Jon Kortajarena
(Carlos), Paulette Lamori (Alva), Ryan Simpkins (Jennnifer
Strunk), Ginnifer Goodwin (Mrs. Strunk), Teddy Sears (Mr.
Strunk), Aaron Sanders (Tom Strunk), Keri Lynn Pratt, Jenna
Gavigan, Alicia Carr (segretarie), Lee Pace (Grant), Adam
Shapiro (Myron), Marlene Martinez (Maria), Ridge Canipe,
Elisabeth Harnois (adolescenti), Erin Daniels (cassiera di banca), Nicole Steinwedell (Doris), Tricia Munford (cassiera), Ryan
Butcher (pedone), Brad Benedict (giocatore di tennis), Jon
Hamm (voce di Hank Ackerley), Patrizia Milano (membro della facoltà), Mimi Page (ragazza al party), Sarah Smick (cassiera della libreria), Don Bachardy
Durata: 101’
Metri: 2605
casa di Charley, i due ricordano i bei tempi passati ballando e lasciandosi andare a
qualche bicchiere di troppo.
Una sera, mentre è seduto in un locale
a bere, incontra Kenny un studente che vorrebbe approfondire la sua conoscenza. Dopo
aver fatto una nuotata insieme, George lo
porta a casa sua per farlo asciugare, dargli
dei vestiti nuovi e continuare la conversazione. Il ragazzo, giovane e fisicamente attraente, sembra disponibile a “offrirsi” al
suo insegnante, ma questo ultimo ha ancora nella sua mente vivido il ricordo del compagno scomparso prematuramente. La notte stessa Falconer viene sorpreso da un infarto fulminante e muore.
S
entirsi vecchi e inutili a poco più
di cinquanta anni e, oltretutto,
essere considerati degli “invisibili”
27
per il fatto di appartenere a una minoranza come quella omosessuale è il prezzo
da pagare per un “Old man” come George
Falconer, l’antieroe del romanzo di Cristopher Isherwood Un uomo solo (1964).
Bisogna subito precisare, però, che
tutto questo accadeva agli inizi degli anni
Sessanta, nell’America puritana e kennedyana, in piena Guerra Fredda (lo scenario è quello della crisi dei missili di Cuba).
Siamo lontani anni luce da quei giorni, se
si tiene conto di quanto si sia allungata l’età
media della vita. E, soprattutto, se pensiamo a quali proporzioni abbia assunto negli ultimi decenni il movimento gay, al punto da trasformarsi in una vera e propria
lobby, non meno influente e capillare di
quelle economico-finanziarie.
Eppure, al di là dell’anacronistico contesto socio-culturale, l’opera prima dello
Film
stilista Tom Ford è stata una delle poche
sorprese positive del 66esimo Festival di
Venezia, dove era presente in concorso. E
non solamente per merito del suo eccezionale interprete Colin Firth (straziato dietro
quel suo volto algido e imperturbabile da
un tormento senza fine), che è stato giustissimamente premiato con la Coppa Volpi per la migliore performance maschile.
Chi riesce ad andare oltre la superficie
fredda e calligrafica di un film confezionato
come se fosse un abito griffato (sembra che
tutti i personaggi, rigorosamente lindi e tirati a lucido, siano appena usciti da una
pubblicità, quella appunto del brand Tom
Ford, che ha ovviamente curato il guardaroba dei suoi “attori-modelli”), troverà un
fondo di verità che non conosce tempo, né
tanto meno steccati sessuali.
Il dramma, delicato e intimista messo
in scena dal raffinato ex disegnatore della
Maison Gucci, è un sentito elogio all’amore eterno e alla fedeltà. E poco importa se
i protagonisti di questa passione spezzata
soltanto da un tragico incidente, ma comunque “rivissuta a distanza” attraverso
ripetuti flashback, sono due uomini. Sopravvivere al compagno/a di tutta una vita
è un dolore indicibile che fa venire a chiunque il fiato corto, è una perdita che non
ammette risarcimento.
Neppure se ti capita di incontrare un
sosia messicano di James Dean di nome
Carlos, da cui il professore è attratto per
la sua abbacinante bellezza e non in quanto oggetto del suo desiderio. Oppure un
allievo dal fascino efebico, la cui carne giovane ed immacolata è una tentazione del
diavolo. Ma, allo stesso tempo, anche una
àncora di salvezza piovuta da cielo sottoforma di angelo. A tal proposito, risulta
molto indovinata la scelta del diciottenne
Nicholas Hoult, il quale riesce a circonda-
Tutti i film della stagione
re il personaggio di Kenny di un sottile alone di ambiguità.
A Single Man non segue alla lettera il
testo originale di Isherwood (è infatti piuttosto difficile rendere sul grande schermo
un racconto impostato sul monologo interiore), tuttavia ne conserva la sua essenza spirituale. La riflessione sulla solitudine come scelta di vita per farsi abbracciare meglio dal dolore trova il suo sbocco
naturale nella scoperta della bellezza delle piccole cose, ultima possibilità di riappacificarsi col mondo prima della definitiva dipartita.
La dialettica fra il buio delle tenebre
e la purezza della luce (interiore) è otti-
mamente visualizzata mediante la fotografia di Eduard Grau. Questa ultima vira
dal plumbeo grigiore delle prime scene
(che corrispondono al periodo di massima depressione di Falconer culminato in
un goffo ed improbabile tentativo di suicidio) al trionfo del colore: George incontra in banca la figlia della sua vicina di
casa, Jennifer, una leggiadra creatura,
a cui non aveva mai rivolto la giusta attenzione.
Un altro elemento che si discosta dal
romanzo è, probabilmente, il personaggio
di Charley. Il regista riesce a renderlo maggiormente complesso e attraente grazie
alla presenza di Julianne Moore. La migliore confidente del protagonista rappresenta un po’ il suo specchio: in George, la bellissima donna di mezza età, rivede tutta la
sua solitudine e il suo bisogno d’amore frustrato dopo anni passati a rincorrerlo senza successo.
I due vecchi amici si ritrovano uno accanto all’altro, pudicamente, senza invadere i rispettivi campi. Con la consapevolezza di essere due anime in pena, rassegnate a un destino senza nome, silenzioso. E il silenzio che si respira nel corso di una sola giornata delle loro esistenze non dà scampo. Neppure quando è
rotto dalle struggenti musiche del giapponese Umebayashi, lo stesso compositore che ha lavorato in tanti film di Wong
Kar-Wai.
Diego Mondella
VIDEOCRACY-BASTA APPARIRE
(Videocracy)
Svezia/Danimarca/Gran Bretagna/Finlandia, 2009
Regia: Erik Gandini
Produzione: Axel Arnö, Erik Gandini, Mikael Olsen per Atmo Media Network/ Zentropa
Entertainments/ Sveriges Television (SVT) in collaborazione con BBC Storyville/
Danish Broadcast Corporation/ YLE Co-Productions
Distribuzione: Fandango
Prima: (Roma 4-9-2009; Milano 4-9-2009)
Soggetto e sceneggiatura: Erik Gandini
Direttori della fotografia: Manuel Alberto Claro, Lukas Eisenhauer
Montaggio: Johan Söderberg
Musiche: Krister Linder, David Österberg, Johan Söderberg
Produttore esecutivo: Kristina Åberg
Produttore associato: Ann-Louice Dahlgren
Aiuto regista: Iacopo Patierno
Art director: Martin Hultman
Suono: Hans Möller
Interpreti: Silvio Berlusconi, Flavio Briatore, Fabrizio Corona, Lele Mora, Simona
Ventura (se stessi)
Durata: 85’
Metri: 2200
28
Film
n un paesino del profondo nord c’è
un ragazzone, operaio in una fabbrica, che da anni si “allena” per
diventare la sintesi perfetta tra Jean-Claude Van Damme e Ricky Martin, ideale
“cantante-combattente” pronto alla ribalta
definitiva, quella che solo il piccolo schermo può regalarti. Peccato però che finora, dopo un’infinità di provini, il massimo
che sia riuscito ad ottenere è stato partecipare a innumerevoli programmi solamente come “pubblico plaudente”: “Per le
ragazze è più facile avere una possibilità,
basta accettare i soliti compromessi”, dirà
più avanti, sconsolato. Come lui, sparsi per
il belpaese, migliaia e migliaia di coetanei hanno compreso che al giorno d’oggi
quello che conta davvero è apparire: ragazzine sculettanti accennano balli improvvisati in centri commerciali che ospitano
il “Veline tour”, ragazzoni depilati (“tronisti” e aspiranti tali) fanno la siesta a
bordo vasca in Costa Smeralda nella villa
tinta di bianco di Lele Mora, il più potente
“agente televisivo” italiano, amico del
premier e nostalgico mussoliniano. Tutto
nacque poco più di trent’anni fa, in un bar
lombardo da dove – a tarda notte – casalinghe annoiate si spogliavano in diretta
sulle prime televisioni private locali: quello
che sembrava un esperimento senza futuro ha progressivamente scatenato una rivoluzione (s)culturale senza precedenti.
Che combacia giocoforza con l’era berlusconiana; dominante sulla creazione e il
I
Tutti i film della stagione
controllo delle immagini, capace di influenzare come non mai lo sviluppo, la crescita
e i contenuti della televisione commerciale italiana. “Basta apparire”: lo sa Lele
Mora, ne ha fatto un manifesto Fabrizio
Corona, da carnefice a “vittima” e nuovamente carnefice (“Mi danno 10000 euro
per andare in discoteca e dire quattro cavolate”) di un sistema che ha provato a liberarsene, trasformandolo dapprima in
martire e poi a “nuovo modello” di riferimento. In quella che, a tutti gli effetti, è
diventata la più terrificante delle “videocrazie”.
P
resentato come Evento Speciale
congiunto alla Settimana della
Critica e alle Giornate degli Autori nell’ambito della 66. Mostra di Venezia, Videocracy (già capace di suscitare
clamore prima del Festival a causa del
“boicottaggio” di Rai e Mediaset, contrarie a trasmettere sulle proprie reti il trailer
del film) porta sul grande schermo l’inquietante attualità del nostro medium principe, la televisione, “scatola magica” –
come la chiama Lele Mora – “davanti alla
quale si ritrovano le famiglie e se compari lì dentro diventi subito popolare”. Realizzato da Erik Gandini (nato a Bergamo
ma trasferitosi in Svezia ormai più di venti anni fa), il documentario – se è vero
come è stato scritto da più parti, poco accurato nell’analisi di un approfondimento
che avrebbe dovuto indagare sul come e
sul perché, in 30 anni, si sia arrivati a questo – offre però più di uno spunto per una
riflessione sull’oggi che, passo dopo passo, non può non fare i conti con qualcosa
di molto prossimo all’orrore, suggerito anche dall’incalzante mix di materiali d’archivio, immagini rubate e testimonianze
live: il potere delle immagini, la macelleria di corpi e l’abbrutimento dei cervelli,
la convinzione che solo apparendo in televisione “hai possibilità di rimorchiare,
perché se dico che faccio l’operaio…”, il
burattinaio (Lele Mora) e il nuovo Robin
Hood Fabrizio Corona (“rubo ai ricchi per
dare a me stesso”), vittime prima di altri
di un narcisismo ai limiti del patologico
(con il primo sorridente a mostrare un video sul telefono cellulare con stemmi nazifascisti al canto di Faccetta nera e il secondo nudo come mamma l’ha fatto davanti allo specchio), l’eminenza grigia a
capo dell’intero sistema e a capo del nostro Governo, tutto è messo lì – rimostrato – per ricordarci quanto già sappiamo
(è vero), ma che troppo facilmente abbiamo etichettato come br utalmente
(a)normale. E che, in una deriva ormai
spogliata di chissà quali speranze, ci fa
ritrovare nuovamente imbambolati di fronte a ondeggianti fondoschiena in cerca di
ribalta. Sudditi bramosi dell’ennesimo sorriso da parte del monarca della nostra
unica, e amata, videocrazia.
Valerio Sammarco
LA BATTAGLIA DEI TRE REGNI
(Chi bi/Red Cliff)
Cina, 2008
Regia: John Woo
Produzione: Terence Chang, Sanping Han, John Woo per
Beijing Film Studio/China Film Group/Lion Rock Productions
Distribuzione: Eagle Pictures
Prima: (Roma 23-10-2009; Milano 23-10-2009)
Soggetto: dal romanzo Romance of the Three Kingdoms di
Guanzhong Luo
Sceneggiatura: John Woo, Khan Chan, Cheng Kuo, Heyu
Sheng
Direttore della fotografia: Yue Lü, Li Zhang
Montaggio: Robert A. Ferretti, Angie Lam, Hongyu Yang
Musiche: Tarô Iwashiro
Scenografia: Timmy Yip
Costumi: Timmy Yip
Produttore esecutivo: Xiaofeng Hu
Produttore associato: Dong-ming Shi, Lori Tilkin, Todd
Weinger, Jianshai Xu, Dong Yu
Co-produttori: Zilong Guo, Bing He, Chin-Wen Huang, Wu
Kebo, Woo-Taek Kim, Sirena Liu, Masato Matsuura, Zhong-
lun Ren, Zhan Teng, Jianqiu Wang, Shoucheng Yang, Xiaoming
Yan, Dong Yu, Qiang Zhang
Line producers: Xiaofeng Hu, Rick Nathanson
Casting: Jie Cheng
Aiuti regista: Thomas Chow, Richard L. Fox, Fei Wong
Art director: Eddy Wong
Supervisori effetti visivi: Brennan Doyle, Craig Hayes, Ray
McIntyre Jr., Jesh Murthy, Kevin Rafferty
Coordinatori effetti visivi: James Dornoff, Anna Fields,
Stéphane Paradis, Stacey Pothoven, Yimi Tong
Interpreti: Tomy Leung Chiu Wai (Zhou Yu), Takeshi Kaneshiro
(Zhuge Liang), Fengyi Zhang (Cao Cao), Chen Chang (Sun
Quan), Wei Zhao (Sun Shangxiang), Jun Hu (Zhao Yun), Chiling
Lin (Xiao Qiao), Shido Nakamura (Gan Xing), Yong You (Liu
Bei), Ba Sen Zha Bu (Guan Xing), Yong Hou (Lu Su), Philip Hersh
(Voce dell’Imperatore Han), Tong Jiang (Li Tong), Jia Song (Li Ji),
Dawei Tong (Sun Shucai), Qingxiang Wang (Kong Rong), Jinsheng
Zang (Zhang Fei), Jingwu Ma (Uomo anziano), Chun Sun
Durata: 150’
Metri: 3580
29
Film
ina, 208 d.C. La dinastia Han è
ormai in declino e il paese sta
trovando un momentaneo periodo di pace dopo guerre sanguinose. L’ambizioso primo ministro, Cao Cao, sempre
più assetato di potere, convince l’imperatore Han Xiandi che manipola come un burattino, di attaccare i regni del Sud. Vede
infatti che in loro si stanno rinfocolando
dei fermenti di rivolta. Una volta raggiunto lo scopo, il suo obiettivo è quello di usurpare il trono e insediarsi come il dominatore di una Cina unificata. Cao Cao organizza, così, una campagna militare di ingenti proporzioni.
Dichiara guerra al regno di Xu, dominato da Liu Bei che è anche lo zio dell’imperatore. Questi manda il suo consigliere
militare, Zhuge Liang, a parlare con Sun
Quan, sovrano del regno Wu, nel tentativo
di convincerlo a unire le forze. Giunto sul
posto, il messaggero conosce anche Zhou
Yu, Vicerè di Wu e i due decidono di collaborare in questa difficile alleanza.
Cao Cao, dopo aver appreso che i due
regni si sono alleati, s’infuria e attacca con
circa 800.000 soldati e 2.000 navi a sud. Il
suo esercito si stabilisce nella Foresta
Crow, sulla sponda opposta di Red Cliff
(le Scogliere Rosse), sul fiume Yangtze,
dove gli alleati hanno stabilito la loro base.
A un certo punto della guerra, i due
regni del Sud, pur uniti, sembrano spacciati. I viveri scarseggiato e gli uomini sono
in enorme inferiorità numerica rispetto a
quelli comandati dal Primo Ministro. Zhou
Yu e Zhuge Liang devono, a questo punto,
ricorrere alla loro intelligenza e alla loro
esperienza militare per capovolgere la situazione. Attraverso alcuni stratagemmi,
riescono a fingere di essere attaccati dall’esercito di Cao Cao e riescono così a
soffiargli molte munizioni composte da
C
Tutti i film della stagione
frecce. Inoltre, il Primo Ministro decide di
attaccare col vento a favore. L’astuzia e
l’esperienza di Zhuge Liang gli permettono però di comprendere che, nel corso della
notte, ci sarà un cambio di direzione. Si
deve cercare di far ritardare l’attacco agli
uomini di Cao Cao. Ed è così che l’affascinante moglie di Zhou Yu, senza il permesso del marito, decide di recarsi dal
Primo Ministro (che è sempre rimasto affascinato da lei) e gli fa perdere tempo facendogli bere il suo thé. Tutti questi elementi porteranno i regni del Sud a prevalere nella battaglia d Red Cliff, che cambierà per sempre la storia della Cina.
on un budget di 80 milioni di dollari, è il kolossal più costoso della storia del cinema cinese e segna il grande ritorno dell’hongkonghese John
Woo, dopo una trasferta statunitense con luci
e ombre con due grandi film (Face/Off e Mission: Impossible 2), oltre all’attraente e poco
compreso Paycheck. Ed è proprio da quel
film, realizzato nel 2003, che la carriera del
cineasta sembrava essersi improvvisamente arenata, considerando che dopo si è messo in luce solo con l’episodio di All the Invisible Children. Con quest’opera, invece, riprende forma il suo cinema sensoriale e fiammeggiante, capace di unire l’epica al melodramma, l’azione diretta alla messa a punto
delle strategie di guerra. La vicenda è realmente accaduta nel 208 d.C. ma è diventata
popolare con Il romanzo dei tre regni scritto
da Luo Guanzhong, che venne pubblicato
nel XIII° secolo e nel quale molti eventi vennero distorti per renderli di maggiore effetto.
Il cinema di Woo gli ridà forma attraverso uno
sguardo personale, sempre riconoscibilissimo (l’uso del ralenti, l’immagine della colomba che vola), ma che, al tempo stesso, si
inserisce nelle traiettorie del genere anche
C
30
attraverso imponenti scene di massa, campi lunghi (potentissimi quelli delle flotte navali) e le geometrie realizzate con la supervisione di Corey Yuen, nelle quali sembrano
disegnarsi nuove composizioni visive in questi continui passaggi dal piano generale, dalla
visione d’insieme a quello più particolare,
spesso legato al destino di un individuo.
Certo, anche questo film è debitore delle traiettorie tipiche del wuxiapian (il cinema di
cappa e spada) che, dopo King Hu, ha ripreso forma in Oriente grazie ad Ang Lee
(La tigre e il dragone) e Zhang Yimou (Hero,
La finestra dei pugnali volanti). Al di là, però,
di certe soluzioni stilistiche usate quasi come
dei giochi acrobatici, non sembra che Woo,
con La battaglia dei tre regni, voglia far prevalere la componente formale, anche se è
di grande fascino. Tutt’altro. Il suo film è una
descrizione imponente e avvolgente: circa
due ore e mezza serratissime senza un attimo di tregua che in certi frammenti sembra
rendere omaggio anche al cinema di Sergio
Leone. Già l’apertura sui titoli di testa, con i
volti dei protagonisti sulla cartina della Cina,
danno l’idea di un’opera più leggendaria che
bellica, caratterizzata anche dalla presenza
ricorrente di sfumature rosse sui volti della
moglie del vicere, dell’inseguimento nella
polvere, o le luminosità dell’incendio che divampa nel finale che esaltano in pieno le
forme del cinema d’avventura con uno stile
sempre riconoscibilissimo e con una furia visiva ed anche visionaria incontrollabili. Ma
tutta l’opera è un incontrollato viaggio indietro nel tempo, dove Woo si appropria di spazi e tempi lontani per adeguarli al proprio
ritmo, alla propria velocità. Lo scontro tra Cao
Cao e i due regnanti della Cina del Sud assume quasi le dimensioni noir, in cui questi
personaggi potrebbero apparire come la
reincarnazione di boss malavitosi, tipici del
genere. Le espressioni, i fasci di luce sulle
loro facce, lo sfondo scuro sono simili. Ma
Woo trasporta questa traiettorie, le ricicla e
le reinventa, dando a La battaglia dei tre regni un incredibile potenza proprio nel contrasto tra le maestose scene d’azione e le
ombrosità dei protagonisti, due dei quali,
Tony Leung e Takeshi Kaneshiro, si ritrovano dopo Hong Kong Express (1995) di Wong
Kar-wai. Tutto ciò avviene fino all’esplosiva
parte finale, un autentico concentrato di sapienza tecnica e istinto da parte del cineasta hongkonghese. Ciò è mostrato nel tentativo da parte di Zhuge Liang di far ritardare l’attacco decisivo agli uomini di Cao Cao,
visto che il verso del vento cambierà. Si parte dal dettaglio della goccia d’acqua che cambia direzione e si arriva alla visita della moglie di Zhou Yu che va dal Primo Ministro e
cerca di guadagnare tempo facendogli bere
del thé. È un continuo contrasto tra accele-
Film
razioni e rallentamenti con la velocità che,
come spesso avviene nel cinema di Woo,
cambia in continuazione. Quando è in forma, il regista non si confronta con i generi.
Tutti i film della stagione
Piuttosto sono i generi che vengono plasmati
e manipolati dallo sguardo del cineasta. La
battaglia dei tre regni poteva essere ambientato in qualunque luogo e in qualunque epo-
ca. Ma, sin dall’inizio, Woo lo marchia già in
modo indelebile.
Simone Emiliani
IL MI$$IONARIO
(Le missionnaire)
Francia, 2009
Regia: Roger Delattre
Produzione: Luc Besson per Europa Corp./TF1 Films Production/
CiBy 2000/Rhône-Alpes Cinéma. Con la partecipazione di
Canal+ e TPS Star e in associazione con Sofica Europacorp
Distribuzione: Eagle Pictures
Prima: (Roma 19-2-2010; Milano 19-2-2010)
Soggetto e sceneggiatura: Philippe Giangreco, Jean-Marie
Bigard
Direttore della fotografia: Thierry Arbogast
Montaggio: Julien Rey, Yves Beloniak
Musiche: Alexandre Azaria
Scenografia: Hugues Tissandier
Costumi: Olivier Bériot
Produttori esecutivi: Eric Bassoff, Olivier Doyen
Direttore di produzione: Gregory Barrau
Aiuti regista: Bastien Blum, Martin Blum, Vincent Canaple
opo sette anni, Mario esce di prigione per buona condotta, ma più
duro di prima. Fuori, ad attenderlo, ci sono i suoi due ex amici, intenzionati a farsi consegnare la loro parte della
refurtiva, dal momento che solo lui sa dove
siano custoditi i gioielli rubati durante la
rapina che ha comportato il suo arresto. Lo
minacciano, incendiandogli poi l’auto e la
casa. Mario, che è stato il solo dei tre a scontare la pena, è deciso a scomparire per una
decina di giorni dalla circolazione. Va quindi in chiesa a trovare Patrick, il suo caricaturale fratello prete. Quest’ultimo lo fa travestire da sacerdote e lo invia in uno sperduto paesino, come seminarista. Gli consegna un rosario, gli fa promettere di evitare
turpiloquio, oscenità e violenza, infine gli
intima: “E niente testate!”.
Nel paesino, tuttavia, il parroco, padre
Etienne, è appena morto e Mario viene accolto dal sindaco e dai cittadini come nuovo
parroco, rimanendone spiazzato. Una notte,
intenzionato a fuggire, ruba una bici, ma per
via s’imbatte nella polizia e soccorre Mohammed, un vecchio arabo incidentato, che in
seguito avrà modo di esprimergli la sua gratitudine. Poi si ubriaca coi gendarmi, diventandone sodale e ottenendone un’amicizia e
un rispetto incondizionati.
Mario telefona dunque a Patrick, impartendogli le istruzioni per recuperare la refurtiva occultata nella tomba di loro padre.
Patrick, da parte sua, lo orienta sul modo in
cui celebrare i funerali di padre Etienne. Ma
D
Operatore: Gil Pannetier
Operatore Steadicam: Loïc Andrieu
Supervisore effetti speciali: Georges Demétrau
Coordinatore effetti speciali: François Philippi
Coordinatori effetti visivi: Émilie Feret, Elodie Glain
Interpreti: Jean-Marie Bigard (Mario), Doudi Strajmayster
(Patrick), Thiam Aïssatou (Nadine), Jean Dell (capitano
gendarmeria), Michel Chesneau ( sindaco del villaggio),
Benjamin Feitelson (Roger), Jean-Gilles Barbier (André),
Sidney Wernicke (Padre Philibert), Philippe Faure (vescovo),
François Siener (Giancarlo), Alaa Oumouzoune (Abdel), Lucie
Lucas (Sarah), Arthur Chazal (Lucien), Cécile Breccia (Sandy),
Jacky Nercessian (signor Golgenberg), Julia Molkhou, Alban
Lenoir, Liina Brunelle, Camille De Pazzis
Durata: 90’
Metri: 2460
poi la linea cade e Mario è costretto a parlare a braccio, cavandosela bene, in fondo. I
parrocchiani lo ammirano e non gli concedono tregua. È con loro al bar, poi per confessare una donna perde la corriera che lo
porterebbe a Nizza, ove dovrebbe riunirsi con
Patrick per andare dai ricettatori. Mena il
violento marito della donna e, in cambio, si
fa prestare l’auto da lei, ma finisce fuoristrada ed è la gendarmeria a soccorrerlo. Frattanto telefona Patrick, che è alla corte di
Giancarlo, il ricettatore. Mario se lo fa passare al telefono, confidando che il fratello,
pur sembrando un deficiente, in realtà è un
killer pericolosissimo. Sicché, dopo una lunga unilaterale trattativa, Giancarlo accorda
di pagargli 6 milioni di euro per i gioielli (a
fronte del milione e mezzo che Mario reputava già sufficiente). Mentre Mario si ravvede, diventa più saggio e resiste anche alla
tentazione della bella barista del paese, Patrick al contrario, con tutti quei soldi, impazzisce, finendo in mano a tre avvenenti
escort, a furia di champagne, cocaina e spese folli.
In paese, intanto, è sabato mattina, e
Mario confessa i fedeli a modo suo. D’improvviso arriva però il vero nuovo parroco,
padre Philibert, giovane e severissimo.
Mario lo picchia e lo fa arrestare, poi lo
mena anche la polizia. In paese arriva anche Nadine, la bella compagna di colore di
Mario, pedinata dagli sgherri. La fama di
Mario si è diffusa in paese e viene chiamato a risolvere la questione dell’amore tra
31
una ragazza ebrea e un giovane musulmano. I genitori del ragazzo arabo si oppongono al matrimonio, ma poi spunta Mohammed, il nonno del ragazzo, che è l’anziano
precedentemente soccorso da Mario. E, proprio su richiesta di Mario, impone al figlio
di accondiscendere alle nozze del nipote.
Si approssima l’epilogo: Padre Philibert, sconvolto, si reca dal vescovo, che lo
invita alla calma e intende verificare personalmente la situazione. Mario trascorre
una notte d’amore con Nadine, quindi ha
inizio la mattina della resa dei conti: dopo
20’anni si celebra un matrimonio e la piazza è addobbata a gran festa. Arriva il vescovo coi suoi sacerdoti. Arriva Patrick su
un’auto sportiva insieme alle ragazze. Arrivano anche gli sgherri.
In sacrestia, Mario da’ un pugno a Patrick, poi si fa consegnare i soldi. Vorrebbe quindi filarsela, lasciando il fratello a
celebrare, ma Nadine gli fa notare che tocca a lui.
Il vescovo si accomoda in prima fila, tra
i padri dei due ragazzi. Mario si affaccia in
chiesa, accolto da applausi da stadio, e celebra il matrimonio tra Abdel e Sarah. La sua
omelia è una lezione sull’amore e la diversità come una ricchezza. Patrick, seduto in fondo alla chiesa, si commuove. Quindi lo scioglimento in sacrestia. Spuntano gli sgherri
con le pistole puntate e Mario, accontentandoli, consegna loro 500 mila euro a testa.
Entra il vescovo e fa ordine tra i due ‘preti’:
Mario deve togliere l’abito e Patrick rein-
Film
dossarlo. Gli sposi escono felici di chiesa,
mentre echeggiano i rintocchi festosi delle
campane, suonate da un chierichetto, cui si
uniscono un bimbo musulmano e uno ebreo.
Infine, Patrick va in missione in Africa, ove
celebra le nozze di Mario e Nadine.
L
eggero, spassoso, accattivante,
una commedia brillante con attori perfettamente calati nei ruoli. Bella la fotografia e coinvolgenti le musiche, che dettano il ritmo di questo film
vivace e molto divertente, nel quale si dipanano brindisi, cazzotti, parolacce e battute esilaranti.
In un processo a doppio fronte, che corre parallelo, ma per sensi inversi, assistiamo, da un lato, all’assunzione dei doveri sacerdotali da parte di un ex galeotto e al loro
contemporaneo rinnegamento dall’altro, a
opera di suo fratello prete. Se infatti Mario, il
duro, uscito in anticipo di galera, che vive
ancora nel terrore di essere nuovamente
arrestato e paradossalmente diviene intimo
amico della polizia, abbraccia, pur se a modo
suo, gli obblighi che il suo temporaneo stato
sacerdotale gli impone, dall’altra Patrick è
tentato dalle seduzioni del mondo e a esse
cede in pieno. Il film si sviluppa e corre pertanto tra questi due poli, alternando le varie
situazioni che vedono protagonisti i due fratelli: Mario, ‘prigioniero’ del paesino ove si è
rifugiato, su consiglio del fratello, immerso
nelle varie vicissitudini della parrocchia e dei
suoi fedeli; Patrick, al contrario, che gira in
lungo e in largo tra negozi ricercati e alberghi di lusso in località esclusive, con in tasca
quanto Mario gli ha virtualmente consegnato: i gioielli e quindi i soldi. È una contaminazione reciproca… Provvederà il vescovo a
fare ordine alla fine, e ciascuno dei due fratelli uscirà più arricchito e più consapevole
di sé dall’esperienza trascorsa, prima di tornare alla propria vita. Un epilogo felice, in
cui ogni vicenda si risolve, nessuna storia
Tutti i film della stagione
rimane in sospeso, lasciando così tutti contenti. Gli sgherri, dalle cui intimidazioni prende avvio l’intreccio narrativo che si sviluppa
nella pellicola, con la fuga di Mario sotto
mentite spoglie, lo raggiungono nel suo esilio ancor più minacciosi ed agguerriti. Ottengono tuttavia la loro parte di bottino e possono lasciarlo in pace. Mario va in Africa,
terra della sua amata Nadine e lì i due si
sposano. Patrick, dopo un violento sbandamento dovuto a quell’infinità di denaro che
si è trovato improvvisamente in mano, torna
alle sue funzioni ministeriali e celebra le nozze del fratello. Forse quelli a cui va peggio
sono i parrocchiani del ridente paesino francese, che per pochi giorni hanno assaporato la guida di un parroco dai modi sbrigativi
e rudi, inesperto di faccende di Chiesa, ma
che parla in maniera franca e veramente col
cuore, oltre che con i cazzotti. Amato, al punto
che qualcuno esclama: “Se tutti i sacerdoti
fossero come lui, il mondo sarebbe migliore”. E che tra i vari frame sa lanciare anche
alcuni messaggi importanti, profondi. Mario
riconosce onestamente che il matrimonio
misto non è di certo una lezione per la Chiesa… Lo è tuttavia per l’umanità, in quanto le
diversità non devono mai essere considerate un problema, quanto piuttosto una ricchezza. A suggello di quest’insegnamento, si
assiste alla scena forse più bella, nel concludersi del film, dopo la celebrazione delle
nozze, con la piazza riccamente addobbata
in una radiosa mattina di sole e con tutti gli
abitanti presenti. Ce la offre il simpatico chierichetto, che corre gioioso a suonare le campane a festa, ma, minuto com’è, vola su è
giù appeso alla corda, come un angioletto.
Accorrono quindi un bimbo musulmano ed
uno ebreo per aiutarlo a tornare a terra, ma
sono sospinti in aria anche loro, nella forza
di un abbraccio che nel film non ha termine
né confini religiosi o ideologici. Una sola parola: bellissimo!
Luca Caruso
IL FIGLIO PIÙ PICCOLO
Italia, 2009
Regia: Pupi Avati
Produzione: Antonio Avati per Duea Film in collaborazione con Medusa Film
Distribuzione: Medusa
Prima: (Roma 19-2-2010; Milano 19-2-2010)
Soggetto e sceneggiatura: Pupi Avati
Direttore della fotografia: Pasquale Rachini
Montaggio: Amedeo Salfa
Musiche: Riz Ortolani
Scenografia: Giuliano Pannuti
Costumi: Steno Tonelli
Direttori di produzione: Cristina Bravini, Gianfranco Musiu
Aiuti regista: Alvise Barbaro, Roberto Farina, Raphael Tobia Vogel
Effetti visivi: Justeleven
Suono: Piero Parisi
Interpreti: Christian De Sica (Luciano), Laura Morante (Fiamma), Luca Zingaretti
(Bollino), Nicola Nocella (Baldo), Sydne Rome (Sheyla), Massimo Bonetti (Pilastro),
Marcello Maietta (Pilastro), Manuela Morabito (Betty Chirone), Fabio Ferrari (Sainati),
Alessandra Acciai (Dina Diasporro), Alberto Gimignani (Carosi), Giulio Pizzirani
(Amadei), Vincenzo Failla (Notaio Gabutti), Gisella Marengo (Elvira Bagdikan),
Emanuele Salce (Organizzatore), Cristian Marazziti (Vicesindaco), Massimiliano
Varrese (Capitano Taddei), Aurora Cossio (Zoe), Pilar Abella (invitata), Maurizio
Battista (Nazareno), Matilde Matteucci (Roberta), Tiziana Buldini (Carlotta Morè),
Simone Arcese (conduttore radio), Luciano Luminelli (inviato), Pino Quartullo
(elicotterista), Omar Pedrini (musicista)
Durata: 100’
Metri: 2750
32
Film
state 1992, Bologna. Il matrimonio di Luciano Baietti e Fiamma,
già genitori di due bambini di
pochi anni, si consuma frettolosamente.
Appena il tempo di un brindisi nei bicchieri di plastica e il taglio della torta su i tavoli di un camper ambulante. Poi lo sposo, in compagnia di un eccentrico contabile appena uscito dal convento, dopo aver
fatto firmare alla sua novella sposa un mazzo di documenti con i quali la donna gli
intesta i suoi beni, parte lasciandola in lacrime. Diciotto anni dopo, i due bambini
sono cresciuti: il maggiore, Paolo, lavora
come cameriere in un locale del centro e
odia quel padre scomparso nel nulla; il figlio più piccolo, Baldo, buono e generoso,
studia cinema al Dams e vive modestamente con la mamma, preoccupandosi che la
madre prenda quotidianamente farmaci
per la depressione. Fiamma, sola per scelta dall’abbandono del marito, insieme all’inseparabile amica hippie americana
Sheyla, sbarca il lunario nel patetico tentativo di avviare una carriera musicale, improvvisando improponibili concerti new
age. La donna, incapace di vedere le malefatte dell’ex marito, ha cresciuto i due
figli nel culto della figura paterna, e nella
convinzione che, prima o poi, quell’uomo
sfuggente ed egocentrico sarebbe tornato
per migliorare la loro vita.
Nel frattempo, nella campagna laziale, Luciano fa la bella vita nella sua lussuosissima villa: con i soldi dell’ex moglie
e i consigli del fidato consulente Sergio,
freddo calcolatore e mente pensante della
Baietti Enterprise, è presidente e responsabile di una holding che vive di loschi traffici, di immagine, società fantasma ed evidenti raccomandazioni. Tuttavia i tempi si
fanno difficili e gli appoggi iniziano a vacillare. I successi di Luciano e dei suoi
corrotti collaboratori, veri o presunti, infatti vengono messi alle corde dalle indagini sempre più fitte della Guardia di Finanza. L’idea per uscirne puliti è trovare
un prestanome ingenuo e inesperto su cui
scaricare la responsabilità delle situazioni più compromesse. Qualcuno facile da
raggirare con la promessa di false ricompense. Così con la scusa delle seconde
nozze con una ricca romana politicamente
in vista, Luciano richiama la prima moglie, ancora profondamente innamorata di
lui, per invitare Baldo, il figlio più piccolo, come testimone di nozze. A lui sarà affidata la “patata bollente”. Baldo è un
bonaccione alle prese con le crisi esistenziali, innamorato della proiezionista di una
sala cinematografica e con il sogno di realizzare “da grande” un film splatter. Una
volta arrivato dal padre, il ragazzo si sen-
E
Tutti i film della stagione
te carico di emozioni e aspettative che in
breve vengono smentite. Nell’arco di poche ore, Baldo davanti a tutta la commissione viene investito della carica dirigenziale, ma anche portato a conoscenza della situazione tragica della società. Il povero ragazzo capisce di essere stato raggirato e prova ad andarsene, ma facilmente torna sui suoi passi nell’illusione di poter finalmente veder realizzato il suo film, con i
soldi della società. Nella speranza di un futuro migliore per lui e la sua famiglia Baldo rivela alla madre la situazione, che si
adopera subito per acquistare quell’appartamento che da tempo non riusciva a pagare. Tuttavia, durante le sfarzose nozze di
Luciano, irrompe la polizia con un mandato di cattura a suo carico. Tutto ormai è irrimediabilmente compromesso e la Baietti
Enterprise precipita nella fossa. Baldo e la
madre tornano alla loro vita di sempre.
Grazie alle sue numerose conoscenze, Luciano è ammesso agli arresti domiciliari e
non avendo più una casa, né un impero economico da gestire, ormai depresso e senza
speranze, è accolto da Fiamma e da Baldo
nella loro umile dimora.
vati chiude la sua personale trilogia dedicata ai padri, dopo Il
papà di Giovanna e La cena per
farli conoscere con una pellicola che fa un
ritratto cinico dell’Italia di oggi, che omaggia senza indugi la “comedy amara” degli
anni Sessanta e Settanta. Disegnando un
paese allo sfascio, così paradossalmente
attuale da metter paura, Il figlio più piccolo rappresenta il terzo padre, quello più
indecente di tutti, il più infame. Da una parte
c’è una figura così meschina ed eticamente
vergognosa, pronta a sfruttare l’amore altrui, della ingenua moglie, prima, e del fi-
A
33
glio, mai realmente cresciuto, dopo, pur di
salvare la pelle. Quindi parliamo di un mondo squallido e arrivista, dove non contano
più i sentimenti, i valori morali o il buon
senso, ma vige la religione della “roba” verghiana. Dall’altra c’è l’idealismo e la purezza dei buoni sentimenti, la speranza di
credere e portare avanti i propri sogni, senza nuocere a nessuno. La società contemporanea si riduce a un contrasto fra furbi
avvoltoi e incalliti sognatori, fra chi ha fatto sì che corruzione e volgarità diventassero i soli valori e chi ha lasciato passivamente che ciò accadesse, perché incapace di comprendere i cambiamenti in atto.
Pur avendo quasi una quarantina di film
all’attivo, Pupi Avati, anche nel momento
in cui tutti sembrava avessero qualcosa da
dire, non ha mai propriamente perseguito
un progetto di cinema “politico”; svezzatosi con horror e commedie grottesche, col
tempo il suo sguardo si è interessato sempre più spesso alla storia e al reale, ma
senza mai prendere una decisa posizione. Questa volta il filtro con cui manteneva
le distanze pare essersi assottigliato e il
regista si schiera dalla parte dei perdenti,
dei genuini. Impietoso, invece, appare il
confronto con gli aspetti più crudeli della
realtà; eppure, anche nel suo film più cinico, forse un po’ di pietà la concede anche
ai cattivi. Impeccabile a dirigere i suoi attori il maestro porta sullo schermo un Christian De Sica finalmente lontano dalle sue
interpretazioni vacue e prive di spessore
dei cinepattoni natalizi. Niente smorfie da
maschera commediante, questa volta pacato e serio nei panni di un uomo distrutto
dalla propria vita, fatta di illegalità e compromessi. E supera la prova abbastanza
bene; ora è da vedere se seguirà le amabili orme dell’indimenticato padre, o conti-
Film
nuerà a perdersi dietro ai successi da botteghino. Al suo fianco una piagnucolosa
Laura Morante, non lontana dai suoi classici ruoli, nei panni di una madre “stupidina” (così è chiamata da Luciano), un semi-
Tutti i film della stagione
esordiente Nicola Nocella, credibilissimo
nell’interpretare Baldo, il figlio più piccolo,
un emotivo dal cuore grande e, soprattutto, un eccellente Luca Zingaretti, chiamato nel ruolo originale del manipolatore sen-
za scrupoli e ex frate Sergio, detto il “Professore”, vero cervello della società e braccio destro di De Sica.
Veronica Barteri
IL RICCIO
(Le hérisson)
Francia/Italia, 2009
Regia: Mona Achache
Produzione: Anne-Dominique Toussaint per Les Films des
Tournelles/ Eagle Pictures/ France 2 Cinéma/ Pathé/ Topaze Bleue
Distribuzione: Eagle Pictures
Prima: (Roma 5-1-2010; Milano 5-1-2010)
Soggetto: liberamente tratto dal romanzo L’eleganza del riccio
di Muriel Barbery
Sceneggiatura: Mona Achache
Direttore della fotografia: Patrick Blossier
Montaggio: Julia Grégory
Musiche: Gabriel Yared
Scenografia: Yves Brover-Rabinovici
Costumi: Catherine Bouchard
Direttore di produzione: Pascal Ralite
Casting: Michael Laguens
Aiuti regista: Fabrice Camoin, Julie Duhayot, Florent Sauze
Operatore Steadicam: Valentin Monge
l numero 7 di rue de Grenelle, la
portinaia Renée Michel osserva
l’andirivieni e le vite degli inquilini di questo condominio di lusso della dorata alta borghesia parigina. Vedova, scorbutica, sciatta, apparentemente ignorante e
teledipendente dal peggior trash catodico,
Madame Michel è in realtà una coltissima
autodidatta, appassionata lettrice dei romanzi di Tolstoj e entusiasta spettatrice dei film
di Ozu. Ma questa sua seconda natura non è
l’unico segreto che Madame Michel nasconde dietro la porta della sua guardiola. Qualche piano più su vive un’esistenza altrettanto nascosta e misteriosa ai più la giovane
Paloma, lucido critico della mediocrità che
la circonda in famiglia e fuori, la quale ha
deciso di togliersi la vita il giorno del suo
tredicesimo compleanno, stanca di fingersi
e nascondersi. Renée e Paloma si incontreranno e si scopriranno grazie all’arrivo nel
palazzo di un nuovo inquilino, l’elegante e
raffinato giapponese Monsieur Kakuro Ozu,
la cui presenza aiuta finalmente le due ad
aprirsi alla vita. Il sogno si interrompe bruscamente, quando Renée, dopo tanto tempo
di nuovo pronta ad amare e a lasciarsi amare da Ozu, finisce investita da un camion davanti l’ingresso del palazzo. La morte di
Renée riporta bruscamente Paloma alla realtà della vita, distogliendola dai suoi propositi suicidi e avviandola all’età adulta.
A
Art director: Patrick Schmitt
Arredatore: Thierry Rouxel
Trucco: Didier Lavergne
Acconciature: Cédric Chami
Supervisori effetti visivi: Kevin Berger, Bruno Sommier
Coordinatore effetti visivi: Berengere Dominguez
Suono: Jean-Pierre Duret, Amaud Rolland, Nicolas Naegelen
Interpreti: Josiane Balasko (Renée Michel), Garance Le
Guillermic (Paloma Josse), Togo Igawa (Kakuro Ozu), Anne
Brochet (Solange Josse), Ariane Ascaride (Manuela Lopez),
Wladimir Yordanoff (Paul Josse), Sarah Lepicard (Colombe
Josse), Jean-Luc Porraz (Jean-Pierre), Gisèle Casadesus
(Madame de Broglie), Mona Heftre (Madame Meurisse),
Samuel Achache (Tibère), Valérie Karsenti (madre di Tibère),
Stéphan Wojtowicz (padre di Tibère)
Durata: 100’
Metri: 2750
C
i sono libri che sembrano fatti
apposta per essere trasposti sullo schermo (e alcuni di essi vengono ruffianamente scritti proprio per sfruttare il successo e la notorietà del cinema)
e altri che invece sembrano “condannati”
a rimanere per sempre sulla pagina stampata. L’inaspettato successo editoriale della scrittrice francese di Muriel Barbery (un
successo in Italia dovuto principalmente
al passaparola fra i lettori che avevano
scoperto questo piccolo gioiello) aveva
tutte le carte in regola per diventare un prodotto cinematografico appetibile, ma, al
tempo stesso, sembrava quasi tradimento
della delicatezza e del riserbo del libro, dei
suoi personaggi, del suo stile di scrittura.
Ci son voluti quasi quattro anni dall’uscita in Francia della prima edizione perché si
decidesse alfine di tentare l’avventura di
portare sullo schermo L’eleganza del riccio, anche se i diritti cinematografici erano
stati acquistati ancora prima del grande successo editoriale. A spuntarla è stata una
giovane regista esordiente, l’attrice Mona
Achache (vista recentemente in Verso
l’Eden di Costa-Gravas), innamoratasi del
libro anche lei in tempi non sospetti, dopo
aver letto, per caso, la quarta di copertina
in libreria. Dopo un’iniziale apprezzamento, in seguito all’uscita del film Muriel Barbery ha pubblicamente disconosciuto il film
34
della Achache, colpevole di non rispettare
lo spirito del romanzo e di averne diperso
l’eleganza, non solo nel titolo che la Barbery non ha consentito di utilizzare.
La Achache si appropria con rispetto ma
autorità del libro e lo rielabora cinematograficamente riuscendo a evitare quelle che
sono le pastoie degli adattamenti di libri francesi fatti da registi francesi, tra silenzi e malinconie trés chic, ma spesso molto di maniera. Nella sua trasposizione nessuna sottigliezza, nessuna sfumatura, nessun sussurro viene disperso né tantomeno enfatizzato, grazie a una regia intelligentemente
visibile e attenta, realistica e visionaria al
tempo stesso (come i disegni di Paloma che
prendono vita sullo schermo). A tratti quasi
favolistico, il film mantiene l’ironia di alcuni
passaggi della Barbery senza dimenticare
però il senso di morte che alleggiava nelle
pagine del libro fino alla tragedia finale, brusca e inaspettata.
Le piccole libertà traspositive che la
Achache si concede non turbano affatto il
senso del testo, se questo era il timore paventato dalla Barbery e dei fedelissimi del
libro. Il diario cartaceo che la piccola Paloma redige quotidianamente e nel quale essa
annota tutti i propri pensieri sul mondo che
la circonda e sugli adulti che popolano la sua
vita nel condominio di Rue de Grenelle si
trasformano, nel film, in un diario visivo gra-
Film
Tutti i film della stagione
zie a una videocamera che Paloma utilizza
per osservare e scandagliare la realtà che
la circonda, nella quale scopre l’eleganza nascosta della portinaia Renée. Distanti per età,
educazione, condizione sociale, Paloma e
Renée sono due facce della stessa medaglia, egualmente chiuse al mondo esterno
grazie a una corazza fatta di pregiudizi e apparenza e tutte e due proiettate verso un’intimità fatta di libri, passione, cultura, ma, soprattutto, dialogo e ascolto reciproco.
Meraviglioso il terzetto protagonista, a
partire della veterana Josiane Balasko (Non
tutti hanno la fortuna di avere avuto genitori
comunisti, altro ritratto di donna complesso
e introverso), insieme alla giovane esordiente
Garance Le Guillermic e all’attore giapponese Togo Igawa (L’ultimo samurai).
Chiara Cecchini
GENITORI & FIGLI: AGITARE BENE PRIMA DELL´USO
Italia, 2010
Regia: Giovanni Veronesi
Produzione: Aurelio De Laurentiis, Luigi De Laurentiis, Luigi
De Laurentiis Jr., Giulio Gallozzi per Filmauro
Distribuzione: Filmauro
Prima: (Roma 26-2-2010; Milano 26-2-2010)
Soggetto e sceneggiatura: Giovanni Veronesi, Ugo Chiti,
Andrea Agnello
Direttore della fotografia: Tani Canevari
Montaggio: Marco Spoletini
Musiche: Andrea Guerra
Scenografia: Luca Merlini
Costumi: Gemma Mascagni
lberto è un professore di italiano
al liceo, progressista e alla mano,
sposato con Rossana e padre di
Gigio, un ragazzo di vent’anni. Il rapporto con quest’ultimo è molto conflittuale, in
particolare quando Gigio svela ai suoi l’intenzione di presentarsi al provino del
“Grande fratello”. Alberto sembra non
voler assecondare il figlio nel suo desiderio di entrare nel mondo dello spettacolo,
ma lo esorta invece a essere responsabile,
non perdendo tempo dietro a idee futili e
senza fondamento. Gigio, a sua volta, è
convinto che il padre, malgrado vada in
giro con la moto, faccia leggere i testi di
De André a scuola e scriva su Facebook,
non sia affatto “moderno”. Tra gli alunni
di Alberto c’è Nina, una quattordicenne
dallo sguardo disincantato, più matura,
perchè in maniera intelligente riesce a distinguersi dal gruppo dei propri coetanei.
A
Produttori esecutivi: Maurizio Amati
Aiuti regista: Edoardo Petti
Trucco: Elisabetta Emidi
Acconciature: Massimo Gattabrusi
Supervisore effetti visivi: Giuseppe Squillaci
Interpreti: Chiara Passarelli (Nina), Michele Placido (Alberto),
Luciana Littizzetto (Luisa), Silvio Orlando (Gianni), Margherita
Buy (Rossana), Max Tortora (Mario), Elena Sofia Ricci (Clara),
Vittorio Emanuele Propizio (Patrizio), Piera Degli Esposti (Lea),
Andrea Fachinetti (Gigio), Matteo Amata (Ettore)
Durata: 110’
Metri: 3050
In occasione del tema dato da Alberto alla
classe dal titolo: “Genitori e figli: istruzioni per l’uso”, la ragazza coglie l’occasione
per aprire il suo cuore e parlare con qualcuno della sua famiglia. Sua madre, Luisa,
è una caposala d’ospedale, in gamba e senza troppi scrupoli; mentre Gianni ha lasciato moglie e figli per andare a vivere su
una barca. Nina ha anche un fratellino di
otto anni, Ettore, che manifesta momenti
di rabbia e razzismo ai danni dei suoi compagni di scuola. Entrambi i genitori hanno una relazione clandestina: Gianni con
Clara, amica della moglie e Luisa con il
collega Mario. Dopo aver descritto i suoi,
Nina racconta di sé, delle sue amiche, della tanto attesa prima serata in discoteca,
delle uscite con i ragazzi più grandi e del
suo primo, goffo, innamoramento per un
buffo e simpatico compagno di scuola. All’improvviso, per motivi di salute, dopo
35
vent’anni Nina incontra anche la nonna, ex
giocatrice professionista di poker arrivata
dal nulla e mai frequentata a causa di dissidi familiari. Alberto, leggendo il tema di
Nina, viene a sapere che la ragazza conosce suo figlio e sa molte più cose lei che lui
e la moglie messi insieme. Intanto la ragazza trascorre del tempo in ospedale con la
nonna e sembra subito andarci d’accordo,
tanto che la donna arriva a prestare alla
nipotina la casa per andare a consumare la
“sua prima volta”. Dopo qualche giorno,
la nonna muore e Nina, il fratello e i genitori si ritrovano a trascorrere una giornata
insieme sulla barca del padre. Al di là di
ogni previsione, si ritrovano a scherzare e
ridere in acqua come una famiglia felice.
Gigio dopo essere andato via per l’ennesimo litigio, non supera il provino e ritorna a
casa, ma la situazione non sembra essere
cambiata.
Film
eronesi questa volta abbandona
la struttura a episodi per raccontare un’unica storia principale,
divertente e ironica, quella di Nina, una
quattordicenne alle prese con i problemi
familiari, la crisi adolescenziale e la scoperta dell’amore. Verrebbe spontaneo pensare che Genitori e figli: agitare bene prima dell’uso sia indirizzato alle generazioni “facebookare”, anche in base alla locandina del film. In realtà, Veronesi estende la
sua visuale e prescrive un “manuale per
famiglie”. Non famiglie medie o allargate
come si usa oggi, ma un nucleo familiare
ristretto, quello che si unisce quando un
bambino di otto anni si rivela spietatamente
razzista e che scoppia con la sua rovente
forza negativa nelle situazioni di contrasto
verbale. Della serie cambiano le tendenze, i costumi e gli oggetti di discussione,
ma non i sentimenti e i valori.
La voce-off della protagonista, a partire da un compito in classe di italiano, ci
rende partecipi della sua vita, facendocela spiare come tanti voyeur dal buco
della serratura. L’Italia che ci viene presentata è desolante e senza ideali, tutto
è basato sui reality, l’immagine e gli stereotipi. Un’amarezza di fondo induce lo
spettatore a una riflessione profonda che
riguarda il rapporto tra generazioni diverse e tra padri e figli. Adulti e giovani alla
fine si ritrovano nel film letteralmente a
dare “i numeri”, in maniera casuale, piuttosto che usare la parola. Il problema di
fondo sta, dunque, nella totale mancanza
di comunicazione. Le proiezioni che vengono fatte dai genitori sui figli non coincidono quasi mai con le loro aspirazioni future, là dove tradizione e linguaggi moderni non vanno di pari passo.
V
Tutti i film della stagione
Il regista non prende mai una posizione netta e lascia che i personaggi si scontrino in un conflitto senza soluzione, accarezzando temi attuali come il mondo dei
reality o il sesso “take-away”. Eppure Veronesi sceglie di dare la parola a una adolescente fuori dal coro, che riesce in parte
a distinguersi dai propri coetanei, e a lei
affida il suo messaggio salvifico. Il microcosmo in cui vive la protagonista, infatti, si
trova a metà strada tra l’adeguamento ai
canoni vuoti del gruppo e quella distanza
necessaria per capire le giuste regole da
seguire. Nel confronto gli adulti non ne
escono certo bene, spesso troppo distanti
o impegnati per tenere le redini di una famiglia. Piuttosto che un modello, con le loro
scappatelle segrete, rappresentano invece un esempio da condannare. Una pellicola prodotta dalla coppia De Laurentiis
non poteva che esibire un cast quantomeno brillante. A costellarlo, numerosi attori
italiani apprezzati del cinema come Michele Placido, Silvio Orlando, Margherita Buy,
Elena Sofia Ricci e presenze note nel panorama televisivo come Luciana Littizzetto e Max Tortora, per finire con nuovi volti
per la prima volta sullo schermo, come
Chiara Passarelli e Andrea Fachinetti (figlio di Ornella Muti). La Littizzetto nei suoi
tanti ruoli di madre, moglie e amante nevrotica è esilarante come sempre, mentre
Michele Placido e Silvio Orlando si calano
a perfezione nei rispettivi panni di professore alternativo e padre bambinone.
Veronica Barteri
MINE VAGANTI
Italia, 2010
Regia: Ferzan Özpetek
Produzione: Domenico Procacci per Fandango/ Rai Cinema
Distribuzione: 01 Distribution
Prima: (Roma 12-3-2010; Milano 12-3-2010)
Soggetto e sceneggiatura: Ferzan Özpetek, Ivan Cotroneo
Direttore della fotografia: Maurizio Calvesi
Montaggio: Patrizio Marone
Musiche: Pasquale Catalano
Scenografia: Andrea Crisanti
Costumi: Alessandro Lai
Supervisore alla produzione: Claudio Zampetti
Organizzatore generale: Gianluca Leurini
Direttore di produzione: Roberto Leone II
Aiuti regista: Alberto Caviglia, Gianluca Mazzella
Operatore: Luigi Andrei
Suono:Marco Grillo
Canzone estratta: “Sogno” (musica di Marco Giacomelli e Fabio Petrillo; testi di
Ilaria Cortese e Nicoletta Strambelli in arte Patty Pravo) cantata da Patty Pravo
Interpreti: Riccardo Scamarcio (Tommaso), Nicole Grimaudo (Alba), Alessandro
Preziosi (Antonio, fratello di Tommaso), Lunetta Savino (Stefania, madre di Tommaso),
Ennio Fantastichini (Vincenzo, padre di Tommaso), Elena Sofia Ricci (zia Luciana),
Ilaria Occhini (nonna di Tommaso), Bianca Nappi (Elena, sorella di Tommaso), Daniele Pecci (Andrea), Carolina Crescentini (nonna da giovane), Massimiliano Gallo
(Salvatore), Paola Minaccioni (Teresa), Emanuela Gabrieli (Giovanna), Giorgio Marchese (Nicola), Matteo Taranto (Domenico), Carmine Recano (Marco), Gianluca De
Marchi (Davide), Mauro Bonaffini (Massimiliano), Gea Martire (Patrizia), Giancarlo
Montigelli (Brunetti), Crescenza Guarnieri (Antonietta)
Durata: 110’
Metri: 3200
36
Film
ecce. Tommaso, figlio minore della famiglia Cantone, fa ritorno nella sua città natale dopo diverso
tempo. Ad attenderlo c’è la sua numerosa
famiglia, nota in città e proprietaria di un
pastificio: la nonna ribelle e intrappolata
nel ricordo di un amore perduto; la mamma Stefania, molto dipendente dalle apparenze borghesi; il padre Vincenzo, uomo
all’antica; l’eccentrica zitella zia Luciana
che sembra vivere in un mondo tutto suo;
il fratello maggiore Antonio che, nei piani
dei Cantone, deve essere affiancato da lui
nella gestione dell’azienda di famiglia; la
sorella Elena che aspira a un destino diverso rispetto a quello della casalinga.
Tornato a casa, vorrebbe confessare alla
sua famiglia che è omosessuale, che è legato a un compagno e che ha aspirazioni letterarie, ma non trova il coraggio. In città,
conosce poi Alba, ragazza di buona famiglia dal carattere eccentrico, che scorrazza
in città con la sua auto a velocità sostenuta.
Durante una cena ufficiale organizzata
per sancire il nuovo corso aziendale e alla
quale partecipano anche Alba e il padre, è
invece Antonio che dichiara a tutti di essere gay. Gli effetti sono devastanti: il fratello
di Tommaso viene espulso dalla direzione
dell’azienda e buttato fuori di casa; Vincenzo, invece, ha un collasso e viene ricoverato in ospedale. Tommaso, quindi, deve aspettare ancora per rivelare la verità e assecondare gli oneri familiari. Nel corso dei
giorni, il rapporto con Alba diventa sempre
più stretto e nasce tra loro un affetto sincero. Una volta, poi, che Vincenzo è stato dimesso, i Cantone devono affrontare il compito più arduo: le chiacchiere della gente.
Accade così che un giorno Vincenzo va al
bar con Tommaso e mette su una sceneggiata mettendosi a ridere a voce alta. Un’altra volta, invece, la madre affronta a viso
aperto una donna maldicente.
A complicare ulteriormente la situazione arriva il compagno di Tommaso assieme ad altri suoi amici che devono però fingere di essere eterosessuali. Tommaso sembra ormai chiuso in una via senza uscita.
Ad aiutarlo c’è sempre la nonna, sua vera
alleata da sempre. Che una notte decide di
abbuffarsi di dolci...
L
Tutti i film della stagione
Lecce diventa quasi come l’isola greca di
Kalokairi di Mamma mia!, uno spazio chiuso dove tutto può succedere. L’arrivo dei
potenziali tre padri della protagonista nel film
di Phyllida Lloyd con Meryl Streep è simile,
per esempio, a quello del compagno di Tommaso con i suoi amici nella casa dei Cantone, diventando potente elemento destabilizzante. Così come gli squarci in esterni nella
città, o la bella scena sulla spiaggia danno,
come in quell’altra pellicola, la stessa impressione di illimitata ariosità.
Dopo la brutta parentesi di Un giorno
perfetto, Ferzan Ozpetek torna ai temi suoi
più congeniali (come quello della coesistenza nella diversità) e porta sullo schermo
un’altra famiglia allargata dopo quelle, per
esempio, di Le fate ignoranti e Saturno contro. Si sposta da Roma al Salento, ma mantiene stretto quel contatto fisico con i luoghi,
che ha l’intensità, non solo nel modo di filmarli, ma anche di recuperarne la tradizione e la memoria, di quelli del suo film più
riuscito prima di questo, La finestra di fronte.
E, come in quell’opera, recupera un grande
attore del cinema italiano del passato (lì
Massimo Girotti, qui Ilaria Occhini, che dopo
l’intensa prova di Mar nero con cui è stata
premiata a Locarno come miglior attrice,
mostra di saper tenere egregiamente anche
il passo della commedia) e non è un caso
forse che siano proprio i loro personaggi ad
avere un rapporto così stretto con i dolci.
La famiglia Cantone, estremizzandone
il lato grottesco, potrebbe idealmente uscire
da quelle di Wes Anderson. Il rapporto stretto con la terra, in questo caso la Puglia, richiama invece il miglior cinema di Rubini
regista, da Tutto l’amore che c’è a L’anima
gemella fino a finire a La terra. Ozpetek lascia progressivamente precipitare in un universo incantato e magico, tenendo però ben
a i colori e la frenesia del musical Mine vaganti. E non dipende
soltanto dalla presenza di una
ricca colonna sonora che comprende brani
come, per esempio, 50mila o Sogno di Patty
Pravo. Ma sono proprio i movimenti dei personaggi che vengono come assorbiti da un
ritmo vorticoso, da una velocità impazzita,
da una follia contagiosa e sorprendentemente innaturale, dove le loro stesse parole disegnano una partitura musicale apposita.
H
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saldo il rapporto con la commedia all’italiana. E, sotto questa angolazione, Mine vaganti è il film che più gli si avvicina. Per due
essenziali motivi. Il primo è la precisa caratterizzazione dei personaggi in una pellicola
dal respiro corale, nella quale emergono (oltre alla bravura della Occhini) uno scatenato Ennio Fantastichini, una dolente Lunetta
Savino, un’intensa Nicole Grimaudo (la figura di Alba è tra quelle più sfuggenti e affascinanti) e soprattutto Riccardo Scamarcio
che conferma una crescita notevole nella
capacità di saper affrontare ruoli differenti.
La seconda invece riguarda lo stretto rapporto tra la vicenda e la vita di provincia. Per
certi aspetti, Lecce in Mine vaganti richiama, sia pure alla lontana Treviso in Signore
e signori di Germi, soprattutto nel contrasto
tra ciò che avviene realmente all’interno delle
famiglie e l’apparente esteriorità borghese.
E la stessa figura di Alba, che si cambia le
scarpe e corre con l’auto in città, può idealmente rappresentare la reincarnazione di
quelle figure, quasi un rapidissimo frammento di un ‘sorpasso’ in chiave femminile.
Certo, nel film ci sono anche delle forzature, come gli squarci visionari iniziali e finali, dove si sottolinea il rapporto stretto della
nonna con il proprio passato. E forse è proprio questo passato che si deposita dentro il
film, che è faticosamente, trattenuto e aspetta
di esplodere. Qui Ozpetek da l’impressione
di calcare troppo la mano, cercando di spingersi ancora oltre. Ma Mine vaganti mostra
che il cinema del regista ha ripreso comunque la sua marcia in modo spedito. E anche
i suoi limiti appaiono, a questo punto, lievi
rispetto alla incontenibile allegria di una commedia sull’omosessualità trascinante, che diventa una festa davvero contagiosa.
Simone Emiliani
Film
Tutti i film della stagione
DONNE SENZA UOMINI
(Zanan-e bedun-e mardan)
Germania/Austria/Francia, 2009
Costumi: Thomas Oláh
Produttore associato: Shoja Azari
Line producers: Peter Hermann, Bruno Wagner
Casting: Lisa Olah, Markus Schleinzer
Aiuto regista: Amine Lamriki
Arredatore: Shahram Karimi
Interpreti: Pegah Ferydoni (Faezeh), Arita Shahrzad (Fakhri),
Shabnam Tolouei (Munis), Orsi Tóth (Zarin), Navíd Akhavan
(Ali), Mina Azarian (Zinat), Bijan Daneshmand (Abbas), Rahi
Daneshmand ( soldato ), Salma Daneshmand ( ospite ),
Tahmoures Tehrani (Sadri), Essa Zahir (Amir Khan)
Durata: 95’
Metri: 2600
Regia: Shirin Neshat. Con la collaborazione di Shoja Azari
Produzione: Susanne Marian per Coop99 Filmproduktion/
Essential Filmproduktion GmbH/ Société Parisienne de
Production
Distribuzione: BIM
Prima: (Roma 12-3-2010; Milano 12-3-2010)
Soggetto: tratto dal romanzo omonimo di Shahrnush Parsipur
Sceneggiatura: Shirin Neshat, Shoja Azari
Direttore della fotografia: Martin Gschlacht
Montaggio: George Cragg, Jay Rabinowitz, Julia Wiedwald,
Patrick Lambertz, Christof Schertenleib, Sam Neave
Musiche: Ryuichi Sakamoto, Abbas Bakhtiari
Scenografia: Katharina Wöppermann
eheran, estate del 1953. In Iran è
in atto una violenta contestazione contro la presenza di una petroliera inglese, colpevole di aver bloccato l’attività di una raffineria locale. Mentre la popolazione manifesta il suo dissenso marciando nelle strade, il governo caccia via i diplomatici britannici dal Paese.
Le sanzioni per le importazioni dal
Regno Unito gettano l’Iran in una situazione di crisi economica senza precedenti.
Intanto la tensione politica e sociale sale
sempre di più, fino al punto in cui si arriva
a paventare perfino un imminente colpo di
stato militare: gli americani (appoggiati
dagli inglesi) vogliono infatti destituire il
Primo Ministro democraticamente eletto,
Mohammad Mossadegh, e restaurare lo
Scià Reza Pahlavi al potere.
Sullo sfondo di questa tumultuosa pagina di storia, quattro donne, appartenenti a classi diverse della società, tentano di
ribellarsi in tutti i modi al potere maschile
e di emanciparsi nella sfera privata. Quasi tutte le loro esistenze sono però segnate
da un destino tragico o di sofferenza.
Munis, costretta a quasi trenta anni a
vivere imprigionata in una stanza e a frequentare solamente gli uomini imposti dal
dispotico fratello, finisce per suicidarsi
gettandosi dal tetto della sua casa. Anche
l’amica Zarin, che fa la prostituta, viene
ritrovata morta, in un ninfeo.
Faezeh, per aver sbirciato dentro un
bar viene inseguita e violentata da due sconosciuti per strada. Infine, la ricca e raffinata Fakhri, sposata con Sadi (un ufficiale dell’esercito), viene ripudiata dal marito perché non riesce a soddisfare le sue
esigenze di uomo. Cerca quindi conforto
in un vecchio amico Abbas, un intellettuale a cui piace contornarsi di artisti.
Quando la donna organizza una festa
T
riceve la visita inaspettata dei militari.
Questi ultimi, dopo aver perquisito tutta
l’abitazione per stanare gli oppositori, si
siedono al tavolo al posto degli invitati.
Come se non fosse accaduto nulla, la padrona di casa si mette a cantare per i nuovi “ospiti”.
distanza di quasi sessanta anni
da quella sofferta vicenda tutta
al femminile messa in scena dall’esordiente Sharin Neshat, la situazione
in Iran non sembra aver compiuto molti
passi in avanti. Ieri come oggi, purtroppo,
la donna è vittima di un forte ostracismo
che non conosce pietà. Lo dimostra, ad
esempio, l’episodio della brutale uccisione di Neda, la giovane e bella ragazza di
Teheran morta durante gli scontri tra polizia e oppositori del presidente Ahmadinejad nel giugno del 2009.
Sarà per questo che negli ultimi anni,
chi ha avuto la possibilità, soprattutto scrittrici e intellettuali (da Azar Nafisi a Marjane Satrapi, solo per citarne alcune), è fuggito da una realtà divenuta troppo stretta,
se non addirittura asfissiante. Dalle maglie
di una “censura” morale, sociale e culturale ancor prima che artistica: Munis viene
minacciata dal fratello con un laconico «Se esci di casa ti taglio le gambe!», mentre Fakhri subisce l’umiliazione del marito
che rivendica con la forza il diritto di prendere un’altra donna in matrimonio.
Se tutto questo oggi appare possibile,
negli anni Cinquanta non era neppure lontanamente immaginabile. Il silenzioso grido
di dolore di queste quattro eroine ante litteram che sfidarono l’ideologia maschilista
dell’Islam (nel film la separazione dei ruoli è
quanto mai netta: le donne piangono nei cori,
gli uomini pregano inginocchiati) è rotto da
un tale senso del pudore che arriva a sfocia-
A
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re perfino nell’ossessione e nell’allucinazione. La prostituta Zarin, dopo essere scappata dai suoi clienti “senza volto”, si sfrega
la pelle con la spugna al punto da farsi volutamente del male. L’autolesionismo e la conseguente scelta del suicidio (come nel caso
di Munis) venivano visti all’epoca come le
uniche forme di liberazione possibile da un
prostrante stato di servitù.
Ciò che oggi muove indignazione e
porta all’aperta contestazione di un modello di (non) vita (la stessa regista si è
messa a capo di un movimento chiamato
“rivoluzione verde”) non è altro che l’ideale proseguimento di quelle battaglie private portate timidamente avanti dalle protagoniste di Donne senza uomini. Non a
caso, il film è dedicato a tutti coloro che
dal 1906 al 2009 sono morti in Iran per
aver difeso la libertà, la democrazia e i diritti umani. E ancora oggi sappiamo quanto questi ultimi siano calpestati nelle società islamiche.
Il messaggio lanciato coraggiosamente dalla video-artista iraniana appare insomma piuttosto chiaro, tanto che il suo
monito di straordinaria attualità ha conquistato anche la giuria del Festival di Venezia 2009, che lo ha premiato con il Leone
d’argento per la regia. Quello che invece
lascia un po’ perplessi è il “come” viene
veicolato un così nobile e appassionato
messaggio che - ricordiamo - è tratto dal
romanzo omonimo di Shahrnush Parsipur.
Le immagini, per quanto liriche e suadenti, scorrono sullo schermo con lentezza ed eccessiva macchinosità, facendo
sprofondare lo spettatore in una condizione di noioso e prolungato torpore dal quale è difficile riprendersi. Lunghe ed estenuanti panoramiche su boschi rigogliosi,
sovrastati da alberi giganteschi che impediscono alla luce di penetrare. E ancora
Film
giardini attraversati da ameni corsi d’acqua, laghetti e ninfei ben curati che rimandano a un ipotetico Eden.
Il tutto prende magicamente vita, malgrado l’atmosfera mesta e luttuosa (Faezeh rinviene sottoterra il corpo di Munis
ancora intatto!), grazie a una fotografia trasognante, estremamente rarefatta, quasi
eterea, che non può non solleticare lo
sguardo dello spettatore ed esaudire il suo
piacere di assistere a un film come se si
trovasse davanti a una serie di affreschi
d’ispirazione bucolica.
Sono molte le scene che rapiscono e,
allo stesso tempo, lasciano di stucco per
l’esagerato virtuosismo delle inquadrature. Fra tutte, quella del suicidio che apre e
chiude la storia come a sancire la struttu-
Tutti i film della stagione
ra circolare di un destino irreparabile: il lancio (a lungo meditato) della donna vestita
di nero dal tetto della propria casa assomiglia a un volo infinito fra le nuvole. For-
se, soltanto in aria si può sperare di essere finalmente liberi.
Diego Mondella
L’UOMO CHE VERRÀ
Italia, 2009
Regia: Giorgio Diritti
Produzione: Simone Bachini, Giorgio Diritti per Aranciafilm/
Rai Cinema
Distribuzione: Mikado
Prima: (Roma 22-1-2010; Milano 22-1-2010)
Soggetto: Giorgio Diritti
Sceneggiatura: Giorgio Diritti, Giovanni Galavotti, Tania Pedroni
Direttore della fotografia: Roberto Cimatti
Montaggio: Giorgio Diritti, Paolo Marzoni
Musiche: Marco Biscarini, Daniele Furlati
Scenografia: Giancarlo Basili
Costumi: Lia Francesca Morandini
Organizzatore: Franco Pannacci
Produttore associato:Tania Pedroni
Direttori di produzione: Ferdinando Cocco, Franco Pannacci
Aiuti regista: Francesca Lattanzi, Icaro Lorenzoni, Manuel
Moruzzi
Operatori: Andrea Legnani, Roberto Mezzabotta, Fabrizio Vicari
Operatore Steadicam: Andrea Zoli
943/1944. La piccola Martina ha
8 anni ed è l’unica figlia di una
coppia di umili contadini che vive
in un paesino alle pendici di Monte Sole
(una trentina di chilometri a sud di Bologna). La bambina ha smesso di parlare
qualche anno prima, quando il suo fratellino è morto dopo pochi giorni di vita. La
sua mamma ora è di nuovo incinta e lei
trascorre le sue giornate all’aria aperta e
in solitudine aspettando e sognando il
“nuovo” bambino.
Nel frattempo, però, l’inverno si fa sempre più difficile e la guerra mette a dura prova la resistenza della piccola comunità emiliana. La povera gente del posto si ritrova
stretta tra le brigate partigiane del comandante Lupo, e i nazifascisti che avanzano ogni
1
Trucco: Amel Ben Soltane
Acconciature: Daniela Tartari
Supervisore effetti speciali: Paolo Galiano
Coordinatore effetti speciali: Franco Galiano
Supervisore effetti visivi: Stefano Marinoni
Suono: Carlo Missidenti
Interpreti: Maya Sansa (Lena), Alba Rohrwacher (Beniamina),
Eleonora Mazzoni (signora Bugamelli), Claudio Casadio (Armando), Greta Zuccheri Montanari (Martina), Stefano “Vito”
Bicocchi (signor Bugamelli), Orfeo Orlando (Il Mercante), Diego
Pagotto (Pepe), Bernardo Bolognesi (partigiano Gianni), Stefano Croci (Dino), Zoello Gilli (Dante), Timo Jacobs (ufficiale
medico SS), Germano Maccioni (Don Ubaldo), Taddhaeus
Meilinger (capitano SS), Francesco Modugno (Antonio), Maria Grazia Naldi (Vittoria), Laura Pizzirani (Maria), Frank
Schmalz (ufficiale Wehrmacht), Tom Sommerlatte (ufficiale
SS), Raffaele Zabban (Don Giovanni)
Durata: 117’
Metri: 3250
giorno di più. Nella notte tra il 28 e il 29
settembre del 1944 finalmente nasce il bambino e poche ore dopo le SS iniziano un rallestramento senza precedenti.
Gli abitanti del paese si rifugiano in
chiesa ma vengono ben presto raggiunti e
fucilati dai soldati tedeschi. Questo vero e
proprio eccidio, in cui persero la vita circa
770 civili (in maggioranza donne, bambini
e anziani), verrà ricordata come la strage
di Marzabotto, dal nome del comune a cui
appartiene la maggior parte del territorio.
ella trepidante attesa che nasca
il fratellino, la piccola Martina fantastica sull’arrivo di qualcuno che
finalmente le farà compagnia. Ma i monti
emiliani, ai tempi della guerra, nascondo-
N
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no anche l’alba di un nuovo mondo. Dietro
quel bellissimo ed enigmatico titolo – appunto L’uomo che verrà – è riposta probabilmente la speranza di un messia, di un
salvatore che sottragga l’umanità ferita al
giogo della sofferenza (la liberazione degli alleati è imminente). E forse ancora,
l’auspicio di una generazione disposta a
infondere valori come la pace, l’amore e
la sana convivenza tra i popoli.
È attraverso lo sguardo tenero e spaurito della bambina (l’esordiente Greta Zuccheri Montanari è protagonista di una prova di incredibile intensità) che assistiamo
al crescente orrore di un conflitto tanto atroce quanto inspiegabile.
Giorgio Diritti, alla sua opera seconda
dopo il convincente Il vento fa il suo giro
Film
(2005), colloca la macchina da presa ad
altezza di fanciullo per narrare il lento ma
inesorabile avvicendarsi delle stagioni. E
non solo quelle climatiche, scandite dai
cicli di una natura impervia e silenziosa,
come quella che fa da sfondo all’Appennino. Ma anche quelle dell’uomo.
Durante quei lunghi e interminabili
mesi che portano al massacro di centinaia di innocenti, un’intera comunità si compatta prima mediante la solidarietà poi attraverso l’orgoglio e la paura. Ma la violenza e l’odio infettano qualsiasi ambiente
e coscienza, perfino le più incontaminate,
e ci ricordano che la lotta per la sopravvivenza sposta ogni giorno di più i limiti dell’umana abiezione. Ecco allora che pure il
partigiano inizialmente incapace di premere il grilletto, dinnanzi al nemico, può trasformarsi in un freddo omicida (anche di
Tutti i film della stagione
questo fatto di sangue è testimone impotente Martina).
I germi del Male, con annessi i suoi folli
e imprevedibili disegni, covano insomma
anche tra le borgate e i casolari delle tranquille vallate del bolognese. Almeno quanto, circa trenta anni prima nei länder tedeschi, si consumavano i primi atti di barbarie contro la dignità della persona (vedi il
Nastro bianco di Michael Haneke).
Con ciò non vogliamo certo paragonare l’austera e geometrica pellicola del regista austriaco a quella di Diritti che, piuttosto, potrebbe avvicinarsi sia come genuinità di ispirazione, sia come rappresentazione di un “sacro” realismo quotidiano alla
poetica di Ermanno Olmi (con cui l’autore
ha collaborato al progetto Ipotesi Cinema).
Il riferimento d’obbligo è L’albero degli
zoccoli (1978). Ma se con questo capola-
voro L’uomo che verrà condivide in parte
la volontà di raccontare una porzione di
civiltà rurale scomparsa che parla ancora
il dialetto, vive a contatto costante con la
terra, con gli animali, con le tradizioni e la
fede, il confronto si esaurisce nel momento in cui tutto ciò diventa narrazione.
Gesti, episodi di vita contadina e frammenti di intimità familiare vengono scrupolosamente descritti (forse con tempi fin
troppo dilatati...) senza che però acquisiscano una dimensione epica, come invece avveniva nelle migliori storie olmiane.
Rimangono comunque impressi nella
mente le facce di questi umili lavoratori,
stremate dalla fatica e dal sudore: Lena,
Armando e Beniamina – come tanti altri
personaggi interpretati da validissimi attori non professionisti – portano il nome rispettivamente di Maya Sansa, Claudio
Casadio (al suo debutto sul grande schermo) ed Alba Rohrwacher. Questa ultima,
col suo volto pittorico dal vago fascino antico, dimostra, ancora una volta, un carattere e una grazia senza pari, di cui il cinema italiano dovrebbe andar fiero.
Vincitore del Gran Premio della Giuria
Marco Aurelio d’Argento al IV Festival Internazionale del Film di Roma, la pellicola
di Diritti costituisce senza dubbio un capitolo importante del nostro “cinema di memoria”, facendosi portatrice di una testimonianza morale che ci si augura non rimanga inascoltata. Un esempio, insomma,
di tragedia civile, in cui la Storia mostra il
suo lato più nefasto, senza per questo dimenticare l’umanità e la sensibilità di chi
si è opposto fino all’ultimo e con coraggio
alla banale e delirante logica della forza.
Diego Mondella
BACIAMI ANCORA
Italia, 2010
Aiuto regista: Francesco Vedovati
Operatore: Emiliano Leurini
Operatore steadicam: Alessandro Brambilla
Trucco: Alessandro Bertolazzi, Marta Roggero
Acconciature: Giorgio Gregorini
Suono: Gaetano Carito
Interpreti: Stefano Accorsi (Carlo), Claudio Santamaria (Paolo), Pierfrancesco Favino (Marco), Vittoria Puccini (Giulia),
Sabrina Impacciatore (Livia), Giorgio Pasotti (Adriano), Marco Cocci (Alberto), Daniela Piazza (Veronica), Primo Reggiani
(Lorenzo), Francesca Valtorta ( Anna), Adriano Giannini
(Simone), Valeria Bruni Tedeschi (Adele), Sara Girolami
(Sveva), Andrea Calligari (Matteo)
Durata: 140’
Metri: 3840
Regia: Gabriele Muccino
Produzione: Domenico Procacci per Fandango/ Mars
Distribution in collaborazione con Medusa Film
Distribuzione: Medusa
Prima: (Roma 29-1-2010; Milano 29-1-2010)
Soggetto e sceneggiatura: Gabriele Muccino
Direttore della fotografia: Arnaldo Catinari
Montaggio: Claudio Di Mauro
Musiche: Lorenzo Cherubini “Jovanotti”, Paolo Buonvino
Scenografia: Eugenia F. Di Napoli
Costumi: Gemma Mascagni, Angelica Russo
Organizzazione: Gian Luca Chiaretti
Direttore di produzione: Michela Rossi
Casting: Francesco Vedovati
40
Film
arlo e Giulia, dopo anni di tradimenti, lotte, ma anche amore si
sono separati. Giulia ha ritrovato la serenità con un nuovo compagno,
mentre Carlo ha una vita sentimentale costellata da tante conquiste, ma nessuna
vera relazione.
Marco e sua moglie Veronica vivono
un momento di crisi. La coppia cerca disperatamente un bambino che tarda ad arrivare. La frustrazione per la mancata
maternità porta Veronica a svagarsi sempre di più fuori dalle mura domestiche con
grande disappunto di Marco.
Livia, dopo essere stata abbandonata
con un figlio da Adriano, partito per il sudamerica, intraprende una relazione con
Paolo. La donna dopo la cocente delusione è, però, molto cauta e non permette all’uomo di condividere la vita con lei e, soprattutto, con il suo bambino.
Un giorno Adriano ritorna. Sono passati dieci anni e la rimpatriata con gli altri amici
è l’occasione per condividere, come in passato, pensieri e speranze per il futuro.
Carlo comprende che è ancora innamorato di Giulia. Prova in tutti i modi a riconquistarla, ma la donna impaurita cerca di
allontanarlo il più possibile, fino a quando,
una sera, cede e passa la notte con lui. Giulia
si rende presto conto dello sbaglio e si ripromette di non cascarci più, ma rimane incinta. Nonostante gli sforzi per tenere nascosta
la gravidanza, Carlo lo viene a sapere.
Intanto Marco viene lasciato dalla moglie che si trasferisce a casa di un fotografo. Grazie a quest’uomo, Veronica, sembra
aver ritrovato la felicità coronata anche
C
Tutti i film della stagione
dall’arrivo di una gravidanza. Il fotografo,
però, non ha nessuna intenzione di diventare padre e costringe la donna ad andare via
di casa. Marco, disperato, accoglie con gioia il ritorno della moglie ed è pronto ad assumersi il ruolo di genitore del nascituro.
Anche Adriano ritrova il suo senso paterno, ma Livia e suo figlio non sono pronti ad accettarlo . Durante un trasferta di
lavoro, allora, incontra Adele, una giovane madre separata con dei figli e con lei
inizia una felice storia d’amore.
Paolo, invece, sopraffatto dagli psicofarmaci e incapace di comprendere i rifiuti
di Livia, si uccide con un colpo di pistola.
Gli amici distrutti dal dolore si riuniscono all’obitorio per l’ultimo saluto.
Giulia, dopo il funerale, realizza cosa
vuole dalla vita, lascia il compagno e corre da Marco per ricucire la loro storia.
abriele Muccino, dopo la fortunata esperienza americana, ritorna
a narrare emozioni nostrane con
il sequel di L’ultimo bacio. A dieci anni dall’uscita nei cinema, il regista ha ancora
voglia di raccontare, analizzare, quei personaggi che con la loro “immaturità generazionale” hanno, per alcuni versi, fatto da
apripista a tutta una serie di dissertazioni
sulla crisi d’identità dei trentenni.
Muccino non poteva lasciare le cose a
metà, doveva pagare il debito d’onore verso
Carlo e i suoi amici che gli hanno regalato
un inaspettato e, forse, eccessivo successo.
Da queste premesse, o forse, da un’attenta
valutazione di mercato, nasce Baciami ancora. Il treno, però, è ormai passato.
G
Se il regista, infatti, si è lasciato incantare dagli “ozi hollywoodiani”, i suoi personaggi non hanno perso tempo, hanno iniziato a
correre come schegge impazzite alla ricerca della loro personale felicità fra carceri
colombiane, droghe, pistole, letti
sconosciuti...Impossibile cercare di riprenderli nel loro moto folle. La stessa macchina
da presa tentenna e sobbalza, incapace di
cogliere il momento e, spesso, l’emozione.
A quarant’anni il peggio sembra passato, ma è solo un falso bagliore che precede l’acquazzone che si scatena sulle vite
di vecchi bambini. Lo scorrere del tempo,
l’esperienza, infatti, non hanno tolto l’insicurezza anzi, se possibile, hanno esacerbato le dinamiche malate del precedente
episodio. Ma se nel passato c’era un velo
di speranza, in questa nuova pellicola è
totalmente assente, sostituito da una paura di fondo che svanisce miracolosamente in un finale rassicurante, ma forzato.
Muccino ha scelto la strada più semplice, ha proposto al suo pubblico una storia familiare, conosciuta e per questo più
facile da apprezzare. Ma, nel suo ritorno
alle origini, si è dimenticato di infondere
spessore a dei personaggi che si svuotano già alle prime battute e che, per quanto
realistici, sono un po’ lontani dai quarantenni moderni. La generosa interpretazione degli attori, (Pierfrancesco Favino e
Sabrina Impacciatore sicuramente i migliori), però, riesce in parte a coprire questi
strappi, rendendo le due ore di spettacolo
quasi accettabili. C’è di peggio!
Francesca Piano
MENO MALE CHE CI SEI
Italia, 2009
Produttori esecutivi: Luigi Patrizi, Matteo De Laurentiis,
Antonella Iovino
Oraganizzatore generale: Roberto Todeschi
Produttore delegato: Francesca Longardi
Operatore: Emiliano Leurini
Operatore steadicam: Emiliano Leurini
Suono: Antonio Barba
Interpreti: Claudia Gerini (Luisa), Chiara Martegiani (Allegra),
Alessandro Sperduti (Gabriele), Guido Caprino (Giovanni), Teresa Mannino (Barbara), Clotilde Sabatino (Silvia), Marco Giallini
(Federico), Stefania Sandrelli (nonna di Allegra), Angelo Campolo
Durata: 106’
Metri: 2900
Regia: Luis Prieto
Produzione: Marco Chimenz, Giovanni Stabilini, Riccardo Tozzi
per Cattleya/ Focus Features International (FFI)
Distribuzione: Universal
Prima: (Roma 27-11-2009; Milano 27-11-2009)
Soggetto: tratto dal romanzo omonimo di Maria Daniela
Raineri
Sceneggiatura: Maria Daniela Raineri, Federica Pontremoli
Direttore della fotografia: Patrizio Patrizi
Montaggio: Cecilia Zanuso
Musiche: Pasquale Catalano
Scenografia: Sarah Webster
Costumi: Francesca Leondeff
llegra, studentessa diciassettenne di un liceo di Roma, è innamorata di Gabriele ma non riesce a concretizzare ciò che desidera perchè la vita la chiama presto a ben altri
A
compiti: padre e madre muoiono in un incidente aereo e la lasciano sola ad abitare
dai nonni in campagna.
Inaspettatamente, la ragazza, grazie a
uno sguardo alla posta elettronica del pa-
41
dre, scopre l’esistenza della sua amante
Luisa e, spinta da improvvisa decisione, la
cerca, la conosce e instaura con lei una
bella amicizia. Anche Luisa è molto disponibile verso di lei, i ricordi che, in fin dei
Film
conti, le uniscono e le fanno decidere di
vivere insieme.
L’ultimo anno di scuola si rivela presto
denso di avvenimenti e significati per il futuro: Allegra riesce a fare l’amore con Gabriele, ma la gelosia patologica che prova
per lui la porta a interrompere più volte la
storia con il ragazzo; fino a che lei si ritrova una sera in un locale, stordita dall’alcol
e dalle pasticche, in balìa sessuale di alcuni amici di Gabriele. A mala pena Allegra
esce viva da quella situazione e da un incidente d’auto mentre torna a casa e decide,
con l’aiuto di Luisa, di spazzare via le angosce pregresse e di dedicarsi unicamente
alla preparazione degli esami.
Intanto Luisa ha male interpretato l’incontro con Giovanni, giornalista in carriera: il rapporto di una notte la lascia incinta e sola, poiché Giovanni, dopo avere
sfruttato un momento di solitudine della
stessa Allegra portandosela a letto, si trasferisce definitivamente a Parigi.
È tempo per le due donne di diventare,
finalmente, adulte: Allegra supera brillan-
Tutti i film della stagione
temente gli esami e riprende con Gabriele
una storia che dovrebbe rivelarsi più matura; Luisa si tiene il suo bel bambino appena nato per condurre con lui un’esistenza più responsabile.
uis Prieto, regista, proviene dalla fotografia, dal documentario,
dal cortometraggio; è un figlio del
suo tempo quindi e di questo e della sua
interprete ufficiale, cioè la televisione, usa
il codice linguistico adatto a portare sullo
schermo questa storia di giovani e meno
giovani che ci lascia perplessi. Non consideriamo infatti solo una scrittura che può
essere capita e apprezzata da un pubblico
che ha letto i libri di Moccia, ne ha visto i
film tratti (Prieto ha diretto nel 2007 “Ho
voglia di te”) e partecipa a incontri televisivi
correnti; ma siamo convinti di avere visto,
più che altro, un contenitore/frullatore dove
è messo di tutto: morti e incidenti d’auto,
anche il gatto dura poco, appena preso finisce bello e spiattellato sull’asfalto; scuola, amori, amoretti, amorazzi; locali da sbal-
L
lo, sesso, alcol e droga: insomma sorriso e
pianto e, su tutto, la grande coltre della dabbenaggine e della superficialità. Tutto è assorbito, appunto frullato, dagli interpreti senza che mai diano l’impressione di percepire realmente il lato di un dramma perchè
pronti a passare al successivo, nella durata di uno spot o di una apparizione televisiva. In questo modo, così, tutto si appiattisce, risulta convenzionale in un festival di
banalità, nonostante non fosse male l’idea
di partenza e cioè l’amicizia tra le due donne, pallido ricordo di quello che un tempo
erano, nel bene e nel male gli esseri umani. Così questa povertà di espressione non
agita, non produce tensione né scalda il
cuore, in una configurazione arida di sentimenti e di slanci veri, una promozione televisiva, ripetiamo.
Solo la Gerini é bella e vera, si batte
con le unghie e con i denti per mostrare e
rendere autentici la sua sofferenza e la sua
felicità.
Fabrizio Moresco
POPIELUSZKO-NON SI PUÒ UCCIDERE LA SPERANZA
(Popieluszko. Wolnosc jest w nas)
Polonia, 2009
Supervisori effetti visivi: Jakub Knapik
Suono: Maria Chilarecka, Tobias Fleig, Rainer Heesh
Interpreti: Adam Woronowicz (Padre Jerzy Popieluszko),
Zbigniew Zamachowski (Ireneusz, operaio siderurgico), Marek
Frackowiak ( Padre Teofil Bogucki, parroco ), Joanna
Szczepkowska (Roma), Radoslaw Pazura (Piotr), Wojciech Solarz
(Florian), Krzysztof Kolberger (Padre Kanclerz), Martyna Peszko
(Marysia), Agata Piotrowska Mastalerz (Pubblico Ministero),
Beata Fido (Suor Krystyna), Marta Lipinska (Janina), Maciej
Pietrzyk (marito di Janina), Kazinierz Kaczor (Laniecki), Joanna
Jezewska (Barbara Sadowska), Jozef Glemp (se stesso)
Durata: 149’
Metri: 4090
Regia: Rafal Wieczynski
Produzione: Julita Swiercz Wieczynska per Focus Producers
Co/Polski Instytut Sztuki Filmwej/Film Commission Regione
Masovia
Distribuzione: Rainieri Made SRL
Prima: (Roma 19-10-2009)
Soggetto e sceneggiatura: Rafal Wieczynski
Direttore della fotografia: Grzegorz Kedzierski
Montaggio: Marek Ciszewski
Musiche: Pawel Sydor
Scenografia: Andrzej Kowalczyk
Costumi: Alicja Hornostaj, Adam Kocemba
Arredatore: Magdalena Widelska
n bambino, figlio di contadini
cattolici nella povera provincia
polacca del secondo dopoguerra, assiste alla nascita della Repubblica
Popolare di Polonia, l’inizio ufficiale della
sovietizzazione della nazione polacca. Quel
bambino è Jerzy Popieluszko, futuro martire della resistenza al regime comunista.
Nel 1967 Jerzy è impegnato nel servizio di leva, ma ha già scelto la sua strada:
arruolato nell’unità militare per seminaristi, si distingue per i gesti di libertà contro ogni vessazione.
Dieci anni più tardi, Jerzy Popieluszko
è un anonimo sacerdote nella periferia di
Varsavia. Nel corso della prima visita di
Giovanni Paolo II in Polonia, il paese è
agitato da scioperi diffusi. Alle richieste
U
di un gruppo di scioperanti il parroco risponde inviando il giovane prelato, che si
trova così a celebrar messa in mezzo ai
seguaci di Lech Walesa, capo del movimento operaio cattolico e futuro fondatore del
sindacato indipendente Solidarnosc. Il sacerdote guadagna la stima degli operai e
ne sposa la causa, restando al loro fianco
per tutta la durata dello sciopero. Inizia in
questo modo l’amicizia e lo stretto rapporto
tra Popieluszko e gli operai di Varsavia.
L’impegno concreto del sacerdote a difesa
dei diritti dei suoi fedeli va sempre più stabilmente affiancando la cura delle loro
anime. Nel 1981, la polizia “taglia la testa a Solidarnosc” arrestando i vertici del
sindacato. Ai nuovi scioperi risponde
l’esercito che assedia la fabbrica frequen42
tata da Popieluszko; all’assedio seguono
altri arresti e infine un processo farsa. Il
giovane sacerdote, ancora una volta, cerca di sostenere e consigliare gli operai
coinvolti e le loro famiglie. Il convento che
Popieluszko ha scelto come luogo d’incontro e di preghiera per la comunità dei suoi,
diventa rifugio per i dissidenti e i perseguitati politici. La messa in onore di Maria Vergine Madre della Polonia è l’occasione per chiedere al Cielo e allo Stato la
libertà (che nelle richieste formali veniva
individuata nei tre punti della sospensione
della legge marziale, la ricostituzione della libertà di stampa e il riconoscimento del
diritto di costituire sindacati indipendenti
e autonomi). Mentre cresce il numero di
fedeli che si raccoglie intorno alla casa e
Film
alla parrocchia di Popieluszko, l’ostilità
dei quadri comunisti s’inasprisce ed esplicita. Le funzioni religiose alla preghiera
aggiungono ormai costantemente l’attività politica clandestina; il vescovo di Varsavia, spinto dalle crescenti pressioni della polizia, invita il sacerdote alla moderazione. Nel maggio del 1983, il figlio adolescente di una collaboratrice di Popiluszo è arrestato nel corso di una manifestazione e massacrato di botte. Il corteo che
si snoda per le strade della città dietro la
bara del giovane precede di appena un paio
di settimane la seconda visita del Papa in
Polonia. Popieluszko subisce sempre più
pesantemente il controllo della polizia che
ora lo segue in ogni suo spostamento. Dopo
un breve periodo di riposo trascorso in
clandestinità, il sacerdote pianifica un
grande pellegrinaggio operaio al santuario mariano presso Czestochowa. I funzionari che lo perseguitano ottengono d’interrogare Popieluszko. Le false prove rinvenute nel corso della successiva perquisizione a casa del prete ne motivano l’arresto. Il carcere però dura poco. Dopo il
rilascio, il nome di Popieluszko si ritrova
in cima alla lista dei sacerdoti “indesiderati” e se da una parte l’uomo riceve il
sostegno e la solidarietà di molti - tra i
quali anche il Papa -, dall’altra le minacce di morte iniziano a moltiplicarsi. I suoi
gli consigliano con insistenza di rifugiarsi
fuori del paese, ma lui rifiuta con fermezza riuscendo a realizzare il suo progetto.
A Czestochowa non ci sono incidenti, ma,
poco tempo dopo, l’auto nella quale ormai Popieluszko viaggia sempre scortato
da tre dei suoi più stretti collaboratori,
subisce un tentativo d’attentato. Un settimana più tardi tre funzionari del ministero
degli interni rapiscono il sacerdote. Dieci
giorni dopo, il 30 ottobre del 1984, il ca-
Tutti i film della stagione
davere di Jerzy Popiluszko riemerge dalle
acque della Vistola.
La didascalia finale ricorda la data
d’inizio del processo di beatificazione, avviato nel 1997.
n tempi di caotica ripolarizzazione
dei fronti ideologici, di ricerca da
parte delle vecchie istituzioni di
nuovi modelli forti, di nuovi miti che generino nuova adesione, di tanto in tanto qualche inconsapevole nostalgico pensa ancora al cinema come fenomeno culturale
di massa.
Il caso di un film biografico come questo fornisce l’occasione per alcune rapide
riflessioni.
Quando ci si appresta a ricostruire per
il grande schermo la traiettoria biografica
che ha condotto la vicenda d’un individuo
qualunque a diventare storia di un personaggio eleggibile a riferimento di rilevanza pubblica sovranazionale, ci si trova davanti a un bivio: da una parte il cinema inteso come strumento di comunicazione lineare, veicolo d’informazioni schematizzate e di nozioni semplici, strumento didattico univoco e paternalistico; dall’altra il cinema come dispositivo complesso, produttore di relazioni implicite e nuove tra le
cose, di relazione onesta e democratica
con il pubblico, soprattutto di conoscenza
delle cose attraverso la loro rappresentabilità non esaustiva.
Già nel 1988 la polacca Agnieszka Holland si era confrontata con la storia del prete
di Solidarnosc, realizzando, a pochi anni
dall’uccisione del sacerdote, un film dalle
grandi dimensioni produttive e dal notevole
afflato epico/politico che sceglieva di concentrarsi su un segmento più ristretto della
biografia di Popieluszko, concedendo spazio a una messa in scena più ricca.
I
Rafal Wieczynski - polacco anche lui,
regista certo meno noto e meno esperto
della collega - ritenta l’impresa a più di venti
anni di distanza con meno risorse a disposizione, ma certo non senza aspirazioni
altrettanto grandi.
Nel complesso il film che ne vien fuori
è di certo troppo lungo, anche e soprattutto per la maldestra gestione degli abbondantissimi materiali biografici scelti dal regista per la sua narrazione. Rapsodico,
disperso e ripetitivo per tutta la prima metà,
il racconto inizia a portare a segno qualche colpo solo nelle ultime e più concitate
fasi, quelle che riprendono gli ultimi mesi
della vita del protagonista.
Il problema più grosso però è altrove.
Rafal Wieczynski infatti non riesce a compiere una scelta netta davanti al succitato bivio. Così alla retorica ridondanza di
didascalie eccessivamente e disordinatamente presenti lungo tutto il film, si oppongono scene narrative ricche d’inutili
dettagli e prive delle necessarie coordinate storiche. Senza scegliere tra narrazione allusiva e simbolica e ricostruzione
esatta, storicamente e politicamente avvertita, il film si accontenta di proporre la
vicenda di Jerzy Popiluszko, ricostruendola in una messa in scena grossolana e
per questo debole, come memoriale della resistenza che fu, come dimostrazione
ideologica e superficiale del ruolo del cattolicesimo e della chiesa cattolica nell’Europa democratica del presente, come certificato di credito da esigere alla cassa
dell’egemonia politica e culturale. L’ennesima occasione persa per un onesto e
serio discorso sul vero ruolo della cultura
cristiana in un mondo davvero democratico.
Silvio Grasselli
VALUTAZIONI PASTORALI
Alice in Wonderland – n.c.
Amante inglese (L’) – complesso / problematico
An Education – consigliabile / problematico
Anno Uno – futile / volgarità
Baciami ancora – consigliabile / superficialità
Battaglia dei tre regni (La) – consigliabile / problematico
Bocca del lupo (La) – consigliabile-problematico / dibattiti
Casa sulle nuvole (La) – consigliabile /
problematico
Concerto (Il) – consigliabile / brillante
Crazy Heart – n.c.
Dieci inverni – consigliabile-problematico / dibattiti
Donne senza uomini – consigliabile /
problematico
Figlio più piccolo (Il) – consigliabile /
problematico
Genitori & figli: agitare bene prima dell’uso – consigliabile / superficialità
Genova – consigliabile / problematico
Invictus – L’invincibile – consigliabile /
semplice
Io & Marilyn – consigliabile / semplice
Lourdes – consigliabile-problematico /
dibattiti
Meno male che ci sei – futile / superficialità
43
Mine vaganti – complesso / superficialità
Missionario (Il) – futile / brillante
Niko – Una renna per amico – n.c.
Nine – consigliabile / semplice
Onda (L’) – consigliabile-problematico /
dibattiti
Popieluszko – consigliabile / realistico
Piovono polpette – consigliabile / semplice
Riccio (Il) – consigliabile / problematico
Single Man (A) – complesso / problematico
Tra le nuvole – consigliabile / brillante
Uomo che verrà (L’) – raccomandabile /
problematico
Videocrazy – Basta apparire – complesso-superficialità / dibattiti
Film
Tutti i film della stagione
TUTTO FESTIVAL
VENEZIA 2009
A cura di Flavio Vergerio
Con il contributo di Marzia Gandolfi, Simone Emiliani, Luisa
Ceretto, Silvio Grasselli
I festival si giudicano a partire dalla loro
capacità di promuovere la diversità e di
porre all’attenzione della critica e dei massmedia il cinema di “qualità”, quel tanto
(poco) che resiste all’omologazione del
mercato. Per capire, in questa prospettiva,
come è andata quest’anno a Venezia può
essere utile rileggere l’Introduzione al Catalogo della Mostra, scritta come sempre
da Marco Müller con l’ambizione di fare il
punto sulla situazione della produzione nel
mondo. Il Direttore insiste innanzitutto nell’affermare che il cinema oggi attraversa
ed è contaminato da altre arti e altri linguaggi: “Il cinema è ormai anche altro dal
cinema : un insieme di idee, forze, proprietà, capacità, miti, storie che attraversa i film
(...) e che attraversa la nostra storia...”, Il
cinema oggi pretende di rappresentare e
analizzare la contemporaneità, affrancandosi dal passato come storia e come pratica artistica. Ma oggi, afferma Müller, gli
autori più consapevoli stanno ripensando
profondamente questa posizione estetica:
“(...) a datare dalla fine dell’episodio postmoderno, i cineasti hanno fatto fatica a rimettersi dal trauma inconfesso che rappresenta, nonostante tutto, la rinuncia a voler
cercare un’origine, rifarsi a una tradizione”. Il cinema oggi sembra volersi confrontare e reinventare il passato, utilizzando
archetipi narrativi, stili, strumenti e codici
diversi e purtuttavia mantenendo una profonda e intima fedeltà alla sua natura, difficile da definire, fra magia e rapporto dialettico con la realtà. La crisi economica ha
forse ridotto gli spazi di creatività di cineasti “autori”, che tuttavia a Venezia, secondo Müller, sarebbero stati significativamente presenti. Il cinema che Venezia intende
promuovere dovrebbe muoversi fra “emozione e conoscenza”, sottratte alla “confisca che ne fa di continuo il mondo dell’informazione-comunicazione”.
Queste intenzioni teorico-programmatiche
hanno dovuto confrontarsi con le possibilità reali di reperire sul mercato opere capaci di emozionarci e di produrre conoscen-
za. E la raccolta è stata problematica, se
non un poco deludente, specie se dobbiamo far riferimento alla selezione maggiore, il Concorso. La delusione maggiore è
venuta dai quattro film italiani, di cui salverei solo l’intenso (ma convenzionale)
film di Francesca Comencini e il thriller
psicologico dell’esordiente Giuseppe Capotondi (che tuttavia ripete un poco prevedibilmente le regole del genere). Il puntuto
e preoccupante (per l’orrore mediatico rappresentato) Videocracy di Eric Gandini purtroppo era relegato alla Settimana della Critica. Giustificato il Leone d’Oro all’israeliano Lebanon per la passione civile con
cui viene denunciato l’orrore della guerra,
meno il Leone d’argento a Donne senza
uomini dell’iraniana Shirin Neshat, film
femminista con qualche compiacimento
estetizzante. Le grandi autorialità di Akin,
Herzog, Solondz e Romero non aggiungevano nulla di nuovo alla loro carriera, apparendo come “belle” esercitazioni piuttosto che il frutto di una rinnovata ricerca personale. Rimandiamo a una seconda visione il giudizio su Mr. Nobody del belga Jaco
Von Dormael, oggetto misterioso nel suo
barocchismo eccessivo, che affronta il tema
complesso delle teorie sull’origine dell’universo fra creativismo ed evoluzionismo. Discorso a parte andrebbe fatto sui film dei
nostri amati Jacques Rivette e Claire Denis, considerati a torto dai più opere minori, ma che rappresentano una summa delle
ossessioni tematiche e visive dei due grandi registi.
Le vere opere innovative nella loro misteriosa irriducibilità provenivano, ancora una volta, dall’Estremo Oriente. Ahasin Wetei (Tra
due mondi) del cingalese Vimukthi Jayasundara racconta l’infinita guerra civile dello Sri
Lanka immergendola in un racconto mitico;
Lola del filippino Brillante Mendoza ci immerge nel pulsare brulicante di un ghetto ove
due anziane signore arrangiano i conti di un
omicidio nell’indifferenza della giustizia.
Altri film interessanti erano rintracciabili, ma
visionabili con difficoltà per mancanza di
44
tempo, nelle altre sezioni e per questi rimando agli altri servizi. (f.v.)
IL CONCORSO
Tante luci e poche ombre sul cartellone della
66esima edizione del Festival di Venezia, che
pur non presentando film imprevedibili, nella storia e nella messa in scena, è percorso
sotto pelle da una corrente elettrica, da una
voglia irrefrenabile di fare cinema e di squadernare le carte. Sorprende allora l’eleganza
garbata del racconto e la perfetta orchestrazione di volti e sentimenti del debuttante Tom
Ford, celebre stilista statunitense che ha rilanciato le case di moda Gucci e Yves Saint
Laurent. A single man, trasposizione del romanzo omonimo di Christopher Isherwood,
è impeccabile come un paio di Oxford lucidate a specchio. Sospeso dentro l’ultimo giorno di un uomo e dentro la perfezione formale
del suo décor, il film di Ford è un mélo intessuto di atti mancati e infiniti (rim)pianti. Un
professore inglese di letteratura perde in un
incidente il compagno amato da sedici anni.
Incapace di reagire al lutto e all’afflizione,
riordina carte, oggetti e sentimenti e decide
di togliersi la vita con un colpo di pistola dentro l’America degli anni Sessanta, minacciata da Cuba e dai suoi missili nucleari. A single man è un film di oggetti, colori, spazi,
suoni, che funzionano come “luoghi” in cui
le vite si incrociano e si separano, in cui il
desiderio ha lavorato e continua a lavorare,
raccontando dentro un frammento tutte le storie (d’amore) possibili, tutte le storie del
mondo. Idealmente prossimo all’uomo solo
di Ford è il protagonista di Persécution, magnifico film di Patrice Chéreau. Daniel è un
giovane uomo in corso d’opera, come gli
appartamenti in cui lavora in solitudine e silenzio, sviluppando un’idiosincrasia per l’assenza e affrontando il vuoto nel tentativo ostinato di trasformarlo in pieno. Dopo Gabrielle, dramma “da camera” sul “ritorno” a casa
di una moglie fedifraga, il regista francese si
concentra sulla vita in progress di un perse-
Film
guitato persecutore, dentro Parigi, a braccia
aperte e spalle girate, come il suo protagonista in credito d’amore. Separarsi dalle proprie ossessioni e da una vita ideale è doloroso, ma il film di Chéreau (di)mostra che la
separazione può essere (anche e addirittura)
una benedizione, necessaria a riprendere la
capacità di sentire e di vivere. Lasciare una
persona o una casa ci pone al cospetto del
sentimento della mancanza, un vuoto che
contiene però l’atto creativo e generativo della (ri)costruzione di una nuova visione del
domani. Orfano del mondo e della compagna è pure il padre di Viggo Mortensen lungo La strada e dietro al carrello di John Hillcoat. Trasposizione del romanzo di Cormac
McCarthy, il film del regista australiano colloca la relazione padre-figlio dentro un mondo estremo, un ambiente post- apocalittico
di cui non si saprà mai niente, se non le informazioni contenute nello sguardo, nel pensiero o nel sogno dei protagonisti. Viggo
Mortensen, ancora una volta emotivamente
aderente alla situazione drammaturgica, è un
padre “sempre in campo” scandito da urgenza e dolcezza, è un genitore che si racconta,
evocando nei flashback “ a colori” momenti
intensi di vita “navigata”, è ancora fonte di
(in)formazione e conoscenza per quel figlio
che trasforma nell’epilogo da oggetto passivo di “cure” a soggetto emancipato, avanzato, civilizzato. Un figlio che si ingigantisce
nella sua presenza e dentro l’ultimo primo
piano che lascia fuori campo l’America, un
mondo dove gli spietati sopravvivono ma
dove si può (ancora) scegliere di abbandonare la vita o di restare in vita. A scampare la
morte provano anche i quattro giovani soldati di Lebanon, arruolati nelle Forze Armate
israeliane durante la Prima Guerra del Libano. Vincitore del Leone d’oro, il film di Samuel Maoz riesce a mantenersi in equilibrio,
a governare l’orizzonte del discorso e l’inferno della sua messa in scena, l’alto e il basso, la battaglia e l’annientamento umano.
Claustrofobico e trincerato Lebanon guarda
alla guerra attraverso il mirino-obiettivo di
un artigliere che, idealmente prossimo al Piero di De Andrè e al tenente Ottolenghi di
Lussu (e Rosi), rifiuta in lacrime e indisciplinato di uccidere e di uccidersi. Come gli
idealismi, gli ufficiali nel film servono a “cacciare innanzi i soldati”, lasciati morire da una
nazione assediata e in crisi nonostante la promessa che nessuno sarebbe stato abbandonato. Il film dell’esordiente regista israeliano
impone un’ulteriore riflessione sulla politica
d’Israele e sulle conseguenze che questa ha
sul suo stesso tessuto sociale ma riapre anche il discorso sui soldati e sulla quotidianità
del fronte. Maoz carica un carro armato di
esplosivo e giovani militari con molta paura
e poco esperienza, rapportando un dramma
collettivo alla coscienza individuale e mostrando l’impossibilità di sfuggire alle responsabilità, sia che si appartenga al fronte di guer-
Tutti i film della stagione
ra, sia che si assista al conflitto dalle retrovie. Dentro e fuori dal corazzato, a pagare il
prezzo della costante aggressione nei confronti del mondo sono i civili dei Paesi aggrediti e i suoi stessi soldati, prima educati ai
principi della democrazia e poi mandati a
combattere sul piano e sul “campo” dell’ingiustizia. Samuel Maoz sceglie un punto di
vista inedito e “intestino” pur restando ancorato alle forme del genere, war movie e impegno civile, giocando sulla recitazione di
attori formidabili, sui loro volti e sui loro
corpi, veicoli di emozioni e di un deragliamento emotivo progressivo. Quattro uomini
in guerra in Libano e quattro donne in campo
nella Tehran degli anni Cinquanta, dove provano a sopravvivere come possono ai loro
destini tragici e determinati (da padri e fratelli). Trasposizione (sur)realista e magica del
romanzo omonimo di Shahrnush Parsipur,
Donne senza uomini segna il debutto alla regia di Shirin Neshat, intensa e sensibile artista iraniana che ha scelto di vivere e lavorare
in America. Il film presenta una costruzione
circolare per cui tutto torna inevitabilmente
allo stesso punto e nulla si modifica davvero. Il cerchio è creato dai vari segmenti narrativi: quattro donne, quattro storie di isolamento e di esclusione che si intrecciano attraverso gli spostamenti delle protagoniste,
agitate tanto e inutilmente per ritornare nel
buio da dove venivano. Munis, Faezeh,
Fakhiri e Zarin si muovono in un cerchio limitato dagli uomini e la lunghezza del loro
raggio d’azione è determinata dalla cultura
iraniana. Soffocate in una struttura chiusa,
perfetta e senza vita dalla crudeltà dello sguardo maschile, le donne senza uomini di Shirin
Neshat sono private di ogni diritto e non hanno diritto alla felicità. Niente speranza e niente abbandono, è impossibile lasciarsi andare
per chi è costretto a essere sempre vigile, prudente e misurato. Donne senza uomini è spasmodico nella ricerca formale che vorrebbe
illustrare l’oppressione, renderla intollerabile, rimbalzarci contro e rialzarsi. Perdonati e
perdonabili alcuni momenti di autocompiacimento, l’opera prima della Neshat apre e
chiude lo sguardo su un mondo cristallizzato
dove l’uomo occupa fisicamente e politicamente ogni spazio e dove le donne hanno solo
gli sguardi per narrare le loro (non) vite.
Debutti e cinema d’autore convivono in perfetto equilibrio sulla laguna veneziana. Quello
che resta sul fondo è il cinema italiano, “doppie ore” e “grandi sogni” da dimenticare, eccetto Lo spazio bianco di Francesca Comencini, abitato da una single woman, la mamma “in attesa” di Margherita Buy. Trasposizione viva e necessaria del romanzo omonimo di Valeria Parrella, Lo spazio bianco è il
luogo fisico e la condizione emotiva in cui è
costretta la protagonista, mamma di una bimba nata prematuramente da una relazione occasionale. Francesca Comencini, madre e
autrice, si muove sensibile sul limitare della
45
soglia che separa la vita e la morte, sapendo,
come la sua puerpera, che è già (e non ancora) troppo tardi per quella creatura obbligata
all’incubatrice e costretta alla lotta (per la
vita). Fuori dallo spazio bianco la vita scorre
e corre Napoli e l’inarrestabile continuità del
reale. Dentro il reparto prematuri, Maria “accompagna” la sua bambina “incompiuta” fino
alla fine della gravidanza, patendo la distanza a cui è sottoposta e il distacco che la allontana dalla realtà. . Una riflessione intelligente su cosa comporti oggi il vissuto della
maternità, una possibile via per raccontare la
consapevolezza e la complessità del materno
ma soprattutto la ricaduta sociale della gravidanza sulle donne. Trascurabile pure la Sicilia di Tornatore che debuttò nel suo ideale
(e blasonato) Nuovo cinema Paradiso, si incarnò nell’uomo delle stelle e nelle curve
morbide (e vagheggiate) di Maléna fino a
infilare la “porta del vento” e un secolo di
storia di e in Baarìa, un film e un paese abitati da un modesto pecoraio che alleva figli,
fantasticando di armi e cavalieri. Dopo la
parentesi sconosciuta, una combinazione di
melodramma, fiaba e mistero, Tornatore
(ri)torna in Sicilia e gira un film epico, ovvero la dimensione congeniale a tutto il suo cinema. Con Baarìà il regista siciliano riprende a fare il cinema evocativo e nostalgico,
pieno di dolly e carrelli, note e personaggi,
corse e voli, didascalismi e certezze impossibili da riempire con la fantasia. Perché Baarìa sfrutta con grande abilità artigianale tutti
i più classici stereotipi del genere. Niente
sorprese, nessuno spaesamento, nessuna fatica, puro piacere di riconoscere il già (leggendario) noto. Dunque imbellire, eufemizzare, monumentalizzare la Sicilia fino a renderla immediatamente inconsistente e intelligibile agli americani e ai ministri della cultura, con la sua trama “bella”, perché epica,
perché romanzesca. Baarìà non legge la realtà sotto la scorza, la rende piuttosto più
morbida e inafferrabile, coperta dalla vernice degli stereotipi e dai temi musicali di Ennio Morricone.
Marzia Gandolfi
FUORI CONCORSO
C’è una significativa presenza del cinema statunitense nelle pellicole presentate fuori concorso al 66° Festival di Venezia. Tre nomi
soprattutto erano di forte richiamo (Joe Dante, Steven Soderbergh, Oliver Stone), un altro (Antoine Fuqua) è conosciuto soprattutto
come regista di film d’azione e l’ultimo
(Grant Heslow), che ha alle spalle una carriera come attore e si è messo in luce come
sceneggiatore di Good Night and Good Luck
di Clooney, è alla sua opera prima. Tra questi, non va dimenticata la trasferta italiana del
newyorkese Abel Ferrara con Napoli Napoli
Film
Napoli. A festival concluso, il film migliore
del gruppo è Brooklyn’s Finest di Fuqua che
vede protagonisti tra agenti del 65° distretto
(Richard Gere, Don Cheadle, Ethan Hawke)
in lotta con i propri demoni. Il regista ritrova
l’intensità dell’ottimo Training Day (2001)
costruendo un poliziesco intenso e serrato
dove la metropoli rappresenta uno sfondo
decisivo come in alcuni imprenscindibili cult
degli anni ’70 come Il braccio violento della
legge (1971) di Friedkin e Serpico (1973).
Non delude affatto le attese Joe Dante con
The Hole, un thriller in 3D, che riesce a creare una potentissima tensione attraverso un
elemento fondamentale, il buco di un seminterrato trovato da due fratelli che si sono trasferiti nella nuova abitazione assieme alla loro
vicina di casa. Dante guarda con nostalgia al
B-movie e questo film richiama l’intensità di
Piraña (1978) con quell’ipnotismo proprio
della visione cinematografica di Matinée
(1993). Attrae, pur nella sua discontinuità,
The Men Who Stare at Goats di Grant Heslov, tratto dal romanzo di Jon Ronson, in cui
un reporter, reduce dal fallimento del suo
matrimonio, si unisce ad una forza speciale
dell’esercito militare (il New Earth Army) e
a un suo enigmatico operatore che utilizza
poteri paranormali per sconfiggere i nemici.
Si tratta di un’operazione folle e scatenata,
alla quale bisogna completamente lasciarsi
andare più con l’istinto che con la testa, piena di momenti riusciti (i due protagonisti con
l’auto riescono a prendere l’unico sasso nel
deserto) e dove in mezzo a un bel cast (George Clooney, Ewan McGregor, Kevin Spacey)
spicca uno straordinario Jeff Bridges. A lasciare perplessi è invece il troppo acclamato
The Informant! di Steven Soderbergh su un
biochimico (Matt Damon) che decide di collaborare con l’FBI e testimoniare contro la
multinazionale per cui lavora. Il regista statunitense, paradossalmente, sembra a più agio
con un cinema narrativo (il dittico di Che,
Erin Brockovich) piuttosto che con questa
compiaciuta sperimentazione finto indipendente di esibita autorialità. Lo stesso Abel
Ferrara, con Napoli Napoli Napoli, malgrado la decisiva collaborazione dell’ex-detenuto
Gaetano Di Vaio, filma una realtà presente
ma distante dal suo sguardo, dove a una corretta parte documentaria s’intrecciano frammenti di fiction molto forzati nei quali si sente
il meccanismo della rappresentazione ma non
scorre il sangue, quello che invece permea i
suoi – quelli si – personalissimi e sofferti noir
statunitensi. Oliver Stone infine, con South
of the Border, realizza un documentario in
cui riflette ancora una volta sulla manipolazione della stampa. Nel gennaio 2009 parte
per il Venezuela per intervistare il presidente
Hugo Chávez e da lì il viaggio prosegue per
parlare con gli altri sei presidenti del continente sudamericano. La tesi è chiara, l’indagine è propria dei film d’inchiesta ma il regista alla fine, per convincere della sua teoria,
Tutti i film della stagione
utilizza visivamente e dialetticamente dei
mezzi simili a quelli del suo principale bersaglio, cioè i mass-media americani.
I film fuori competizione hanno attraversato
altre aree geografiche oltre a quella statunitense. L’Italia è stata presente con L’oro di
Cuba di Giuliano Montaldo, che approfondisce i momenti più importanti della storia
cubana a 50 anni dalla rivoluzione e Le ombre rosse, di Francesco Maselli, compiaciuto
opera politica piena di metafore sul presente
che è l’esempio di un cinema vecchio ormai
di 30 anni e incapace di guardare davvero la
realtà del paese, sbirciato solo attraverso le
finestre dei salotti borghesi dove si ritiene che
lì si produca la vera cultura. Di produzione
italiana anche il documentario Prove per una
tragedia siciliana di Roman Paska e John
Turturro dove l’attore italo-americano torna
nella terra dei nonni materni, la Sicilia appunto, per recuperare le proprie origini. Restano poi più gli effetti visivi e sonori piuttosto che una consapevole riflessione sull’horror in Rec 2 degli spagnoli Jaume Balaguerò
e Paco Plaza, realizzato a due anni del primo
Rec e che riparte proprio da lì, da quel palazzo condominio e popolato da strani episodi.
Altre produzioni sono state infine presenti in
questa sezione come la Cina (Chengdu wo ai
ni di Fruit Chan e Cui Jian), l’India (DEV. D
e Gulaal di Anurag Kashyap, Delhi – 6 di
Rakeysh Omprakash Mehra), l’Egitto (Ehky
ya Shahrazad di Yousry Nasrallah), la Danimarca (Valhalla Rising di Nicolas Winding
Refn) e il Giappone (il cartoon Yonayona
pengin di Rintaro).
Simone Emiliani
GIORNATE DEGLI AUTORI
La sezione collaterale Giornate degli autori,
giunta alla sua sesta edizione, vuole essere la
libera espressione della produzione indipendente, in qualche modo sul modello della
Quinzaine des réalisateurs di Cannes e come
tale è diventata anche e soprattutto terreno di
confronto sui problemi di finanziamento, produzione e distribuzione del cinema italiano.
Quest’anno nei dibattiti aperti si è tenuto vivo
il problema dei tagli al FUS, il diritto d’autore e la pirateria informatica, la salvaguardia
e la conoscenza del patrimonio storico del
cinema italiano (il progetto “Cento film”).
La selezione presentava 14 film lungometraggi narrativi, 4 documentari e 5 corti, oltre ad
alcuni eventi speciali (rivisitazione della copia restaurata de I magliari, uno dei film meno
visti di Francesco Rosi, un omaggio alla spiritosa cartoonist lettone Signe Baumane).
I lungometraggi presentavano un panorama
(soprattutto) europeo senza particolari clamori e originalità linguistiche, ma solidamente
ancorato al tempo e alla società presenti, spesso con sincerità di accenti e sicurezza narra-
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tiva. Un cinema privo di bellurie approntate
per il pubblico labile e un poco snob dei festival, ma per una programmazione in sale
ancora frequentate da spettatori capaci di curiosità e partecipazione civile. Su tutti si imponeva Honeymons del serbo Goran
Paskaljevic, autore dell’indimenticabile La
polveriera (1998), una sorta di anti-Kusturica per la sua posizione antinazionalista ed
europeista. Due giovani coppie, una albanese, l’altra serba, si lasciano alle spalle un retaggio di odi etnici che si manifestano ancora in cerimonie nuziali in cui i padri covano
violenza e desideri di vendetta. Tentano di
emigrare in altri Paesi europei, l’una verso
l’Ungheria, l’altra verso l’Italia, ma incontreranno alle frontiere ottusità burocratiche,
razzismo sotterraneo e manifesto, pregiudizi
culturali. Paskaljevic ci immerge in un’atmosfera kafkiana disperante, in una terra di nessuno fatta di squallide stazioni ferroviarie e
di fatiscenti centri di “accoglienza” ove la
nostra fiducia nell’integrazione fra i popoli
europei viene messa a dura prova.
Cella 211 dello spagnolo Daniel Monzon è
un solido e angoscioso film carcerario che
riscrive molte regole del genere. Un giovane
poliziotto nei suoi primi giorni di servizio si
trova, per un incidente, fra i detenuti in rivolta in una prigione di massima sicurezza in
cui dettano legge uomini dell’ETA e ergastolani pluriomicidi. La coinvolgente successione degli avvenimenti sconvolge giudizi morali e ruoli sociali dei personaggi. Il film diventa progressivamente una riflessione sul
potere e sul significato politico della struttura penitenziaria.
Anche L’orda dei giovani francesi Yannick
Dahan e Benjamin Rocher, dietro le apparenze dell’horror-film, costituisce un efficace
invito a riflettere sul rapporto problematico
fra le “forze dell’ordine” (qui costituito da
un gruppo di poliziotti corrotti) e una banda
di pericolosi delinquenti. Il conflitto non nasce dalla volontà di affermare la giustizia, ma
di vendicare un collega assassinato. Lo scenario viene sconvolto e problematizzato da
masse di morti-viventi che si scatenano contro poliziotti e delinquenti, che sono costretti
a fare fronte comune, in un equilibrio problematico che irride ogni regole di civile convivenza. Il film è caratterizzato dalla messa
in scena di un cupo eccesso di effettacci grandguignoleschi, corrispettivo formale di una
posizione “politicamente scorretta”.
Più prevedibile, ma comunque utile e lodevole, la denuncia della terribile pratica dell’infubulazione attuata ai danni di milioni di
donne musulmane, proposta da Desert
Flower dell’americana di origine tedesca
Sherry Horman. Si tratta della “storia vera”
della modella somala
Waris Dirie, fuggita dal suo paese per non
subire un matrimonio imposto dalla famiglia.
Dopo penose peripezie la donna, divenuta
famosa nella swinging London, si trova in-
Film
trappolata nel suo nuovo ruolo di donna-immagine, corpo comunque da “vendere”, sia
pure simbolicamente. Il suo riscatto avviene
solo quando decide di farsi portavoce della
voce di dolore delle sue invisibili compagne
di sventura. Cinema “buonista” fatto per anime belle, si dirà, eppure dotato di autentica
forza civile e capace di coinvolgerci nella irrisolvibile “doppiezza” della protagonista.
La selezione proponeva un gruppo di film
dedicati al rapporto problematico fra genitori e figli. Il più pregnante mi è apparso Je
suis heureux que ma mère soit vivante di
Claude e Nathan Miller, amaro ritratto di un
ventenne adottato, alla disperata ricerca della vera madre. Ricerca terapeutica perché il
disagio psichico si risolve solo quando la ritrova, scopre con orrore che la donna non ha
alcuno spessore umano e tenta di ucciderla.
Nel teso e angosciante Apan (L’ape) dello
svedese Jesper Gamslandt è il padre, un istruttore di scuola guida, a tentare inutilmente di
elaborare il lutto per la morte del figlio, che
lui stesso ha procurato accidentalmente. Difficile impresa, una scommessa vinta, appare
Francia dell’argentino Adrian Caetano, ove
una bambina handicappata psichica osserva
con dolore e acutezza di sguardo i genitori
separati in casa.
Documentari e corti testimoniavano l’esistenza di territori inesplorati in cui il cinema-industria raramente si addentra e che pervicacemente invece autori di ricerca si ostinano a
percorrere, anche solo per ottenere una programmazione alternativa o un passaggio televisivo in terza serata su canali tematici. E’
il caso di L’amore e basta di Stefano Consiglio, un efficace montaggio di interviste a
coppie gay che descrivono i problemi di convivenza quotidiana, i rapporti psicologici,
insomma la “normalità” della condizione di
vita omosessuale piuttosto che la solita ricerca
di pruderies o la denuncia delle immancabili
violenze e censure di una società perbenista.
Flavio Vergerio
SETTIMANA DELLA CRITICA
Anche quest’anno la Settimana della Critica
ha presentato un nutrito programma di opere
di cineasti emergenti, riconfermando l’attenzione verso l’espressione autoriale, non commerciale.
Per la ventiquattresima edizione, il premio è
stato assegnato al film iraniano Tehroun
(Tehran, Francia 2009) di Nader T. Homayoun, il cui impianto narrativo poggia su
un linguaggio asciutto, essenziale, quasi una
sorta di pedinamento zavattiniano. Un uomo
vaga per le strade della capitale con un bimbo in braccio, “preso in affitto”, e chiede l’elemosina. Ai passanti, per impietosirli, racconta
di aver perso la moglie e di chiedere un aiuto
per poter sfamare il figlio.
Tutti i film della stagione
Ma un giorno, il piccolo viene rapito da una
donna e per il protagonista ha inizio un viaggio negli inferi, in quella città tentacolare
che è Teheran, chiamata, in dialetto,
Tehroun. Nato e formatosi in Francia, Homayoun fa ritorno in Iran per girare un’opera dura ma convincente, che restituisce
un’immagine ben lontana dal lirismo di certi
capolavori iraniani, pensiamo a Bashu di
Bahram Beizai o ancora a Il corridore di
Amir Naderi. Pellicole dove l’infanzia costituiva il nucleo narrativo, dove era presente
una speranza, una visione positiva. In
Tehroun, invece, l’infanzia è negata, anzi,
sfruttata e il ritratto che ne esce è quello di
una società che non fa distinzioni di età. Un
universo privo di colore, buio, sotterraneo,
che si muove tra prostituzione, traffico di
bambini e strozzinaggio.
Dallo sguardo severo sulle contraddizioni
dell’Iran contemporaneo, al lirismo della pellicola coreana sui moti del cuore. Con Cafè
Noir (Corea, 2007, 197’) il critico Jung Sungli esordisce nella regia, con un’opera di centonovantasette minuti, densa di richiami e di
citazioni letterarie. Si tratta di una singolare
e riuscita trasposizione di due capolavori della
letturatura mondiale, I dolori del giovane
Werther di Goethe e Le notti bianche di Dostoevskij.
La pellicola è divisa in due parti: nella prima, il protagonista è un professore che vaga
per le strade di Seul, nel tentativo disperato
di riconquistare il cuore della sua amata, una
donna sposata e giovane madre. A sua volta
l’uomo è amato da una collega di scuola, di
cui ignora le attenzioni. Nella seconda parte
il protagonista incontra, del tutto casualmente, una ragazza, la quale gli racconta le sue
disavventure amorose, non prima di essersi
fatta promettere che l’uomo non si innamori
di lei, ma che, al contrario, prometta amore
fraterno.
Una struttura narrativa inconsueta, che nel
trarre linfa vitale dai due romanzi non dimentica, sul piano linguistico, citazioni cinematografiche, prime fra tutte le pellicole del “collega”, Park Chan-Wook. Se alcune scene suscitano, quasi involontariamente, ilarità amara, non è da meno, la “commedia” diretta
dallo svedese Jörgen Bergmark, che sin dal
titolo evoca un ossimoro, il tentativo di costituire un manuale di istruzioni per l’uso,
quando è fin troppo evidente che si tratti di
una situazione contraddittoria che non ha risoluzione, gestire razionalmente i sentimenti.
Firmata da Jörgen Bergmark, co-sceneggiatore di Kitchen Stories del norvegese Bent
Hamer, Una soluzione razionale (Det enda
rationella, Germania/Svezia, 2009, 104’) è
un insolito esperimento che ha per protagonisti due coppie.
Erland lavora nella cartiera di una cittadina
industriale insieme al suo miglior amico,
Sven-Erik. Nel tempo libero dirige, con sua
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moglie May, una scuola matrimoniale, che
consiste in un gruppo di discussione serale
presso la locale Chiesa Pentecostale. Ad una
festa Erland conosce Karin, la donna che
Sven-Erik ha appena sposato, e ne è subito
attratto. Tra i due nasce una relazione ed Erland elabora una soluzione razionale per risolvere la questione. Tutti e quattro devono
sedersi attorno ad un tavolo, per esaminare
con calma la situazione. Ma se a parole una
risoluzione al problema sembra fattibile,
l’esperimento, messo in pratica, li metterà a
dura prova. Un film svedese, di bergmaniana
memoria, girato in stile Dogma, che ha il suo
punto di forza nell’interpretazione eccellente dei suoi attori.
Allieva del Famu, la celebre scuola di cinema praghese, dove si sono diplomati alcuni
tra i più famosi autori del Nova Vlna, il nuovo cinema cecoslovacco degli anni Sessanta,
Mira Fornay esordisce con Volpi (Lištièky,
Repubblica Ceca, Slovacchia, Irlanda, 2009,
83’). Alzbeta e Martina sono due sorelle slovacche emigrate a Dublino. Martina cerca di
aiutare la sorella minore a trovare una sistemazione nella capitale irlandese nella speranza che, come lei, riesca ad integrarsi. Al contrario, Alzbeta, sembra incapace di trovare
un equilibrio, una stabilità, insofferente verso la sorella e verso tutti i propri conterranei.
Un amore/odio che lega in maniera indissolubile le due giovani donne in un gioco al
massacro, dove riaffiorano ombre di un passato doloroso fin troppo a lungo taciuto e rimosso. La mdp si muove in uno spazio urbano notturno, poco ospitale e infestato da animali selvatici che attaccano bidoni della spazzatura alla ricerca disperata di cibo; sono le
volpi del titolo del film, che restituiscono
egregiamente la sensazione di precarietà, di
rifiuto e di solitidune di cui è pervasa la pellicola.
Luisa Ceretto
ORIZZONTI
La sezione Orizzonti dovrebbe, per suo stesso statuto, proporre esempi di ricerca e di
sperimentazione, dovrebbe insomma rappresentare lo spazio più “sperimentale” della
mostra veneziana. Nell’anno in cui forse sono
mancate grandi illuminazioni, alcuni dei film
migliori dell’intero festival si sono visti proprio in Orizzonti.
A cominciare dalle conferme di grandi nomi
come Wiseman, Sokurov, Greenaway. Del
primo abbiamo visto La Danse. Le Ballet de
L’Opèra de Paris, lungometraggio documentario che osserva e ricompone il lavoro nascosto dietro la rinomata tradizione di spettacoli e performance di una delle più prestigiose compagnie e scuole di ballo al mondo.
Senza il consueto gusto per lo svelamento
degli scricchiolanti ingranaggi dell’Istituzio-
Film
ne, Wiseman si mette a osservare ballerini e
dirigenti, insegnanti e matricole alternando
alle scene di lavoro quotidiano stralci dagli
spettacoli messi in scena dalla compagnia. Di
Aleksadr Sokurov invece Venezia ha mostrato
Citaem blokadnuju knigu - Reading Book of
Blockade, un film prodotto e realizzato in
occasione della messa in onda di un reading
organizzato per la radio nazionale in coincidenza con l’anniversario dell’assedio di San
Pietroburgo, episodio tra i più traumatici nella
storia della Russia Sovietica. Nonostante
l’impianto sia ridotto al minimo – e forse proprio in grazia di questa scelta – le parole tratte dall’omonimo testo di Granin e Adamovich che, nella metà degli anni Sessanta raccolsero e riscrissero i diari dei superstiti, si
animano e dispiegano la loro dirompente carica narrativa. The Marriage segna una tappa ulteriore nel viaggio di studio, scoperta e
divulgazione che Greenaway ha intrapreso da
qualche anno ormai, proponendosi di ri-visitare nove dipinti tra i più celebri e rappresentativi dell’iconografia pittorica occidentale e
che dovrebbe avere termine tra non molto con
la video performance dedicata alla Cappella
Sistina, in San Pietro, a Roma. Come nella
vecchia lanterna magica, Greenaway accompagna la proiezione in presenza, alternando
la propria spiegazione narrativa proferita dal
palco accanto alla schermo, a brevi brani video nei quali Le nozze di Cana del Veronese
viene attraversato e percorso da fasci di luci
Tutti i film della stagione
vistosamente artificiale, bagliori, tagli luminosi dal forte sapore atmosferico. Nessuno
dei tre film sarà ricordato negli annali. E se
in nessuno sembra esserci l’affondo del discorso di uno dei tre grandi autori, d’altra
parte tutti e tre sono discreti esempi, dimostrazioni pratiche, testimonianze di laboratorio di come tre autori grandi per merito e per
anagrafe vogliano e sappiano confrontarsi con
le sempre più vaste possibilità offerte dal cinema digitale: per Wiseman la possibilità di
girare di più e più comodamente, per Sokurov forse quella di inseguire ancora una volta le misure e l’indentità del cinema anche
quando sembra essere un’altra cosa; per Greenaway la potenza creativa, l’opportunità di
dare piena concretezza alle sue geniali e onanistiche immaginazioni vagamente eretiche.
Altri film hanno punteggiato il programma
della sezione; film piccoli ma pieni di cose
preziose. Come Paradiso, esordio nel lungometraggio di finzione per il documentarista,
direttore della fotografia e sceneggiatore
Hector Galvez. Una ben misurata mescola di
commedia e di dramma, di gag e azioni violente, tra la disperata speranza dei ragazzi e
la rigida rassegnazione degli adulti che vivono a pochi chilometri da Lima, sbattuti in una
baraccopoli in mezzo alla polverosa e desolata Val Paraiso. Per avere una prova ulteriore che dalla lezione del documentario possono venire grandi ottenimenti anche per il cinema di messa in scena è sufficiente scoprire
la perfetta gestione che Galvez riesce a mantenere nella regolazione della distanza tra
m.d.p. e personaggio, sempre trovando la giusta soluzione, sempre stabilendo la giusta relazione tra obiettivo o profilmico. E di buon
cinema documentario se ne è visto parecchio.
Pensiamo soprattutto al giovane tedesco Romuald Karmakar che in Orizzonti ha portato
il suo inusitato lungometraggio su uno dei più
apprezzati e discussi dj del mondo, Ricardo
Villalobos. Quello che inizialmente sembra
limitarsi a essere ritratto un po’ noioso d’un
solido professionista della musica diventa
lentamente un vitalistico affresco sulla sessualità, la tecnologia, l’arte e l’industria, sul
gusto di un’epoca e di una società. Villalobos armeggia nel suo studio, circondato da
macchinari bizzarri e misteriosi, tra pile di
dischi e buffe casse acustiche; poi Karmakar
lo segue in discoteca, durante alcune delle
sue performance live. Dai racconti su un sintetizzatore analogico e modulare a quelli sulle origini africane del rito della danza a base
binaria e comunitaria, dai fili sottili tesi a legare insieme arte, gioco, produzione e performance seriale agli esperimenti d’ibridazioni sonore il film trascorre impercettibilmente dal cine-ritratto al film saggio, riuscendo a
compiere la parabola del proprio discorso
anche grazie a un acuto uso dell’understatement cinematografico.
Silvio Grasselli
IL RAGAZZO SELVAGGIO è l’unica rivista in Italia che si occupa di
educazione all’immagine e agli strumenti audiovisivi nella scuola. Il suo
spazio d’intervento copre ogni esperienza e ogni realtà che va dalla scuola
materna alla scuola media superiore. È un sussidio validissimo per insegnanti e alunni interessati all’uso pedagogico degli strumenti della comunicazione di massa: cinema, fotografia, televisione, computer. In ogni
numero saggi, esperienze didattiche, schede analitiche dei film particolarmente significativi per i diversi gradi di istruzione, recensioni librarie
e corrispondenze dell’estero.
Il costo dell’abbonamento annuale è di euro 25,00 - periodicità bimestrale.
SCRI
VERE
di Cinema
direttore Carlo Tagliabue
SCRIVERE DI CINEMA
Ogni anno nel nostro paese escono più libri riguardanti il cinema che
film. È un dato curioso che rivela l’esistenza di un mercato potenziale di
lettori particolarmente interessati alla cultura cinematografica.
ScriverediCinema, rivista trimestrale di informazione sull’editoria cinematografica, offre la possibilità di essere informati e aggiornati in
questo importante settore, segnalando in maniera esaustiva tutti i libri di
argomento cinematografico che escono nel corso dell’anno.
La rivista viene inviata gratuitamente a chiunque ne faccia richiesta al
Centro Studi Cinematografici, Via Gregorio VII, 6 - 00165 Roma Telefono e Fax: 06.6382605. e-mail: [email protected]
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