La corsa di disputerà nuovamente a Long Island, su quella striscia
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La corsa di disputerà nuovamente a Long Island, su quella striscia
THE MAGNIFICENT VANDERBILTS La Coppa Vanderbilt del 1906 Se ci si toglie la vita per l’esito di un evento sportivo mondiale, i casi sono due: o la propria vita è così senza speranza che la vittoria della propria nazione ad un cimento sportivo diventa un irripetibile strumento di rivalsa, perso il quale nulla può più essere sopportato, o l’evento in questione è stato caricato di un significato che travalica ogni ragionevolezza, si identifica con lo spirito di patria, l’onore, l’orgoglio nazionale, e dunque l’onta della sconfitta diventa per alcuni insopportabile (il lato bello della medaglia è che in caso di vittoria ci si può lasciare andare ad una gioia irrefrenabile, senza tema di essere considerati imbecilli o infantili, e noi italiani quest’anno lo sappiamo bene…). Quello che successe all’indomani della Vanderbilt Cup del 1906 fa parte probabilmente del secondo caso. Le cronache raccontano che ci furono due suicidi: quello di un certo Guglielmo Hesse, membro di un noto club sportivo di New York, che dopo aver condotto la madre e la sorella in automobile alla corsa, rientrò in casa e si suicidò per la vergogna di “aver visto l’America perdere la Coppa”. E quello del miliardario Shirk, che si tirò un colpo di pistola alla tempia per lo stesso motivo. Casi isolati, fuori dalla norma? Neanche troppo. L’America, o meglio gli Stati Uniti, di quegli anni erano divorati dalla febbre automobilistica, come pochi decenni prima erano stati contagiati dalla febbre dell’oro. Se la pièce teatrale “The Vanderbilt Cup”* rimase in scena per oltre otto settimane consecutive, mostrando nient’altro che due vetture dietro cui immagini in movimento proiettate su un telo evocavano una velocità vertiginosa (il solito vecchio trucco cinematografico di tutti i film hollywoodiani dagli anni trenta agli anni cinquanta), significa che l’automobile stava assumendo negli ambienti alto-borghesi americani, e a cascata in ogni ceto, per il consueto meccanismo di imitazione delle classi alte da parte della classi più disagiate, un ruolo assolutamente centrale. Tutti seguivano le corse automobilistiche; tutti conoscevano nomi come quello di Emanuele Cedrino, giovane pilota emigrato a New York dalla lontana Torino, che si copriva di gloria nelle prime gare affrontate dalla Fiat; o quello di Lancia, corpulento ed irruente, altro grande pilota Fiat che si impose in più di una competizione americana; tutti discettavano di marche, cilindrate, potenze; e soprattutto tutti speravano di poter presto dimostrare alla vecchia Europa di saper costruire vetture belle veloci ed affidabili quanto quelle del continente. D’altronde nel 1906 in America si contavano circa 100 costruttori di automobili, per un capitale sociale complessivo di oltre 21 milioni di dollari. Nella sola città di New York circolavano quell’anno 14.000 automobili, 23.600 in tutto lo stato, nel resto degli Stati Uniti 67.000, per un totale di 90.000 autovetture, che avevano a disposizione 3.000 miglia (4.800 km) di strade. Nei primi tre mesi del 1906 a New York furono vendute 2.000 automobili, pari all’intera produzione italiana dell’anno precedente. Una situazione dunque in frenetica, continua crescita. E’ di pochi anni dopo (1914) l’indimenticabile affresco della società americana in velocissima 1 evoluzione contenuto nel romanzo “The Magnificent Ambersons”, di Booth Tarkington, e incentrato sulla figura di Morgan, un imprenditore automobilistico. Inizialmente era stata una questione per miliardari. E quando si dice miliardari, si intende proprio una ricchezza neanche quantificabile, sfrenata, quasi oltraggiosa: quella dei Vanderbilt, padroni dello yacht più grande del mondo, 285 piedi, di almeno sette “family mansions” (proprietà di famiglia) a New York, tra cui la Marble House di Rhode Island, così chiamata perché rivestita dalle cantine alle soffitte di marmi preziosi, la residenza estiva “Idle Hour” (“ore oziose”) a Long Island, quattro piani e 110 stanze, ciascuna arredata sontuosamente, con scaloni monumentali in pietra di Caen, fumoirs rivestiti di noce della Circassia, saloni da biliardo moreschi, bagni con rubinetteria in oro massiccio, parati di Gobelin, boiseries Luigi XVI, impressionanti collezioni di quadri e oggetti preziosi. Detentori di una fortuna immensa, i Vanderbilt davano il là alla società altolocata nella quale si muovevano: il ballo in maschera dato dalla signora Alva Vanderbilt a metà del 1880 costò 250.000 dollari e fu paragonato per magnificenza alle opulente feste che Alessandro il Grande organizzava a Babilonia. Fu un costo pur sempre inferiore a quello pagato per il matrimonio della figlia Consuelo con il Duca di Marlborough, uno dei più bei nomi dell’aristocrazia britannica: la famiglia spese nel 1895 due milioni e mezzo di dollari, più una rendita vitalizia di 100.000 dollari all’anno per il duca, ma intanto ci si era accaparrati un bel titolo nobiliare. In questo gaio mondo dell’alta società, di palazzi in Fifth Avenue, di servitori in livrea, di occupazioni divertenti ed oziose, qualche soddisfazione la diede anche il figlio maggiore di Alva Astor Vanderbilt, Harold Sterling, laureato ad Harvard, vincitore di quattro America’s Cup. Ma fu il secondo figlio, William Kissam, a diventare per l’automobile americana quello che De Dion e James Gordon Bennett erano stati per l’automobile in Europa. All’inizio la sua passione smodata per le automobili, che si manifestò sin dal 1888, cioè da quando l’amico di famiglia Conte De Dion se lo portò a spasso sul suo trabiccolo a vapore, ebbe due obiettivi: diventare l’americano più veloce al mondo e ridicolizzare l’analoga passione di suo cugino Alfred Vanderbilt. Il primo obiettivo gli riuscì già nel 1902. Nel batti e ribatti che caratterizzò quegli anni di ricerca spasmodica del record di velocità tra automobili a benzina e automobili a vapore, e che vide come maggiori contendenti Camille Jenatzy, Charles Rolls, Henri Fournier, Léon Serpollet (vedi Auto d’Epoca del febbraio 2002), si inserì William K., con tutta la potenza dei suoi dollari e profondamente convinto della superiorità del motore a scoppio (forse ancora si ricordava le traversie della gita con De Dion…!). Nel maggio di quell’anno egli decise di sfidare l’amico barone Henry de Rothschild in una gara inizialmente prevista di dieci chilometri, per stabilire chi dei due sapesse guidare meglio l’identica vettura, una Mercedes Simplex 40 HP. Quel giorno però pioveva, le strade erano pessime e Vanderbilt finì per condurre la gara contro se stesso soltanto, ad Ablis (Chartres), nel chilometro lanciato, conseguendo una media di 111 chilometri all’ora. Era il miglior risultato raggiunto da un’automobile a benzina, anche se ancora inferiore a quello conseguito dal francese Serpollet su un’auto a vapore. Un altro barone, il belga De Caters su una vettura Mors, un mese dopo, 2 pareggiò la situazione: corse il chilometro nel tratto del canale tra Bruges e Nieuwpoort, eguagliando esattamente la velocità del Serpollet (120 km/h). I sostenitori dell’una e dell’altra soluzione, motore a vapore e motore a scoppio, non ebbero però il tempo di abituarsi alla parità. Ad agosto Vanderbilt si procurò venti cavalli in più (ossia una Mors da 60 HP) e raggiunse, sempre ad Ablis, la velocità di 76,08 mph, ossia 121,728 km/h. Doppio primato: il primo americano a diventare l’uomo più veloce sulla terra. Suo cugino Alfred, erede a sua volta di una fortuna stimata tra 70 e 100 milioni di dollari, rimaneva invece una spina nel fianco. Nel 1904 si era comprato una Mercedes da 12.000 dollari e, diversamente da William K., non la guidava egli stesso ma l’aveva affidata al pilota Paolo Sartori (lo stesso che nel 1908 compì il raid ParigiNew York su una Zust), che conseguì alcuni record su distanze varie, da sedici a venti miglia, finché il motore si fuse irreparabilmente. Ma si poteva continuare così, a stabilire record che duravano sì e no una settimana? Bisognava pensare in grande, e portare l’America allo stesso livello di sviluppo automobilistico di altre nazioni europee, si disse William K. Pensare in grande è una tendenza che hanno in molti ma se ci si chiama Vanderbilt è tutto più facile. Gli venne l’idea (vedi Auto d’Epoca del dicembre 1996) di creare una Coppa legata al suo nome, dotandola di un trofeo ovviamente disegnato dalla celeberrima gioielleria Tiffany e facendo in modo di renderla desiderabile per vetture e piloti stranieri. Si sarebbe trattato del primo evento sportivo internazionale mai organizzato nel paese. La segreta, e neanche tanto, aspirazione di William K. era che la Coppa Vanderbilt venisse prima o poi vinta da una marca e un pilota americano, in modo da pubblicizzare la costruzione automobilistica statunitense in tutto il mondo, e conferirle dignità analoga a quella europea. Per questo impose un regolamento simile a quello della Coppa Gordon Bennett: ossia la partecipazione per nazioni, e non per marche singole. Il carattere nazionalistico ne venne grandemente accentuato, con grande disdoro dei francesi che si stavano faticosamente liberando in patria della Coppa Gordon Bennett e che se la ritrovavano pari pari in America. L’attesa di un vincitore americano crebbe di edizione in edizione e quando si arrivò alla terza, nel 1906, era enorme. Ed ecco rispuntare il cugino Alfred il quale decise di inserirsi nella tenzone e a tal scopo si fece costruire quella che doveva essere l’automobile più veloce del mondo. Si affidò ad un certo ingegner François Richard che cominciò a lavorare al progetto di una otto cilindri da 250 HP. Lavorando giorno e notte, si arrivò alla data in cui si sarebbe svolto il Meeting della Florida, a gennaio 1906, ottimo banco di prova per la Vanderbilt Cup che invece si sarebbe svolta ad ottobre. Fu addirittura noleggiato un treno speciale per condurre il mostro a Daytona, dove Paolo Sartori attendeva fremente. Tutto inutile. Le due giornate del meeting trascorsero tra emozioni continue, con la vittoria di Stanley su vettura a vapore nella corsa internazionale del miglio, di Lancia su Fiat nel record del miglio, e nuovamente di Lancia su Fiat per il record delle cinque miglia. Successe un po’ di tutto, in quelle due giornate di gare: anche che un concorrente, il francese Heméry, non si avvedesse del segnale di “falsa partenza”, e giungesse indisturbato al traguardo, da solo (tutti gli altri si erano fermati), pretendendo anche che la sua vittoria “in solitaria” fosse omologata. Cosa 3 che non fu concessa: ne seguì una rissa che contraddisse l’olimpico spirito sportivo, tanto che Hemery fu squalificato, la sua macchina consegnata alla polizia, e la partenza ripetuta. Ma della vettura di Vanderbilt, che avrebbe dovuto raggiungere senza fatica i 283 km/h, contro i 180 km/h degli altri concorrenti, compresi i vincitori, nessuna traccia. Rimase renitente a qualunque tentativo di metterla in moto, e dovette essere tristemente caricata sullo stesso treno speciale per essere ricondotta a New York, dove finì dimenticata in un garage. Chi invece non si dimenticò facilmente del tentativo fallito fu Alfred, costretto comunque a pagare le spese dell’avventura, centomila lire. Ma che fu spiazzato da un’ulteriore richiesta di 25.000 lire avanzata dall’ingegner Richard per il lavoro svolto in quei tre mesi. Vanderbilt rifiutò. Fece fare una perizia sulla vettura, che risultò soffrire di difetti fondamentali di costruzione. Con una decisione poco comprensibile, però, il giudice della Corte Suprema, tal Girard, condannò Vanderbilt a pagare comunque. Ciò raffreddò alquanto l’entusiasmo di Alfred per le automobili, che si dedicò da allora in poi al National Horse Show di Madison Square Garden. Per la cronaca, morì da eroe nell’affondamento del Lusitania, maggio 1915. A parte questo tentativo sfortunato, i preparativi delle case automobilistiche americane per la Coppa Vanderbilt proseguirono tutto l’anno sempre più serrati. Già ad aprile si erano dichiarate pronte a partecipare la Pope-Toledo (Pope Motor Car Company, Toledo, Ohio, 1904-1909**), la Maxwell (Maxwell-Briscoe Motor Company, Tarrytown, New York, 1904-1912), la Thomas (Erwin Ross Thomas Motor Company, Buffalo, New York, 1902-1919), la Franklin (Herbert H. Franklin Manufacturing Company, Syracuse, New York, 1902-1917, costruttrice delle prime auto americane raffreddate ad aria), la Royal (Royal Automobile Company, Chicago, Illinois, automobili elettriche, 1904-1906), la Matheson (Matheson Motor Car Company, Wilkes-Barre, Pennsylvania, 1906-1910), la Ford (Ford Motor Company, Detroit, Michigan, dal 1903), la Haynes (Haynes Automobile Company, Kokomo, Indiana, 1905-1925), la White (The White Company, Cleveland, Ohio, 1906-1918, veicoli a vapore). Non mancavano i fratelli Stanley (Stanley Motor Carriage Company, Newton, Massachussetts, 1902-1924), assertori convinti della superiorità del vapore sui motori a benzina. Nell’estate iniziarono i rilievi sul percorso Tracy sulla sua Locomobile (Locomobile Company of America, Bridgeport, Connecticut, 1900-1929), J. Walter Christie, sulla vettura a trazione anteriore che portava il suo nome (dal 1905 al 1907 la sua società si chiamò Direct Action Motor Car Company, New York, N.Y.), e Robertson su Apperson, degli Apperson Brothers, con sede a Kokomo, in Indiana, attiva dal 1902 al 1924. La corsa si sarebbe disputata nuovamente a Long Island, su una striscia di terra lunga quasi duecento chilometri che si protende nel mare, cominciando da Brooklyn, il quartiere dove già si addensavano in prevalenza gli immigrati italiani. Il circuito adottato per quell’anno era l’antico circuito allungato e modificato, che non a caso utilizzava parte del Long Island Motor Parkway costruito da Vanderbilt. Dell’antico percorso si mantenne solo la parte che andava da Greenvale a East Norwich, Jericho e Mineola, abbandonando l’altra metà per passare da Manhasset, Hill, Lakeville e Searington, di modo che mentre l’antico circuito era di 28 miglia 4 l’attuale era di 38 (km 48). La corsa si sarebbe svolta su dieci giri, cioè circa 500 km., con 64 curve e 8 tornanti ad angolo retto. La svoltata di Jericho restava come negli anni precedenti uno dei punti più difficili ma il tornante più pericoloso era senza dubbio quello del Bull’s Head Corner a causa della sua strettezza e della quantità di chalets, pali telegrafici e grandi alberi che vi si trovavano. Alcuni concorrenti calcolarono che in quel punto non si sarebbe potuta superare la velocità di 16 km/h. In compenso però era stata eliminata la terribile strada di Albertson ove l’anno prima l’americano Foxhall Keene fece una fantastica caduta ed ove Lancia e Christie vennero a collisione togliendo così all’Italia e alla Fiat una vittoria già quasi in mano. Partenza prevista a Mineola ad East Williston dove la strada larga ed eccellente si prestava a meraviglia allo scopo. Intanto l’Europa non restava a guardare. Qualche settimana prima della gara partì per l’America la squadra dell’Itala con Cagno e Fabry, insieme ai meccanici Moriondo, Piacenza e Vaccarino; qualche giorno dopo li seguirono Lancia, Nazzaro e “il dottor Weillschott”, come era sempre citato sulla stampa, insieme ai meccanici Ayassa, Colombo e Pagnoni, per la Fiat. Quando si giunse al momento di affrontare le eliminatorie americane, in calendario quindici giorni prima della Coppa, ossia il 22 settembre, la folta schiera di costruttori statunitensi si assottigliò. Risultarono iscritte, delle marche descritte in precedenza, tre Thomas, una Pope-Toledo, una Locomobile, una Maxwell, una Apperson, una Christie, una Haynes, una Matheson. Ed inaspettatamente si fecero avanti anche anche tre new entries: ossia una Olds (Olds Motor Works, Detroit, Michigan, 18991907); una B.L.M. (Breese, Laurence & Moulton Motor Car & Equipment Company, Brooklyn, New York, 1906-1907) e tre Frayer Miller (Oscar Lear Automobile Company, Columbus, Ohio, 1904-1907). Di queste quindici vetture ne arrivarono al traguardo soltanto tre, dopodiché la folla invase la pista e la gara venne sospesa. I tre arrivati erano la Locomobile guidata da Joe Tracy, britannico naturalizzato americano, una delle Thomas, guidata dal francese Le Blon, la Haynes guidata da Harding, ex pilota della Daimler inglese. Successivamente si decise di considerare qualificati (perché in testa al momento dell’invasione della pista) la Pope-Toledo con al volante Lyttle***, e Walter Christie a bordo della sua Christie. A questi si aggiunsero quindi i concorrenti europei. Per la Francia una Bayard Clément guidata da Clément, una Hotchkiss, pilota Shepard, una Panhard Levassor, pilota Heath, una Lorraine Dietrich guidata da Duray, una Darracq guidata da Wagner. Per la Germania concorrevano due Mercedes, con al volante Jenatzy e Luttgen; per l’Italia le tre Fiat di Lancia, Nazzaro e Weillschott e le due Itala di Cagno e Fabry. Il giorno della gara, poco prima dell’alba, una folla enorme cominciò ad ammassarsi ai bordi della pista, in attesa del via previsto per le sei. Il tempo era il peggiore immaginabile: piovoso, freddo, nebbioso. Al Garden City Hotel, che ospita i commissari e i giudici di gara, la concitazione è parecchia: dare o no il via in queste condizioni? Si opta per un ritardo, che però non potrà essere lungo, vista l’eccitazione della folla. Alle 6,15 perciò parte il primo concorrente: Le Blon, su Thomas; quindi Heath, che aveva vinto la prima Coppa e che costringe la sua Panhard ad un demarrage violento. Lo segue Jenatzy, l’antico “diavolo rosso”. Si fa avanti Lancia, 5 uno dei beniamini del pubblico che, contrariamente al solito, si avvia con dolcezza. Tra il gruppo dei piloti americani Tracy è il più agitato. Snervato dalla troppa folla, si irrita per il poco spazio che la folla lascia ai piloti sulla pista, e protesta per l’organizzazione che fin dalle prime battute della gara si rivela pessima. Arriva anche il momento del via per Wagner, velocissimo. Cagno lo segue, ma non sembra in forma: è reduce da un incidente in prova. Tra gli ultimi a partire sono Clément, molto sicuro della sua Darracq, Weillschott, tutto sorridente, e Christie. Come questi si è avviato, la folla torna ad invadere la pista, incurante del pericolo di venire travolta. “E’ un momento di grande ansietà – scrive la cronaca di L’Auto d’Italia – perché il primo, Le Blon, dovrebbe passare. A furia di energia alcuni pochi riescono a sgombrare la strada, ed appena in tempo, perché alla velocità di 140 km all’ora passa il primo Jenatzy”. Queste saranno le condizioni della pista per tutta la gara: un pericolo continuo, un infinito stress per i piloti, e naturalmente molti incidenti, alcuni dei quali mortali. Secondo a passare, a ben sette minuti, é Lancia. Nel mentre Weillschott, proprio per non aver visto bene una curva a causa del pubblico assiepato disordinatamente, va in derapage ed esce di strada, travolgendo tre persone, ferite lievemente, e un ragazzo, che invece riporta lesioni molto gravi. Weillschott stesso, insieme al meccanico, sembra in brutte condizioni: giacciono svenuti sulla strada. Poco dopo però si riprendono e, come se niente fosse, risalgono in macchina. Wagner, che non è in testa, ha però segnato il giro più veloce, 28’ e 26”, e meno ancora segna al secondo giro (complessivamente 51’22”). Alla fine del terzo giro Wagner ha impiegato un’ora, 24’ e 19”; è inseguito da Lancia, Jenatzy, Clément, Shepard, Cagno e Nazzaro. Al quinto giro Duray muove la classifica impossessandosi del terzo posto; al sesto Wagner rafforza il suo vantaggio. A questo punto si scatena tra lui e Lancia una lotta all’ultimo respiro, favorita dal miglioramento del tempo ma terribilmente ostacolata dal comportamento del pubblico, sempre più scomposto. Shepard, per evitare delle persone, sterza bruscamente e finisce per investirne un altro gruppo, ferendo mortalmente un uomo. Sempre più emozionante il duello tra Wagner e Lancia: li dividono, in classifica, sette minuti, ma sulla pista appena cinquecento metri, e all’ottavo giro Lancia riesce addirittura nel sorpasso. Al giro successivo, nuovo sorpasso tra i due in testa: stavolta è Wagner che passa Lancia. Tutto questo tra urla, incitamenti, persone investite, altri gravi incidenti, confusione dentro e fuori la pista. Al nono giro Lancia ancora una volta supera Wagner e “PRIMO TAGLIA IL TRAGUARDO” scrive L’Auto d’Italia. La folla è in delirio, la banda attacca la Marcia Reale, alcuni spettatori si slanciano per prendere il pilota italiano e portarlo in trionfo, quando arriva Wagner, ancora in vantaggio di qualche minuto. E’ lui il vincitore. La banda cambia rapidamente l’inno da suonare, la confusione aumenta, arrivano intanto Duray, Clément e Jenatzy, dopo il quale l’invasione della pista è tale da far sospendere la gara. La Francia finì così sul gradino più alto del podio. Per l’Italia, onore delle armi ma molta delusione, tanto più che di cinque vetture una sola si era classificata. “Lancia, bisogna riconoscerlo, è un bravissimo conduttore, il più veloce e il più audace forse, ma non il miglior corridore. Perché non basta saper prendere un virage a 90 all’ora, slittando magari e rovinando le gomme, bisogna studiare la corsa giro per giro, non 6 sforzare soprattutto e non spingere a quella corsa endiablée (indiavolata) a cui Lancia è solito. Nazzaro, più calmo e preciso, riesce meglio di Lancia e non sappiamo per quali incidenti abbia dovuto rinunciare alla lotta; certo le condizioni disastrose del circuito non potevano favorire il nostro campione. Quanto alle Itala, crediamo difettino di una seria mise au point, perché è troppo disgraziata la loro corsa…” Negli Stati Uniti, la delusione non si poté neanche consolare dell’onore delle armi, perché non entrò in classifica alcuna vettura nazionale. “Il donatore della Coppa, disperando di ottenere dalle autorità un miglior concorso di servizio di polizia, e dai compaesani una miglior educazione politica, ed una disciplina adeguata al momento, rifiuta di far disputare ulteriormente il trofeo in America. Chiederà ad un club europeo di assumersi l’incarico di organizzare e difendere la prova e, in caso di rifiuto, questa sarà annullata”.. Per la verità il regolamento prevedeva che, dalla terza edizione, la gara si trasferisse nel paese detentore della Coppa. Già nel 1906 avrebbe dunque dovuto svolgersi in Francia: a maggior ragione l’edizione seguente, essendo la Francia vincitrice di due edizioni consecutive. Il proposito di Vanderbilt era meno drammatico di quel che sembrava. Certo, l’organizzazione era stata pessima, e su questo il giudizio fu unanime, sia sulla stampa americana sia su quella europea. “Le organizzazioni di corse d’automobili non possono essere alla mercé del sentimento e della sentimentalità del pubblico…La popolazione più educata ai colossali spettacoli sportivi come quella nordamericana, ha dimostrato colla sua condotta sufficientemente tragica il pericolo di chiamarla ad assistervi senza essere sufficientemente prevenuta, trattenuta ed impedita con energia e materialità di ripulsa eguale all’energia della sua convinzione e della sua malaugurata facilità di adattamento. Vanderbilt ne è scoraggiato per sempre e Shirk si è ucciso”. In realtà, come tutti i proclami enunciati a caldo, anche questo durò lo spazio di un mattino. Era troppo il desiderio di vedere un americano arrivare a vincere la fatidica coppa per arrendersi. Inizialmente Vanderbilt decise di costruire delle strade nuove, più facilmente controllabili, dove far disputare l’edizione del 1907: ma il progetto venne tirato in lungo, e a metà dell’estate apparve chiaro che non si sarebbe riusciti ad organizzare la gara per l’autunno, né entro l’anno. Per l’edizione del 1908, da disputarsi di nuovo a Long Island, a poca distanza dalla chiusura delle iscrizioni si registravano soltanto cinque concorrenti (contro i diciotto della prima volta, i diciannove della seconda, e i diciassette della terza). Vanderbilt si diede da fare con i suoi amici europei per rinfoltire il gruppo, e iscrisse persino una sua vettura, la Mercedes guidata da Bill Luttgen. E poté finalmente assaporare la gioia di vedere una vettura americana guidata da un americano (Gorge Robertson su Locomobile) tagliare per prima il traguardo, osannata da una folla per domare la quale la polizia dovette ricorrere a violenti getti d’acqua. L’America ce l’aveva fatta, il compito di Vanderbilt era concluso. Forse per questo il suo interesse per la gara, che si svolse per l’ultima volta nel 1916, scemò vistosamente. Cominciò ad interessarsi soltanto di navi e di mare, e l’ultimo colpo alla sua passione automobilistica glielo inferse la tragica morte del suo unico figlio, nel 1933, ucciso in un incidente stradale. Era diventata un’America difficile, colpita 7 nel profondo da una crisi economica che divenne tragedia sociale. A chi gli chiedeva cosa pensava di fare, Vanderbilt rispose: “Personalmente penso che trascorrerò parte del tempo che mi rimane navigando, vedendo un po’ di mondo e cercando di restare in salute. Se avessi venti anni di meno…oh, ma perché dirlo. Non ho venti anni di meno”. Morì a 65 anni, nel 1944, a capo di una fortuna valutata 36 milioni di dollari. *in cui debuttò sulle scene l’allora sedicenne Elsie Janis, la più giovane star di Broadway **le date di attività si riferiscono alla ragione sociale così come era nel 1906. Le aziende potrebbero aver proseguito la loro attività oltre le date indicate, sotto altra ragione sociale, o in altre sedi. ***non si presentò alla Vanderbilt. Fu sostituito da Lawyell su Frayer Miller. BIBLIOGRAFIA L’Auto d’Italia. Rivista Settimanale Illustrata per l’incremento de l’Automobilismo, Milano The Beaulieu Enciclopedia of the Automobile. By Nick Georgano, London, 2000. Willie K. The saga of a racing Vanderbilt. By Beverly Rae Kimes, Automobile Quarterly, vol. 15 n. 3 Enciclopedia dello Sport Treccani. Motori. The Autocar. Settimanale, Londra, 1906 La Vie Automobile. Settimanale, Parigi, 1906 Donatella Biffignandi Centro di Documentazione del Museo Nazionale dell’Automobile di Torino 2006 8