Il Fiano del vento - La verticale del Don Chisciotte

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Il Fiano del vento - La verticale del Don Chisciotte
Le degustazioni
Dicembre2015
Il Fiano del vento - La verticale del Don Chisciotte
L’incontro è stato organizzato da Matteo Gallello, realizzato con la collaborazione della Tradizione, Gabriele
Bonci e di Pomarius. Grazie al prezioso aiuto di Chiara Guarino, Pino Carone e Laura Pinelli. Condotto da Sandro
Sangiorgi con Nerina e Pierluigi Zampaglione.
di matteo gallello
Grande era la follia di Don Chisciotte, e grande era perché la radice da cui cresceva era grande: l’inestinguibile
brama di sopravvivenza, fonte delle più stravaganti follie come pure degli atti più eroici.
Miguel de Unamuno, Vita di Don Chisciotte e Sancho, traduz italiana di A. Gasparetti, Mondadori Milano 2006
Incontri alcune cose nella vita che ti fanno cambiare: Smells like teen spirit ascoltata a 14 anni, un
qualsiasi Brunello di Montalcino bevuto a 19, la lettura di Così parlò Zarathustra a 21, sapere
dell’esistenza delle uve bianche vinificate in rosso a 24.
Era il 2009 e fu una delle mie prime scoperte del vino naturale, quel collegamento semplicistico e utile
che ti porta a collocare in modo quadrato le notizie: macerazione sulle bucce di uve bianche = vino
naturale. Si tratta solo dell’anticamera che ti porta in una grande gabbia di dubbi che la dedizione al vino
ti presenta costantemente. Ricordo perfettamente quel Don Chisciotte 2006.
Pensai, assaggiandolo, che non esistesse nulla di più mitico. C’era un velo di segretezza, come in un disco
dei Faust. Nessun vino, fino a quel momento, aveva mai tentato di presentarsi con quell’espressione così
contraddittoria e in piena opposizione alle regole riportate sui libri che mi erano passati tra le mani. Mi
sembrava una sfida meravigliosa che realizzava il significato della parola immaginazione. E poi quel
nome, l’incarnazione dell’idealismo umano... e tante altre cose.
Passati cinque anni, durante i quali non sono mancati gli assaggi delle varie
annate del Don Chisciotte, ho avuto finalmente l’occasione di
arrampicarmi lungo l’Ofantina, fino a Calitri. Ci sono andato con l’amico
Pasquale Petrillo, avellinese di nascita e di formazione, dopo aver
viaggiato insieme a lui per due giorni nell’Irpinia classica. Arrivati al
Tufiello ci è apparso un paesaggio di un altro mondo, omogeneo, semplice e molteplice. Boschi, campi
di terra nera preparati alla semina del grano, dalla ricchezza inquieta. La luce smorzata di quel giorno,
fine settembre, pioggia, vento e sole, un’asprezza che t’intimorisce e meraviglia. Scorgere la Vigna del
pero, e poi l’incontro con Nerina e Pierluigi, condividere con loro un pranzo in un paese vicino, Bisaccia,
percepire l’ombra del Vulture in lontananza.
In questo luogo la vite è un’eccezione, un impegno critico perché poco considerato. Quali sono le
relazioni del vigneto con il contesto circostante? Qual è il suo valore culturale? Direi, con un’accezione
positiva, quasi nessuno. Solo nella zona adiacente a Calitri, siamo a 600 metri, si produceva un buon
Aglianico; ma la vigna a quasi 800 metri di altitudine ha un’implicazione ideologica perché è un tentativo
che valorizza, con altri significati, il senso del luogo. È una prospettiva nuova e ancora giovane, gli
Zampaglione hanno raccolto solo nove vendemmie, le viti hanno circa quindici anni, un tempo “di
scoperta e costruzione”.
Piantare lì il fiano è un’intuizione di Guido Zampaglione, nipote di Pierluigi e Nerina; il Don Chisciotte
fino al 2009 è opera sua. Una scelta di responsabilità e studio: ha consultato vari scritti del secolo scorso
dai quali emergeva che, proprio in quella zona, il Santa Sofia, un vecchio clone di Fiano così denominato
a Calitri, aveva grandi potenzialità. Certo, la dose di azzardo è consistente, Guido non ha avuto modo di
confrontarsi con viticoltori, non conosceva una storia “reale” della produzione, gli amici e “gli indigeni”
sicuramente non lo incoraggiavano...
Ora tocca a Nerina e Pierluigi, in questa situazione rocambolesca: di solito gli anziani lasciano l’eredità
del fare ai più giovani.
Ora tutto converge sulle loro forze e sul modo di tradurre la continua, folle, scoperta del Don Chisciotte.
Linea vegetale-floreale come di fiore appena reciso; netto, finezza cercata. Si muove agile, cammina
svelto senza perdersi, senza strappi. Evocaivo ritorno di arancia chiara. Pensato, consapevole, meno
istintivo.
2012 Pieno, cedevole – un’accezione di prodigalità – luce forte e vitale; bella l’ossidazione, riporta alla
cottura di un frutto buono. Sempre agile, meno impegnato del precedente ad alzare la testa, è pur sempre
testardo e vanitoso ma anche teso e fervido.
2011 Arrendevole e sereno, fiorile, si mantiene su una pervicace forza minerale. Coeso e saporito,
festoso, per nulla tenero, capace di tenere le redini, generoso. Il più donchisciottesco.
2010 Chiuso, fuoco freddo, marino. Acidità più scoperta, quasi citrina, si sofferma sulla rigidità e
declina verso una tensione meno funzionale al contesto.
2009 Carne fresca, sentori lacustri... Una chiusura decostruttiva, come a rielaborare il senso. Vitalità e
stridori, sudori, impervi.
2008 Serenità, pensiero deciso, impronta e graffio. Amaro di amaro, tirato fuori, estrazione-funzione.
Portare a sé, per sé.
2007 Calore di cera, veracità, attrazione. Massivo, granitico. Terroso, dialettico, stridori costruttivi.
Prima, a Porthos di Sandro Sangiorgi
Anche per me il Don Chisciotte 2006 è stato una rivelazione.
Prima ancora di sapere che cosa fosse il Tufiello e dove fosse Calitri, il vino propostomi da Guido Zampaglione
mi aveva rapito e trasportato in una dimensione sconosciuta. Sì, come scrive Matteo, il bianco ottenuto con una
fermentazione sulle bucce, con le bucce... ma tutto questo non bastava a spiegare quel Fiano pieno di luce, che
mi mostrava quanto fosse inutile costringere i vini naturali dentro un recinto, quasi a volerli difendere dal rischio
di non essere capiti. No, il Don Chisciotte 2006 portava in dotazione quell’universalità capace di rompere
qualsiasi barriera. Ricordo bene lo stupore e l’incredulità della prima volta in cui, un paio d’anni dopo, lo condivisi
con una classe: la percezione di una bellezza desueta, imprevedibile e scollegata da qualsiasi aspettativa. Una
tale esperienza genera un affetto sognante, dove la suggestione diventa parte dell’esperienza sentimentale. E
che, poi, incontra l’inevitabile: un’annata non può ripetersi. Allora comincia un’esplorazione più critica, nella
quale si prende in considerazione il percorso di un’azienda giovanissima e la nascita di liquidi molto diversi tra
loro, frutto di condizioni naturali differenti ma anche di un continuo confronto stilistico, un vero processo di
evoluzione produttiva. Ecco, appena ci s’immerge in questo, non c’è spazio per la nostalgia di bottiglie irripetibili,
si rafforza invece l’affetto per quel vino nella sua interezza, soprattutto in virtù delle versioni più fragili, dalle
quali si scorge intatto il proposito iniziale e trapela il sudore di un cammino impervio.
Dopo, a Porthos (come sempre)
Nerina e Pierluigi hanno preso in mano il Don Chisciotte dall’annata 2010. Sono due agricoltori impegnati sin dal
1987 nella conduzione biologica della loro terra e che, da poco tempo, stanno imparando a fare il vino. A Porthos
hanno portato la loro giovane esperienza, hanno raccontato il progetto e come vorrebbero che si trasformasse.
Hanno spiegato perché amano il Don Chisciotte di oggi, meno estremo di quello curato dal nipote Guido –
assistito allora da Giulio Armani – e come percepiscono benefica l’accoglienza di una clientela dalla sensibilità
diversa. A quel punto è cominciata la degustazione e, come sempre, il liquido odoroso ha parlato con una
chiarezza adamantina, valicando di slancio i nostri ragionamenti teorici. Tra 2010 e 2013 ho sentito l’eterea
bellezza della prudenza, serena, invitante, quasi carezzevole. Appena ho avvicinato la 2008 e la 2009 mi sono
reso conto perché Pierluigi “Piero” non riesce a sentirle vicine, il suo palato è paragonabile a quello di un
adolescente, iper-sensibile a sollecitazioni così drammatiche. Tra il 2007 e il 2009 il Fiano del Tufiello ha vissuto
una fase di introiezione, a mio avviso benefica e indispensabile, e ha attraversato un periodo di preparazione a
rinascere. È impossibile valutare e apprezzare il Don Chisciotte di quegli anni dedicandogli poco tempo. Anzi, col
passare dei minuti, è stata sempre più evidente la razza di quelle bottiglie, una stoffa serrata e coinvolgente,
maggiormente legata al profilo odoroso, espressa in un flusso unito, continuo, inesauribile. Campioni da
«degustazione geo-sensoriale», per dirla con le parole del maestro Jackie Rigaux. I vini delle annate recenti non
chiedono altro che un approccio spensierato, i “vecchi” vogliono essere sentiti, vissuti, pretendono persone
fidate e le ricambiano non abbandonandole mai.
La notte della degustazione ho pensato che il destino del Don Chisciotte non può essere che quello, tornare alle
premesse con cui era nato. Le annate recenti sono come l’interruzione di una crescita di un ragazzo o di una
ragazza per paura che possano soffrire, provando a proteggerle da se stesse.
E credo che saranno proprio Piero e Nerina a recuperare il cammino interrotto, presto anche a loro sarà palese
la bellezza struggente di 2008 e 2009 e, a quel punto, riprenderanno i fili per vivere integralmente il senso e il
significato di quel liquido luminoso.