Perché studiare la matematica?

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Perché studiare la matematica?
Perché studiare la matematica?
Margherita Barile1 – Guido Dell’Uomo2
Sergio De Nuccio3 – Ruben Sabbadini4
Sunto: Proponiamo, attraverso un concreto esempio di percorso didattico sull’infinito, la storia della matematica come fonte di approfondimento concettuale e spunti interdisciplinari, chiarendo il suo ruolo
tra la scuola secondaria e l’università.
Abstract: We propose, by means of a concrete example of pedagogical path on infinity, history of mathematics as a tool for a better understanding of concepts and for interdisciplinary work, and we clarify
its role between secondary school and university.
Parole chiave: Storia della matematica, competenze, continuità didattica.
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Università di Bari, Dip. di Matematica.
Liceo Scientifico di Frosinone.
Mathesis Campobasso.
Liceo Scientifico “Farnesina”, Roma.
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“Nessun altro studio richiede meditazione più pacata; nessun altro meglio induce ad essere cauti nell’affermare, semplici e ordinati
nell’argomentare, precisi e chiari nel dire; e queste semplicissime
qualità sono sì rare che possono bastare da sole ad elevare chi ne è
dotato al di sopra della maggioranza degli uomini. Perciò io esorto a
studiare matematica pur chi si accinga a divenire avvocato o economista, filosofo o letterato; perché io credo e spero che non gli sarà inutile saper bene ragionare e chiaramente esporre”. (Alessandro Padoa)
Questo significa che la formazione matematica dello studente deve
svilupparsi con continuità lungo percorsi e in contesti di apprendimento che, progettati sulla base di nuclei fondanti della matematica, permettano di trasmettere contenuti, e allo stesso tempo di costruire non
solo competenze disciplinari, ma soprattutto, competenze trasversali,
utilizzabili dallo studente nella sua vita di “futuro cittadino”.
Il termine “competenza” indica “l’attitudine a scegliere, padroneggiare e utilizzare, in un determinato contesto, le opportune conoscenze, capacità e abilità per impostare e/o risolvere un dato problema”(Commissione Ministeriale di Esperti, anno 2000). I nuclei sono
invece quei concetti fondamentali che sono presenti in diverse teorie
e, per questo, generano e organizzano le conoscenze matematiche. Un
nucleo si considera “fondante” in relazione agli aspetti epistemologici
e storici della matematica oppure rispetto alla didattica (intesa come
prassi d’insegnamento o come ricerca di metodi d’insegnamento).
IL RECUPERO DELLA DIMENSIONE TEMPORALE
Vedere la matematica come un prodotto storico, intrecciato con le
vicende umane, non è solo uno stratagemma per conferirle un retorico
“volto umano” che ne addolcisca le asperità, magari infarcendola di
amene pillole aneddotiche. E non dovrebbe nemmeno ridursi ad un
pretesto per realizzare (magari forzatamente) percorsi interdisciplinari
con le scienze umanistiche. La matematica di cui disponiamo attualmente non è un’entità chiusa e stabile, che ci è giunta immutabile dalla notte dei tempi, bensì l’ultimo risultato di uno sviluppo millenario,
che è ancora in divenire. Così come è incontestabile che la storia
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dell’umanità aiuta a comprendere il nostro presente, anche la storia
della matematica può servire a comprendere la matematica di oggi, il
suo linguaggio, il suo contenuto, i suoi metodi. Prendere contatto con
l’opera dei matematici del passato non significa soltanto scoprire epoche in cui la disciplina era immersa nei problemi aritmetici dei mercanti, o nei problemi geometrici degli agrimensori, ed aveva quindi
una veste più simpaticamente concreta; i manuali medioevali non dovrebbero solo essere pittoresche fonti di esercizi presentati nella lingua di tutti i giorni. La bibliografia matematica è disseminata di brani,
ben più emozionanti, in cui si può cogliere la nascita di un’idea,
l’intuizione di un nuovo concetto nel momento in cui questo, ancora
indistinto, si affaccia alla mente dell’autore. Sempre nuovi problemi
spingono i ricercatori ad avventurarsi in percorsi inesplorati, creando
nuove definizioni, nuovi metodi, nuove teorie.
LA RISCOPERTA DEL LINGUAGGIO
La definizione insiemistica di funzione, che è frutto della sistemazione assiomatica novecentesca, non ci dice nulla se non la vediamo
sullo sfondo della visione newtoniana della quantità fluente. La formalizzazione, che è una delle conquiste epistemologiche dell’era moderna, scaturisce dalla necessità di rendere comunicabile una certa
immagine mentale, al fine di poterla utilmente condividere con il resto
della comunità scientifica e prepararla ad ulteriori elaborazioni e verifiche. Si tratta di un processo lungo e travagliato, mirante a trovare il
giusto compromesso tra generalità ed aderenza all’oggetto, ossia a garantire la fruibilità universale della definizione pur conservando quel
potere evocativo che riporta all’idea primordiale. Più che dell’esigenza di rigore, la ricerca intorno al linguaggio è figlia del desiderio di
scambio intellettuale (come nella visione cartesiana): non a caso i
simboli e le abbreviazioni vedono la luce molto prima della sintassi
della logica formale. Gran parte della notazione matematica oggi in
uso porta i segni evidenti delle sue origini storiche, come la lettera Z
per l’insieme dei numeri interi, o la S allungata per l’integrale. Queste
convenzioni sono calibrate sull’oggetto che vogliono indicare, e ne rivelano sia la paternità storica (la lingua tedesca, parlata dal teorico dei
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numeri Edmund Landau) sia la natura concettuale (l’idea leibniziana
basata sulla somma di aree).
LA RISCOPERTA DEI CONTENUTI
Intravedere le remote origini di un oggetto matematico in un semplice carattere tipografico può essere un invito a ripercorrere, attraverso i secoli, le tappe della sua evoluzione. Ciò significa, spesso, vedere
l’oggetto sotto diversi aspetti, quelli che hanno maggiormente interessato i matematici nelle varie epoche. Stabilire collegamenti logici sulla
scia dello sviluppo temporale è il modo più naturale di approfondire
un dato concetto: si può così intraprendere un viaggio dentro di esso,
lungo un cammino già tracciato, che va solo riportato alla luce.
L’interesse didattico di questo approccio risiede nel fatto che esso risulta tanto meglio applicabile quanto più difficile è l’oggetto della ricerca. Ciò che risulta ostico ai nostri studenti, ha dato del filo da torcere anche ai matematici di un tempo, e la storia sarà quindi cosparsa di
tentativi, errori, congetture, dubbi, ripensamenti. Un simile percorso
potrà allora apparire come un esempio, vivo ed autorevole, di lavoro
euristico, non confinato nell’angusto dedalo dei passi di risoluzione di
un esercizio, ma ricco di sfumature concettuali, liberi pensieri, ed azzardi creativi. Un argomento apparentemente elementare come il calcolo delle aree e dei volumi ha conosciuto momenti curiosamente variegati, dal metodo di esaustione di Eudosso al principio di Cavalieri,
dalla quadratura delle lunule di Ippocrate all’integrazione secondo
Riemann.
LA RISCOPERTA DEI METODI
Ogni singola opera matematica non rimanda solo al suo autore ed
alla sua epoca: non possono, infatti, mancare i riferimenti a lavori
precedenti e a progetti futuri. Ogni conquista è solo una tappa in un
flusso continuo, è contemporaneamente un traguardo ed un punto di
partenza. Così, chiunque affronti lo studio di un argomento o effettui
l’indagine intorno ad un problema, non può prescindere dalla memoria
dei risultati già ottenuti e dalla consapevolezza degli scopi da raggiun-
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gere. È nella tensione tra componente mnemonica e componente teleologica che prende corpo l’attività scientifica. Ciò che non si sa va ricercato lungo le possibili relazioni con ciò che si sa. La coerenza è un
indispensabile filo conduttore, che deve legare non solo il passato con
il futuro, ma anche il caso particolare con la teoria generale, l’idea intuitiva con l’enunciato formale, il modello visivo con lo schema astratto. Una strategia risolutiva non è efficace se non prevede, di tanto
in tanto, di guardarsi indietro, per verificare la funzionalità dei risultati
parziali all’interno del quadro complessivo; la dimostrazione di un teorema si può ottenere solo se si considera la tesi non semplicemente
come il lontano punto di arrivo di una ignota concatenazione logica,
ma anche e soprattutto come il primo oggetto da analizzare, sul quale
costruire la propria argomentazione. È solo così, in fondo, che può venire in mente il ragionamento per assurdo, che è stato utilizzato fin
dall’antichità, ad esempio da Euclide, per provare l’infinità dei primi,
oppure l’irrazionalità della radice quadrata di 2.
COMPETENZE E NUCLEI IN MATEMATICA
Un curriculum basato su competenze e nuclei, nella fase di progettazione, viene elaborato a partire dalla definizione delle competenze
trasversali, per giungere agli obiettivi e ai contenuti dei nuclei. Invece,
nella pratica didattica, si procede secondo il percorso inverso: dagli
obiettivi e dai contenuti dei nuclei fino alle competenze trasversali.
Fase di progettazione
Competenze trasversali
Competenze disciplinari
Nuclei
Obiettivi e contenuti dei nuclei
Pratica didattica
Obiettivi e contenuti dei nuclei
Nuclei
Competenze disciplinari
Competenze trasversali
Diamo, nella seguente tabella, alcuni esempi di nuclei (Robutti
2001), correlati alle competenze che possono contribuire a formare:
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Nuclei fondanti
Numeri
Grandezze
Figure
Relazioni e funzioni
Dati
Linguaggio scientifico
Competenze trasversali
Operazioni
Misure
Trasformazioni
Rappresentazioni
Analisi e previsioni
Congetture, dimostrazioni e modelli
Il seguente grafo mette in relazione i contenuti matematici dei
primi quattro anni del secondo ciclo della scuola secondaria (livello
inferiore) con gli argomenti del quinto anno (livello intermedio) e le discipline avanzate appartenenti ai corsi universitari (livello superiore).
UNA PROPOSTA DIDATTICA DI APPROCCIO STORICO
Il riferimento alla storia è un eccezionale strumento per valorizzare la dimensione culturale della matematica. Federigo Enriques vedeva
nella storia della matematica non soltanto un campo di ricerche specializzate, da condursi con gli standard professionali più elevati, ma anche una
fonte preziosa per la comprensione dei contenuti profondi della disciplina
e del suo ruolo nella formazione complessiva dell’individuo.
Un percorso didattico opportunamente sviluppato, sulla scia
dell’evoluzione temporale di un dato argomento matematico, può coniugare efficacemente l’aspetto epistemologico e l’aspetto applicativo,
rispondendo, inoltre, alle esigenze di trasversalità disciplinare e di
continuità logica.
Presentiamo un esempio relativo al concetto di infinito, che offre
diversi spunti di riflessione, con possibilità di approfondimento.
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DOCUMENTO TEMATICO
La parabola dell’infinito
1.
INTRODUZIONE
L’infinito è, per il profano, sinonimo di inafferrabile mistero, regno dell’indagine scientifica, che comunque mai potrà pervenire ad
una definitiva certezza. Non a caso in una pagina pubblicitaria apparsa
su un quotidiano il nome dell’infinito è affiancato da un lato
dall’immagine di un astronauta, dall’altro dal simbolo π. Ma tanto ineffabile quanto appare superficialmente, tanto sfuggente risulta perché chi studia matematica nelle scuole superiori: tanti sono i contesti
in cui il concetto ricorre, e diversi sono i modi di trattarlo. Esso si
presenta come risultato di un calcolo algebrico, come reciproco di un
infinitesimo, oppure, in ambito analitico, come estremo superiore di
una funzione illimitata, o, nella teoria degli insiemi, come cardinalità
di un insieme non finito, oppure come il risultato finale di un processo
iterativo indefinito come il raddoppiamento successivo della lunghezza di un segmento (geometria), o la ripetuta addizione di uno stesso
numero positivo (aritmetica).
Questo lavoro vuole tracciare un breve percorso didattico (non esaustivo) che, sul filo della storia, permette di collegare i vari aspetti
dell’infinito, come altrettante tappe della sua evoluzione nel pensiero
scientifico. In questo modo è possibile mostrare come anche i grandi
matematici del passato abbiano subito, nelle varie epoche, lo stesso
fascino e lo stesso imbarazzo di fronte ad una nozione che, nonostante
i progressi compiuti, non ha cessato di sottrarsi allo strenuo tentativo
di ricondurla al rassicurante ambito del mondo finito. Immaginiamo
dunque di far leggere ai ragazzi la storia alla luce di ciò che nel frattempo hanno avuto modo di conoscere, affinché possano cogliere, nelle diverse sfaccettature del concetto di infinito, una profonda stratificazione di significato.
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2.
IL PROBLEMA DELLE TANGENTI
L’infinito fa il suo ingresso ufficiale nella geometria solo nel Seicento: ciononostante alcuni degli oggetti che oggi noi siamo abituati a
trattare coi metodi del calcolo infinitesimale – come le curve e le loro
tangenti – venivamo studiate e trattate correttamente anche nell’Antica
Grecia. È ancora classico il metodo con cui Galileo Galilei determina
la tangente ad una parabola. Nella Quarta Giornata
dei suoi Discorsi intorno a due nuove scienze
(1638) egli così descrive la costruzione geometrica
(la trascrizione nel moderno linguaggio matematico
è nostra): La tangente alla parabola nel punto b è la
retta congiungente b con il punto d dell’asse della
parabola tale che da = ac, essendo c il piede della
perpendicolare condotta da b all’asse stesso. Nel
disegno la tangente siffatta è tracciata a sinistra.
Galileo dimostra questa affermazione per assurdo, supponendo che
la retta così determinata sia secante, come la retta per b tracciata nella
parte destra del disegno. Sia, come in figura, g un punto della secante
interno alla parabola, siano f ed e i punti di intersezione della perpendicolare in g alla secante, rispettivamente, con la parabola ed il suo asse. Allora si ha:
fe > ge ⇒ fe2 > ge2 ⇒ fe2 : bc2 > ge2 : bc2 = ed 2 : dc2,
dove l’ultima uguaglianza segue dalla similitudine dei triangoli cbd e
egd. D’altra parte, per la definizione di parabola, fe2 = ea e bc2 = ac.
Pertanto
ed 2 : dc2 < ea : ac = ea : ad = (4ea ⋅ ad) : 4ad 2 = (4ea ⋅ ad) : dc2,
essendo dc = 2ad. Segue che
ed 2 < 4ea ⋅ ad,
ma ciò è assurdo, perché in realtà vale la diseguaglianza opposta, come risulta dalla figura seguente, che rappresenta un quadrato di lato
ed, nel quale sono tracciati quattro rettangoli di lati ea ed ad:
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d
ea ⋅ ad
a
e
La fonte di Galileo è il trattato Le coniche di Apollonio, un matematico greco vissuto tra il III ed il II secolo prima di Cristo. In
quest’opera troviamo la seguente costruzione della tangente ad
un’ellisse in un punto dato C:
x
y
z
Nella figura M è il piede della perpendicolare condotta da C
all’asse dell’ellisse. Il punto T dell’asse deve essere scelto in modo
che valga la proporzione
x : (x+y+z) = y : z
(1)
Se si pensa alla parabola come a un’ellisse in cui il punto A si è
“allontanato indefinitamente” da G lungo l’asse TG, ci si può chiedere
come si trasformi la (1) a seguito di questo processo ideale.
Dalla (1) segue che
x = y (z+y)/(z-y) ≤ Ky
per un’opportuna costante positiva K. Ora, poiché y è costante, x è limitato superiormente, e ne consegue che
x-y = y(x+y)/z → 0 quando z → ∞
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Al limite, dunque, x = y. E questa è proprio la condizione da = ac di
Galileo.
Il matematico francese Pierre de Fermat, nell’opera Methodus
ad disquirendam Maximam et Minimam (1637) getterà le basi del
calcolo differenziale. Utilizzando il linguaggio della geometria analitica, egli determinerà la tangente al grafico della funzione y = f(x) nel
generico punto C con il seguente ragionamento, che, con l’ingresso
del concetto di limite infinitesimo, getta le basi della moderna analisi
matematica. Supponiamo che il grafico della funzione f nel piano cartesiano sia un arco di conica contenente il punto C, come nella figura:
In prossimità di C, la curva e la tangente quasi coincidono. Quindi,
con una buona approssimazione, si può dire che un punto C´ della
curva sufficientemente vicino a C si trova sulla tangente:
Quindi i punti T, C e C´ si possono assumere come allineati, di
modo che i triangoli evidenziati sono simili. Sia x l’ascissa del punto
C, e sia x+ε l’ascissa di C´. Le rispettive ordinate sono allora f(x) e
f(x+ε). Si ha dunque la seguente proporzione:
f ( x + " ) ! f ( x) | MC |
=
"
| MT |
Il quoziente a secondo membro è il coefficiente angolare della tangente cercata. Ricordiamo che l’uguaglianza è vera solo con approssimazione, che è tanto più accurata, quanto più ε è piccolo: sarà perfetta al
limite, quando ε diviene idealmente uguale a 0. Questo fatto si esprime scrivendo:
coeff. angolare di [TC ] = lim
! #0
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f ( x + ! ) " f ( x)
!
Nella stessa opera Fermat enuncia il noto teorema di analisi che da
lui ha preso il nome, e in base al quale, nei punti interni all’intervallo
di definizione che sono di massimo o di minimo relativo di una funzione derivabile, la tangente al grafico, se esiste, è orizzontale. La dimostrazione è essenzialmente basata sul fatto che il coefficiente angolare
delle tangenti al grafico in prossimità dei punti di estremo relativo (isolati) è negativo da una parte e positivo dall’altra.
Il metodo di Fermat è indubbiamente più generale di quello galileiano, che si applica soltanto alle coniche: infatti oggi determiniamo
le tangenti secondo Fermat. Comunque, per comprendere appieno il
significato del termine tangente, dobbiamo vederlo in contrasto con
quello di secante, alla maniera di Galilei. Ma se per quest’ultimo una
tangente è essenzialmente una
“non secante”, per Fermat è invece una secante particolare, un caso
limite. Essa si inserisce nel discorso sui massimi e sui minimi
nel modo seguente. Fissato il punto E esterno all’ellisse, come nella
figura a lato, si vuole condurre da
E una tangente all’ellisse. Considerata una generica secante passante per E, siano B ed O i suoi
punti d’intersezione con l’ellisse, sia B quello più vicino ad E. La lunghezza EB sarà tanto maggiore, quanto minore sarà la lunghezza EO.
D’altra parte EB è sempre minore uguale di EO, quindi il valore massimo della prima si avrà quando essa sarà uguale alla seconda, cioè
quando EB = EO. Ma questo è proprio il caso in cui i due punti
d’intersezione coincidono, cioè il caso in cui la secante è, in realtà,
una tangente.
3.
LA CONTINUITÀ TRA LE CONICHE
La trasformazione di un’ellisse in parabola tramite un passaggio
all’infinito, che abbiamo applicato al punto precedente, non è solo
frutto di un’idea intuitiva: essa corrisponde a proprietà analitiche ben
precise, verificabili con i calcoli.
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Fissiamo nel piano un sistema di coordinate cartesiane. L’equazione generale di una parabola avente vertice nell’origine, avente come asse l’asse delle ascisse, e con la concavità rivolta verso destra è:
y2 = 2px,
ove p è la distanza del fuoco dalla
direttrice.
L’equazione generale di un’ellisse avente un vertice nell’origine,
l’asse focale coincidente con l’asse
delle ascisse, e contenuta nel semipiano delle ascisse non negative, è:
( x " a)
a2
O
2
y2
+ 2 =1
b
per opportune costanti positive a e
b (i semiassi dell’ellisse), ove a>b.
!
La semidistanza tra i fuochi è pari a
F'
F
c = a2 ! b2
Supponiamo di allontanare indefinitamente il fuoco F dal fuoco
F´: facciamo tendere, cioè, c all’infinito. In maniera equivalente, si
può pensare di far crescere indefinitamente a, mantenendo costante b.
Dall’equazione dell’ellisse si ricava:
& x 2 2x #
y = b $$ ' 2 + !! .
a "
% a
2
2
In prossimità dell’origine, quando, cioè, x è piccolo rispetto ad a,
si può trascurare il termine quadratico a secondo membro. Si ottiene
allora l’approssimazione:
2b 2 2
y !
xy .
a
2
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Mano a mano che a cresce, l’approssimazione si estende ad un intervallo di valori di x sempre più ampio. Al limite l’equazione dell’ellisse prende a coincidere con quella
della parabola.
La somiglianza tra le coniche in
prossimità dei vertici è testimoniata anche da un significativo fatto storico. La
teoria sulla forma della traiet-toria delle
comete ha conosciuto, nel corso del Seicento, tre fasi, che corrispondono ad altrettante coniche. Nel 1607, Johann
Kepler, compiendo osservazioni e calcoli su quella che oggi è nota come cometa di Halley, concluse che la sua
traiettoria doveva essere una retta.
Quando una grossa cometa fu avvistata
nel 1680, G. S. Dörffel asserì che doveva, invece, trattarsi di una parabola avente il fuoco nel Sole. La cometa di Halley comparve di nuovo nel 1682: allora Newton formulò,
finalmente, la tesi corretta, secondo cui la traiettoria è un’ellisse.
4.
LA GEOMETRIA PROIETTIVA
L’esistenza di una continuità tra le coniche, deriva, d’altra parte,
dalla loro stessa definizione come intersezioni di una superficie conica
con un piano di inclinazione
variabile rispetto all’asse
della superficie stessa.
In altri termini, ogni conica può essere trasformata
in qualsiasi altra conica
proiettandola da un punto opportunamente scelto su di un
piano fissato.
Keplero, nella sua opera
di ottica intitolata Ad Vitellionem Paralipomena (1604), dà
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per primo una descrizione della continuità tra coniche che fa a meno
della terza dimensione, e sfrutta, per contro, il concetto di infinito nel
piano. Keplero osserva che da una retta doppia se ne ottengono facilmente due, e queste, a loro volta, possono venire deformate nei due
rami di un’iperbole; allontanando all’infinito uno dei due rami, si perviene al caso limite della parabola; immaginando di far passare il secondo ramo al di là dell’infinito, e di farlo tornare verso la conica dalla parte opposta, fino al ricongiungimento, si ottiene infine un’ellisse.
L’idea di un “infinito” geometrico come un luogo da cui un oggetto può tornare prelude al concetto di completamento proiettivo del
piano come compattificazione del piano stesso. È questo un modo di
superare le difficoltà insite nella nozione sfuggente di infinito: questa
viene di fatto eliminata dall’algebra nella trattazione analitica. Nel
passaggio da A2(x1, x2) a P2(x0, x1, x2), omogeneizzando l’equazione
generale della conica C, si realizza una perfetta simmetria tra le tre indeterminate x0, x1, x2:
a00 x0 2 + a11 x12 + a22 x22 + 2a01 x0 x1 + 2a02 x0 x2 + 2a12 x1 x2 = 0
Dal punto di vista proiettivo, la conica C è classificata sulla base
dell’equazione considerata nella sua globalità: la conica è degenere o
non degenere a seconda che il determinante della matrice dei coefficienti
a00
a01
a02
a01
a11
a12
a02
a12
a22
sia o non sia uguale a 0. Le coniche degeneri (rette doppie e coppie di
rette) sono le intersezioni del cono con un piano contenente il vertice,
le altre sono coniche non degeneri (ellissi, parabole, iperboli).
Dal punto di vista affine, le coniche vengono classificate in base ai
coefficienti delle indeterminate x1, x2: precisamente, posto M = a11 a22 –
a12 2, si ha che la conica C è un’ellisse, una parabola oppure un’iperbole
a seconda che M sia positivo, nullo o negativo. La continuità tra le coniche si riflette dunque anche nella variazione continua del valore numerico di M, che corrisponde alla variazione dell’inclinazione del piano di intersezione.
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Alla rimozione dell’infinito tramite tecniche formali di calcolo si
affianca, sul piano geometrico, la riduzione dell’infinito al finito, che
dà luogo ai più noti modelli euclidei del piano proiettivo:
La continuità tra coniche, sancita dalla geometria proiettiva, permette, ad esempio, di estendere la nozione di centro, propria
dell’ellisse, alla parabola. Basta dimenticare l’idea metrica di centro
come intersezione degli assi di simmetria, e considerare invece la sua
definizione proiettiva come punto d’intersezione dei diametri, che si
presentano, a loro volta, nella nuova veste di rette prive di polo in A2.
Il polo di una retta r rispetto ad una conica è il punto P del piano
proiettivo P 2 comune alle tangenti alla conica nei punti di intersezione
di questa con la retta r.
P
r
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Il punto P non appartiene ad A2 quando le due tangenti sono parallele oppure il punto affine d’intersezione di r con la la conica è unico.
Per la parabola quest’ultima condizione è verificata se e solo se la retta r è parallela all’asse. Il centro della parabola è allora il punto improprio dell’asse.
5.
DAL FINITO ALL’INFINITO
Il piano proiettivo nasce come estensione del piano affine euclideo, a cui viene aggiunto un oggetto, la retta impropria. Il risultato di
questa semplice operazione è un oggetto non troppo dissimile da quello di partenza, in cui l’infinito è stato inglobato in maniera pressoché
indolore. Anzi, l’infinito, prima invisibile e irraggiungibile, ha finalmente acquistato dei contorni geometrici precisi.
La realizzazione della geometria proiettiva come naturale estensione della geometria affine euclidea, che non comporta innovazioni
metodologiche nella trattazione algebrica, è un traguardo di rara eccellenza nella storia del pensiero matematico. Il desiderio di maneggiare
l’infinito con gli strumenti del mondo finito è stato da sempre il frutto
proibito dei geometri, che fin dai tempi più antichi non hanno saputo
resistervi, pur sapendo di rischiare. Archimede (III-II secolo a.C.) si è
impadronito a piene mani del metodo di esaustione inventato da Eudosso (V-IV secolo a.C.), confidando nella possibilità di iterare un
certo procedimento un numero quanto si voglia grande di volte (infinito potenziale). Nel Seicento si pone per la prima volta il problema di
varcare la soglia fino ad allora inviolata del passo “infinitesimo”. Nei
suoi Discorsi Galilei mette in luce tutto il pericolo insito in questa avventura, proponendo una serie di paradossi, il più famoso dei quali è
quello della scodella di Valerio.
Scodella si dice la figura solida ottenuta da un cilindro circolare
pieno estraendone la semisfera costruita sulla una delle sue basi (quella superiore nella figura). Aggiungiamo quindi un cono circolare retto
avente la stessa altezza e la stessa base del cilindro.
Immaginiamo di tagliare la figura con un piano parallelo alla base
del cilindro e non contenente nessuna delle basi. Il piano interseca il
cono in un cerchio e la scodella in una corona circolare:
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Il teorema di Valerio afferma che il cerchio e la corona circolare
hanno la stessa area, indipendentemente dall’altezza alla quale collochiamo il piano d’intersezione. Un analogo discorso vale per la parte
del cono e la parte della scodella che si trovano al disopra del piano:
esse hanno lo stesso volume. Immaginiamo di traslare il piano verso
l’alto, lungo l’asse del cono. Il caso limite – sia per le aree sia per i volumi - è quello in cui il piano attraversa il vertice del cono. Allora la
figura d’intersezione è formata da un punto e da una circonferenza.
Estendendo il teorema al caso limite, dobbiamo concludere che un
punto è equivalente ad una circonferenza, un fatto inaccettabile per
Galileo: due successioni di figure bidimensionali (i cerchi e le corone
circolari) producono, al limite, l’una una figura priva di dimensione,
l’altra una figura avente una sola dimensione.
Oggigiorno gli studenti del liceo sono consci che le proprietà possedute da tutti i termini di una successione non passano, necessariamente, al suo limite. Un esempio alla portata di tutti è dato dalla possibilità di costruire una successione avente tutti termini razionali e
convergente a √2. Invece i matematici che, tra il Seicento e il Settecento, ebbero per primi a che fare con le serie numeriche, non provavano troppo imbarazzo a partire dal presupposto che le regole di calcolo valide per le somme con un numero finito di addendi si estendessero alle somme infinite. Gli esempi più eclatanti di equivoci sorti da
questa errata convinzione ci provengono da considerazioni effettuate,
tra la fine del Seicento e la prima metà del Settecento da Jakob Bernoulli ed Eulero. Il primo non ebbe remore ad applicare la proprietà
associativa della somma alla serie
1 – 1 + 1 – 1 + 1 – ….
Chiamando S la somma di questa serie, sul cui valore i matematici
dell’epoca avevano pareri discordanti, Bernoulli osservò che da un lato
S = (1–1) + (1–1) + (1–1) +….,
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dall’altro
1 – S = 1 – (1–1) – (1–1) - … = 1 – 1 + 1 – 1 – …..
Ne dedusse che
S = 1 – S,
cioè S = 1/2. Ciò concordava perfettamente col fatto che le somme
parziali di indice pari sono uguali a 0, quelle di indice dispari sono
uguali a 1, e 1/2 è la media dei due numeri.
Eulero si sbizzarrì invece con la serie
1/(1+x) = 1 – x + x2 – x3 + …..
Questa espressione della funzione razionale fratta a primo membro
era stata ottenuta per i valori di x strettamente compresi fra -1 e 1. Estendendo il principio di identità dei polinomi a serie infinite di potenze egli concluse che due funzioni algebriche coincidenti su di un intervallo dovessero coincidere ovunque, e, con molta disinvoltura, sostituì alla x i valori –2 e –1, trovando, rispettivamente:
– 1 = 1 + 2 + 4 + 8 +….
e
∞=1+1+1+1+…
Se si sostituiscono alla x valori maggiori di –1, il primo membro è
sempre positivo. Eulero arrivò a giustificare questa contraddizione asserendo che l’infinito, di cui ancora non era stata determinata la natura, potesse essere visto come una sorta di separatore tra i numeri negativi e quelli positivi.
Bernoulli ed Eulero condividevano una certezza di fondo, che è il
tacito presupposto delle loro argomentazioni: le somme infinite, al pari di quelle finite, sono sempre uguali ad un numero, eventualmente
infinito. Eulero, in particolare, non ammetteva che le serie potessero
divergere, o essere indeterminate. Egli le considerava oggetti naturali,
in quanto parti di problemi fisici, e perciò credeva fermamente, come
dice E.T. Bell, che esse non potessero “fare alcun male”. Questa posi-
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zione è, curiosamente, antitetica rispetto a quella di Zenone di Elea
(IV secolo a.C.) la contraddittorietà del paradosso di Achille e della
tartaruga nasce proprio dalla convinzione che la somma di infiniti addendi non possa essere uguale ad una grandezza finita.
6.
DAL DISCRETO AL CONTINUO
La difficoltà dichiarata da Galileo nell’affrontare l’infinito non riguarda solo l’inafferrabilità del meccanismo del passaggio al limite.
Egli evidenzia anche la profonda diversità concettuale ed operativa tra
le quantità finite e quelle infinite. Un insieme finito di punti si può
contare. Due insiemi finiti di punti si possono confrontare numericamente, si può decidere quale sia il più grande e quale il più piccolo. Ma lo stesso discorso non si può applicare a due segmenti di lunghezza diversa, oppure all’insieme dei numeri naturali e all’insieme
dei quadrati perfetti. Uno dei due è strettamente contenuto nell’altro,
eppure tra loro esiste quella che noi chiameremmo una corrispondenza
biunivoca. Galileo ne conclude che non è possibile stabilire alcuna disuguaglianza o uguaglianza tra quantità infinite. Il fatto è questo: un
insieme di tre oggetti rappresenta in maniera universale e inequivocabile il numero tre, un segmento o un arco può rappresentare qualunque
lunghezza finita, perché può essere trasformato in qualunque altro
segmento o arco per dilatazione
o contrazione. Se due di questi
oggetti “continui” siano da considerarsi equivalenti dipende
dalle circostanze. Questo è il
problema di definizione che si
pone, ad esempio, quando si
cerca ingenuamente di passare
dalla probabilità discreta (definita come quoziente di casi favorevoli e casi possibili) alla probabilità
continua. Ecco un esempio critico construito ad hoc. Una lancetta è
libera di scorrere lungo un arco di 45°, come in figura.
Se le si imprime una spinta, essa potrà rimbalzare tra AB e AC,
finché l’attrito non esaurirà il suo moto. Supponiamo che, in una serie
di esperimenti effettuati con impulsi iniziali di diversa intensità, tutte
le posizioni di arresto siano equiprobabili. Ci si domanda quale sia la
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probabilità che la lancetta si arresti nel settore centrale di ampiezza
15°.
Ammettiamo dapprima che la lancetta possa arrestarsi solo in sei
diverse posizioni, quelle contrassegnate in figura.
Nel settore centrale cadono esattamente due punti, quindi la probabilità è pari a 2/6 = 1/3.
B
G
A
H
F
Passiamo ora al caso continuo. Viene istintivo considerare come
misura dei casi favorevoli la misura del’arco centrale DE e come misura dei casi possibili la misura dell’arco totale: si perviene allora ad
una probabilità di 15°/45° = 1/3. Nulla vieta, però, a priori, di considerare come misura dei casi possibili la lunghezza del segmento BF della figura e come misura dei casi favorevoli la lunghezza del segmento
GH intercettato dal settore centrale sul segmento BF.
In fondo anche i punti del segmento BF, come quelli dell’arco BC,
sono in corrispondenza biunivoca con le posizioni possibili della lancetta, ed i punti del segmento GH sono in corrispondenza biunivoca
con le posizioni favorevoli della lancetta, esattamente come i punti
dell’arco DE. Concettualmente entrambi gli approcci paiono equivalenti. Ma il secondo fornisce un risultato numerico diverso dal primo.
La corretta generalizzazione continua dei concetti discreti non può
fare a meno di verificare l’evidenza intuitiva alla luce dei dati sperimentali. Spetta poi alla teoria matematica stabilirne la coerenza.
Questa è poi la strada storicamente percorsa dal concetto di area,
che costituisce una misura del continuo in geometria. Archimede calcolava le aree per confronto, pensandole come misure dei pesi di figure bidimensionali appese ai bracci di una bilancia. Riportiamo a lato
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un’immagine relativa alla Quadratura della parabola, che rende
l’idea del procedimento.
Newton, alla fine del Seicento, sviluppò le prime idee del calcolo integrale sulla base di processi mentali (dinamici) ideali,
come la trasformazione, mediante
una riduzione continua, di un insieme di rettangoli che approssimano una figura piana curvilinea,
in rettangoli “evanescenti” che la
coprono esattamente.
Nell’Ottocento, infine, Riemann e Darboux, con la loro definizione insiemistica (statica) di integrale, come estremo inferiore
dell’insieme delle somme superiori (ed estremo superiore dell’insieme
delle somme inferiori) concludono l’evoluzione del concetto con la
formalizzazione logica rigorosa.
Questi tre momenti corrispondono a tre diverse concezioni della
scienza matematica, che la vedono rispettivamente come:
• modello del mondo fisico;
• modello del pensiero razionale (applicabile al mondo fisico);
• mondo formale a sé stante, ben fondato e coerente (compatibile
col pensiero razionale).
CONCLUSIONI
Gli sforzi dell’uomo matematico mirano ad imbrigliare il concetto
d’infinito all’interno delle categorie che
gli sono familiari, appartenenti al mondo finito: in questo rientra, in particolare, l’aritmetica dei numeri reali. Molte
delle teorie sviluppate in epoca moderna
vanno esattamente in questa direzione:
la teoria di Cantor-Frege (XIX secolo)
dei cardinali ed ordinali transfiniti, la
teoria degli ordini d’infinito ed infinitesimo, l’analisi non standard, ma anche
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le regole algebriche introdotte da Leibniz (XVII secolo) per il calcolo
di limiti, derivate ed integrali. Per tornare alla questione dell’area,
l’esempio più illuminante è forse il Teorema di Pick, che riconduce la
misura di una regione dello spazio ad un numero finito di punti, e si
applica ad un poligono dal contorno privo di autointersezioni ed i cui
vertici, in un sistema di coordinate cartesiane opportunamente scelto,
hanno entrambe le coordinate intere. La formula per l’area della figura
è
A = I + B/2 –1,
essendo I il numero di punti interni, B il numero di punti sul bordo.
Nel nostro esempio, quindi,
A = 31 + 15/2 – 1 = 37,5.
Nota Il testo sorvola volontariamente sul metodo di esaustione impiegato da Archimede e sulla Teoria degli Indivisibili di Cavalieri. Essi
rimandano direttamente alla distinzione tra infinito/infinitesimo attuale e potenziale, e sono, per questo, poco efficaci didatticamente. Per il
resto, le idee ricordate in questo articolo potrebbero divenire fonte di
attività di laboratorio, basate, ad esempio, sulla consultazione guidata
di testi originali, reperibili nei volumi elencati qui di seguito.
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BIB LI OG RA FI A
1. ARCHIMEDE, Opere, a cura di A. Frajese, UTET, Torino
1974.
2. BELL, E.T., The development of mathematics, McGraw-Hill,
New York-London 1945.
3. BOYER, C.B., Storia della matematica, trad. di A. Carugo,
Mondadori, Milano 1980.
4. DESCARTES, R., Oeuvres, a cura di Ch. Adam e P. Tannery,
Vrin, Parigi 1974.
5. GALILEI, G., Opere, a cura di F. Brunetti, voll. I-II, UTET,
Torino 1964.
6. KLINE, M., Storia del pensiero matematico, voll. I e II, trad. di
A. Conte, Einaudi, Torino 1996.
7. NEWTON, I., Principii di filosofia naturale, Teoria della gravitazione, a cura di F. Enriques e U. Forti, Alberto Stock, Roma
1925.
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