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Collana
Sheherazade
Camera dei deputati
RICCARDO LICATA
Italia 1861-2011
a cura di
Giovanni Granzotto
IL CIGNO GG EDIZIONI
ROMA
RICCARDO LICATA
Italia 1861-2011
a cura di
Giovanni Granzotto
INDICE
Camera dei deputati
18 dicembre 2006 - 15 gennaio 2007
organizzazione generale e catalogo
Il Cigno GG Edizioni, Roma
in collaborazione con
Studio d’Arte GR, Sacile
coordinamento organizzativo
Ugo Granzotto
direzione artistica
Norberto G. Kuri
progetto di allestimento
Luigi Iampieri
in copertina
ITALIA 1861-2011
2010, olio su tela
ISBN 88-7831-201-0*
un ringraziamento particolare a
sen. Rocco Buttiglione
on. Gianfranco Fini
on.Fabio Granata
on. Alberto Michelini
Maria Lucia Fabio
Antonio, Gaspare, Fiorenzo e Giancarlo Lucchetta
Alberto Pasini
Galleria Poliart, Milano
inoltre si ringrazia
Maria Consuelo Amato
Renzo e Alessandra Barbon
Marco Bellotto
Duilio Dal Fabbro
Gianni Frezzato
Renzo Limana
Paolo e Luca Olivato
Marino Sinosi
Ezio e Maria Barbara Trentin
S. Fabrizio Zichichi
Tutti i diritti riservati
© 2010 Il Cigno GG Edizioni
© 2010 Camera dei deputati
IL CIGNO GG EDIZIONI
Piazza San Salvatore in Lauro, 15 00186 Roma
Tel +39 066865493 fax +39 066892109
www.ilcigno.org
sito nel Complesso Monumentale di San Salvatore in Lauro,
un immobile dell’Ente morale Pio Sodalizio dei Piceni.
con il contributo di
on. Fabio Granata
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GLI ANNI VENEZIANI
Giovanni Granzotto
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LICATA AL SUD
Giovanni Granzotto
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Vicepresidente della Commissione parlamentare di inchiesta
sul fenomeno della mafia e sulle altre associazioni criminali
LICATA E IL DELIRIO
Leonardo Conti
DELLA SCRITTURA
RICCARDO LICATA: L’OCCHIO
Dino Marangon
CHE ASCOLTA
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OPERE
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BIOGRAFIA
Michele Beraldo
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ELENCO
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DELLE
OPERE
Riccardo Licata è uno di quegli italiani che l’Unità ha “prodotto”. Di padre siciliano, nasce a Torino e cresce a Venezia. E come molti nostri talenti, ottiene gloria e successo all’estero, nello specifico a Parigi, dove viene chiamato da Severini
alla cattedra di Belle Arti. La recente mostra che il Museo dell’Ermitage di San
Pietroburgo gli ha dedicato (in compagnia dei suoi amici spazialisti e veneziani),
dimostra che la pittura italiana continua ad essere accolta fuori dalla Penisola
con entusiasmo dai più prestigiosi musei del mondo. Bisogna riconoscere che il
nostro Paese, diversamente da quanto purtroppo accade con altri talenti, ha
giustamente onorato questo artista oggi ottantenne con mostre importanti,
come quelle svoltesi a Palermo (Loggiato San Bartolomeo), Roma (Palazzo
Venezia), Perugia (Palazzo dei Priori) e Venezia (Palazzo Ducale). La concomitanza quindi della domenica a porte aperte di Montecitorio, con la possibilità di
vedere nella Sala della Regina della Camera dei Deputati alcuni dei capolavori
tornati dall’esposizione dell’Ermitage di San Pietroburgo, denota come la vena
artistica fiorente del nostro paese riceva anche politicamente grande attenzione. E merita elogio il dono che Licata ha voluto fare alla Camera dei Deputati
e al suo presidente Gianfranco Fini. Si intitola “Italia 1861-2011” ed è un bandiera italiana, rivisitata dal pennello di Licata. I colori si uniscono ai segni, mantenendo la tonalità cromatica del vessillo nazionale. Un invito, anche per i giovani
artisti, a rendere omaggio, nel centocinquantesimo anniversario, alla nostra
Unità, che, al di là delle forze centrifughe e degli errori che possono essere stati
commessi, è una solida base per tutti gli Italiani che vogliono primeggiare col
loro talento nel mondo.
on. Fabio Granata
Vicepresidente della Commissione parlamentare di inchiesta
sul fenomeno della mafia e sulle altre associazioni criminali
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GLI ANNI VENEZIANI
La vita di Riccardo Licata potrebbe veramente essere riportata in un copione
per film, tanto è ricca di avventure e di avventura, di viaggi, di esodi e ritorni conditi da drammi familiari, di temporanei periodi di quiete e di repentini colpi di
scena, spesso accompagnati dalla necessità di ricominciare tutto da capo. Un viatico non solo prerogativa della sua movimentata ma serena esistenza, bensì di
una intera saga familiare: pensiamo al nonno paterno, siciliano, principe di Licata
e Baucina, che, secondo le migliori tradizioni nobiliari isolane, era ineluttabilmente destinato a dissipare, perlomeno a consumare tutto il patrimonio; o a quello
materno, banchiere torinese, che fece nascondere a Parigi il piccolo nipote per
sottrarlo alle pretese ed all'influenza di un genero - il padre - con cui era da subito scoppiata una guerra totale. Pensiamo al doloroso (per un bimbo ancora in
fasce e già conteso) conflitto fra i genitori, con patrigni e matrigne non propriamente paterni e materni; e poi all'infausta, drammatica e materialmente gravosissima conclusione dell'esperienza imprenditoriale del padre, industriale dei
piselli, già molto ricco durante la guerra, e finito in seguito quasi in miseria.
Pensiamo poi alle fughe del giovane e straordinariamente dotato Riccardo dal
troppo avvolgente successo lagunare, verso i rischi parigini, verso orizzonti sconfinati, battuti dai venti dell'Atlantico. E ad attenderlo, non c'era la ricchezza e la
fama, ma solo la bohème, la bohème nel senso autentico della parola.
Dunque una giovinezza in giro per l'Europa, per accidente, per necessità, per
scelta, da nomade curioso e goloso, ma con il cuore profondamente veneziano.
Sì, perché il siciliano di Parigi, Riccardo Licata, nonostante i natali torinesi (ed a
Torino egli fu sempre molto legato), ed una parte dell'adolescenza trascorsa
anche a Roma, le radici profonde ed i riferimenti decisivi li aveva trovati e riconosciuti a Venezia, anzi in Venezia: nella sua cultura cosmopolita, ma un po' sbilanciata, rivolta ad Oriente; nella sua storia consumata e preziosa; nelle sue architetture eterne e fragilissime , come fraseggi e vibrazioni musicali. Venezia stessa
era un ritmo incessante, la materializzazione stratifìcata della musica, e per Licata
la musica era (ed è) il soffio vitale. E poi a Venezia c'era la Biennale, la Biennale
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del dopoguerra, della rinascita e di tutto un mondo giovane che sperava di cambiare quello vecchio; in laguna, a Burano, erano ancora calde le spoglie di una
prima rivoluzione artistica - quella dei Gino Rossi, dei Moggioli, dei Semeghini,
degli Arturo Martini, etc; a Murano invece brillava la luce dei maestri vetrai,
depositari di un mestiere che per Licata possedeva le chiavi per penetrare e carpire anche le zone più misteriose e segrete dell'arte; infine i mosaici di San
Marco gli apparivano come il ponte ancora rilucente verso il passato più affascinante, quello di Ravenna, di Bisanzio, soprattutto quello della fantasia e della leggenda. Ecco perché il trasferimento a Venezia, al seguito della madre e poi del
padre , per compiere gli studi al Liceo - prima scientifico, poi artistico -, ed
all'Accademia di Belle Arti, fu per lui vissuto come un ritorno alle origini, come
un vero ritorno a casa. Almeno fino a quando l'apprezzamento ed il consenso
crescente della città lagunare per l'arte di quel figlio adottivo, non cominciarono
a venire da lui percepiti come sempre più invadenti e soffocanti, tanto da farlo
emigrare a Parigi nel 1957, alla ricerca di una nuova libertà. Su questa fuga,
comunque, ritorneremo più tardi.
Nel frattempo, durante i primissimi anni veneziani, nel 1949, egli inaugura lo smisurato ciclo delle sue esposizioni, con una mostra di giovani artisti suoi conterranei, accomunati dalla scelta di campo astrattista, alla galleria “Numero” di Firenze,
in cui ancor più di quella del Licata ventenne, risalta l'età del diciottenne Ennio
Finzi. Ma già due anni dopo, nel 1951, da poco iniziati gli studi all'Accademia, la
Bevilacqua La Masa gli concede l'opportunità di una esposizione personale.
Licata è convinto di aver compiuto la scelta decisiva , quella dell'astrattismo:
“Dopo un periodo di differenti ricerche, ho dipinto, nel 1948, i miei primi quadri
astratti, nati da una concezione personale della pittura, da una concezione filosofica dell'arte e della storia. Evidentemente questi concetti mi portano verso una
nuova astrazione. Avevo studiato il futurismo, il Suprematismo, il Cubismo, il
Surrealismo, la Bauhaus, l'opera di Kandinskij, Klee, Mondrian, e di tutti gli astratti.
Amavo queste manifestazioni dello spirito libere e poetiche, mentre detestavo la
pittura convenzionale, nazista e fascista, che si situa in un tipo di figurazione nella
sua manifestazione più ottusa... L’astrazione per me era un mito, era la libertà e
l'impegno, l'apertura e l'aderenza di un nuovo tempo, e alla nuova storia"1.
Probabilmente ha già fatto molto di più. Si è, più o meno consciamente, immerso nell'atmosfera “spaziale” e si è fatto trasportare e guidare dalle brezze , e poi
dai venti, e poi dai turbinii che lo Spazialismo, anche e soprattutto nel versante
veneziano, continuava a spirare e generare. Il giovane allievo dell'Accademia,
destinato a diventare uno dei prediletti di Bruno Saetti, già riempiva fogli e cartoni di vaporosi, rabdomantici, mobilissimi segni, che sembravano transitare leggeri, alla ricerca di spazi e collocazioni diverse, di superamenti siderali, di immaginarie collocazioni. Lo spazio fisico e lo spazio della fantasia già si presentavano
come un misterioso unicum, in quella pittura ed in quella grafia freschissima e
pur così incredibilmente matura. E se per continuare a confrontarsi con
l'insegnamento di Saetti, che egli comunque ammirava moltissimo, Licata ancora
sulla metà degli anni cinquanta si concedeva la produzione di alcune opere , di
notevole incisività, con riferimenti figurali di impostazione e matrice spadiniana
(Spadini era stato il maestro di Saetti), già da parecchi anni il fulcro, anzi la quasi
totalità della sua produzione si era inoltrata, oltretutto con esiti formidabili, nelle
praterie dello “Spazialismo”. E le sue frequentazioni, le sue amicizie al di fuori
dell'Accademia, si sviluppavano soprattutto con artisti che a quel movimento
erano direttamente o indirettamente legati. Grande fu l'amicizia con Gino
Morandis, così come egli si sentiva profondamente affascinato ed ammirato dalla
sapienza, dalla altezza dell'insegnamento di Mario De Luigi. Licata non fu mai, per
indole, per temperamento, per istintiva disposizione alla fisicità naturale, direi
perfino per eccessiva abbondanza di talento , un intellettuale, nel senso corrente (magari un po' snob) del termine. Ecco perché la carnale sensualità saettiana
non veniva da lui rifiutata o respinta; ma, allo stesso tempo, la sua sensibilità poetica, il suo fiuto d'esploratore, la sua incessante golosità culturale, lo teneva sempre strettamente in contatto o in prossimità di tutti i poli culturali più avanzati.
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Senza, però, farsene avviluppare o stravolgere, comunque senza mai subirne
l'abbraccio soffocante. Ecco che la lezione degli artisti spaziali veniva da lui assimilata e riofferta alla sua maniera, con poche derive concettuali, e con , invece,
una sorta di frenesia nel raggiungere, per la strada maestra e diretta, senza impacci, lacciuoli e discussioni teoriche, la dimensione dello spazio fantastico . E proprio
lui, esempio di stile e di alta decorazione, erede dei maestri di bottega, e custode fedele delle regole e dei segreti del mestiere, in nessun aspetto e momento
del suo operare dimenticava o abdicava a quella qualità primaria che fin dagli
esordi si era dimostrata una prerogativa della sua arte: la capacità di sintesi. Anche
quando, soprattutto nelle incisioni della prima metà degli anni Cinquanta, la textura era articolatissima, a raggiera, a sovrapposizioni ed incastri,
tutto rientrava nell'alveo e scorreva leggero e fluente verso la foce della partitura conclusiva. I merletti, i pizzi, i soffi, gli spartiti complessi e intrecciati, tutto veniva ricondotto semplicemente e naturalmente ad una solidissima sintesi compositiva. Secondo la vocazione di un uomo e di un artista colto e ricchissimo di esperienze e conoscenze, ma con il talento per la semplificazione e la naturalezza.
E così Licata ascoltava e frequentava tutti, senza farsi un nemico, ma senza mai
affidarsi a piaggerie e senza assecondare la moda pur di compiacere il potente
di turno, fosse un pittore, un critico, un mercante. Riuscì davvero ad essere amico
del diavolo e dell'acqua santa, di Vedova e di Pizzinato, di Santomaso e di
Tancredi, di Deluigi e di Saetti, di Viani, di Bacci e di Morandis, con cui - come
abbiamo già sottolineato - era legato da particolare stima ed amicizia; di
Gianquinto, perfino di Gaspari, ed anche di Guidi, che pur considerava i saettiani dell'Accademia, come una colonia da deportare in qualche isola deserta. E
ancora fortunati e importanti furono i rapporti con i suoi coetanei del panorama spazialista come Blenner, Finzi, Vianello, la Bruna Gasparini, ma anche quelli
successivi con giovani dalle aspirazioni e dalle storie diverse, come Vittorio
Basaglia e Carmelo Zotti, due artisti ancora legati alla tradizione iconografica
della pittura, pur con declinazioni estremamente diverse: quella di Basaglia molto
più legata a stilemi plastici e compositivi, quella di lotti tutta indirizzata verso
le allusioni simboliche della Metafisica e del Surrealismo.
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E poi gli incontri e le collaborazioni con i mille giovani testimoni, come ad esempio il vulcanico e funambolico Giorgio Celiberti, che oltretutto era stato suo
compagno al Liceo artistico, di una stagione dell'arte italiana che non poteva non
riconoscersi negli eventi e nell'atmosfera veneziana di quegli anni Cinquanta.
Soprattutto Licata fu davvero amato ed apprezzato da tutti i maggiori esponenti della critica che avevano contribuito a rendere Venezia una capitale dell'arte
europea: Umbro Apollonio, Giuseppe Mazzariol, Giuseppe Marchiori , etc.
Come abbiamo già anticipato, però, gli inviti alle Biennali, il Primo Premio alla
Bevilacqua La Masa, gli importantissimi riconoscimenti, anche di risonanza europea, alla sua magica arte grafica, iniziarono a turbare gli equilibri e le aspettative
del giovanissimo e già molto lodato Riccardo.
Il colpo di grazia al suo radicamento in laguna lo diede, infine, Carlo Cardazzo, il
grande mercante veneziano, proponendogli un contratto di esclusiva, che gli
avrebbe garantito la sicurezza economica, ma che lo avrebbe legato, condizionandolo, alle esigenze ed alle leggi del mercato. Fu l'occasione (o la scusa?) per
fare la valigia, per raccogliere tutto e scappare rapidamente alla volta del miraggio parigino, seguendo la cometa dell'avventura, della libertà, del rischio, magari
anche sostenuti dal fascino di una sirena come Gino Severini, che del genio di
Licata era davvero innamorato. E da quel 1957 diventò parigino a tutti gli effetti, pur mantenendo la cittadinanza ed il cuore in Italia, e pur tornando ogni anno,
per tutta l'estate, nella sua Venezia. In uno di questi ritorni, nel 1959, conoscerà
l'amore della sua vita, la dolce cantante Maria Battistella, che avrà il coraggio e la
spensieratezza di affrontare con lui la bohème parigina. Si sposarono per allegria
nel 1961 e l'anno dopo nasceva Giovanni, con già la musica segnata nel destino.
Ma fin dal 1957 era nata un'altra vicenda, l'altra storia di un Maestro, che forse,
se fosse rimasto aVenezia, avrebbe potuto contribuire in maniera ancor più decisiva alla valorizzazione dell’arte italiana.
Giovanni Granzotto
1 Riccardo Licata, testimonianza per il volume: "Les Années 50, eintures, sculptures...", a cura di Gérard Xuriguera, Arted, Parigi, 1984.
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LICATA AL SUD
Riccardo Licata è nato a Torino, ha trascorso l’infanzia fra il Piemonte e Roma e
la giovinezza a Venezia, per poi trasferirsi a Parigi, dove abita tuttora, pur con
molti ritorni nella città lagunare.
Sembrerebbe, dunque, un uomo del Nord, anche perché molti sono stati i viaggi e
le sue scorribande nel cuore dell’Europa continentale. Eppure le sue radici sono nel
Mediterraneo, sono il Sud del mondo. Il nonno apparteneva a una nobile famiglia
di Licata, splendida città siciliana situata fra Selinunte ed Agrigento, terra di confluenze idrografiche e culturali. E l’inizio del recupero di queste radici (che ha un po’ cambiato, dopo i settant’anni, sia il timbro della sua vita che quello della sua arte) ha
coinciso con la sua discesa nelle Marche, qualche anno fa, per alcune mostre tenutesi fra Urbino, Osimo, Numana: un viaggio che lo ha riavvicinato alla grande cultura classica italiana, facendogli riscoprire gli insegnamenti del Rinascimento, ma anche
dei Primitivi, dei Maestri senesi e del Centro Italia. «Ma la novità più significativa del
suo lavoro di questi ultimi due anni è soprattutto legata alla scoperta, meglio alla
riscoperta della nostra cultura rinascimentale. E non solo della cultura, anche dei
luoghi in cui essa si è sviluppata. Proprio lui, uomo e artista di origini e di indole profondamente mediterranea, così biologicamente legato alla linfa del classicismo
romano-bizantino, aveva dovuto un po’ trascurare i ritorni ed i rincontri con le proprie radici e con la propria storia, per seguire il vento del Nord Europa [...]»1.
Dunque Palazzo Ducale ad Urbino è stata la sede di una sua importante antologica, ma anche la testa di ponte, il cuneo, il punto di partenza per la sua discesa al
Sud, e per il recupero definitivo della sua anima mediterranea e meridionale. Da
quel momento l’incontro con le regole e la sintassi razionalista della tradizione classica, e quello con la “visione” di un nuovo paesaggio, più caldo, più assolato, abbagliante, ha iniziato a conquistare il cuore e la ragione del Maestro, portandolo a riappropriarsi di territori della memoria che erano stati, se non dismessi, un po’ abbandonati. Si è così venuta affermando, nel suo lavoro, una luce nuova, più diretta e rappresentativa rispetto a quella trasparente ed atmosferica che aveva fabbricato
l’impalcatura dell’opera licatiana per tanti decenni, soprattutto nei lavori a tempera,
e nei sensibilissimi acquarelli dei suoi diari di viaggio. La luce che lo aveva accompagnato dalla metà degli anni Sessanta fino quasi alla fine dell’ultimo decennio – con
pochi momenti d’eccezione, negli anni Ottanta e Novanta – giocava, all’interno dell’opera, un ruolo determinante ma indiretto, di collegamento, di amalgama, e di chiarificazione atmosferica. Ma, negli ultimi anni, quel ruolo ha assunto una portata ed
una carica assolutamente invasiva, rilanciando una condizione luminosa di natura
immanente, a cui viene affidato il compito di costruire, unificandola, l’immagine; e
non soltanto di accompagnarla, rischiarandola o spegnendola a seconda dei passaggi emotivi dell’artista. La luminosità interna, quella luce che viene da dentro, che
identifica e sostiene l’immagine, e che si irradia verso l’esterno, secondo la tradizione italiana, da Giotto al Beato Angelico, a Piero della Francesca, per arrivare fino a
un grande veneziano (d’adozione) dei nostri tempi,Virgilio Guidi, viene a ricongiungersi con una solarità mediterranea, abbagliante, talvolta accecante, sempre incorrotta. Si sviluppa così un ciclo di opere di avvolgente e forte calore cromatico, indirizzate alla descrizione di tracciati paesaggistici ed emozionali legati al Sud dell’Italia.
E se prima Licata descriveva e rappresentava atmosfere e vibrazioni luministiche,
ora sembra voler andare al cuore della terra, dei luoghi, per raccontarne, per riportarne il succo, l’anima profonda, il calore, il flusso vitale. Nascono ricordi, fotografie
di città come Napoli, Caserta, Cosenza, e di regioni come la Sardegna, la Campania,
la Calabria, la Sicilia. E non siamo più davanti a testimonianze affettuose, delicate e
sensibilissime, come nei “reportages” dipinti sui suoi viaggi nel Nord dell’Europa e
dell’Italia. Ora siamo a confrontarci con un’immedesimazione completa nel paesaggio, in una zona di partecipazione emotiva e di immersione quasi fisica, che conduce la pittura di Licata a compenetrarsi con il luogo.
Non è, in verità, che le radici bizantine e veneziane, trapassate nel gesto pittorico,
attraverso il magistero del mosaico, per il tramite e la guida di quelle tessere musive che racchiudevano e tramandavano i misteri della cultura antica, non avessero da
sempre innervato l’ossatura robusta e già ben strutturata dell’arte licatiana; per di
più con una linfa ricca di valori e sapienze latine, e di umori pregni di un misticismo
orientaleggiante. E neppure erano questi i primi incontri e confronti di Licata con le
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arcane allusioni di un esoterismo tanto diffuso nel bacino del Basso Mediterraneo:
frequenti, infatti, erano stati i viaggi del Maestro nelle regioni magrebine, e soprattutto in Egitto. Anzi, proprio da tutto questo agglomerato di storia, oltre che dalla sua
anima veneziana, era nato e si era sviluppato un alfabeto apparentemente criptico,
e non decodificabile, se non, appunto, immergendolo in un percorso a ritroso, nel
ventre della cultura veneziana, bizantina, medio-orientale. In questa nuova fase, però,
è la risposta di Licata nei confronti dei suoi viaggi e dei suoi incontri che è cambiata: l’emozione è cresciuta, è diventata più forte, più intensa, più diretta.
Ed ecco, a sistemare le cose, a riposizionare le carte, quasi per incanto, ma secondo il costume e le abitudini di una fantasia davvero sconfinata, il sopraggiungere, in
soccorso di Licata, della poesia: prima lo strepitoso Quasimodo traduttore dei “Lirici
greci”, poi il Quasimodo cantore in proprio di miti antichi e contemporanei; infine
l’incontro fascinoso, felpato, e dolcemente dirompente con Tagore. Ebbene,
l’avvicinarsi di Licata al verso ed al ritmo quasimodiano diventa lo strumento ideale per ripulire e definire in chiave metrico-sintattica il suo linguaggio: lo scopriamo
tendere ad asciugare il proprio verso pittorico, alla ricerca della massima sonorità
ed espressività, con il minor dispiegamento di mezzi possibile: tutto lo sforzo creativo è indirizzato nel conferire all’opera quell’apporto di calore e di vigore emozionale, tale da riuscire a rappresentare la solarità ed il fuoco mediterraneo senza
digressioni, senza divagazioni formaliste, senza gratuite dispersioni di energia. Con
dipinti come Mediterraneo, Sicilia, Tindari, etc., veniamo a scoprire una pittura caldissima ed egualmente equilibrata e serena.Accade però che questi non siano i soli
motivi di ispirazione della sua arte negli anni recenti: Licata, infatti, si lascia anche trasportare nei mondi, altrettanto mitici, ma forse ancor più misteriosi, sicuramente
meno definibili, della poesia orientale ed indiana in particolare.
È ormai noto che una costante della sua arte si sia sempre rivelata il continuo, ma
non programmato, oscillare fra l’espressione di una emozione decantata e di una
pulsione dichiarata, diretta; fra una semplificazione ed una articolazione narrativa; fra
un colore di collegamento e delle cromie invece direttamente espressive. È proprio
quello che sta accadendo anche in questa fase, con i repentini e non prevedibili pas-
saggi di Licata da una fonte di ispirazione all’altra, ma senza strappi, e naturalmente
senza contraddizioni e soprattutto senza mai rinnegare nulla di ciò che è già stato.
«In verità, con Licata, ci si dovrebbe sempre limitare ai percorsi tendenziali, perché
le sue traiettorie continuamente si intersecano, spesso si frantumano, sembrano
polverizzarsi, o addirittura ripresentarsi nella direzione opposta, per poi, improvvisamente e soprattutto inaspettatamente, rilanciare il discorso ed il viaggio che sembrava essere interrotto, se non già superato»2.
Certo, l’armonia ritmica, la musicalità radiosa, la purezza lirica delle poesie di Tagore
lo sospingono a ricuperare compiutamente gli strumenti narrativi ed espressivi, a
lavorare nel dettaglio, a cercare di far emergere, con un tracciato concitato ma vigilantissimo, attraverso la graffiatura e l’incisione nel colore, tutte le corde, tutte le vibrazioni che attendono di essere comunicate o riconosciute. D’altronde certe anticipazioni sul piano stilistico-formale erano già riscontrabili in alcune opere dei decenni
precedenti: «[…] importante rilevare come […] non vi sia più dissolvimento del
segno nel supporto attraverso il colore, come avviene nelle accidentate superfici della
carta fatta a mano e persino nell’uso stratificato del colore graffiato, di certe tele degli
anni Sessanta»3. E poi, come aveva felicemente intuito Leonardo Conti, fra la cultura
orientale ed il linguaggio, l’alfabeto licatiano, risaltava da sempre una formidabile e fisiologica consonanza: «L’Occidente […] in tre millenni di scrittura ha fatto una scelta
fonetica e funzionalista, ha cioè progressivamente eliminato gli aspetti materiali ed
estetici della scrittura: i nostri segni hanno perso l’aderenza al reale, com’è invece nell’ideogramma orientale e nella sua propensione a salvare la totalità della presenza
delle cose […] nei semiogrammi di Licata c’è una sola presenza […] quest’illeggibile
scrittura recupera la spazialità e la sensorialità della nostra cultura […]»4.
Anche se con Tagore non c’è da confrontarsi sul piano degli ideogrammi, quell’entrare di Licata nel cuore del colore (con il candore del bianco che generalmente
domina o sostiene la scena), con la punta del pennello, quasi un bulino, o un bisturi, per graffiare, scavare, trovare una terza dimensione, sembra indicare che le scelte formali e stilistiche di Licata, in questa fase di stretto legame con la poesia indiana, siano indirizzate anche verso una ricerca onomatopeica, verso una sottolineatura delle corrispondenze sonore fra materia, gesto e fraseggio poetico. E questa sot-
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tolineatura, questa fase di rinnovato ricupero delle “corrispondenze sonore”, era
quasi inevitabile che riconducesse il Maestro anche a reimmergersi nella sua fonte
prima d’ispirazione: la musica. Il tuffo nell’oceano della poesia, mediterranea ed
orientale, ha fatto riaffiorare tutti i tempi ed i ritmi dell’ispirazione licatiana; meglio,
ha ridato slancio e passione a quel sentimento, a quella “visione” ritmica e sinfonica
degli accadimenti che da sempre ha guidato i suoi sensi, conducendolo nuovamente verso la costruzione di polifonie pittoriche che ci abbagliano per il candore, la
purezza, il nitore del loro fraseggio. Peraltro, il suo alfabeto, il suo magico linguaggio,
i suoi segni riconosciuti, ma non riconoscibili erano proprio nati su queste sponde,
dall’incontro, avvenuto ben più di cinquant’anni fa, fra Licata e la musica, i concerti;
ora il cerchio sembra chiudersi completamente, in un abbraccio perfetto fra la tradizione classica delle arti visive, e l’afflato lirico e musicale che permea tutta la vita.
E, comunque, si tratta sempre dello stesso Licata, che aspira alla riscoperta ed al
riconoscimento della luce zenitale, della luminosità assoluta ma immanente, della
luce-colore che edifica e non solo rischiara la realtà. Il Licata di Il nome di Maria, di
Tindari e di Omaggio a Tagore, che senza cambiare o spostare la meta, solamente
adegua i propri mezzi espressivi, a seconda delle diverse disposizioni emotive e sentimentali. Infatti, anche dopo l’immersione nel pianeta Tagore, il suo si conferma un
viaggio verso gli orizzonti assolati di una cultura del Sud del mondo, verso l’universo
della luce assoluta, verso i pozzi del fuoco vitale; che continua ad ardere, pur senza
bruciare, né consumare le fonti, le sorgenti della propria cultura. E senza rinunciare
a quel rapporto filiale con l’elemento e l’ordine primigenio: la Natura.
LICATA
E IL DELIRIO DELLA SCRITTURA
Darsena Reale; Napoli, Castel dell’Ovo; Oporto, Palacio de Bolsa, settembre 2005-maggio 2006, Il Cigno GG Edizioni, Roma, settembre 2005.
2 Ibidem.
3 L. Conti, Il corpo della scrittura, in catalogo della mostra Licata, Arazzi tenutasi a Torino, Palazzo Graneri, marzo-aprile 2002, Verso
l’Arte Editore, Cerrina Monferrato (Al) 2002..
4 Ibidem.
Le opere presenti in quest’antologica moscovita, mostrano pienamente quella
che è stata da sempre la segreta predisposizione di Riccardo Licata:
l’assimilazione. Con una straordinaria capacità d’inclusione, l’artista è rimasto
costantemente in ascolto, lasciandosi stupire dall’epifania delle cose, tra le quali
ha progressivamente e infaticabilmente introdotto questa sua scrittura inimitabile e in permanente formazione.
È soprattutto negli ultimi dieci anni, che, in occasione di numerose esposizioni
internazionali, questa predisposizione è stata osservata sotto le più svariate sfaccettature. Non molti artisti viventi sono stati studiati ed indagati così approfonditamente. Credo, in proposito, che un’antologia critica licatiana, se affrontata
con dedizione, possa davvero mostrare quali immense possibilità di pensiero sia
in grado d’innescare un artista contemporaneo. Licata può probabilmente
essere considerato, alla luce di un simile sforzo, come un traghettatore dell’arte,
dalle sensibilità dei primi anni Cinquanta sino all’attualità. La sua illeggibile scrittura si è dipanata come una via immaginaria attraverso lo spazio e il tempo, disegnando una rotta che, se imboccata, può rappresentare un preludio ad
un’archeologia di un mutevole contemporaneo.
Uno sguardo d’insieme, come in un sorvolo antologico, può cogliere, in
un’inossidabile coerenza, il movimento di un’impercettibile, quasi proustiana, trasformazione. Mantenendo, infatti, la sua inconfondibile consistenza stilistica, questa ricerca non ha cessato d’inventarsi, assimilandosi alle più varie sperimentazioni pittoriche.
E l’eclettismo sfrenato di Licata è parte di questo processo d’assimilazione costante,
a tu per tu con i molteplici materiali, che presuppongono una perizia manuale sempre rinnovata. Ed è in questo continuo misurarsi con le diversità delle tecniche, che
Licata ha creato una corrispondenza stringente tra le manualità faticosamente conquistate e quell’atteggiamento d’apertura mentale, laico voglio dire, che rappresenta il vertice più alto dell’indecisione creativa della cultura occidentale degli ultimi
decenni. Qui risiede la capacità inclusiva dell’arte, lo stupore di fronte ad una diversità di sé stessa, che finisce per sostanziarne lo “slancio vitale”.
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Giovanni Granzotto
1 G. Granzotto, L’ultimo Licata, in catalogo della mostra Riccardo Licata e la Musa Mediterranea tenutasi a Barcellona, Museo Marittimo della
Già altrove avevo cercato di mostrare come i legami interni di questa illeggibilità licatiana, paratattici o ipotattici, costituissero la parte visibile del sedimentarsi
progressivo dell’esperienza di un mondo in formazione.
L’artista da sempre annota, si sa. Questo emerge in particolare nei diari e nei taccuini, che rappresentano l’indelebile traccia del diuturno intaglio dell’inconscio visibile della pittura. Mi servo, ovviamente, di una nozione anti-psicanalitica di “inconscio”, che ne evidenzi le potenzialità produttive di senso vitale, innescate nel presente, che fanno il presente. Credo possa anche essere questo il senso di pagine,
pagine e ancora pagine, di preziosissima carta, abitata da una molteplicità non solo
scritturale, ma timbrica, spaziale e, soprattutto, equorea, nella quale l’artista
risuona con la superficie. Sì, nei taccuini, la traccia licatiana spesso dilaga, e non per
tentare gli argini, ma per attraversare un velario già diafano, per accogliere il passaggio di un segno che divenuto corrente, già vive nel profondo, nel presente.
Navigando attraverso simili maree, si coglie lo sciabordio di questa scrittura che
si tinge del riverbero delle cose. Ed è proprio in questa vibrazione, sempre percepibile nei fogli più alti, che la pagina di Licata sfugge alla sua appartenenza visibile, la pittura, per inoltrarsi persino nei territori della musica e della poesia. E pur
rendendomi conto dell’apparente elusività di una simile interpretazione, tuttavia
credo sia proprio la capacità di sfuggire ai vincoli della visualità, uno dei principali
pregi dell’arte di Licata. La “scrittura”, del resto, che non è pittura, sin dall’inizio
veniva confondendo le acque, creava un’impasse di giudizio nella critica d’arte,
che, per quanto di costituzione onnivora, sembrava dover cedere il passo alla critica letteraria, probabilmente più idonea, ma ineluttabilmente muta di fronte all’illeggibilità licatiana. Di qui, allora, i tentativi di centrare diverse zone di sfocatura, la
massa critico-interpretativa appunto, nelle quali approssimarsi, da ogni lato, all’imprendibile ambiguità: è così che è stato possibile occuparsi di un’imponente
molteplicità tematica, sino alla poesia e, per parte mia, di musica.
Parlare di musica non è di certo inadeguato, per quel che riguarda Licata, infatti
la musica non ha cessato di accompagnare il suo senso della pittura. Talvolta
accontentandosi di legare, come in una danza, la battuta musicale al gesto pittori-
co della mano, talvolta ponderando l’organizzazione interna delle opere, come
quando condensa, in inestricabili gruppi, la sua scrittura all’interno di settori dipinti sulla tela. Così accade spesso nel recente ciclo dei graffiati, che Giovanni
Granzotto definisce, con discreta civetteria, di “alta decorazione”, cogliendo, tra le
righe, una tale maestria di Licata nel maneggiare la “scrittura”, da consentirgli quasi
di fuoriuscire dalla sua stessa invenzione: ci riferisce di un “sapere artigiano”
Granzotto, che affinato in decenni di rielaborazioni successive dell’invenzione, è
stato in grado di aggiungere ponti materiali, sui quali l’illeggibilità licatiana può
riconvertirsi nuovamente in creazione. La definizione di “alta decorazione” riscontra, nei graffiati, questo spessore del lavoro, in cui la pittura si converte in incisione,
in cui il pennello bulina, d’un fiato, intricati sentieri di scrittura nella pasta ancora
molle del colore, quasi in un riscatto da naufrago, che sulla spiaggia deserta già
incideva speranze, presto allagate dalla noia montante delle maree.
Così, se nell’atto storico del suo sorgere, l’arte di Licata poteva riassumersi nel
noto motto “il segno è il senso”, è al culmine del gioco combinatorio della sua
“scrittura”, che l’artista rivela pienamente la possibilità, da tempo intravista, di una
percezione di blocchi, di gruppi segnici, in cui la singolarità di ogni “carattere”
scompare. Qui non si può più parlare di articolazioni, di sviluppo, di frase, di
decorso temporale dell’illeggibilità, quanto piuttosto di eventi collettivi, di gruppi coesi, di presentazione pittorica. Ed anche ora un forte richiamo alle esperienze musicali è possibile, forse inevitabile, ed è legato, tra gli altri, mi sembra in
modo pregnante, al concetto di “gruppo” di un compositore come Karlheinz
Stockhausen, per il quale il senso della presentazione complessa di gruppi di
suoni, si opponeva al decorso temporale della frase musicale. Ma se il fine del
compositore era l’abolizione del tempo e di ogni gerarchia tra i suoni, attraverso la creazione di “relazioni fluttuanti” tra i gruppi, Licata giunge ad emancipare
i suoi segni dalla percezione narrativo-lineare dell’illeggibilità, costituendo delle
relazioni differenziali tra blocchi di senso condensato.
Alla luce delle sue trasformazioni, sembra che l’immensa partitura licatiana (non
essendo propriamente né scrittura né pittura, posso concedermi ora
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d’adagiarmi su questa nuova imprecisione), possa apparire come un vasto piano
d’immanenza, nel quale continuamente si formano, mescolate insieme, le cose e
l’uomo, in un pensiero visibile che è, in senso forte, quelle stesse cose e quell’uomo. Si tratta di un pensiero visibile volontariamente impegnato nell’invenzione di un modo di esistere.
Credo sia per questo che la “scrittura” licatiana ha potuto essere definita persino
“iconoclasta” (definizione su cui è recentemente tornato con chiarezza Luciano
Caramel), perché costantemente aperta sulla pluralità immanente del divenire visibile, essa ha rinunciato all’immagine riflessa delle cose, che non potendo accadere
che a posteriori, resta come eccedente di ciò che è già dato. La totalità rappresentativa dell’arte di Licata, ma bisognerebbe dire presentativa, è, invece, contestuale,
consiste in quelle relazioni vitali che fondano le cose, relazioni che non cessano di
innescare un’esperienza continua. I segni di Licata non registrano, innestano.
È per questo, che stando in questa parte, nella parte di chi guarda un simile orizzonte, sarebbe imperdonabile isolarsi in una riflessione esclusivamente teorica,
rischiando persino un’accusa d’intellettualismo, perché l’arte di Licata è soprattutto partecipazione attiva, coinvolgimento negli atti, è più nel processo che la produce che nel prodotto finale. Per sintonizzarci, allora, a noi compete il traghettarci attraverso la pratica dell’attivazione artistica, intesa come modello educativo.
Non finisce lì l’arte (c’era da aspettarselo), e non finisce neppure qui (in una ricreativa contemplazione), perché se finisse non varrebbe nulla: il museo stesso
dovrebbe essere inteso come un giacimento creativo, non come un cimitero contemplativo, sapendo bene che questo giacimento non attiva, va attivato, con uno
sforzo di pensiero e fisico. Sì, anche fisico. È quello stesso sforzo fisico che emerge,
nel caso di Licata, nell’“alta decorazione”, che gli ha permesso di superare la sua
stessa invenzione. Gli artisti sono grandi attivatori di giacimenti.
C’è sempre un “sapere delle mani” che s’innesta in quella “sensibilità”, che abbiamo
tanto spesso considerato come guida della creazione. E, invece, il più delle volte non
esiste quella guida, ogni artista lo sa, c’è più spesso un inoltrarsi in un gioco complesso, nel quale il risultato è più una traccia che un fine previsto. Ritornano le idee
di Paul Klee, secondo il quale la forma è “formazione della forma” più che risultato.
Sono certo che questo restare dell’artista dentro al processo formativo, nel suo
divenire, abbia proprio a che fare con la “rivoluzione permanente” di un proprio
modo di esistere, scelto consapevolmente e volontariamente. Un’arte che
inventa la vita. Gli scettici potranno facilmente immaginare l’esilarante scenetta
nella quale un artista, colmo di rammarico, lamenta la propria condizione, lui che
avrebbe sognato d’essere impiegato in banca!
L’essere artista è soprattutto un privilegio, nonostante tutto.
Nonostante la presenza minacciosa di quella che i più considerano come voragine del fallimento, spettro angosciante dell’estremo supplizio: la discesa dell’oblio sulla propria arte. La negazione della vagheggiata salvezza dalla morte?
“Non omnis moriar, multaque pars mei vivabit Libitinam”, cantava con orgoglio
Orazio. Per qualcuno, invece, è proprio in quest’esperienza di sparizione, di
fronte alla storia e di fronte al tempo, che si misura il processo formativo di sé,
è in questo “culmine”, per usare una nozione di Bataille, è in questo indelebile
ossimoro dell’annullamento creativo, in questa negazione del potere eternante
dell’arte, in quest’irresistibile risata subentrata al posto dell’umana ambizione,
che è possibile scorgere il “possibile”, il decisivo passo concesso all’uomo-artistadi-sé: il passaggio del confine verso un uomo nuovo, l’uomo a venire (quel superuomo forse, intravisto da Nietzsche). Credo che l’opera d’arte sia la traccia di
un simile modo di esistere. Da lì dobbiamo cominciare.
Il cominciare di Licata è lo scoprire per la prima volta il mondo delle cose che
si aggrappano alle emozioni. Ma non ci sono emozioni separate dalle cose.
Sorgono insieme. L’opera coincide con l’emozione che sgorga da lì. L’arte ha
sempre a che fare con la costruzione volontaria delle emozioni. Ma come dire
il mondo per la prima volta senza le parole? Balbettare il mondo, scambiarlo con
quei suoni sconnessi, ai quali a poco a poco ognuno darà un senso emozionato.
Se la scrittura di questa pagina potesse parlare, se potesse davvero dire,
uscirebbe di sé, diverrebbe la scrittura illeggibile di Licata.
Ancora. Dire per la prima volta il mondo. C’è bisogno di gesti che non potran-
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no che essere sconnessi, almeno all’inizio, sconnessi perché il mondo sorge sulla
loro imprevedibilità. Fallire. Ancora una volta. Non riuscire a scrivere, perché non
basta la scrittura per dire. Quando basta è perché c’è qualcosa che sfugge alla
dominazione della parola, come nella poesia: la poesia è sempre sovversiva, fuggiasca, rivoluzionaria. L’arte ha a che fare con la rivoluzione. La rivoluzione inarrestabile della prima volta. L’ha inseguita Nietszche, lui giullare e poeta, ma non
filosofo, che preferiva danzare. Preferiva danzare, con le stelle nascenti.
Ancora. La desertificazione del linguaggio. L’incapacità di abbandonarsi alla
schizofrenia dell’esperienza estetica. L’impossibilità di uscire dalla tautologia dell’identità. Nell’epoca dell’eteronomia dell’arte. Ricominciare, allora, è sospetto.
Cominciare e basta. Come se nulla fosse. È possibile? Non è possibile. Questo
linguaggio ne è la dimostrazione. Credere di capirsi è riconoscere il denominatore dell’eteronomia.Tacere allora. O delirare. Sì, cominciare a delirare.
Scrivere una scrittura illeggibile, intraducibile. Conquistarsi la propria incomprensione, uno spazio d’inquieta follia. Unire le proprie molteplici e vive incomprensioni, contro alla sudditanza dei saperi e dei valori. È troppo? Sì, se non hai il coraggio di cominciare.
Il nome dell’autore non è importante. Il nome conta soltanto nelle anagrafi, nelle
classificazioni, nei grafici, nelle valutazioni, nei libri di storia e sulle lapidi. Le idee
non appartengono a qualcuno, sono mescolate, non è possibile separarle, così le
uccidi, fatti il segno della croce. Non c’è una croce. C’è l’albero-totem, è questo il
nome ambiguo e provvisorio che gli hanno dato. È quello che assomiglia di più a
una croce. Analogie. Ma non è una croce! Fatti il segno dell’albero-totem…
Leonardo Conti
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RICCARDO LICATA: L’OCCHIO
CHE ASCOLTA
“Riccardo Licata”, ricorderà Giuseppe Mazzariol nella sua presentazione in occasione della Biennale del 1956 ,“cominciò a disegnare frequentando i concerti. Sul
breve foglio di un notes inseguiva i percorsi spaziali della musica. Erano centinaia
e centinaia di spartiti figurativi. . . . Non intendeva avessero un particolare interesse o significato . Era un modo di ascoltare la musica. Di rappresentare con cretamente un’immagine. Di coglierne la misura, di segnarne le articolazioni, di subirne veramente e interamente il 'numero' . Una esperienza e nientaltro1”, ma fondamentale per comprendere il modo di porsi di Licata nei confronti della molteplicità del reale. Un voler, fin dagli inizi, tranquillamente andar oltre i limiti della
visualità, non tanto per seguire le istanze di una nativa propensione alla sinestesia,
bensì per dare spazio a una spontanea2 esigenza di verità3 e di uni versalità.
Genuino frutto di tali istanze sarà il dirompente sgorgare delle sue “scritture” nelle
quali convivono attivamente, con diversa, ma non necessariamente antagonis tica,
prevalenza, le ritmicamente riproponibili qualità sonore dei pur inediti e indecifrabili caratteri “alfabetici” e i sempre differenti valori semantici pur enigmaticamente riferibili alle molteplici modalità di una libera e irnmaginativa rappresentazione
pittorica. Una sempre mutevole ambivalenza quella evidenziata dalle opere di
Licata, in grado di far emergere e, in generale, di veicolare, tramite il multiforme
proliferare dei segni e delle immagini, i molteplici aspetti della totalità del vivere:
dall'affiorare di lontane memorie, all'affacciarsi di ipotesi futuribili, dal rinvenimento di sfuggenti premonizioni alla flagranza di vivissime e coinvolgenti sensazioni,
dall'incombere di chiari e perspicui riferimenti al rinvenimento e alla messa a
tema delle più lontane ed evocative analogie, il tutto, per di più , ulteri ormente
complicato dalla contempora nea compresenza di due fondamentali e apparentemente contrapposte istanze: l'una volta al ritrovamento e all'affermazione dei
mobilissimi 'atomi' della propria incoercibile e incomparabile identità personale,
e l’altra indirizzata a raggiungere un consistente livello comune di partecipazione.
[. . .] Licata pare così inserirsi nel vasto e profondo alveo di una tradizione culturale4 che peraltro , con il trascorrere dei decenni è andata, magari inconsapevolmen25
te, diventando patrimonio comune dell'uomo contemporaneo. Si tratta comunque di qualcosa di ben diverso dalla pura e semplice registrazione meccanica di
quanto passa per la testa. Licata è infatti un artista che, come Joyce, sembra procedere “. . . semmai per lampi intuitivi che si dispongono però come tasselli di un
mosaico mentale estremamente elaborato, nel cui disegno predomina costantemente l'elemento linguistico . . . fonico “ e, nel caso del pittore, grafico-immaginativo, “ . . . più ancora che semantico"5, anche se sempre efficienti, pur se variamente
individuabili e riconoscibili, rimangono i legami palesi o nascosti che congiungono
il pullulare dei segni, degli alfabeti, dei nuclei conici, non solo ai diversi enti, ma
anche ai loro effetti, alle loro consequenze, ai loro prolungamenti spazio-temporali, connettendoli ai molteplici universi delle esperienze, delle sensazioni, delle
memorie, dei miti, delle conoscenze e delle utopie. Nel caso di Licata occorre
comunque, ancora una volta, per altro verso, sottolineare la spontaneità della sua
elaborazione psicooperativa, spontaneità che si manifesta in una fertile inventività
di ipotesi continuamente insorgenti, in una costante ricerca di verità, senza limitazioni e senza veli, sia rispetto alla propria personale interiorità e capacità cognitiva
e fantastica, che, in generale, rispetto all'ambiente, naturale e umano che lo circonda. Al punto che credo si possa affermare che, per lui, la realtà non si configuri mai
come qualcosa di statico e di stabilito, bensì , pragmatisticamente, al di fuori di ogni
presupposto necessitarismo, come ciò che può prodursi all'interazione fenomenologica e genetico-funzionale della volontà dell'uomo. È proprio questa fondamentale apertura al futuro che fa emergere la sostanza essenzialmente morale6 dell'arte di Licata. La sua completa accettazione del reale, la sua caratteristica capacità di rinvenire e riproporre il bello in ogni cosa e in ogni circostanza, in ogni aspetto della vita, di volgere al positivo un universo a lungo pressoché unanimemente
declinato in chiave di rottura, di perdita, di crisi e di dispersione, il suo librarsi al di
sopra del panorama di infinita confusione e futilità della quotidianità e della cronaca contemporanee, appaiono infatti come il frutto di una costante, forse ingenua,
ma inamovibile, testarda e incancellabi le volontà migliorativa.
Ciò che conta è comunque il perfetto adeguamento al 'mondo' così costituito
dall'artista della formulazione che egli sa darne nelle sue opere nelle quali egli
pare attingere ai lirici toni di una laica, gioiosa semplicità francescana.
In questo senso Licata, sfondando “. . . ogni prospettiva illusoria . . . ogni margine
testuale, trasformando lo spazio del segno in un'area di calamitazioni psichiche
e visive di circuiti di scorrimento che il flusso interiore ...” pare trasformare in una
sorta di “ ... desiderio della lingua della creazìone”7, sembra riuscire a dar conto
di ogni complessità, pur rimuovendo nello stesso tempo ed eliminando ogni
oscurità o astruseria, tramite la sua innata capacità di portare tutto in superficie
nelle sue “scritture bustrofediche a fasce”8, dove anche le partiture, le linee
ferme, le “definizioni compartimentali”, come egli stesso le definisce, sono in realtà le cesure, le pause, di un ritmo vitale ininterrotto9 in grado di adeguarsi ai
cambiamenti, di trovare accenti e cadenze sempre mutevoli e sensibili al divenire dell’umanità e al variare dei tempi della storia. Ecco allora Licata, solo per citare alcuni snodi fondamentali, passare dalle iniziali combinazioni ideografiche a
sempre più complesse “architetture narrativo-sequenziali”10, per poi concentrarsi negli anni Sessanta, sulla dilatazione, fino quasi a occupare l'intero campo
dell'opera e sullo “... sviluppo di certi 'dati' simbolici più continui nella propria
vicenda o più dotati di imprevista evidenza ... tipico esempio ... l'uomo albero
come totem ... “11.
E ancora eccolo intento alla rigenerata quasi rituale moltiplicazione delle complesse e inesauribili distillazioni dei suoi moderni codici disseminati di sottili frammenti figurasi dei decenni successivi, fino a pervenire, nelle sue opere più recenti ad un ulteriore rinnovamento delle cromie e delle scritture.
In questi lavori infatti, il colore appare abbandonare ogni tra sparente sovrapporsi di modulazioni e di velatura, per esibire tutta la sua ferma e satura energia,
mentre il disegno sembra acquisire una ancor più accentuata sintesi e consistenza accampandosi con forza emblematica nello spazio.
Non a caso, negli ultimi anni, Licata è venuto dedicandosi con sempre maggior
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interesse alla scultura, e questa sua nuova passione, sembra riversare i suoi influssi anche sulla più consueta attività pittorica.
In questo modo, ancora una volta, egli, a partire da una sempre viva capacità di “ascoltare” anche i più nascosti e impercettibili movimenti, va rinnovando la propria poetica vocazione a “. . . l'iscrivere il mondo decifrando lo sguardo che l'attraversa ... nella
vocalità visiva di una nominazione originale”12, in sempre nuove immagini che sappiano superarne ogni bruttura o bassezza, così come la musica tra scende ogni rumore.
Dino Marangon
da Riccardo Licata. Cinquant’anni di opere su carta, Giorgio Corbelli Editore, Brescia, giugno 2001
I Da G. Mazzariol,“Riccardo Licata”, nel catalogo della XXVIII Bienna le d i Venezia,Venezia 1956, p. 186.
2 “Riccardo Licata”, ha scritto Giovanni Granzotto, è “. . .uno degli eletti con nel DNA la condanna e il privilegio di una carriera d'artista e,
nel suo caso, di una vita d'artista. Licata nasce per fare l'Artista”. (da G. Granzotto, “L'arte bi e tridimensionale”, nel catalogo della mostra
“Licata”, presso l'Archivio di Stato di Milano - Palazzo del Senato, novembre 2000, p. Il ).
3 “Cerco di dipingere la vita come se scrivessi il mio diario”, ha affermato Riccardo Licata,“Tutto ciò che intell ettualmente e sensorialmente mi interessa lo traduco nella mia pittura” (Da R. Licata,“Sono un pittore clelia realtà e della verità”, in G. Granzotto ,“Licata”, cit. p. 21).
4 Una fondamentale tradizione culturale, le cui lontane origini possono esse re fatterisalire al pragmatismo non riduzionistico di William James
o alle ricerche serniotiche e al tichisrno di Charies Sanclers Peirce.
5 Da G. Melchiori,“James Joyce, la sua opera, il suo tempo”, Milano 1984, N.E. Milano 2000, p. 55.
6 “Credo”, ha scritto Licata, “che il pittore debba avere un concetto personale di ciò che è l'arte, e scegliere la sua vita e decidere la sua
azione secondo i suoi principi, essendo autentico e sincero , soprattutto in riguardo a se stesso . La vita del pittore è una scelta morale nel
senso della purezza e della convinzione, e dell'onestà del concetto” (Da R. Licata,“Sono un pittore della
realtà e della verità”, in G. Granzotto,“Licata bi e tridimensionale”, cit. p. 2 1).
7 (DaT.Toniate,“Scrittura dell'impossibile” , in E. Di Martino -T. Toniato,“Licata”, cit.. p. 72). Ma già nel 1956, Giuseppe Marchiori aveva osservato come “La pezzatura della tela o del cartone a zone nere o colorate serve a dare un'idea spaziale molto diversa da quella prospettica.
Sono composizioni di riquadri aggregati disposti in serie, a fasce, come i geroglifici e le pitture egizie. Il richiamo a certe origini è ben chiaro“.
(Da “G. Marchiori, “Incisioni di Licata”, Venezia 1956).
8 Ivi.
9 “Un problema che mi interessa particolarmente”, ha affermato Licata,“ è l'espressione dei momenti di sentimento.Tali momenti legati all'elemento tempo e variamente influenzati o interferiti da altri elementi, sono comunicati all'opera su una zona, sino alla conclusione e risoluzione
del momento di emozione, o sino ad un'interruzione causata da necessità o avvenimenti esterni risulta, sull'opera, una compartimentazione, una
zona lavorata alla quale si somma, poi, una ulteriore zona, e poi oltre, dipende da come si sviluppa l'opera, sovente a strisce orizzontali o a frammentazione diversa”. (Da R. Licata,“Sono un pittore della realtà e clelIa verità”, in G. Granzotto,“Licata bi e tridimensionale", cit. p. 22).
IO Da G. Granzotto,“Ennio Finzi e Riccardo Licata a confronto”, nel catalogo della mostra presso il Castello Cinquecentesco, L' Aquila aprile-maggio 2000, p. 16.
Il “Ma”, ha precisato ulteriormente Toni Toniato, “certe implicazioni sorreggono la polivalenza ora della parafrasi la torre-cristallo, ora dello
sviluppo rnitico-segnaletico: l'astro- orologio, ora di quello analogico e psicologico: la rnaofreccia, la freccia-coltello, e ancora la casa-ruota, le
stanze-mondo, o di quello erotico-viralistico, ecc.” (Da T.Toniato,“Licata”, presentazione nel catalogo della personale presso la Galleria Il Ca
nale.Venezia I-II agosto 1961).
12 Da T.Toniato,“Scrittura dell'impo ssibile”, in E. Di Martino - T.Toniato, "Licata", cit. p. 7).
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OPERE
1. INTRECCIO
1953, tecnica mista su cartoncino
cm 100 x 70
2. SENZA TITOLO
1955, tecnica mista su carta intelata
cm 130 x 130
3. IL GIUDICE
1960, tempera su carta pressata
cm 150 x 100
4. IL GIUDICE
1960, olio su tela
cm 60 x 56
5. GIUDICI
1960, olio e tecnica mista su carta intelata
cm 150 x 160
6. PITTURA N. 1
1963, olio su tela
cm 55 x 70
7. SENZA TITOLO
1964, acrilico su carta riportata su tela
cm 118 x 112
8. SENZA TITOLO
1973, olio su tela
cm 150 x 200
9. SENZA TITOLO
1986, acrilico su tela
cm 114 x 130
10. MEMORIA
1995, tecnica mista su carta spagnola
cm 98 x 100
11. RITRATTO DI GIOVANNI
1997, tempera su tela
cm 81 x 100
12. SICILIA
2005, olio su tela
cm 70 x 100
13. OMAGGIO A TAGORE
2005, olio su tela
cm 100 x 150
14. LA SACRA FAMIGLIA
2006, olio su tela
cm 130 x 195
15. RAISONS
2006, olio su tela
cm 195 x 130
16. SENZA TITOLO
2006, olio su tela
cm 130 x 160
17. SENZA TITOLO
2007, carta a mano
cm 80 x 94
18. SENZA TITOLO
2008, olio su carta spagnola
cm 100 x 150
19. SENZA TITOLO
2008, tecnica mista su carta spagnola
cm 65 x 85
20. SENZA TITOLO
2009, olio su tela
cm 195 x 130
21. ITALIA 1861-2011
2010, olio su tela
cm 100 x 150
INTERVISTA
SULLA VITA di Michele Beraldo
Sappiamo che la sua infanzia e giovinezza sono state alquanto movimentate: nato a Torino nel 1929, è vissuto dapprima a Roma, poi nuovamente a Torino e infine Venezia dal 1947. Quali ricordi conserva di Roma?
Abitavamo in Via del Babuino e frequentavo le scuole medie in un istituto religioso a Piazza di Spagna.
Ricordo che la mia passione per il disegno ebbe origine proprio a Roma. Realizzavo album su album che
in parte ancora oggi conservo. Raffiguravo avventure che non avevo mai vissuto ma che fervidamente
immaginavo: vi erano personaggi che abbozzavo appena, altri che caratterizzavo con espressioni buffe e
pose bizzarre, dando vita a racconti che scorrevano in fasce orizzontali, come nei giornalini a fumetti.
In seguito vi trasferiste a Venezia.
Venezia mi piaceva molto, era fantastica; mi colpiva l’atmosfera, il colore e la luce della laguna. Avevo
comperato con i miei soldi una cassetta di colori ad olio che consideravo il mezzo più adatto per la
vera pittura e cominciai a dipingere in assoluta libertà.
Al Lido potevo girare con la bicicletta, portavo con me il mio piccolo cavalletto e sceglievo il posto migliore dove fermarmi immaginando di dipingere come avrebbe fatto a Tahiti Paul Gauguin; mi ero appassionato alla sua pittura dal momento in cui acquistai da un negozio di libri usati una sua monografia.
Il mio interesse per l’arte era qualcosa di vero, non si trattava di un episodio marginale alla mia adolescenza, era ciò che desideravo e che intimamente sentivo.
In che modo Venezia divenne importante per la sua crescita artistica?
Venezia non era stata coinvolta direttamente dal conflitto mondiale e le istituzioni culturali ripresero
velocemente le loro funzioni. Le collettive annuali della Fondazione Bevilacqua La Masa aprirono nuovamente a partire dal 1947. Si trattava di un evento espositivo molto atteso dai giovani artisti perché
era un modo per ottenere visibilità di pubblico (dato che la galleria si trovava in Piazza San Marco, dov’è
ancora oggi) e una qualche attenzione da parte dei critici e della stampa. In queste circostanze cominciai a frequentare giovani appassionati d’arte come lo ero io stesso: i pittori Giorgio Celiberti, Ennio
Finzi, Bruno Blenner,Tancredi, lo scultore Giorgio Zennaro, e altri con i quali condividevo le prime esperienze artistiche e mi confrontavo sul senso dell’arte astratta e figurativa. Tra di noi s’imponeva una
modalità nuova del dipingere ed eravamo lontani dall’approvare un genere di pittura conservatrice e
ripetitiva, soprattutto legata al paesaggio, che a Venezia trovava ancora ampi riconoscimenti.
gli artisti che giungevano da tutto il mondo. Fu in quel periodo che cominciai a dipingere in modo astratto. Mi interessava la libertà dalla figurazione che ritenevo opprimente; all’epoca prevaleva un “paesaggismo” molto bello ma che mi annoiava, e, d’altra parte, il realismo con le sue ideologie non mi attraeva.
Ha sempre inteso il suoi caratteristici segni come un linguaggio nato inizialmente in ragione della sua sensibilità per la musica e non come elemento grafico puramente astratto.
Si, non mi sentivo un astrattista puro, in quanto il mio segno si faceva appunto interprete della musica. E vorrei poterlo spiegare. Appena giunto a Venezia cominciai ad andare ai concerti della Fenice
e in quelle occasioni portavo con me degli album su cui disegnavo gli orchestrali. Ma non era semplice, la rappresentazione oggettiva di queste persone in rapporto alla musica non mi bastava; tutto
ciò era solo un passaggio per avvicinarmi ad un ulteriore sviluppo del segno che doveva divenire
personale. Ad un certo punto osservai che il direttore d’orchestra, soprattutto nelle composizioni
del Settecento, di Mozart o di Vivaldi, muoveva la bacchetta ritmicamente, con un senso verticale e
orizzontale molto deciso, così da separare le battute musicali. Mi rimase impresso quel gesto che
divenne la base del mio disegno. Immaginavo il direttore che, anziché dirigere, disegnasse su un grande foglio quei movimenti regolari: allora potevo seguire con lo sguardo la bacchetta come fosse una
matita, e quei segni cominciarono a prendere forma nello spazio. Non mi restava che trascriverli.
Gli elementi visuali diventavano simbolo e segno ed altri elementi spirituali od emotivi si trasformavano in una traccia astratta: una scrittura ove l’armonia, il ritmo, il tempo e il movimento prendevano forma. Cercavo di comprendere il senso della musica e di trascriverlo graficamente. I movimenti musicali determinavano la definizione e la compartimentazione dello spazio, così come effettivamente dividevano il tempo. L’emozione musicale si traduceva in una sensibilità del tratto e del colore che acquisiva lentamente la sua forma. Ho creato così quello che definirei un linguaggio con il
quale mi sono messo a “trascrivere” la vita come se tenessi un diario.
Quasi tutte le incisioni, dal 1952 al 1956, sono state realizzate con quella modalità, ai concerti della Fenice.
Inoltre vi era la Biennale che riaprì nel 1948.
La riapertura della Biennale Internazionale d’Arte, la prima del Dopoguerra, fu un evento straordinario.
Mi colpì la mostra storica dedicata agli impressionisti, ma più ancora la collezione Peggy Guggenheim ospitata nel padiglione della Grecia con opere di Wassily Kandinsky e di Jackson Pollock che potevamo ammirare per la prima volta. C’era inoltre tutta la grande pittura italiana, e numerose erano le mostre speciali
dedicate a singoli protagonisti dell’arte internazionale come Marc Chagall, Paul Klee, Gorge Braque, Paul
Delvaux, James Ensor, Renè Magritte e le retrospettive su Pablo Picasso e Arturo Martini.Tornai più volte
a visitarla, cosa che accadeva ad ogni Biennale, almeno sino al 1968. Addirittura capitava che ad ogni singola edizione tornassimo per venti, trenta volte. Eravamo consapevoli che quelle opere le avremmo potute ritrovare soltanto nei musei. Fu per tutti noi una grande scuola, di passione e di stimolo per la nostra
attività. In questo modo apprendevamo la storia dell’arte dal vivo, osservando le opere e frequentando
Nel 1950, dopo aver terminato il liceo artistico, si iscrive all’Accademia di Belle Arti. Fu in quel periodo che
s’impossessa di due tecniche fondamentali per il suo lavoro artistico: il mosaico e il vetro.
Sin dal mio arrivo aVenezia ero rimasto affascinato dai mosaici di San Marco,Torcello e Murano. I mosaici che realizzavo allora, e che presentai alla Biennale del 1952, non erano molto differenti dal segno che
impiegavo nella pittura o nell’incisione, anche se naturalmente assumevano forme più semplici e composte. Ho sempre preferito la tecnica “diretta” perché risponde meglio alle esigenze del gesto pittorico, inoltre, se le tessere si dispongono liberamente, i colori vibrano con maggiore intensità.
A Murano fu naturale che mi interessassi anche al vetro. Sino ad allora la tradizione dell’arte vetraia aveva posto dei limiti nella ricerca di novità del design moderno, di conseguenza, poche erano le
occasioni di dialogo e di collaborazione tra gli artisti contemporanei e gli artigiani che lavoravano il
vetro, fatta eccezione per Carlo Scarpa.
I primi vetri li realizzai con Archimede Seguso nel 1950: feci una serie di vasi decorati da policromi
anelli e fili vitrei distribuiti irregolarmente intorno alla parete. Con la S.a.l.i.r., specializzata ancora oggi
nella incisione e pittura su vetro, produssi dei vetri graffiti a punta di diamante o a ruota, tutti pezzi
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unici, che esposi per la prima volta alla Triennale di Milano. Per la vetreria di Gino Cenedese disegnai
una serie di “Forme sommerse” che furono presentate alla Biennale di Venezia del 1952. Si trattava
di blocchi di cristallo nel cui spessore erano imprigionati motivi astratti in vetro colorato.
Nel 1953 progettai per Venini una serie di murrine, che avrebbero decorato la zona intermedia di
raffinatissimi vasi ad incalmo da me firmati e presentati alla Biennale del 1956
Mentre nel 1954, sempre nel padiglione delle Arti decorative della Biennale, all’interno del quale si esponevano i risultati più innovativi delle cosiddette arti applicate, esposi i vetri che incidevo per la S.a.l.i.r.
Negli anni cinquanta a Murano ero considerato un designer, e oggi posso sostenere di aver contribuito ad aggiornare il linguaggio artistico del vetro lavorando nelle più importanti fornaci e con i più
grandi maestri. Molti miei lavori si trovano pubblicati nei libri che illustrano la storia del vetro di
Murano e questo per me è sicuro motivo d’orgoglio.
Gli anni cinquanta furono particolarmente felici. Riscontrò un notevole successo ed ebbe modo, tra le altre
cose, di esporre le sue incisioni in una sala personale alla Biennale del 1956. Cosa ricorda di quel decennio?
Gli anni cinquanta furono per me un decennio straordinario, ricco di soddisfazioni e di successi.
Partecipai alle edizioni della Biennale veneziana del 1952, ’54, ’56, e 1958 esponendo mosaici, vetri,
incisioni e dipinti. Alla Biennale si partecipava per accettazione; vi era una commissione giudicatrice,
costituita da importanti critici, storici dell’arte e affermati artisti che esaminavano le richieste di partecipazione vagliandone naturalmente moltissime. Ricordo commissioni composte, tra gli altri, da
Rodolfo Pallucchini, Giulio Carlo Argan, Roberto Longhi e Giuseppe Marchiori. In quegli anni presi
parte anche alla Triennale milanese, alla Biennale di San Paolo del Brasile e alla Quadriennale romana del
1955, dove Carlo Cardazzo, responsabile dell’ufficio vendite, mi propose un contratto di esclusiva che
però rifiutai, non volendo vincolarmi commercialmente con un solo gallerista ma soprattutto perché,
sapendo di dover partire per il servizio militare, temevo di non poter tenere fede all’impegno.
Ad un certo momento, terminato il servizio militare, decise di partire per Parigi. Cosa la spinse ad allontanarsi dalla città in cui si era formato e in cui riscuoteva un notevole consenso?
Nonostante il successo fosse arrivato precocemente, ritenevo che la mia preparazione artistica non fosse
ancora completa, perciò decisi di concorrere ad una borsa di studio dell’Ambasciata francese per imparare nuove tecniche calcografiche sperimentali direttamente a Parigi, negli studi di Friedlander, Hayter e Goetz.
Mentre maturava questa decisione, fu invitato da Gino Severini ad andare a Parigi per affiancarlo nella cattedra di mosaico all’Ècole Italienne d’Art. In quale occasione Severini si interessò del suo lavoro?
Gino Severini, l’artista che era stato tra i firmatari del manifesto della pittura futurista, mi aveva scritto una lettera per chiedermi appunto la disponibilità a collaborare con lui alla cattedra di mosaico
dell’Ècole Italienne d’Art. Mi contattò perché conosceva bene il mio lavoro: nel 1952 aveva potuto
vedere i miei mosaici alla Biennale di Venezia, in quanto commissario di giuria nel Comitato internazionale esperti; l’anno dopo aveva inoltre visitato una mia personale di mosaici alla Fondazione
Bevilacqua La Masa e nel 1955 assistette al compimento dei miei studi accademici con la presentazione dei lavori finali, fra i quali molti mosaici.
Rimasi lusingato della sua richiesta e decisi che mi andava di impegnarmi anche come assistente.
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Pensavo di stare via un anno o due, il tempo della borsa di studio dell’Ambasciata francese; non
immaginavo invece che da quel momento, era il 1957, sarei rimasto per tutta la vita a Parigi.
Quali ricordi conserva di Severini?
Gino Severini era un uomo dalla grande personalità e, da buon toscano, tenace nel carattere.
Quando lo conobbi era un pittore ancora ricco di inventiva e i suoi quadri degli anni cinquanta, tendenzialmente astratti, mi apparivano favolosi. Dal 1906 si era trasferito a Parigi, allora il centro artistico più importante del mondo, e lo fece per avvicinarsi alle nuove tendenze dell’arte, al neoimpressionismo di Van Gogh, Cezanne, Gauguin e Seurat che in Italia nessuno aveva ancora modo di conoscere. Divenne amico di Picasso, Braque, Gris, Apollinaire e Matisse, inserendosi ben presto in un
contesto culturale d’avanguardia. Fu all’interno di questo ambiente che conobbe sua moglie, la figlia
del grande poeta francese Paul Fort che dirigeva la rivista “Vers et Prose” e che era stato acclamato dalla critica come Principe dei Poeti. La sua vita, pur scandita da grandi successi e riconoscimenti,
fu alquanto difficile sotto il profilo economico e quando lo conobbi viveva pressoché in miseria.
Questa condizione gli imponeva l’obbligo di insegnare e nonostante dipingesse quadri di rara bellezza, tutti erano interessati ai lavori del periodo futurista, perciò non vendeva alcun quadro. La situazione non era diversa per gli altri artisti: a Parigi ho conosciuto Alberto Magnelli e Massimo Campigli
e anche loro vivevano con poco, quasi dimenticati. Nei loro studi c’erano centinaia di opere d’arte
che aspettavano degli acquirenti.
A Parigi ebbe modo di frequentare numerosi artisti, ne può ricordare alcuni?
In quel periodo ero particolarmente legato a Tancredi e Mondino, con i quali esposi i miei lavori in
più di un’occasione, sia alla Biennale di Parigi, che nella galleria Bellechasse dove, grazie a Severini,
tenni la mia prima personale parigina nel 1959.
Tra gli amici del primo periodo, e perciò indimenticabili, oltre a Mondino e Tancredi, vi era anche
Sebastian Matta, un personaggio straordinario. Solitamente ci incontravamo da lui, fuori Parigi, in una
specie di castello in cui lavorava. All’epoca era già famoso negli Stati Uniti e in Cile, e in seguito si
trasferì in Italia. Di frequente partiva per l’Italia anche Wilfredo Lam e il più delle volte capitava che
in treno viaggiassimo assieme.
Questi incontri, sul finire degli anni cinquanta, hanno fatto evolvere la mia pittura verso un surrealismo
astratto e magico, diverso da quello ufficiale, letterario ed estetizzante. Il contenuto, il sentimento e il
simbolo, venivano tradotti in segno e scrittura, in una forma innovata, evoluta, lacerata e drammatica.
Questa tensione espressiva era la stessa che risuonava in altri artisti. Fu così che nel 1960, assieme
a Lam, Mondino,Tancredi, Matta, Hundertwasser, Scanavino e Max Ernst - di cui ammiravo il lavoro
surrealista astratto – fondammo il gruppo “Anti-Procès”.
Ad un certo momento lei divenne titolare dell’insegnamento di mosaico e la scuola venne accorpata
all’Accademia di Belle Arti.
Occorre dire che ho sostituito di fatto Severini sin dal primo anno della mia chiamata a Parigi e dal
1959 venni incaricato ufficialmente della docenza di mosaico.
In seguito si crearono le condizioni per favorire l’inquadramento della nostra scuola all’interno
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dell’Accademia di Belle Arti di Parigi. Il direttore dell’Ècole Nationale Supèrieure des Beux Arts, era
infatti interessato ad aprire una sezione di mosaico, cosa che avvenne nel momento in cui
l’Ambasciata italiana approvò il trasferimento. In quell’autorevole e antica istituzione lavorai fino al
1995, quando, per sopravvenuti limiti d’età, andai in pensione.
L’Accademia di mosaico, pur non essendo l’unica al mondo, indubbiamente era la più famosa. C’erano
molti allievi francesi ma anche ragazzi che provenivano da altri paesi; ricordo che alcuni arrivarono da
Spilimbergo e da Ravenna (oggi come allora sedi di due importanti scuole in Italia), per conseguire la
specializzazione a Parigi ed esercitarsi nella libera esecuzione del mosaico. Come le altre anche la scuola di Severini inizialmente tendeva ad un indirizzo classico, fondato sulla copia; io invece, dopo un periodo di introduzione, in cui ci si dedicava alla riproduzione, lasciavo gli allievi liberi di esprimersi.
Nel frattempo, quale rapporto mantenne con l’Italia?
Ogni estate la trascorrevo in Italia con la mia famiglia. Avevamo una casa a Venezia e questo mi permetteva di mantenere o coltivare nuovi rapporti di lavoro con le gallerie italiane. Nel 1971 a Venezia,
assieme ad alcuni amici, fondammo la Scuola Internazionale di Grafica attraverso la quale proponevamo l’insegnamento di tecniche calcografiche sperimentali e a colori, allora ancora poco diffuse in
Italia. Inoltre partecipavo alle biennali, sino a quando questo divenne possibile.
Se in Francia era fiorito un interesse per il lavoro artigianale, in Italia l’equivoco del sessantotto generò una grande fiducia verso l’arte concettuale, bandendo di fatto dalle Accademie ogni forma di
manualità. E i risultati di una simile impostazione emersero dopo pochi anni con l’abolizione del padiglione delle Arti Decorative alla Biennale di Venezia.
In che modo ciò avvenne, e a suo avviso quali effetti produce oggi la Biennale veneziana?
Sino al 1968 il mosaico, il vetro, l’arazzo e la ceramica avevano assunto un ruolo molto importante all’interno della Biennale e il loro successo si misurava anche in termini economici. Musei e collezionisti privati avevano sempre acquistato le mie opere e naturalmente quelle di altri artisti, attraverso l’Ufficio
vendite diretto dal mercante milanese Ettore Gian Ferrari. Se oggi i miei vetri, le incisioni e i mosaici,
appartengono a collezioni museali o a quelle di privati collezionisti, soprattutto americani, lo si deve più
di ogni altra cosa al sistema di vendite di cui disponeva la Biennale. Sennonché, a partire dall’edizione
del 1970, esso fu considerato uno strumento della mercificazione dell’arte e dovette chiudere.
Fino alla fine degli anni sessanta la Biennale era una meraviglia, ci tornavi decine di volte e non ti stancavi mai di ammirare le opere dei più grandi artisti in rappresentanza dell’Ottocento e del
Novecento: impressionismo, cubismo, futurismo, astrattismo, surrealismo, arte americana ed europea;
allora si potevano vedere tutte le più importanti e significative manifestazioni dell’arte contemporanea. Nei cataloghi storici della Biennale si ritrovano mostre straordinarie dedicate ai più grandi interpreti dell’arte italiana come Carrà, Morandi, Casorati, Licini e tantissimi altri.
Dagli anni settanta, alla Biennale ci si va più per curiosità, quasi per dovere, piuttosto che per interesse. E non ci si torna mai più d’una volta. Quando portavo i miei studenti era utile e formativo
poter riscontrare negli artisti di ciascuna nazione caratteri e stili differenti. Offrire quindi spunti e confronti sempre nuovi. Poi tutto si è livellato e omologato. Ai mie allievi non avrei saputo più cosa dire,
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come giustificare certi stravolgimenti estetici. All’epoca non si pensava che la situazione stagnasse
per così lungo tempo e auspicavamo che quello squallore non potesse perdurare a lungo. Ancora
oggi invece, da decenni ormai, si vedono le stesse cose, variate solo leggermente. Non c’è stata alcuna evoluzione e personalmente trovo che tutto ciò sia semplicemente noioso.
Ciascuno dei suoi segni, colori o spazi è relativo ad un impulso dettato da un preciso avvenimento, da un
pen¬siero o da una sensazione. In questo senso lei si ritiene un pittore della realtà e della verità. Può spiegare questa sua affermazione?
I miei studi e le mie esperienze mi hanno portato a concepire l'arte in una forma personale. Cerco
di dipingere la vita come se scrivessi il mio diario: tutto ciò che intellettualmente e sensorialmente
m’interessa lo traduco nella mia pittura. Il mio lavoro diventa così un sismogramma emozionale, il
segno della mia presenza cosciente nel mondo.
Trascrivo l'interpretazione della mia concezione del mondo attraverso dei segni simbolici, testimonio per mezzo della mia pittura i contenuti, i concetti e gli avvenimenti di oggi.
In una ricerca di libertà e di verità, cerco dunque di utilizzare una mia scrittura, un linguaggio complesso
reinventato, fatto di segni, di colori, di spazi, di ritmi creati per comunicare, sia in modo diretto ed immediato, partendo dalla visione, dal sentimento, dall'avvenimento, dalla sensazione, dall'ascolto (particolarmente
la musica), sia in ma¬niera più lenta e meditata quando altri elementi motivano la mia creazione artistica:
cioè il pensiero, la meditazione, il sogno, il ricordo e la lettura (particolarmente la letteratura e la poesia).
In che modo, a suo avviso, l’artista, il pittore, si deve porre in relazione con gli altri?
Credo che il pittore debba avere un concetto personale di ciò che è l'arte, e scegliere la propria via
e decidere la propria azione secondo i propri principi, essendo autentico e sincero, soprattutto in
riguardo a se stesso.
La vita di un pittore è una scelta morale: nel senso della purezza della convinzione, della perseveranza stilistica, della probità professionale, della onestà del concetto, del tendere ad una interiorità più
profonda; nel senso di un lavoro dello spirito, di un’autentica missione culturale al di fuori però delle
religioni. La vita del pittore è difficile, ci vuole molta tenacia e coraggio per lottare e per resistere,
ma la libertà, la sincerità, l'autenticità, la generosità, la possibilità di esprimersi e la creazione danno
all’artista il sentimento interiore di un comportamento positivo.
Il pittore crea per gli altri senza concessioni, trasmette il suo sguardo interiore affinché gli altri possano vedere in loro stessi, crea un universo poetico, una finestra sull’animo, affinché gli altri possano
sognare. Crea una tensione drammatica affinché gli altri possano avere una emozione profonda, crea
un “pathos” affinché gli altri risentano di una certa religiosità, di una certa magia.
Quale rapporto ritiene debba svilupparsi tra l’opera d’arte e il fruitore?
La creazione artistica vive sempre nel rapporto altruistico del dare, e il fruitore dovrebbe uscire
arricchito culturalmente dal rapporto con un’opera d’arte. L’opera infatti sviluppa una lenta e progressiva conquista di contenuto, non è mai definita, ogni volta un quadro può essere letto in maniera diversa, nel senso che riserva sempre novità e oscurità; è questa continua ricerca che fa di un quadro un’opera d’arte: l’arte non è mai totalmente spiegata, questa è la sua magia e la sua ambiguità.
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ELENCO
DELLE
OPERE
1. INTRECCIO
1953, tecnica mista su cartoncino
cm 100 x 70
2. SENZA TITOLO
1955, tecnica mista su carta
intelata
cm 130 x 130
3. IL GIUDICE
1960, tempera su carta pressata
cm 150 x 100
4. IL GIUDICE
1960, olio su tela
cm 60 x 56
5. GIUDICI
1960, olio e tecnica mista su
carta intelata
cm 150 x 160
6. PITTURA N. 1
1963, olio su tela
cm 55 x 70
7. SENZA TITOLO
1964, acrilico su carta riportata
su tela
cm 118 x 112
8. SENZA TITOLO
1973, olio su tela
cm 150 x 200
9. SENZA TITOLO
1986, acrilico su tela
cm 114 x 130
10. MEMORIA
1995, tecnica mista su carta
spagnola
cm 98 x 100
11. RITRATTO DI GIOVANNI
1997, tempera su tela
cm 81 x 100
12. SICILIA
2005, olio su tela
cm 70 x 100
13. OMAGGIO A TAGORE
2005, olio su tela
cm 100 x 150
14. LA SACRA FAMIGLIA
2006, olio su tela
cm 130 x 195
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15. RAISONS
2006, olio su tela
cm 195 x 130
16. SENZA TITOLO
2006, olio su tela
cm 130 x 160
17. SENZA TITOLO
2007, carta a mano
cm 80 x 94
18. SENZA TITOLO
2008, olio su carta spagnola
cm 100 x 150
19. SENZA TITOLO
2008, tecnica mista su carta
spagnola
cm 65 x 85
GRUPPO EUROMOBIL
Dal 1985 il Gruppo Euromobil ha fortemente caratterizzato la propria strategia di comunicazione sulla promozione dell’arte moderna e contemporanea.
Motivato e sostenuto dalla personale passione e sensibilità dei fratelli
Lucchetta, titolari dell’azienda, l’intervento si è gradualmente articolato e differenziato nel tempo, sviluppandosi in momenti paralleli, integrati e connessi tra
loro: dal sostegno all’attività espositiva di artisti contemporanei alla realizzazione di importanti rassegne storiche, alla produzione editoriale.
Il prodotto di industrial design del Gruppo, d’avanguardia nelle linee e nella scelta dei materiali, trova il suo naturale partner comunicativo nell’arte contemporanea, campo nel quale l’innovazione, anche estrema, non rinnega la tradizione;
proprio come nello sviluppo del percorso estremamente originale e creativo di
Riccardo Licata, artista a cui tutti i fratelli Lucchetta sono particolarmente legati.
Antonio, Fiorenzo, Gaspare, Giancarlo Lucchetta
20. SENZA TITOLO
2009, olio su tela
cm 195 x 130
21. ITALIA 1861-2011
2010, olio su tela
cm 100 x 150
63
€ 20,00 (i.i.)
www.ilcigno.org
Finito di stampare
nel mese di giugno 2010
presso Ciesse-Guidonia
per conto de
IL CIGNO GG EDIZIONI
Piazza San Salvatore in Lauro, 15 00186 Roma
sito nel Complesso Monumentale di San Salvatore in Lauro,
un immobile dell’Ente morale Pio Sodalizio dei Piceni.
PIO SODALIZIO
DEI
PICENI