Abuso del diritto di ricorso e eutanasia: la Grande Chambre

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Abuso del diritto di ricorso e eutanasia: la Grande Chambre
ISSN 2384-9169
ABUSO DEL DIRITTO DI RICORSO E EUTANASIA: LA GRANDE CHAMBRE
“RIABILITA” LA LEGISLAZIONE SVIZZERA SUL FINE VITA ATTRAVERSO UNA
PRONUNCIA SULL’INAMMISSIBILITÀ DEL RICORSO NEL CASO GROSS.
Con la sentenza del 30 settembre 2014, la Grande Chambre ha posto fine al caso Gross, con una
pronuncia inaspettata che ribalta l’esito del primo procedimento presso la Sezione, rimuovendo il
giudizio negativo espresso da questa sulla legislazione svizzera in tema di eutanasia.
1. Il primo giudizio di fronte alla Corte di Strasburgo
Questi i fatti del primo giudizio di fronte alla Corte di Strasburgo.
La ricorrente, la signora Alda Gross, nata nel 1931 e residente in Svizzera, non era affetta da alcuna
particolare malattia. Tuttavia, la signora Gross aveva manifestato più volte la propria angoscia per il
suo decadimento fisico e psichico ed aveva tentato il suicidio. Non essendo riuscita nel proprio intento,
la signora Gross si era rivolta a diversi medici, per ottenere la prescrizione richiesta dalla legge
svizzera sull’eutanasia per acquistare una dose letale di farmaci. Le sue richieste non erano tuttavia
state accolte, poiché essa non poteva considerarsi malata terminale o affetta da una patologia tale da
giustificare la prescrizione. La ricorrente si rivolgeva quindi al Comitato per la salute del Canton Ticino,
ma anche in questo caso la sua domanda veniva rigettata. A nulla valevano le azioni giudiziarie
intraprese successivamente nei confronti di detto provvedimento.
La signora Gross ricorreva quindi a Strasburgo, lamentando che le autorità svizzere, negandole la
possibilità di acquistare la dose letale di medicine che le avrebbero provocato la morte, avevano
violato il suo diritto alla vita privata di cui all’art. 8 CEDU.
La Corte, dopo aver ricostruito la propria giurisprudenza sul tema, richiamando i casi Pretty, Haas e
Koch, considerava che la questione sottopostale nel caso di specie richiedeva un giudizio circa la
completezza e la chiarezza della legislazione svizzera, quanto alla individuazione dei casi in cui i
medici erano autorizzati a fornire ai pazienti ricette mediche per l’eutanasia farmacologica. La Corte
esaminava, quindi, la normativa svizzera in tema di eutanasia e suicidio assistito e constatava che il
codice penale svizzero (cfr. art. 115) non incrimina l’omicidio del consenziente o l’aiuto al suicidio, se
non nella misura in cui tali atti siano commessi per motivi esecrabili, non compassionevoli ovvero per
motivi egoistici. Secondo l’interpretazione di detta norma, risulta quindi legittima la somministrazione di
farmaci idonei a cagionare la morte, in caso di regolare prescrizione medica. Le regole per disciplinare
la corretta emissione di detta prescrizione, tuttavia, non sono contenute in una vera e propria legge,
ma nelle linee guida dell’Accademia Svizzera delle Scienze Mediche (A.S.S.M.), in cui si esplicita che
tale prescrizione è pienamente legittima ove il paziente si trovi nella fase terminale della sua malattia
con una sofferenza intollerabile, in caso di espressa manifestazione della volontà del malato in questo
senso, senza che vi sia però una precisa casistica o una rigorosa definizione dei criteri da seguire. In
proposito, la Corte constatava pertanto una mancanza di chiarezza e di certezza sul punto,
concludendo che un tale stato di confusione non può che avere un «chilling effect on the doctors who
would otherwise be inclined to provide someone such as the applicant with the requested medical
prescription». La Corte rilevava che tale confusione è dovuta alla difficoltà di trovare il necessario
consenso politico su di un tema che presenta controverse implicazioni da un punto di vista etico e
morale, ma considerava che dette difficoltà sono inevitabili in un processo legislativo democratico e
non possono assolvere le autorità dall’inadempimento alle obbligazioni su di esse gravanti.
Conseguentemente, la Corte, con la sentenza del 14 maggio 2013, concludeva che la legislazione
svizzera non è sufficientemente precisa da consentire una chiara applicazione della previsione ai
sensi della quale è possibile per i medici prescrivere una dose letale di medicine per l’eutanasia
farmacologica e, dunque, accertava la violazione dell’art. 8 CEDU (per un maggiore approfondimento
sulla posizione delle istituzioni europee e del Consiglio d’Europa in tema di fine vita sia consentito il
rinvio a M. Condinanzi, I. Anrò, Testamento biologico. La posizione delle organizzazioni europee, in
Studi sull’integrazione europea, 2013, p. 547 ss.).
2. Il giudizio di fronte alla Grande Chambre
La Svizzera chiedeva il rinvio del caso Grande Camera ai sensi dell’art. 43 CEDU e dell’art. 73 del
regolamento di procedura, per ottenere il riesame del caso.
In particolare, il governo svizzero, nel gennaio 2014, informava la Corte che la signora Gross era
deceduta nel novembre 2011, essendo riuscita, nelle more del processo, ad ottenere la prescrizione
letale grazie all’intervento di una associazione specializzata in questo settore, denominata EXIT. Nel
corso del processo presso la Grande Camera, emergeva che la ricorrente aveva fatto di tutto per
tenere nascosta la propria morte al fine di ottenere che la Corte di Strasburgo si pronunciasse
comunque sulla legislazione svizzera, a tutela di altri potenziali aspiranti ad ottenere la prescrizione
medica per l’eutanasia anche in assenza di una malattia terminale o cronica che ne rendesse
intollerabile l’esistenza, secondo quanto testimoniato da un responsabile dell’associazione EXIT.
La Grande Camera a tal proposito ha richiamato la giurisprudenza della Corte che, ai sensi dell’art.
35, par.3, lett. a), considera un ricorso inammissibile per abuso del diritto di ricorso, quando è
consapevolmente fondato su fatti non veri e quando vengono intenzionalmente fornite alla Corte
informazioni non vere o fuorvianti. Lo stesso vale nei casi in cui si verifichino importanti sviluppi in
corso di causa e questi non siano stati comunicati alla Corte (par. 28 sentenza). Applicando tali
principi al caso di specie, la Grande Camera ha considerato che la ricorrente nel proprio ricorso aveva
lamentato che le autorità svizzere, con la propria legislazione farragginosa, avevano violato il suo
diritto a decidere quando e in che modo porre fine alla propria vita e che la sezione giudicante, per
quattro voti a tre, aveva concluso per la violazione dell’art. 8, sulla base dell’assunto che la ricorrente
fosse ancora viva. Solo nel giudizio di fronte alla Grande Camera, era, invece, emerso che la
ricorrente era deceduta nel novembre 2011. La notizia era stata tenuta nascosta perché la signora
Gross aveva chiesto ai suoi avvocati di mandare tutte le comunicazioni ad un pastore protestante che
collaborava con l’associazione EXIT, Mr. F., il quale aveva ritenuto di non poter infrangere la richiesta
della signora Gross di non denunciare la propria morte. La Corte ha ritenuto che la condotta degli
avvocati dalla signora Gross, che avevano accettato di comunicare con la propria cliente solo
indirettamente, data la delicata natura della causa, sollevava diverse criticità con riferimento al ruolo di
legale rappresentante e al dovere di leale cooperazione con la Corte ai sensi dell’art. 44 D del suo
regolamento di Procedura.
In conclusione, la Grande Camera ha ritenuto che la morte della ricorrente deve essere considerata
una circostanza tale da incidere sull’essenza stessa del ricorso e che se la Camera ne fosse stata a
conoscenza, l’esito finale del giudizio sarebbe stato diverso. Secondo la testimonianza di Mr. F., la
signora Gross avrebbe agito in tal modo perché, al di là del proprio caso personale, la battaglia contro
la legislazione svizzera sarebbe andata a vantaggio di altri soggetti nella sua stessa situazione: la
Grande Camera ha considerato che questo comportamento costituisce prova del fatto che la
ricorrente ha deliberatamente omesso di informare il proprio collegio difensivo al fine di nascondere
alla Corte un elemento essenziale ai fini del ricorso. Di conseguenza, la Grande Camera, per nove voti
a otto, ha dichiarato il ricorso inammissibile in ragione dell’abuso del diritto di ricorso da parte della
ricorrente ai sensi dell’art. 35, par. 3., a) CEDU.
3. Le dissenting opinion
Come nel primo grado, si tratta di un giudizio molto discusso, che vede la sezione spaccata in due,
trattandosi di un tema particolarmente delicato. Degna di nota l’opinione dissenziente congiunta dei
giudici Spielmann, Ziemele, Berro-Lefévre, Zupančič, Hajiyev, Tsotsoria, Sicilianos e Keller. Secondo
questi giudici, la soglia dell’abuso del diritto non è stata raggiunta nel caso di specie, in quanto tale
istituto, ai sensi della giurisprudenza della Corte, dovrebbe trovare applicazione solo in casi
eccezionali, in cui il ricorso è deliberatamente fondato su fatti non corrispondenti al vero, oppure
quando la Corte «waste its efforts on matters obviously outside the scope of its real mission, wich is to
ensure the observance of the solemn, Convention-related, engagements undertaken by the State
Parties» (cfr. par. 8, della dissenting opinion).
Inoltre, i giudici dissenzienti evidenziano il fatto che, al di là del caso di specie, il numero dei suicidi
assistiti in Svizzera è sempre più elevato, anche tenuto conto dei numerosi stranieri che si recano in
tale Paese al fine di porre fine alla propria vita, qualora la legislazione dello Stato di
cittadinanza/residenza non lo consenta. Di conseguenza, a parere dei giudici, gli sforzi della Corte
non sarebbero stati “sprecati”, in quanto il numero dei ricorsi in questa materia è suscettibile di
aumentare nel corso degli anni. Inoltre, i giudici sottolineano che la questione è di rilevanza europea,
proprio per il numero di stranieri che affluiscono in Svizzera ed ha suscitato un ampio dibattito in
diversi Paesi. I giudici dissenzienti concludono, dunque, che la Grande Camera non avrebbe dovuto
giustificare la propria decisione in base all’istituto dell’abuso del diritto, ma piuttosto cancellare la
causa dal ruolo ai sensi dell’art. 37, par. 1, lett. c), CEDU, secondo cui la Corte può cancellare in ogni
momento la causa dal ruolo, quando «per ogni altro motivo di cui la Corte accerta l’esistenza, la
prosecuzione dell’esame del ricorso non sia più giustificata», elasciare “intatta” la sentenza di cui al
primo giudizio.
4. Considerazioni conclusive
Non si può che condividere l’opinione dissenziente dei giudici Spielmann, Ziemele, Berro-Lefévre,
Zupancic, Hajiyev, Tsotsoria, Sicilianos e Keller. Per quanto la condotta della ricorrente possa essere
censurabile, la dichiarazione di inammissibilità del ricorso spazza via un processo durato quasi tre
anni, in cui la Corte ha espresso il proprio giudizio sulla legislazione svizzera, ritenuta troppo lacunosa
e farragginosa per una questione così delicata come l’eutanasia, costringendo il legislatore elvetico ad
uno sforzo per una maggior sistematizzazione e chiarezza della materia. In questo modo, la Grande
Chambre ha, invece, azzerato il giudizio della Corte, in qualche modo “assolvendo” la confusa
normativa svizzera o, quantomeno, lasciando inalterato il quadro normativo, consentendo il ricordato
“esodo” di stranieri in Svizzera che, approfittando delle incertezze della legislazione, ottengono
l’eutanasia che è vietata o subordinata a condizioni più rigorose nei propri Paesi di origine.
Pubblicato il: 09/10/2014
Autore: Ilaria Anro
Categorie: articoli ,
Tag: abuso del diritto, eutanasia
Editore: Bruno Nascimbene, Milano
Rivista registrata presso il Tribunale di Milano, n. 278 del 9 settembre 2014
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