Linguissimo 2011-2012 Il mio rapporto con i media elettronici
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Linguissimo 2011-2012 Il mio rapporto con i media elettronici
Linguissimo 2011-2012 Il mio rapporto con i media elettronici Maud Bajetta Invece di brontolare cercando a tastoni l' interruttore dell' abat-jour com' ero solito fare, mandai un sospiro di soglievo. Già non ricordavo più con precisione il sogno da cui mi ero svegliato, ma di certo non era un sogno piacevole: mi sembrava di ricordare che cercavo di giustificarmi per una colpa che non avevo commesso, e il mio interlocutore non provava nemmeno ad ascoltarmi..cosa che mi faceva innervosire parecchio. Quindi mi alzai e, cercando di raggiungere la porta della stanza senza svegliare mia moglie, mi diressi in salotto. Un' altra notte insonne, come mi capitava spesso di recente. Non riuscivo a dormire, non avevo sonno. O forse ero io che non volevo dormire? Forse ero io che non volevo abbandonarmi a quello strano mondo fatto di fantasie e strane realtà? Sta di fatto che io non riuscivo a dormire e che a me questa situazione non disturbava affatto. In fondo, mentre aspettavo che il sole si levasse, potevo fare altre cose: come veder la televisione o ascoltare la radio. Era da tanto tempo che non guardavo la tv. Solitamente era mia moglie che si sedeva sulla poltrona di fronte allo schermo e che, provvista del suo lavoro a uncinetto e di una tazza di tè fumante, la guardava per ore nel pomeriggio. Quella notte però la accessi e mi sedetti io sulla poltrona al posto di mia moglie. Un' immagine dopo l' altra si susseguirono sulla schermata iper illuminata e improvvisamente mi ricordai il perché di quel mio distaccamento progressivo dalla televisione. Di fronte a me una signorina con un sorriso smagliante e dei capelli tinti di biondo appena messi in piega spiegava le soprannaturali caratteristiche di un nuovo aspirapolvere e come questo fosse assai più efficiente rispetto a tutti gli altri aspirapolveri. Ma dico, come se fossero necessari dieci minuti di pubblicità per far capire che volessero convincere la gente a comprare qualcosa di nuovo mentre non ne aveva bisogno! Questa era una delle cose che, inizialmente, mi fece allontanare dalla televisione: la pubblicità. Molta gente odia la pubblicità televisiva in quanto nel momento migliore del film che sta visualizzando entra sempre in scena uno spot pubblicitario di un quarto d' ora, ma io non la odio per questo motivo. Io odio la pubblicità proprio nella sua essenza: odio il fatto che esorti la popolazione al consumismo, odio il fatto che mostri una realtà deformata e odio il fatto che spesso e volentieri trasmetti alla gente immagini, pregiudizi che vengono già respirati nell' aria quotidianamente. Infatti, sono fermamente convinto che tutta questo putrido ammasso di informazioni coloniatrice di menti deboli debba essere letteralmente bandita dallo schermi domestici. Non é forse vero che la pubblicità forma piccoli bambini urlanti, che già all' età di tre anni fanno i capricci perché vogliono avere il giocattolo visto in televisione? Tuttavia devo ammettere che é sempre meglio visualizzare quindici minuti di pubblicità su un aspirapolvere, piuttosto che ascoltare le notizie del telegiornale accuratamente selezionate e modificate dai direttori del notiziario. Devo dire però che questo fenomeno non accade propriamente in Svizzera, ma piuttosto su altri canali da me in passato seguiti, ovvero i canali italiani. Spensi il televisore e, sempre silenziosamente come quando mi ero levato dal letto precedentemente, mi diressi nuovamente verso questo. Mi accomodai sotto le coperte e chiusi gli occhi. Per la prima volta dopo tanto tempo riacquistai subito sonno e mi addormentai. Dovevo proprio odiarla, io, la televisione! Nella stanza arrivava un lieve profumo di croissant appena sfornati, e questa dolce fragranza mi convinse finalmente ad alzarmi dal letto. Mia moglie era in cucina ad apparecchiare la tavola per la prima colazione, e in mezzo al tavolo giacevano i profumatissimi croissant. Ci sedemmo a tavola e cominciammo a mangiare. Parlammo del più e del meno, ed a un certo punto mia moglie iniziò a parlare di un nuovo quiz televisivo e di come nel pomeriggio non sarebbe andata a prendere un tè dalla sua amica Mary per poterlo guardare. Pure questa dovevo sentirmi dire! In tarda mattinata andai a passeggiare ai giardini pubblici. Era finalmente iniziata la primavera e la si odorava nell' aria. Mi sedetti su una panchina. Le mamme avevano ricominciato a portare i bambini ai giardini, molta gente aveva ripreso a fare jogging e le ragazze indossavano abiti a fiori e camicette bianche. Ero felice. Di fianco a me si accomodò un uomo. Era sulla cinquantina, portava degli occhiali rotondi un po' sporchi e stava parlando al telefono, probabilmente con la fidanzata. Stavano organizzando la serata e lui chiese se questa sera ci sarebbe stato un film carino alla televisione, in quanto se non ci fosse stato avrebbe noleggiato un dvd. Un' altra volta la parola televisione! Cominciavo proprio a detestare questa parola! Ora non solo io stesso non sopportavo la televisione, ma mi innervosiva anche il fatto che altra gente la guardasse! La televisione ormai era ovunque. Mi alzai dalla panchina e proseguii la mia passeggiata, fino a tornare a casa. Era mezzogiorno e mia moglie stava preparando il pasto: stufato d' agnello, uno dei miei piatti preferiti. Pranzammo serenamente, e in seguito raggiunsi il divanetto posto nell' angolino del salotto. Mia moglie si era trattenuta in cucina a lavare le stoviglie, e io ne approfittai per fare un' altra cosa che da tempo non facevo, ma che mi era sempre piaciuto fare: ascoltare la radio. Avevo sempre avuto la passione per la radio, tuttavia nell' ultimo periodo avevo abbandonato questa mia abitudine in seguito a non ricordo più quali circostanze. La accesi e cominciai ad ascoltare una trasmissione che parlava delle abitudini dei turisti che si recano nelle più grandi capitali del mondo. Ma quanto mi divertiva la radio! Questi turisti avevano proprio delle strane abitudini, e io non smettevo di immaginarmi quelle persone arrivate in una città straniera completamente spaesati, e che cercavano di ambientarsi rendendosi ogni volta più buffi. Oppure immaginavo me stesso in una grande città che cercavo di ambientarmi e di immergermi nella cultura locale. Che risate! Tramite la radio la mia immaginazione viaggiava alla velocità della luce, e ogni più strana fantasia contorta affiorava nella mia mente. Come con un libro. La radio e i libri ti danno le fondamenta, ma poi sei tu che ci costruisci intorno una casa, un palazzo, un grattacielo! Che potere che ha la radio: quello di farti sognare, quello di farti ridere, quello di aprirti la mente, ma senza intossicarti con pubblicità, messaggi subliminari e notizie veicolatrici. Poi entrò in salotto mia moglie, e mi chiese se potevo spegnere la radio in quanto voleva vedere la televisione. A quel punto le chiesi a mia volta perché volesse guardarla, e lei mi rispose che la divertiva e che la rilassava poiché le lasciava spazio per fantasticare. Cavolo! Ma dimmi tu come fa la televisione, che tramite serie televisive e film ti butta davanti agli occhi storie già fatte e finite, con tutti i personaggi fisicamente e caratterialmente già definite dall' immagine che ti viene proposta, a lasciarti immaginare e lasciarti scorrere la fantasia! Forse é proprio per questo che piace tanto alla gente: la televisione é facile. Non lascia spazio all' immaginazione, non devi pensare a nulla. Lei ti propina un' immagine già fatta e definita, e tu non devi fare altro che guardare. La gente guarda la televisione perché é facile, perché una volta seduto su una poltrona davanti al televisore non devi fare niente. So che ci sono film che trasmettono delle emozioni e dei sentimenti indescrivibili, ma ormai le persone non guardano più la tv per questo motivo ( in parte cono giustificati, poiché spesso i film migliori e i programmi più interessanti sono trasmessi sempre o alla sera tardi, o in orari in cui la gente normalmente é al lavoro). La televisione, malgrado se gestita correttamente possa avere un ruolo positivo, é ormai stata invasa e presa in mano da persone egoiste, a cui interessano solo i profitti e al quale non interessa il benessere delle altre persone. Tuttavia sono fortunato, io, rispetto ad altre persone, perché credo che questo fenomeno in Svizzera sia lieve, mentre credo che sussista principalmente all' estero come in Italia e in Francia come già precedentemente spiegato. Ero stufo, avevo trascorso anni bellissimi senza la televisione e dall' altra notte, quando riaccesi la televisione dopo tanto tempo, ero diventato nervoso e agitato. L' unico modo per tornare alla normalità era di non accendere mai più quello schermo maledetto, e non di non pensarci più. Decisi quindi di passare il tardo pomeriggio con il mio nipotino preferito. Aveva cinque anni ed era il figlio di mia figlia. Quanto amavo quel fanciullo! Era così libero, felice e spensierato come solo un bimbo di cinque anni può essere. Ne ero molto orgoglioso. Presi un taxi e mi feci quindi lasciare davanti al suo palazzo. Suonai il citofono, presi l' ascensore e entrai nell' appartamento. Fui accolto con stupore da mia figlia, e dopo qualche parola su come stessi, mi recai in salotto per raggiungere il mio nipotino. Era bellissimo, e gaio come sempre. Quando mi vide mi venne in contro correndo e io lo presi in braccio. Ero il nonno più felice del mondo. Poi lui mi chiese: “Nonno, vuoi guardare la televisione insieme a me?” Diamine! L‘attesa Sabrina Canali Un raggio di sole entrò di sbieco dalla fessura lasciata dalle persiane in legno, di quelle che si possono solo accostare, perché vecchie e sgangherate, dove la pittura si scrosta a pezzi. Quell’unico raggio rappresentava quegli stessi raggi che ogni giorno illuminano il palcoscenico su cui si esibiscono i granelli di polvere, che vorticando sembrano rincorrersi nei luminosi colori di cui si veste l’alba. Il capolinea del lungo viaggio di quel piccolo raggio di sole era il viso di Tecla. Segnato dalla moltitudine di ore di sonno perse nell’arco di una vita intera. Ogni ora una piccola ruga, e il risultato era un mosaico di esperienza che si espandeva a macchia d’olio su tutto il suo gracile corpo. Senza bisogno di parole ogni suo tratto narrava di lei, donna innamorata di un uomo per cui aveva preso decisioni capaci di stravolgerle la vita, senza poi mai darlo a vedere. Al sentire la tiepida carezza di una nuova giornata che cominciava, distese il braccio al suo lato, per cercare Armando, l’unica persona per cui era disposta a dare tutto, a cominciare da quella stessa giornata. Trovò il lenzuolo liscio e disteso, intatto, mai nemmeno spostato. Sbarrò gli occhi, fissando il soffitto, cercando di ricordare il motivo per cui Armando non era con lei. Sentiva di saperlo, eppure quel ricordo era così indefinito, così vicino e allo stesso tempo così irraggiungibile. Dov’era Armando? Perché l’aveva lasciata sola, con un intero mondo pieno di aspettative nei suoi confronti, e lei non sapeva nemmeno da che parte cominciare? Aveva voglia di piangere, ma nell’istante in cui sentì la prima lacrima fare capolino da un occhio, aveva già dimenticato il motivo per cui si era presa tanto disturbo. Si alzò dal letto, si vestì e legò i lunghi capelli bianchi in un ordinato chignon. Dopodiché accese la radio, con un colpetto o due per eliminare le interferenze. Il suono uscì limpido e famigliare, trasmetteva calore e simpatia. I conduttori ridevano e scherzavano, e Tecla non si sentì più sola e lasciata in balia di se stessa. Parlavano di attesa, e di quanto profondamente potesse scuotere l’animo di una persona. “L’attesa accresce l’aspettativa.” Marina aprì gli occhi di scatto, azzurri, profondi e glaciali, spense la sveglia che suonava all’impazzata, obbligandola a pensare alla giornata che aveva davanti. Strofinò gli occhi per scacciare gli ultimi rimasugli di sonno che si erano nascosti sotto le palpebre e si alzò, accese la radio e mentre i conduttori mandavano avanti la trasmissione si fece una doccia rinfrescante, si truccò e fece colazione. Ogni sua azione era scandita dal gesto automatico di premere l’unico tasto del suo iphone per controllare in modo quasi spasmodico se erano arrivati nuovi messaggi. L’unica cosa differente di volta in volta era l’orario, sempre spostato di una manciata di minuti in avanti. Il tempo passava con una lentezza esasperante, e nessun messaggio arrivava. Si sentiva nervosa, perché odiava la sensazione di vulnerabilità data dall’attesa di qualcosa che si verifica senza l’influenza del nostro controllo. Di nuovo lo schermo s’illuminò, le 08:12, ancora nessuna notizia di Alberto. “L’attesa può essere la cosa più snervante, può addirittura arrivare a cambiare l’umore di una persona e rovinarle la giornata.” Su questo Marina si trovò pienamente d’accordo. Si sentì un po’ più capita e un po’ meno di malumore. Aprì l’agenda, e prese a studiare gli appunti lavorativi scarabocchiati in disordine. Con la scusa di guardare l’ora controllò nuovamente l’iphone: 08:17. Afferrò la borsa al volo e si tuffò nel traffico mattutino della città. “Si può aspettare una vita intera qualcosa che non arriverà mai.” Tecla era in cucina, si stava cimentando nella preparazione di gnocchi fatti in casa. Era fermamente convinta che in quelli acquistati in scatola mancasse quel tocco d’amore che solo chi li prepara da zero può metterci. Aveva acceso il camino, che rendeva l’ambiente più confortevole e, con la compagnia della radio impastava in modo quasi automatico, mentre il filo logico dei suoi pensieri creava un intreccio sempre più stretto con ciò che sentiva alla radio. Lanciava frequenti occhiate al corridoio dell’ingresso, ma ogni volta che il suo sguardo vi tornava lo ritrovava sempre nell’ombra e vuoto come la volta prima. Nessun rumore da lì le giungeva, nulla che lasciasse presagire un cambiamento. “Aspettare fa parte della vita quotidiana, si aspetta che il pane cuocia, che il bus arrivi, che giunga il momento di uscire di casa o di farvi ritorno.” Marina era seduta alla sua scrivania, davanti a un caffè con latte parzialmente scremato e poco zucchero. Tutto intorno a lei un ordinato caos di documenti, racchiusi in cartelline colorate, piene di post it ai lati, che aggiungevano informazioni arrivate dopo la battitura al computer definitiva. Si massaggiava le tempie. Sperando di trovare un po’ di sollievo allo snervante mal di testa che l’ultimo cliente prima della pausa delle 10:00, non per questo meno esigente, aveva contribuito ad alimentare. In sottofondo la radio passava una canzone che non aveva mai sentito prima. Era melodica e lenta, proprio ciò che serviva per rilassarsi un momento, prima di concludere gli incontri della mattinata. Richard Marx: Right here waiting, aveva annunciato il conduttore. Poteva essere una coincidenza o la canzone era scelta in base al tema di cui parlavano? “wherever you go, whatever you do, I will be right here waiting for you.” Tecla d’inglese non ci capiva niente, però la trovava una lingua molto dolce e orecchiabile. Aveva riordinato la cucina, fatta eccezione per la pentola degli gnocchi e quella del sugo sulla stufa. Fece il gesto automatico di apparecchiare la tavola, dopo averlo fatto per oltre sessant’anni, di cui quaranta di matrimonio era uno di quei gesti che faceva spontaneamente. Si avvicinò alla stufa e controllò la cottura degli gnocchi. Si voltò a guardare l’ingresso, ancora nulla. Le cadde l’occhio sulla tavola. Aveva apparecchiato per due, un’altra volta. “È da poco passata la una, e per chi si fosse appena sintonizzato, il tema del giorno è l’attesa amici miei!” Al tavolo con i suoi colleghi Marina si sentiva ancora nervosa. L’iphone taceva come un cuore solitario. Aveva persino preso in considerazione l’idea di annullare gli appuntamenti del pomeriggio usando la scusa del mal di testa. Sapeva essere molto credibile se voleva, è per questo che era così brava nel suo lavoro. La verità è che il mal di testa non era così forte, e l’idea di passare il resto della giornata aspettando notizie di Alberto non le piaceva molto. Moriva dalla voglia di sentirlo, ma sapeva di non poterlo cercare lei. “Come disse Tiziano Ferro: se non uccide, fortifica!” Tecla era in terrazza, ad occuparsi dei suoi vasi di fiori. Quando sentì la chiave entrare nella serratura, e il cigolio della porta che si apriva come un grido di speranza. L’innaffiatoio le cadde dalle mani, facendo schizzare acqua da tutte le parti. Corse verso l’ingresso, e si bloccò di colpo. Di fronte a lei non c’era Armando, almeno, non poteva esserne completamente certa. Il giovanotto di fronte a lei aveva gli stessi capelli scuri e scompigliati di Armando e gli occhi verdi di lei. Sentiva di avere un legame profondo con lui, eppure le sfuggiva di cosa si trattasse esattamente. Si avvicinò a lui, sapeva di potersi fidare, e sentiva di averglielo insegnato lei quando era bambino. Appoggiò le sue mani sul viso di lui. Lui restò immobile, la lasciò fare finché lei non ebbe esplorato tutti i lineamenti del suo viso. Lui piangeva, lei asciugava le sue lacrime. Lui soffriva, lei non capiva. Con delicatezza lui la prese per mano, e sorridendole la condusse fuori di casa, senza bisogno di dire nulla. “I messaggi stanno intasando il nostro centralino, leggiamone alcuni insieme: aspetto da cinque mesi un polmone nuovo per mio marito.” Alle 17.30 puntuale come un orologio svizzero, Marina usciva con passo spedito dall’ufficio, diretta a casa. La metro era in orario, e lei fu la prima e salirci, fra gli sguardi indagatori della gente alla sua stessa fermata, e la prima a sgusciare fuori, rapida come un felino. Salì correndo le scale che la conducevano al suo appartamento, al secondo piano e si gettò oltre la soglia di casa con l’energia di un uragano. Lanciò la borsa in una direzione, le chiavi in quella opposta, avviò il computer lasciato in standby. Mentre aspettava che i colori tornassero a risplendere sullo schermo, si rese conto che aveva dimenticato di chiudere la porta d’ingresso. Che sbadata! Non appena tornò a sedere l’icona di skype si aprì automaticamente. Chiamata in arrivo. Accettò, e l’immagine di un uomo la guardava sorridendo. Il suo sguardo le era famigliare, era lo sguardo in cui amava perdersi. Era vestito di una tuta militare decorata di piccole medaglie che marchiavano il suo petto. Il suo volto era stanco, e lui era dimagrito. Ma era vivo, e stava bene. “Prossimo messaggio: Sono al terzo mese di gravidanza, e sto già aspettando con ansia di vedere il volto della creatura che mi vive dentro.” Tecla stava di fronte alla lapide di suo marito. Confrontata con la più brutale realtà del tempo, nessuno vi sopravvive. Avrebbe dato tutto ciò che aveva per poterlo anche solo sfiorare di nuovo. Marina stava di fronte allo schermo che ritraeva l’uomo che amava. Avrebbe dato tutto ciò che aveva per poterlo anche solo sfiorare di nuovo. Tecla piangeva di dolore. Puro e saturo, di una donna che perde l’uomo che ama ogni volta come se fosse la prima. Marina piangeva di gioia. Pura e splendida di una donna che ritrova l’uomo che ama ogni volta come se fosse la prima. “L’attesa è come un’avventura, non sai quale sia il finale fino a che non lo vivi.” Il mio rapporto con i media elettronici Gabriele Spalluto Fuori nevischia ancora, le macchine si muovono a rilento, un po’ al contrario del mondo frenetico in cui viviamo; le strade sono bianche, pochi impavidi camminano imbacuccati fino al collo e tutto è tremendamente calmo. Dopo cena scendo da mio cugino, mi siedo sul divano con lui e accendiamo la tv su un TG italiano: come d’incanto la Costa Concordia che è affondata e le colpe o non colpe di capitan Schettino sono svanite, sembra non siano nemmeno mai esistite. Qui mi sorge una prima domanda: è davvero questo ciò che vogliamo? Lo scoop a tutti i costi, la morbosità nel voler vedere morte e sofferenze altrui solo sul momento, per poi lasciare perdere quando svanisce il caos iniziale? Questo aspetto della società in cui viviamo è malato a parere mio, profondamente malato. Però, c’è sempre un però... se ciò che vediamo nei TG è questo, significa che è ciò che il mercato vuole, e i giornalisti si lasciano piegare unicamente al volere della massa, pur sapendo della grande responsabilità che hanno? Mi spiego meglio: la mia opinione è che un giornalista deve sapere su cosa e come informare, in maniera dignitosa, non disinformare. Ci sono anche cose peggiori del disinformare, come il mentire, e gli esempi qui fioccano: falsi scoop con filmati risalenti a dieci anni prima, attori che si fingono testimoni della tragedia e così via... Tutte queste notizie sono come la neve: inizialmente attaccano, restano e un po’ le si maledicono, ma poi, con il primo caldo, svaniscono, si sciolgono. In ogni caso stavo parlando di come la televisione, ma non solo, sia spesso superficiale; torniamo quindi alla mia serata nevosa passata sul divano. Come dicevo, la Concordia oramai è unicamente un monumento in mare vicino al quale scattare una foto ricordo, i giornalisti hanno abbandonato l’isola e gli unici ricordi sembrano essere le vignette satiriche sul capitano; ora c’è un nuovo grande tema di cui parlare, molto più entusiasmante: l’inverno! Ebbene sì, l’inverno... Praticamente, secondo ciò che si può capire dalle notizie, la penisola è sommersa da venti metri di neve, la gente è impazzita e l’intera popolazione rischia di morire assiderata. La realtà è però che il massimo della neve caduta nelle città sia forse di qualche decina di centimetri, non metri. Premettendo che questo non vuole essere un testo contro l’Italia e che ho semplicemente preso spunto da questo esempio poiché “l’ho vissuto”, tutto questo mi sembra esagerato. Capisco che non si sia abituati, che sia un evento straordinario ed inaspettato, ma per alcuni questa “morsa del freddo” è una situazione più che normale, e anche in Italia ci sono stati inverni ben più rigidi. È vero, la gente è più abituata alle comodità rispetto al passato, ma un conto è presentare un fatto così come è, un altro è farne un’inutile iperbole che agisce per di più in maniera negativa sulle persone, terrorizzandole, perché la triste realtà è che la maggior parte della gente prende per oro colato ogni singola parola detta ad un telegiornale, non è in grado di distinguere il vero dall’esagerato. Nel frattempo, ho cambiato posizione sul divano e sto ridendo come un pazzo con mio cugino; non rido per ciò che è successo, per l’amor del cielo, sono vicino a chi ha perso un proprio caro o vive isolato, ma per come per pochi episodi si generalizzi il tutto e per come si voglia dare un aspetto da film catastrofico alla cronaca. I servizi continuano, si parla delle situazioni di caos presenti, passano all’incirca venti minuti ed ecco il fatto che mi lascia più perplesso, ma anche più “divertito”: passa un servizio in cui un veterinario dice di coprire i propri cani con le apposite maglie e portarli fuori poco. Io mi chiedo, è normale che una cosa del genere sia più importante delle centinaia di morti in Ucraina e nei paesi limitrofi? Se questa è l’informazione che possiamo ricevere, fatta di superficialità e pochi approfondimenti, grazie, non fa per me. Ma... c’è una maniera alternativa e più sensata di seguire la cronaca ed informarsi? No, penso, e penso sia questo il problema. Non sarebbe forse meglio un’informazione più completa, associata a delle trasmissioni e degli approfondimenti che aiutino a capire ciò che succede nel mondo? Onestamente, penso che il novanta percento degli ascoltatori non capiscano proprio nulla quando si parla di “spread” o di “bound” e mille altri termini usati ed abusati ad esempio. I casi a parer mio sono due: o si semplifica il linguaggio ed i servizi rendendoli comprensibili a tutti o si fa in maniera che tutti possano comprenderli. Purtroppo, mi sembra che nessuna delle due opzioni venga realmente messa in atto. Questa mia moltitudine di domande e pensieri forse non troveranno una risposta, nemmeno so se troverò una maniera di seguire la cronaca in maniera approfondita tramite la televisione, perchè alla radio perlomeno qualche approfondimento interessante c’è... ma sempre ad orari improbabili. Il mio non è un essere pessimista o polemico nei confronti dei media, è semplicemente un essere deluso per non ricevere ciò che mi aspettavo, ma probabilmente sono uno dei pochi se non addirittura l’unico a pensarla così, e tutto funziona in tal maniera poiché è ciò che il mercato vuole. Nel frattempo il TG è finito, e dell’Ucraina ho sentito parlare, nei servizi in breve, all’incirca trenta secondi. Fuori la neve scende più fitta di prima, io, anche se è presto, vado a letto, ho trovato un sacco di domande a cui cercare di dare una risposta. IO radIO Rossana Tanzi IO radIO “la radio è... un tostapane che parla” “la radio è... un’emozione” “la radio è... nell’aria” “la radio è... una doccia fredda” “la radio è... mia mamma” LA RADIO è tutte queste cose, e molto di più, come ho appena scoperto. È un nuovo mondo in cui, grazie ad una persona straordinaria, mi ritrovo proiettata; un mondo fatto di luci e colori come un sogno, ma anche di nottate di duro lavoro a base di cioccolato, noccioline e onde sonore. Grazie ad Alan, responsabile di Radio Gwen, oggi il progetto della radio studentesca del liceo di Mendrisio è realtà, e io e gli altri della redazione di Radio LiMe muoviamo i nostri primi passi nell’universo sotterraneo e parallelo che è la messa in onda. Ho scoperto che comunicare, trasmettere, annunciare, esprimere, raccontare, è un duro lavoro, significa in alcuni casi addirittura plasmare idee e, se praticata nel modo giusto, induce l’essere umano a pensare, attività ahimè ormai rara. Oggi la comunicazione passa sempre più attraverso internet e in ogni istante milioni di informazioni viaggiano velocissime attraverso la rete; una rete che diventa lo scenario di scandali e ribellioni, il teatro di nuovi amori e antichi rancori; una rete che può ancora riservare delle sorprese. Come, per esempio, le radio web, che sono sempre di più ma restano sconosciute e che ci propongono spesso un modo alternativo di prendere la vita. Una vita fatta di pub fumosi e concerti di ragazzi sconosciuti di fianco al bancone, che chissà, forse diventeranno qualcuno; fatta di scambio continuo di idee, di telefoni che squillano nel bel mezzo della notte per comunicarti l’ultima geniale pensata dei tuoi “colleghi”; fatta di profonde occhiaie la domenica mattina e di week end “tutti insieme appassionatamente”; una vita che grazie ad un “perché no” all’inizio di quest’anno scolastico ora è anche la mia: questa è Radio, quella con la R maiuscola. Per me Radio è restare veri, autentici, originali; è non conformarsi alle regole né a ciò che è “pop”; è portare le proprie idee nel mondo e cambiarlo. E se comunicare è sinonimo di cambiare il mondo, beh, allora dobbiamo scegliere con cura cosa proporre,.. ma dopotutto questa domanda se la sono posta altri prima di noi, a partire dal buon Erodoto che per scrivere le sue “Historiai” passò molto tempo a chiedersi cosa valesse la pena di essere raccontato, di attraversare lo spazio e il tempo per raggiungere le generazioni future. Anche 2500 anni fa si conosceva il grande potenziale della parola, che anzi aveva un ruolo più significativo di quello che ricopre oggi (e se ci pensassimo bene tutto ciò è un po’ sconcertante, vista l’abbondanza di mezzi di comunicazione da cui siamo circondati,soprattutto se paragonata alle saltuarie orationes dei nostri lontani antenati.. chissà cosa avrebbe fatto uno come Gorgia se la sua retorica avesse potuto essere trasmessa in diretta a tutto il mondo!). Chiediamoci dunque: vale la pena parlare per l’ennesima volta dell’ultimo scandalo di Lady Gaga o dell’ultimo film di Brad Pitt oppure preferiamo raccontare le nostre storie, ciò che davvero ci importa e ci coinvolge, la nostra visione delle cose? Forse per noi di LiMe è facile fare i diversi, perché siamo una piccola radio poco conosciuta e ascoltata ancora meno, ma mi piace pensare che siamo noi, piccola redazione, con le nostre scelte quotidiane, a decidere di non venderci, di non vendere lo spirito della Radio alla massa di giorno in giorno più uniforme, di non prostituire ciò che siamo, ciò che la Radio è, per attirare l’attenzione di nuove orecchie tutte uguali. Noi vogliamo cambiare il mondo, IO voglio cambiare il mondo, e chiamatemi idealista, ma credo che l’unico futuro possibile per lo sviluppo dei media sia questo. Tornare a prestare maggiore attenzione alla parola (e nel caso della televisione all’immagine) forse non farà smettere le guerre, e di sicuro non placherà la fame nel mondo, ma aprirà gli occhi, le orecchie, le menti di tutti coloro che vorranno fermarsi a riflettere su quello che c’è davvero lì fuori, oltre i nostri gusci fatti di reality e telefilm, e di notiziari che parlano di ciò che sai già. Credo che parallelamente ai miei studi continuerò a fare parte della Radio, come attività ma anche semplicemente come sogno, come idea che mi accompagna quando esco la sera; quando mi preparo, mentre mi pettino o scelgo come vestirmi, mentre esco da un concerto con il male ai polpacci e il sorriso che non accenna a svanire, quando mi sento rock’n’roll, la Radio c’è -anche se sembra uno slogan pubblicitario- e forse grazie alla comunicazione prima o poi ci sarà più gente che, come me, sogna un mondo migliore. Registro mentale Mara Travella Entro in quest’edificio enorme. Corridoi e camici bianchi. Facce una uguale all’altra, tessere di un domino che non cade mai. Le pareti bianche, bianche come i suoi occhi il giorno che l’hanno trovata. Da quel giorno non vedo luce, brancolo nel buio dei miei incubi più intimi. Devo sapere, la verità ad un certo punto vuole essere scoperta, ti afferra per il collo e ti trascina, ti stringe e non lascia mai la presa. Mi costringe a muovermi senza sosta finché trovo questo spiraglio di possibilità. Un uomo, un caso atipico, come lo definisce il camice bianco all’entrata. Un uomo che racconta sempre la stessa storia. Era l’unico ad essere stato notato nei pressi del suo appartamento, la vicina ficcanaso l’aveva visto entrare. Potrei incontrare l’assassino del mio Amore. Un rivolo di sudore mi scivola sulla schiena, scivola tra le scapole, tra le mie ali spezzate, inerti dopo il vento che mi ha trascinato nelle stanze della paura, vento violento, violenza che schiaffeggia il mio cuore. Apro la porta, numero 37. L’uomo è fermo, seduto in mezzo alla stanza, il letto capovolto, accanto a lui. Il suo sguardo cerca un tracciato invisibile sul muro di fronte. Emana paura e parole. Suda. Fremono le sue mani ma le parole sono scandite con una freddezza sorprendente. Mi parla, o parla a se stesso. Il discorso che mi ero preparato mi si ferma in gola, la verità stringe. Chiudo la porta e mi accascio a terra. Ascolto, cerco un senso nella confusione. Inizio a piangere, isterico. Si volta verso di me, quello che hanno definito come un matto, l’unica persona che può sapere. Si rivolge alle mie lacrime aspre, al mio corpo stanco, non gli dico nulla. “Perché vede, se si potesse entrare nella testa delle persone, dico, registrare ciò che pensano quando vedono la televisione… non sarebbe follemente pericoloso? E se scoprissimo che tutti gli sforzi fatti per mettere il mondo in una scatola e trasmetterlo al vicino di casa, a tutto il quartiere, a tutta la città, lo stato il mondo intero, bambini- giovani- adulti - anziani compresi, fosse tutto una farsa? Mi viene freddo alle mani solo a pensarci. Che quello trasmesso dalla televisione sia uno specchio di ciò che desideriamo vedere, non sia più la verità, ma il tutto sia capovolto, per trasmetterci immagini che ci fanno dimenticare la realtà, la deformano con luci e colori, sopprimono le immagini attimo dopo attimo la fantasia dei nostri figli… immagini nitide e fredde, immagini della nuova visione del mondo che viene propagandata nei salotti e nelle cucine, nelle lavanderie e nei pub. Nei cinema come nelle scuole. C’è da impazzire. Allora ho fatto così, mi segue? Ho preso questo registratore, lo vede no? Lo si può tenere nel palmo di una mano, ecco lo prenda, e non me lo ridia mai più indietro…” Afferro quell’oggetto che mi tende. Non ci tocchiamo ma percepisco il rabbrividire della sua anima al solo sfiorarci. Lo osservo. Mani che tastano nelle tasche, sudore dalla fronte come gocce di una clessidra che sembra non dargli tregua. Deve raccontare, deve raccontare la voragine che l’ha fatto finire qui. Se solo ci soffermassimo a sentire la voce di chi sostiene di non aver nulla da dire. Se solo ridessimo un po’ di più e ci fermassimo ad ascoltare una storia, se ne avessimo la capacità e se il nostro tempo fosse scandito dai se dei nostri desideri più che dei nostri dubbi, allora forse le storie sostituirebbero le televisioni. “ Come le dicevo questo pensiero mi ossessionava, voglio dire… quel silenzio che ci stringe quando vediamo la televisione, il cervello umano che assorbe le immagini e crea pensieri e le azioni ci sembrano incontrollate e le emozioni così vive, e vede, la televisione ci incanta tutti, voglio dire, ci rilassa, ci distrae dalla nostra routine e ci risucchia… E insomma ogni giorno dalla mia finestra vedevo questa ragazza! Che occhi silenziosi, il suo corpo era da riempire di parole. M’immaginavo sempre quale parola sarebbe scivolata meglio sul profilo dei suoi seni, lentamente, sinuosamente, bombole d’ossigeno…ho sempre cercato parole che ne definissero la pienezza, che ne risaltassero non la forma, bensì la sporgenza dell’anima. Un amore platonico penserà lei, non lo so. La fissavo, la fissavo nella mia mente e crescevano punti di domanda come radici nelle mie riflessioni. La mia finestra dava sulla sua e mi permetteva di avere una visione un po’ più dall’alto di quello che accadeva nel suo salotto. E lei. Insomma, io guardavo lei e lei la televisione. Che spreco che quegli occhi con tanta luce dovessero fuggire nella luce artificiale di quel mondo. Quel mondo che non m’era mai interessato; l’arte e la lettura e la musica mi riempivano talmente il corpo che la televisione era troppo statica per i miei nervi, capisce? Lei stava lì e si sfiorava i capelli con la mano, si toccava, si toccava la punta delle ginocchia e il ventre, si toccava e io impazzivo, e più io la vedevo più lei non vedeva. Capisce? Da una finestra all’altra, a distanza di muri, vetri, strade e rumore di strada, di mercato, di suoni e voci che cercano altre voci, attraverso quest’entusiasmante confusione, un filo scivolava da lei per raggiungermi, legarmi i polsi e farmi sentire che più io la vedevo più lei doveva sfiorarsi per sentire ch’era viva. Da impazzire. Insomma prendo questa maledetta radiolina e decido di registrare ciò che accade.” Respiro profondo. Occhi sempre più vivi e labbra sempre più veloci. Forse quest’uomo potrà veramente risolvere i miei presentimenti. Sciogliere i miei nodi ai polsi. Il mio nodo al cuore che m’impedisce di respirare. Io l’amavo, maledettamente l’amavo. E come può questo sconosciuto raggiungere i suoi segreti senza mai averle rivolto la parola? “L’appostamento. Quei giorni li ho definiti nel mio diario mentale come i giorni dell’appostamento, parlavo al registratore di tutto quanto vedevo, e lui registrava- rimandava. La sera mi sedevo in poltrona e riascoltavo quanto era successo. Il lento scorrere del tempo mi piombava così addosso. Rivivere alla sera ciò ch’era stato fatto durante il giorno era la ciclicità da cui sempre avevo cercato di fuggire, e non ripensare solamente, riascoltare, capisce? Sentire la propria voce, i propri respiri. Così decisi di darla a lei. Riascoltarsi magari l’avrebbe aiutata a sentirsi. A non cercarsi più nelle luci di quella scatola che le rubava l’anima. Come avrei potuto spiegarle che volevo sapere se quella mia supposizione era corretta? Come potevo spiegare a parole questo gomitolo di sensazioni e paure che mi faceva stare sveglio la notte a riempirmi le braccia di idee? L’avrei spaventata. Forse avrebbe cambiato casa e questo… no questo era un pensiero che non volevo avere. Trovai il modo, una mattina dopo che lei se n’era uscita per andare al supermarket giù in strada, di entrare in casa sua e lasciare quell’aggeggio accanto al tavolo di fronte alla televisione. Non so perché l’appoggiai lì né tantomeno cosa sperassi che succedesse con questo mio gesto. Lì lo lasciai e me ne tornai a casa a pensare ai fatti miei. Una volta fatto non ci pensai più, non la guardai per qualche giorno né non capii più cos’era il fine delle mie azioni. Mi sentivo stupido, ecco, stupido e basta. Perché appena richiuso l’uscio del suo appartamento, dopo aver violato come un ladro il suo spazio, e dopo aver respirato la sua stessa aria, un pensiero mi balenò nella mente! Solo in quel momento il mio cervello contorto mi faceva soffermare sulle sue labbra, sulle mille volte in cui le avevo guardate: lei non emetteva una parola. Non parlava! Come avevo fatto a non pensarci? Non l’ avrei mai aiutata.” Raggiungono le parole di quest’uomo la mia bocca assetata. Dissetano il mio terrore, placano le mie lacrime. Continuo a fissarlo, muto. Incapace di qualsiasi movimento. “Lì su quel tavolo lo lasciai e quattro giorni dopo andai a riprenderlo. Mi misi alla finestra per aspettare di poterla rivedere di nuovo e di nuovo respirare dei suoi movimenti e di nuovo vedere la sua immagine riflessa nel vetro ed emozionarmi nel scoprire nuove sfaccettature del suo riempire il mondo. Ma vede, quel giorno lei non fece capolino dalla porta, e nemmeno quello seguente e quello dopo ancora. Presi il registratore e lo lanciai nel cestino. Stupido, pensavo. Stupido oggetto inutile come mi sei capitato fra le mani! E vede, come al rallentatore, quando la radiolina atterrò nel cestino non so se fu per sogno, per immaginazione, per voglia di gridare… ma questa iniziò ad emettere dei suoni… e delle parole, e le parole emanavano il suo profumo, e in quel momento mi si spezzò il cuore. Vede, prima o poi sapevo che le mie corde sarebbero saltate, ma nessuno può prevedere il preciso momento in cui il meccanismo si spezza. Perché vede, se si potesse entrare nella testa della gente, dico, registrare ciò che pensano quando vedono la televisione non sarebbe follemente pericoloso? Non sarebbe follemente pericoloso registrare un anima? Non crede che sarebbe terribile?” Mi alzo di scatto, l’uomo ha cominciato a gridare. Esco in corridoio e sono troppo in ansia. Devo sapere, maledettamente devo sapere! Entro nel primo bagno che vedo. Mi chiudo nel bagno. Mi tremano le mani come a quell’uomo. Ansimo. Accendo il registratore. “Sono maledettamente brutta. I miei fianchi si allargano come ombre del mio passaggio. Non riesco a respirare e la mia ciccia mi uccide. Mi uccide il pensiero di non poter mai essere lì, perché non sono abbastanza bella! Me l’ha detto quell’uomo bellissimo al provino, con quei suoi bellissimi denti e quel suo incantevole sorriso, mi ha detto che dovevo perdere almeno dieci chili per poter entrare a far parte dello show, mi ha dato una carezza o meglio un colpetto sulla guancia dicendomi : “Pensa a qualcos’altro per il tuo futuro”. Ma come? Ho passato cinque maledettissimi anni davanti ai loro programmi solo per essere perfetta al punto giusto, ho tinto i capelli, ho corso, sudato e faticato. Non ho lasciato andare i miei studi ma ho continuato a sognare di essere io la ragazza accanto al presentatore, di essere io quella che i miei genitori vedono alla televisione tutte le sere, e forse finalmente mi guarderebbero con occhi diversi se io fossi nella verità delle immagini della televisione. Quella televisione che loro fremono di accendere a qualsiasi momento della giornata. Se io fossi lì mi amerebbero, o perlomeno mi vorrebbero bene e non sarei il loro fallimento con la effe maiuscola. Avrei soldi, soldi con cui migliorare la loro vita, e basterebbero un bel vestitino e un bel corpo a riempire le loro tasche. Ebbene, sono anche il mio fallimento! Non potrò mai farcela, più di questo non so dare, non sarò mai abbastanza giusta per entrare nella televisione, vorrei staccarmi la pelle con le mani, vorrei aspirare e vomitare in un solo colpo tutti i miei chili di troppo, tutto il mio essere impacciata, tutto il mio povero corpo ricrearlo in un solo colpo… non posso credere che sia toccato proprio a me vivere in questo incubo. Non so nemmeno come continuare a credere in questo sogno, quando io non sarò mai come quelle alla televisione… sarò sempre e solo io. E voglio andarmene. E me ne voglio andare dal mondo. Che magari poi, sarò un altro corpo. Magari nascerò perfetta per uno show qualsiasi , magari sarò finalmente felice.” Clic. Il registratore si spegne e si spegne il mio corpo con lui. Chiudo gli occhi e vedo nero.