The hateful eight - Cinema Teatro San Giuseppe Brugherio

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The hateful eight - Cinema Teatro San Giuseppe Brugherio
CINECIRCOLO “ROBERT BRESSON”
Brugherio
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Mercoledì 11, giovedì 12 e venerdì 13 maggio 2016
Inizio proiezioni ore 21. Giovedì anche alle ore 15
“Ogni volta che faccio un film cerco di farne cinque in uno, perché so che non riuscirò mai a
fare tutti i film che mi piacerebbe fare. (…)A volte hai fortuna, a volte fai senza volerlo un film
che riflette il tuo tempo, e questo forse è stato il caso.”
Quentin Tarantino
The Hateful Eight
di Quentin Tarantino con Samuel L. Jackson, Kurt Russell, Jennifer Jason Leigh, Walton Goggins
USA 2015, 16’
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L'inizio evoca "Ombre rosse" di John Ford, con i
passeggeri di una diligenza che fanno sosta in una
stazione di cambio. Però i viaggiatori sono assediati
da una tempesta di neve che li costringe a restare nel
rifugio per tutto il film. E qui "The hateful eight"
comincia a innestare sul repertorio western il giallo
alla 'Dieci piccoli indiani': dove i personaggi vengono
eliminati uno a uno in un clima di sospetto reciproco.
Gli "odiosi" (ma anche "pieni di odio") Otto sono
John 'il Boia' Ruth, un cacciatore di taglie che porta a
Red Rock l'assassina Daisy Domergue per farla
impiccare, la donna, l'ex-colonnello dell'esercito
unionista Marquis Warren, più il sedicente sceriffo di
Red Rock; ai quali si aggiungono, dentro la stazione,
un ambiguo tipo in bombetta, un cowboy silenzioso, un messicano e un vecchio ufficiale confederato. Qualcuno degli
otto bastardi non è chi dice di essere: ha inizio un gioco di imbrogli e tradimenti che ha per posta la pelle.
Curioso che il secondo western di Quentin dopo "Django unchained" sia un film a-porte-chiuse, concentrato prima
all'interno di una diligenza poi tra quattro pareti come a teatro (dal teatro, del resto, mutua la suddivisione in atti). Non
meno singolare, poi, che il regista lo abbia girato in un sontuoso Panavision 70mm, grande formato da tempo in disuso.
Eppure non ha torto il direttore della fotografia (candidata all'Oscar) Robert Richardson quando spiega che
l'inquadratura 'large' permette di mostrare tutte le pareti, dando un senso di claustrofobia. Si aggiunga che con quel tipo
d'immagine lo spettatore sceglie su chi concentrare l'attenzione; e la regia può giocare maliziosamente sulla 'messa a
fuoco' decidendo cosa mostrarci e cosa no (vedi la scena dove una mano in primo piano versa caffè avvelenato).(…)
"The hateful eight": film grondante emoglobina dove la violenza è filmata senza censure, né giustificazioni che non
siano la bastardaggine dei personaggi.(…) la sua (di Tarantino) resta una violenza ludica, beffarda, che se la ride della
correttezza per offrirci un divertissement ribaldo e sontuoso. Sotto l'apparente cinismo (da quanto non sentivamo
ripetere così spesso in un film la parola 'negro'?), Tarantino ci interpella anche sul razzismo onnipresente nella storia
americana, nonché sulla qualità 'fantastica' dei miti cavallereschi del West. Vero è che (malgrado gli omaggi a Ford e
Leone), il genere in cui il film s'inscrive non è poi tanto il western, quanto piuttosto il 'genere Tarantino'. Se non tutti lo
ameranno, i fan non ne saranno delusi: la regia è sapiente; gli interpreti perfetti; la colonna sonora di Ennio Morricone
(Oscar), geniale.
Roberto Nepoti – La Repubblica
"The Hateful Eight”, gli "Odiosi otto", tutti maschi tranne lei, Daisy Domergue, la prigioniera destinata alla forca che una sublime
Jennifer Jason Leigh rende più brutta sporca e cattiva degli altri. Tutti bianchi, tranne lui, il maggiore Marquis Warren (Jackson), ex
ufficiale dell'esercito nordista con un dopoguerra pieno di ombre e di follia. Sanguinari assassini, razzisti, cacciatori di taglie, cinici
avventurieri senza fascino, boia istituzionali e per soldi pronti a ammazzarsi. Diviso in capitoli, con l'ouverture di Ennio Morricone e
l'intervallo che serve a girare la vecchia pellicola ma solo nel formato 70 millimetri il cui splendore però si immerge nella neve
bianchissima e nei paesaggi dello Wyoming per poco. La storia si chiude nelle pareti dell'emporio di Minnie dove i protagonisti
trovano rifugio dalla tempesta e giocano una partita a scacchi dell'ambiguità. Nulla è come sembra e nessuno può fidarsi dell'altro.
(…) gli otto si affrontano con le parole e con le pistole. C'è un sentimento folle, commuovente di amore per il cinema in tutto questo
che appare quasi come una provocazione. I tempi dilatati si fondono nel cromatismo delle luci, nei dialoghi esasperanti, pieni di
sottotesti e di allusioni a qualcos'altro, che ognuno dei personaggi conosce individualmente, segno di una impossibile comunanza in
una nazione che deve ancora nascere, mentre il 70 millimetri teorico nella testa e negli occhi di Tarantino ci risucchia in un'immagine
che mischia western, horror, splatter e gore. Una superba messinscena, specie nella seconda parte, di piaceri quasi proibiti davanti
al focolare, il torbido delle casette con poltrona e letto a due piazze, pellicce e armi ossessione dell'America.
Se la costruzione formale rimanda (come dice lo stesso Tarantino) a "Le iene" l'omaggio esplicito al Carpenter della "Cosa" (e non
solo per Kurt Russell e la musica di Morricone), la materia narrativa e i suoi conflitti legano "The Hateful Eight" a "Django
Unchained", con la Storia che rimane nel fuoricampo, trascinata dentro dai personaggi. La guerra civile e la 'ricostruzione', il
razzismo, il nord e il sud, l'America non pacificata che cova nelle sue viscere il Ku Klux Klan. E la sua mitologia che Tarantino
scompiglia spudoratamente infilando citazioni, da cineasta postmoderno quale è, passioni e correzioni motto poco 'politicamente
corretti' di immaginario non addomesticato. Non c'è un eroe
salvifico o da immolare ma solo uno un po' meno bastardo degli
altri. L'uomo nero, il 'nigger' col cappello, la pipa in bocca e una
lettera
di
Abramo
Lincoln
custodita
gelosamente
nella sua personalissima leggenda (ma è la leggenda sembra
dirci che crea realtà) che quella Storia ha massacrato, reso
pazzo, macchina crudele di vendetta, più spietato degli altri, dei
bianchi. E d'altra parte, come ripete Marquis, non c'è sicurezza
per un nero se in giro c'è un bianco armato.
Il filo dell'ambiguità inghiotte il mondo dentro e quello fuori: cosa è
giustizia, cosa massacro. La vendetta è un piacere solitario e si
può essere colpiti solo nelle parti basse. La battaglia non
risparmia nessuno, nemmeno le donne, difatti per i cazzotti e gli sputi in faccia a Daisy hanno accusato in America Tarantino di
misoginia. Ma se invece lo sguardo su di loro fosse quello di lei, di Daisy, la donna picchiata e che picchia come gli altri, a suo agio
nel mondo dei maschi senza un John Wayne innamorato a salvarla? Stessa sporcizia, sangue, denti spaccati, appena un attimo di
infida dolcezza - mentre suona alla chitarra 'Jim Jones at Botany Bay' – che mettono lo spettatore a disagio. Non la pulzella indifesa
ma una bastarda e senza le rassicuranti armi della seduzione. Ancora un'altra scommessa.
Cristina Piccino – Il Manifesto
The Hateful Eight è ossessionato dalla nozione di identità, reale o supposta dei suoi personaggi e di una nazione
perennemente indecisa fra opzione morale e violenza brutale. Ma Tarantino non è Spielberg. Se l'uno riduce in forma
di dialogo il potere (Lincoln), l'altro lo esplode con un colpo di fucile e lo schizza sul muro. 'Allungato' sullo schermo,
l'autore americano prosegue sul sentiero battuto da Django e sorprende sulla strada per Red Rock una diligenza in
fuga dai fantasmi della guerra civile. The Hateful Eight assicura che l'Ultra Panavision 70, glorificazione dello spazio
orizzontale, può 'servire' otto bastardi in un interno. Perché Tarantino sceglie di ripristinare un formato abbandonato
nel 1966 non tanto e non solo per distendere i paesaggi del Wyoming ma per filmare le interazioni degli attori dentro
uno spazio chiuso. Riparati in un rifugio e disposti come pedine su una scacchiera, gli otto hateful di Tarantino
agiscono in primo piano e sullo sfondo. I due livelli di visione permettono allo spettatore di non staccare mai gli occhi
dai personaggi e dalla relazione che ciascuno di loro intrattiene con l'altro, in un clima di paranoia che monta. Spinti da
un vento polare in un ricovero alla fine del mondo e separati dal mondo, i nostri non smettono di mostrarsi a vicenda
documenti, lettere, mandati, ordini di missione, avvisi di ricerca per provare che sono esattamente chi dicono di
essere. Ma i dubbi restano e maturano tra una tazza di caffè e un bicchiere di cognac. Sceriffi designati, cacciatori di
taglie, cowboy nostalgici, generali in pensione, gangster nomadi, burocrati forbiti, ex soldati incazzati, bianchi, neri,
messicani, confederati e unionisti, non manca davvero nessuno nella pièce western di Tarantino, magma
incandescente degli Stati Uniti nascenti che scalda i rancori e cova una diffidenza post guerra civile.
La tensione sale lenta dalle piste innevate e si addensa nel rifugio, accomodandosi su poltrone 'macchiate' e
avvolgendosi intorno al maggiore di Samuel L. Jackson che alla maniera del dottor Schultz di Christoph Waltz, rivela la
sua natura tarantiniana, dominando la parola e le armi. Mediatore tra il film e lo spettatore, Jackson distrae l'occhio
mentre l'azione continua e 'avvelena' l'ambiente, caricando di indizi e pallottole le colt. L'intrigo avanza con la
meticolosità di un'istruttoria giudiziaria in cui il silenzio è d'oro e la parola parla per ridistribuire i ruoli simbolici
dell'avvocato, della vittima, del sospettato. Il film di Tarantino finisce allora per assomigliare a un tribunale che blatera
di impiccagioni, omicidi legali, legittima difesa, normalizzazione della violenza, messa a punto della giustizia. Ma di
quale giustizia si tratti, al d là del Cristo misericordioso seppellito dalla neve nel piano iniziale, lo comprendiamo presto
al cospetto di un branco di iene riunite per 'deliberare' chi meriti la vita. Evidentemente nessuno. (…)
Marzia Gandolfi – Mymovies
Nel cinema di Tarantino tutto si tiene: la logorrea, la violenza,
l'ironia, il racconto spietato e impietoso di chi siamo e dove
viviamo. Si tiene nel nome e nel segno del cinema, di quel
cinema che Quentin ama di un amore vorace, assoluto,
passionale, feticista. Tutto si tiene, ma va da sé che a volte
l'equilibrio possa essere più precario, il dosaggio degli
ingredienti di una precisione non proprio laboratoriale, e che il
golem di celluloide dell'ex enfant terrible del cinema americano
sia vivo e capace, ma troppo grottesco, o mostruoso, o facile
alla dissoluzione in polvere d'immaginario al tocco dello
sguardo. The Hateful Eight, invece, no. Cammina senza timore
sul filo del rasoio della tensione, si muove elegante e sfacciato
sui pezzi di vetro, con un vorticare di parole, di personaggi e di
maschere che assomiglia a un balletto dalla coreografia sublime e oscena. The Hateful Eight è il Tarantino che ti rapisce, e lo fa con
la parola, con la sua lusinga, con la sua capacità affabulatoria e seduttiva. Sedativa. Parole che divertono, avvincono, distraggono,
ingannano, intervallate da gesti che tradiscono forza, rabbia, disperazione, determinazione. Parole e gesti che si accompagnano o si
contraddicono, ma che in entrambi i casi servono lo scopo unico e imprescindibile del racconto.(…)In The Hateful Eight, come non
aveva mai fatto prima, se non in parte con Jackie Brown, Tarantino si dimostra un grande drammaturgo. Come Jackie Brown, anche
questo western da camera, che mette in scena lo psicodramma amorale di nove personaggi dentro un'isolata casa-emporio (di
bambola) del Wyoming, gioca con toni diversi da quelli del Tarantino più fracassone o sfacciato. Qui il testo è al servizio di una storia
e dei suoi personaggi, e non il trampolino di lancio per battute o linee di dialogo da mandare a memoria, che pure non mancano.
(…) Tarantino è un astuto cantastorie, capace di farti perdere tra le pieghe del suo racconto, di ingannarti e sorprenderti, di
meravigliarti e divertirti. E di farti realizzare, tutto a un tratto, che quella storia di sangue, inganni, violenze e razzismi, è la storia degli
Stati Uniti d'America. Di stati uniti per forza, con la guerra, con la morte, nel nome di una giustizia che è tale solo quando condivisa,
anche da chi magari si detesta, e si è guardato con odio fino al momento della verità. Chiusi nell'emporio di Minnie (a questo serve,
se serve, il 70mm, a far entrare dentro lo schermo, dentro la scena, nel mezzo della storia), ci si perde dentro un film caleidoscopio
che contiene al suo interno frammenti di tutti quelli di Tarantino (…)e di tutti quelli che lui ha amato, digerito, citato; nel quale ogni
personaggio è riflesso di qualcun altro, di altri personaggi tarantiniani, e di noi stessi. (…) Federico Gironi - Comingsoon