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Massimo Romagnoli
Le tre caravelle
in un mare di guai
Questa è un’opera di fantasia. Ogni riferimento a fatti
e persone realmente esistiti è puramente casuale.
www.giunti.it
© 2016 Giunti Editore S.p.A.
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Prima edizione: febbraio 2016
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Roma
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È stato il cielo a mandarlo per mettermi alla prova. Non c’è
dubbio.
Alla prima telefonata di Valduzzi avevo subito pensato a uno
scherzo. Sai quante volte ci avevano provato Nando o Dome­
nico con le loro storielle del cavolo? Avevo finito con le pulizie
del locale e mi apprestavo a fare una bella partitella a scacchi on
line. Quando aveva squillato il telefono avevo immediatamente
pensato a un operatore dell’energia elettrica o della compagnia
telefonica che mi assillavano tutti i giorni. Alzai la cornetta con
l’intenzione di interrompere subito la conversazione, ma una
voce autoritaria, profonda e decisa, si presentò come «Valduz­
zi» e chiese di parlare con il proprietario del pub. Sembrava la
voce di un dirigente più che di un operatore qualsiasi.
«Sono io» dissi un po’ allarmato.
«Mi scusi il disturbo, la chiamo perché mia nipote dice di
averla conosciuta nel suo pub e di aver affrontato con lei un
discorso… molto interessante per me.»
Perplesso, appiccicai la cornetta all’orecchio.
«Mia nipote sostiene che lei è in grado di risolvere qualsia­si
mistero con l’astrologia e mi ha consigliato vivamente di con­
tattarla, perché… vede… io ho bisogno di risolvere proprio
un mistero.»
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Ecco, il solito scherzo di Domenico o di Nando: un sacco
di volte ci avevano provato al telefono.
«’A Nando, ma perché non vai a provare sulla metropoli­
tana?» urlai.
Dopo un attimo di esitazione, dall’altra parte del filo la voce
si fece ancor più decisa, assolutamente differente da quella di
Nando o di Domenico, e neanche lontanamente riconducibile
a un loro qualsiasi tentativo di imitazione: «Non ho capito be­
ne. Cosa c’entra la metropolitana? È lei il proprietario del pub
esperto in astrologia?».
«Mi sa che non è uno scherzo» mormorai. «Ehm… sì, sì,
sono io. Mi scusi ce l’avevo con… con il cane di un mio amico
che pretende sempre qualche croccantino. Ha bisogno di un
astrologo quindi?» continuai, cercando di prendere seriamente
il colloquio.
«No, io ho bisogno di un detective, poi lei può usare tutti i
metodi che vuole, l’importante è che trovi mio figlio. Dietro
un lauto compenso ovviamente.»
Valduzzi concluse la telefonata ordinandomi, quasi, di fare
un salto nel suo studio, dove mi avrebbe illustrato tutti i detta­
gli della faccenda. Entro la settimana però, perché non poteva
aspettare di più. Mi lasciò l’indirizzo e il numero di telefono e
si congedò con l’augurio di vedermi al più presto. Riattaccai e
subito andai ad affacciarmi fuori dal locale, sicuro di sorpren­
dere uno dei miei due amici col telefonino in mano. Non ero
ancora convinto.
Nessuno. E se veramente non fosse stato uno scherzo? Co­
minciai a fare delle supposizioni.
La nipote, aveva detto il tipo. Con chi avevo parlato al locale
di astrologia, ultimamente? Mah! Doveva essere un’avventrice
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occasionale, capitata per caso durante una delle mie “conferen­
ze” improvvisate.
Forse quella splendida ragazza, insieme all’altro tipo, a cui
avevo attaccato una pippa micidiale che li aveva così entusia­
smati? Volevano persino organizzare una pièce teatrale con me
protagonista, dicevano. Oppure chi?
Spesso, a causa del mio Giove natale in prima casa, tendo ad
allargarmi parecchio e mi vanto di essere capace di ricostruire
l’intera vita di una persona studiandone con attenzione il suo
tema natale. Si può risalire a tutto, sono solito affermare, perché
tutta la vita è già scritta nel tema natale.
Sapete quante volte l’ho raccontata questa storia, davanti
agli occhi affascinati soprattutto delle ragazze? È andata sicu­
ramente così. Una cliente avrà creduto alle mie parole e sarà
andata a raccontarlo al tipo che dice di aver bisogno di un
detective.
Io, comunque, all’appuntamento ci vado. Magari ci faccio
qualche soldo, e poi sono convinto di quello che dico. Potrebbe
essere una buona occasione per mettermi alla prova e dimo­
strare che non sono tutte panzane quelle che dico. Ci vado, sì,
sì. Magari è l’inizio di una nuova professione. Magari!
Sono venticinque anni che tengo in piedi ’sto pub e comincio
a perdere i colpi. È sempre più dura andare avanti, non sono
più un ragazzetto e sento il bisogno di godermi finalmente la
campagna in cui sono andato a vivere.
Quasi tutti i giorni, con la macchina, tra andata e ritorno,
faccio più di sessanta chilometri per venire al Pigmalione, nel
quartiere di San Lorenzo, e fare sempre le tre di notte comincia
a pesarmi. L’ ho già detto, non ho più l’età. In campagna sto
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bene e mi sento in pace con me stesso. Ho comprato il terreno
accanto a quello di Claudia e adesso siamo vicini di casa. Ave­
vamo aperto il Pigmalione insieme nel 1990; allora lo volevamo
chiamare Il punto G, ma poi ci abbiamo ripensato. Troppa
fatica a dover spiegare il significato. Così abbiamo deciso per
Pigmalione, che contiene comunque le lettere P e G.
Claudia ha retto per qualche anno e poi non ce l’ha fatta
più. L’ Urano sull’ascendente, nel suo tema natale, quadrato
al sole, purtroppo non l’ha dotata della pazienza necessaria a
gestire un locale pubblico. Ha mollato il pub e dopo diverse
peripezie ha trovato la strada dei prodotti biologici. Ha aperto
anche un sito, Le Medichesse di Clo, così fa la francesina. È stata
una buona cosa per me, dal momento che litigavamo spesso di
fronte agli sguardi divertiti o sconcertati dei clienti. Non che
adesso non litighiamo più, però lo facciamo solamente davanti
ai nostri cani o a qualche gallina.
Il fatto è che Claudia e io siamo completamente diversi, e
chiunque, a digiuno di astrologia, non capirebbe il motivo del
nostro rapporto. Abbiamo la croce dei segni zodiacali. Io sono
un Acquario ascendente Scorpione e lei è un Toro ascendente
Leone. L’ aggiunta di diversi pianeti posti strategicamente in
punti comuni a tutti e due spiega perfettamente le varie dina­
miche. Insomma, nonostante le nostre consistenti differenze,
che continuano a creare numerose incomprensioni, siamo
attaccati come Gesù Cristo alla croce. Certi astrologi lo chia­
mano legame karmico, io invece propendo per sfiga karmica.
Ma, a parte gli scherzi, ho imparato ad accettare quello che c’è
scritto nelle nostre carte natali, altrimenti non avrei deciso di
andare ad abitare vicino a lei. Comunque, ognuno ha i suoi
spazi. Il lavoro al locale adesso lo gestisco a modo mio, come
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faccio con gli strampalati clienti. Eh sì, non so per quale moti­
vo, ma ho l’incredibile capacità di attirare gente strana. Gente
che è possibile trovare solo qui.
Il giovedì, per esempio, il giorno del torneo di biliardino, la
fauna di prima serata è sempre la stessa: c’è Pancrazio, il mio
nuovo compagno di squadra, un pugile con due bicipiti grossi
come tutto il biliardino, che ho abituato a mangiare uova sode
prima delle partite, come Rocky. Igo, Riccardo e Franchino
che si sfidano a scacchi; Fabietto che volteggia nella sala co­
me Fred Astaire, per poi finire, a conclusione di serata, per
assomigliare al vecchietto danzante in Qualcuno volò sul nido
del cuculo. Gianpietro arriva invece quando il livello dell’alcol
supera quello della ragione, se ne sta seduto al bancone con
una birra doppio malto e un gin, e schernisce a turno tutti gli
altri avventori, che ormai neanche rispondono più sapendo
che la guerra è persa in partenza. Come scimmie urlatrici
berciano soliloqui incomprensibili, capeggiati dalle sontuose
tette di Sara che incita Fabietto nella danza. Claudio Pane e
Gianluca abbandonano di tanto in tanto la conversazione e
guardano costernati la scena. Entrambi all’unisono scuotono
la testa come i cagnolini che una volta si mettevano davanti
al lunotto posteriore delle macchine. Bruno il sassofonista
beve la sua birra dall’altra parte del bancone, ben distante da
Gianpietro, e mormora il solito mantra: «Un disastro, è un
disastro».
«I miei occhiali!» Questo giovedì Franchino non trovava i
suoi occhiali. «Ce li avevo qua sul tavolo, che fine hanno fatto?»
«Hai guardato bene? Magari sono caduti» dissi.
«Niente da fare, non ci sono.»
«Facciamo mente locale: chi c’era con voi?»
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«C’eravamo noi a giocare a scacchi e poi Peppe che guarda­
va, magari li ha presi lui quando se ne è andato scambiandoli
per i suoi.»
«Sicuramente è andata così, li avrà inforcati senza render­
sene conto e ora se ne sta tornando a casa traballante e con la
vista annebbiata, convinto di aver bevuto un bicchierino di
troppo. Stasera non se ne accorge di certo.»
Alle tre di notte tornai a casa accolto dalle feste di Ginetto
junior e dai mugolii di piacere di Inuit, i miei adorati cani.
Prima di entrare rivolsi il solito saluto a Orione e alle Pleiadi e
questa volta anche alla luna che spuntava dal bosco.
«Fermati, fermati! Non correre così che non vedo niente.»
Avevo fatto l’errore di proporre di accompagnare Claudia
nella ricerca di erbe officinali per il suo laboratorio di creme
bio. Le avevano dato una vaga informazione su un oliveto in
cui prosperavano dei fiori mitici, dalle proprietà portentose,
e pretendeva che io, mentre camminavo, individuassi il luogo
magico; ma ormai aveva già dimenticato l’oliveto e scrutava
concentrata i colori della campagna per scovare i preziosi fio­
ri. Che non abbiamo trovato, come l’oliveto. Questo succede
a mettersi nelle mani di dilettanti. Però cucinava per me e le
dovevo della gratitudine.
Claudia si è sempre occupata della cucina, mentre io mi
sono dedicato ai lavori agricoli. Sul suo terreno ho recupe­
rato una vigna dall’abbandono facendomi un mazzo non in­
differente. In cambio lei ha restituito quello che poteva, cioè
un vino bianco di nove gradi, dal sapore incerto e dalla vita
brevissima.
Le tre caravelle mi vengono dietro a ogni passo. Oggi ol­
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tre al grano avevo anche un po’ di pane secco sminuzzato
per benino. Claudia le chiama le tre caravelle pure se sono
quattro, per via del fatto che camminano una dietro l’altra,
come vengono di solito raffigurate le caravelle di Colombo.
Depongono quattro belle uova fresche tutte le mattine. A dire
il vero la dose si è dimezzata da quando quelle impunite han­
no fatto un accordo con i miei due cani. L’ accordo si basa su
uno scambio equo e solidale: le caravelle depositano due uova
tutte le mattine accanto alle cucce e i cani permettono loro di
beccare il riso soffiato mischiato ai croccantini che preparo
tutte le mattine.
Della telefonata del giorno prima, a Claudia lo dissi a tavola.
«Mi pare una stronzata» commentò.
«Pure a me…» confermai. «Però ha detto che mi paga!»
Ritrovai lo spirito. «Quasi quasi ci provo, io gli telefono.»
«Fai come ti pare» aveva sentenziato lei.
Così era andata. Sembra assurdo ma è la prova che tutto è
possibile. Anche trasformarsi dal giorno alla notte in un astro­
detective.
Quando lo incontrai per la prima volta ero in uno stato un
po’ alterato. Forse mi ero fatto prendere dalla tensione, ma sul
punto di entrare nel suo studio la pancia aveva cominciato a
ribollire come una pentola a pressione. La dieta vegana che mi
stava imponendo Claudia forse non andava bene.
«Mi dicono che lei sia molto bravo nel suo mestiere» mi
disse Valduzzi.
«Ho avuto buoni risultati, è vero.»
«Fino a ora la polizia e le agenzie a cui mi sono rivolto
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non hanno cavato un ragno dal buco: non sanno più cosa fare.
Sparito nel nulla, senza alcuna traccia. Sembra impossibile.»
Chissà a quale impossibilità si riferiva, ma non avevo molta
voglia di indagare. Il movimento nella pancia iniziato prima
dell’incontro cominciava a essere fastidioso, e l’inattuabilità
del desiderio di liberarmi di un po’ d’aria mi stava leggermente
irritando.
«Chi è sparito signor Valduzzi?» tagliai corto.
«Mio figlio Ernesto» rispose di getto. Proprio come sarebbe
piaciuto fare a me con l’aria che mi opprimeva la pancia.
«Sono due mesi ormai e nessuno ha scoperto cosa sia
successo; non so più a che santo votarmi.» Ovvio, altrimenti
non sarebbe arrivato a me.
«Signor Valduzzi, lei conosce i miei metodi? Cioè… quello
di cui ho bisogno per poter iniziare?»
«Me ne hanno accennato e sinceramente non è che ci abbia
capito molto, però mi hanno rassicurato sui risultati e tanto
mi basta.»
Ragionamento chiaro e liscio, nulla da dire.
«Senta signor Ginevra, se accetta l’incarico ci sono qui per
lei, subito, cinquantamila euro per le prime spese di gestione.»
Mi sono sempre piaciute le proposte che arrivano al dunque
e chi riesce a farmi spalancare gli occhi. «Se porterà dei ri­
sultati, ed eventualmente avrà bisogno di altro denaro, sarò a
disposizione.»
Non era poi così freddo come sembrava.
«Infine, se mi riporterà mio figlio, per lei ci sarà una ricom­
pensa di centomila euro.»
È sempre una sorpresa constatare come certe offerte creino
un silenzio pieno di suspense. Ma il vecchio e caro silenzio
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significa anche che so tenere ancora, come ho imparato da
piccolo, gli sfinteri ben chiusi. Avrebbe potuto essere una de­
gna nota di giubilo, ma forse anche la fine della storia che sto
per raccontarvi.
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«Sai quanto mi ha offerto, Clà? Cinquantamila cocuzze subito
e centomila alla fine, quando avrò trovato il figlio.»
Claudia aveva sgranato gli occhi. «Ammazza!»
«Mmm, mmm» avevo mugugnato muovendo la testa su e
giù. «Bel colpo no?»
L’ avrei incontrato di nuovo. La prima volta gli avevo chie­
sto di procurarsi data e ora di nascita di tutti i familiari ed ero
scappato via inventandomi un impegno improrogabile.
«Ecco quello che mi ha chiesto.» I certificati di nascita sul ta­
volo erano tre. Quello di Valduzzi, della moglie e del figlio
Ernesto.
«Tutta qui la sua famiglia?»
«Quella che era la mia famiglia… Mia moglie è morta sette
anni fa, e adesso, la scomparsa di mio figlio…»
Mi guardò negli occhi e non seppi interpretare il suo sguardo.
Riuscii solo a dire: «Possiamo stampare i temi natali, adesso?».
«Certo, il computer è a sua disposizione.»
«Ci vuole solo un attimo.» Mi spostai su un’altra sedia per
inserire i dati.
«Nel frattempo se vuole spiegarmi a cosa servono…»
«Questi dati mi servono per capire le motivazioni di fondo
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e gli intrecci personali. Poi, con il suo aiuto, farò un quadro
generale che mi permetta di formulare delle ipotesi.»
«Mmm… e come?»
«È inutile che le spieghi tutto il meccanismo. È un sistema
che risale alla notte dei tempi e a me è stato sempre di grande
utilità.»
Mi fece compassione lo sguardo smarrito di Valduzzi, o for­
se il contrasto tra la fragilità di quello sguardo e la sua figura
austera mi spinse a dargli qualche altra spiegazione.
«Questo sistema deriva dall’astrologia, ampliato e perfezio­
nato nel corso dei millenni. Ancora adesso risulta incomple­
to… ma lasciamo stare. Quello che è chiaro, invece, è che si
basa su dodici paradigmi, cioè dodici idee originarie, ognuna
delle quali rappresenta una tappa del ciclo naturale della vita.
I dodici paradigmi presumibilmente derivano dai dodici me­
si dell’anno e specificatamente riguardano ciò che succede in
natura ogni mese. Chi nasce in un dato periodo dell’anno ha
in sé la qualità di quel periodo e un determinato sfondo psico­
logico. Questi dodici periodi sono stati chiamati segni zodiacali
perché sono quasi tutti simboli di animali.»
«Quindi lei dal segno zodiacale riesce a comprendere la
psicologia delle persone.»
«Magari… La faccenda è un po’ più complessa.»
«Gradisce un caffè, signor Ginevra?» La classica pausa pri­
ma dell’approfondimento.
«Sì, grazie.»
Valduzzi premette il tasto dell’interfono. «Signorina Ada,
ci può portare due caffè per favore?»
Notai che nello studio non c’erano fotografie di famiglia.
Solo foto di automobili di lusso e di Valduzzi con altri uomini.
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Sembravano immagini legate alla carriera. Mi colpì la man­
canza di colori nell’ambiente: neanche un fiore o una pianta.
Il pavimento era di marmo bianco con venature giallastre. Le
pareti erano di un candore immacolato e il mobilio, compresa
la scrivania, di un misto di nero con diverse sfumature di grigio
metallizzato; poi tanto vetro per dare luce, aria e spazio.
«Pensavo che i segni zodiacali fossero poco più di un gioco.»
«Volendo ci si può giocare, certo.»
Aprì un cassetto e tirò fuori un pacchetto di sigarette.
«Lei fuma?»
«Sì purtroppo.» Me ne passò una. «Grazie.» Ormai me ne
sono fatto una ragione, non riuscirò mai a smettere e poi con
una sigaretta accesa si pensa e si discute meglio.
Si aprì una porta ed entrò una signora con un vassoio.
«La signorina Ada» fece Valduzzi presentandomela.
Lei mi si avvicinò porgendomi il vassoio e con un sorriso
giovanile mi dette il buongiorno, che ricambiai volentieri. Una
signora dell’età di Valduzzi e cioè ben al di sopra dei sessanta,
con lo sguardo e il sorriso fresco di una ventenne. Le guardai
pure il culo quando si girò verso Valduzzi. Bella signora. Molto
particolare e attraente.
«Grazie Ada» fece lui. Professionale ma non distaccato. Un
grazie caloroso direi.
Lei si voltò e se ne andò camminando come sull’acqua senza
dire una parola. Cercai di capire come facesse a camminare
in quel modo, ma la gonna arrivava fino al pavimento e non
riuscivo a vederle i piedi.
Valduzzi si sporse per accendermi la sigaretta, poi accese
la sua. Bevve un sorso di caffè e io lo imitai seguendo il suo
ritmo in silenzio.
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«Posso dare un’occhiata a quelle stampe?»
«Certo! Questa è la sua, questa di sua moglie e questa di
suo figlio.»
«Se non sbaglio i simboli intorno al cerchio sono i segni
zodiacali.»
«Sì, esatto.»
«E questi all’interno del cerchio cosa sono?»
«I pianeti, cioè i corpi celesti del sistema solare. Questo
è il simbolo di Mercurio, qui c’è la Luna, Venere, Giove.» Il
mio dito scorreva su ognuno. «Questi sono il Sole e Plutone…
perfettamente congiunti.»
Si accorse della mia esitazione.
«Che vuol dire congiunti?»
«Significa che quando lei è nato, il Sole e Plutone si trovavano
in prospettiva nello stesso punto del cielo.»
«E cosa comporta?»
«Lei è del segno del Leone, perché nel giorno in cui è nato il
Sole sorgeva in questo segno, e così sarà sempre nel giorno del
suo compleanno. In quella data il Sole si ritroverà ogni volta
nello stesso punto del cielo. Però quando è nato, in quel punto
del cielo c’era anche Plutone.»
«E quindi?»
«Quindi lei è un Leone con forti valenze dello Scorpione.
Detto così significa poco; non si può spiegare la chimica dell’a­
strologia in due parole.»
«Capisco.»
E ti credo che capisse: con quel Plutone sapeva bene cosa
sono i segreti.
I pensieri cominciarono a volare nella mia testa, ma non era
ancora tempo di liberarli.
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«Partiamo dalle cose semplici. Lei ha il Sole in nona casa e
perciò dovrebbe essere una persona che viaggia molto e che
ha a che fare con paesi stranieri.»
Valduzzi sorrise prima con la bocca e poi con gli occhi.
Infine esclamò: «È vero!».
Primo punto palla a terra. Mi galvanizzai.
«In un tema natale possiamo vederci tutta la nostra vita, il
nostro passato e il nostro futuro.»
«Mi sta dicendo che in questo disegno riesce a vedere il mio
passato e il mio futuro?»
«Be’, in teoria sì.»
Valduzzi non ribatté e ne approfittai per concludere in fretta
il discorso.
«Tutti questi simboli sono tracce: bisogna solo saperle se­
guire.»
Mi guardò: dentro stavolta. Non riesco mai a valutare
l’intensità degli occhi azzurri, è un colore poco denso, inadatto
a sedimentare nelle profondità. Virai sulla sua postura immo­
bile, perfettamente in sintonia con l’atmosfera dello studio; feci
l’ultimo tiro e spensi la sigaretta nel posacenere.
«È solo un modo per farsi un’idea generale, niente di più.
Mi dia una settimana che mi studio un po’ meglio queste carte»
e scappai.
Una volta tornato a casa mi spogliai e mi infilai sotto le lenzuola.
Allora, vediamo che Luna ha Valduzzi. Gemelli, settima
casa. Mmm… fammi vedere la moglie. Tirai fuori dalla car­
tella il tema natale. Dunque: Hélène, 11 Maggio 1956. Senza
ora di nascita, mannaggia. E va be’, ce lo dovremo far bastare.
Hélène, che nome è? Italiano no di sicuro. Nata a Saigon. Sai­
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gon? Sarà stata la figlia di qualche europeo. Chi c’era in Viet­
nam nel ’56? I francesi mi pare; gli americani sono venuti do­
po. Hélène può essere un nome francese, perché no? Dunque,
Sole a venti gradi del Toro… brava! Pari pari sul discendente
e sul Giove di Valduzzi, il marito. Ovvio che si sono sposati.
La mattina dopo, appena alzato, andai a custodire i miei ani­
mali. Iniziai con Ginetto e Inuit che mi aspettavano fuori dalla
porta. Inuit mi accoglieva sempre con dei grugniti di piacere
e pesticciava con le zampe, sapendo che la precedenza era di
Ginetto, che a sua volta ripeteva il rito del sorriso e del muso
infilato tra le mie gambe. Il rumore dei croccantini che ca­
devano nelle ciotole risvegliò l’interesse delle caravelle, che
cominciarono a chiocciolare. Poi passai nel territorio della mia
vicina che, come al solito, era attaccata al computer a smanetta­
re sul suo blog di diavolerie biologiche. Qui c’erano altri quattro
cani: Poldo era l’ultimo trovatello che viveva semi separato
dagli altri per via della lotta di supremazia con l’altro maschio,
Ernesto, un bel cagnetto di borgata, piccolo e tozzo, ma forte,
con lo spiacevole difetto di volermi continuamente scopare
una gamba. Onda era piccolina, buona e dolce, avendo preso
tutto dal padre, Fidel, ormai sottoterra a ingrassare le radici del
melograno nano, dopo una felice vita anarchica. Infine l’amore
mio, Cuba, che mi veniva incontro per abbracciarmi come se
fosse una persona. Mi si strusciava addosso scodinzolando e
muovendo il culo alla ricerca di quelle carezze con cui era stata
abbondantemente viziata.
Andai in giro per l’appezzamento, controllai le varie piante
come a salutarle e infine mi diressi verso il nuovo posto scovato
dalle galline per deporre le uova.
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«Ginooo!» L’ urlo di Claudia, la mia vicina, mi avvertiva che
il pranzo era pronto.
«Arrivooo, ho fattooo!»
Dopo il caffè mi stravaccai sul divano e accesi il computer
portatile. Prima di tutto le notizie del giorno, poi sotto con
Face­book, e infine il tema natale di Ernesto, il figlio di Valduzzi.
9 Novembre 1976, ore 17.05, Saigon.
«Ah, Saigon!» Quindi molto probabilmente Valduzzi viveva
a Saigon in quel periodo.
Dopo molti mmm tirai le somme. Sia il padre che il figlio
avevano Giove, cioè la giovialità, e Saturno, la severità, coin­
volti. Era un bel dilemma che si sarebbe potuto chiarire solo
con una ulteriore chiacchierata con il signor Valduzzi. Pure
Mercurio era sollecitato, però. Problemi con i figli o i fratelli.
Mica lo sapevo se Ernesto aveva dei figli. Dovevo ricordarmi
di chiederlo al prossimo incontro.
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