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La riforma dei gattopardi
Perché voto «No» al referendum costituzionale
Ho deciso di votare «No» al prossimo referendum istituzionale utilizzando la libertà di
coscienza in materia costituzionale che il carattere liberale del Partito democratico concede ai
suoi iscritti ed elettori.
Tanti iscritti ed elettori del Partito democratico e dell’area del centrosinistra sceglieranno
il «No» ed è giusto che abbiano una rappresentanza anche politica e non soltanto associativa
grazie all’importante impegno dell’Anpi o sindacale con la significativa scelta di campo della
Cgil.
Desidero chiarire subito un aspetto. Ritengo che non debba esserci automatismo alcuno
tra un’eventuale affermazione dei «No» e una crisi di governo. Questa lettura è il risultato di un
meccanismo di personalizzazione della consultazione impropriamente innescato dal Presidente
del Consiglio che è arrivato a minacciare le sue dimissioni, il voto anticipato e addirittura
l’abbandono della vita politica in caso di vittoria del «No». Un ricatto da respingere, perché non
deve esserci relazione tra la vita di un governo, legato a una maggioranza, e la Costituzione, che
invece riguarda tutti i cittadini italiani, opposizione compresa. Durante la Costituente, gli
esecutivi e le maggioranze cambiarono, ma i lavori per la Carta proseguirono ugualmente
nonostante una temperie storica e politica molto più difficile e potenzialmente lacerante di quella
attuale.
Dal momento che il referendum continua a essere presentato come un giudizio finale tra
il bene e il male, un’inverosimile scelta tra l’Eldorado che ci attenderebbe e un cumulo di macerie
da cui saremmo sommersi, corrisponde all’interesse nazionale che non siano soltanto la destra e
il Movimento 5 Stelle a potersi intestare l’eventuale vittoria dei «No», ma anche una parte
significativa della sinistra riformista del nostro partito.
In ogni caso, sia che vincessero i «No», sia se prevalessero i «Sì», penso che, dal giorno
dopo, bisognerà lavorare con tutte le energie per l’unità del Pd. Le difficoltà di questo partito,
infatti, sono soltanto un aspetto della più vasta e grave crisi di sistema che attraversa il Paese, ma
resto convinto che esista una coincidenza di destino tra il pluralismo politico e culturale che deve
caratterizzare la vita interna del Pd e la qualità complessiva della democrazia in Italia. In questa
coincidenza si esprime la funzione nazionale di questo partito, qualcosa di più importante
dell’esito referendario.
Il comportamento parlamentare e gli impegni non rispettati
Voto «No» al prossimo referendum costituzionale in particolare perché non mi persuade
la relazione tra la nuova riforma del Senato e la legge elettorale denominata «Italicum». Nel corso
delle tre letture parlamentari della Riforma costituzionale ho votato a favore per senso di
responsabilità nei riguardi del governo guidato dal segretario del mio partito. E queste non sono
parole vuote o di circostanza perché hanno costituito il punto saliente e condizionante di tutta la
questione.
Non ho votato invece l’«Italicum», insieme con altri 24 senatori del Partito democratico
e ho condiviso la scelta di 38 deputati (fra cui Pierluigi Bersani, Rosy Bindi, Gianni Cuperlo,
Guglielmo Epifani, Enrico Letta e Roberto Speranza, che si è anche dimesso da capogruppo) di
non votarlo alla Camera nonostante il governo, del tutto irritualmente, avesse imposto la fiducia.
Uno strappo procedurale che in 150 anni di storia italiana era accaduto soltanto due volte: nel
1923, sotto il fascismo, con la «legge Acerbo», e nel 1953, ai tempi della Guerra fredda, con la
cosiddetta «legge truffa».
La sofferta decisione di votare la riforma del Senato e non votare l’«Italicum» (i due atti
vanno giudicati insieme perché sono il prodotto di un comportamento parlamentare unitario) non
è riuscita ad attutire la consapevolezza che, nel corso delle due letture del Senato, mi fosse stato
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presentato un abito costituzionale macchiato e con diversi buchi. Ho provato a rammendarlo con
un’ottica di riduzione del danno, ma il risultato finale che ora si presenta al giudizio del popolo
italiano mi impedisce con serena coscienza di parlamentare e di cittadino di indossarlo.
Essendo di cultura riformista, mi sono impegnato, nelle prime due letture, a migliorare il
testo come era mio dovere di senatore fare, ma ciò è avvenuto in condizioni politiche assai
difficili poiché ogni votazione è stata impropriamente trasformata in una sorta di voto di fiducia
sull’esecutivo e qualsiasi proposta di intervento considerata alla stregua di un sabotaggio
dell’intero progetto riformatore a opera di un gruppo di dissidenti. Quel clima di ieri, basato sulla
polarizzazione amico/nemico e popolato da «gufi», «sabotatori», «professoroni» e «vietcong»,
non è stato dimenticato e condiziona la mia scelta di oggi perché rivela un tipo di cultura
democratica e, al fondo, un tratto illiberale in cui fatico a riconoscermi.
Occorre, infine, sottolineare che ho votato per la terza e ultima volta la riforma
costituzionale a condizione che si modificasse radicalmente l’«Italicum» prima del referendum
e che fosse definita una legge per l’elezione dei nuovi senatori in conformità con la volontà
popolare. Questi due impegni, presi oltre un anno fa e accompagnati da due puntuali proposte di
legge firmate da oltre venti senatori del Partito democratico, sono stati entrambi disattesi dal
governo e dalla maggioranza del Partito democratico e il loro rispetto non è serio pensare possa
essere rinviato a dopo la celebrazione del referendum.
Semmai la commissione del Partito democratico di recente istituita dovesse raggiungere
un punto di incontro condiviso da tutto il partito su una nuova legge elettorale che abolisca il
ballottaggio, dia vita a collegi uninominali piccoli e assegni un premio di maggioranza
ragionevole, questo risultato sarebbe un contributo importante al dibattito sia nel caso in cui
vincessero i «Sì», sia se prevalessero i «No». Nel frattempo, in assenza di un impegno
parlamentare della maggioranza di governo simile a quello profuso da Matteo Renzi per varare
l’«Italicum» (che allora non istituì commissioni di partito, ma impose la fiducia al Parlamento),
è bene adoperarsi per il successo del «No». La realtà, infatti, dice che proprio l’«Italicum» è la
legge elettorale ormai in vigore dal 1° luglio 2016. Anche perché, dopo un’eventuale vittoria dei
«Sì», sarebbe troppo forte la tentazione di non modificare l’«Italicum», o compiere un modesto
quanto insufficiente maquillage, magari obbligati da una moderata prescrizione della Corte
costituzionale: del resto, lo stesso presidente del Consiglio, mentre con la mano sinistra sostiene
di avere l’intenzione di cambiarla, con la mano destra continua a dichiarare che essa sia un’ottima
legge.
Cambiare tanto per cambiare? No, grazie
Voto «No» perché in ambito costituzionale non vale il principio «piuttosto che niente,
meglio piuttosto»: se quel «piuttosto» peggiora la qualità della democrazia del Paese in cui
viviamo ci si assume per pigrizia o per conformismo una responsabilità assai grave che inciderà
sulla nostra vita e su quella dei nostri figli.
Il presupposto di un cambiamento è che il nuovo sia migliore dell’esistente. In questo
caso, sono convinto non sia così. Una politica che aspira a essere seria e responsabile ha sempre
il dovere di chiedersi quale trasformazione serve al Paese e quale direzione (progressiva o
regressiva) essa deve assumere. Di conseguenza non può e non deve proporre il cambiamento
per il cambiamento, altrimenti si rischia d’imboccare la solita scorciatoia gattopardesca per cui
«Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi».
La Costituzione è un bene comune della convivenza civile e politica, non una legge
ordinaria figlia della contingenza o degli interessi di una singola parte. Per modificarla, in questa
XVII legislatura, si è dunque seguito un percorso sbagliato, drammatizzando un passaggio che
avrebbe dovuto imporre spirito di coesione e ricerca della massima unità possibile. Per questa
ragione non sono disposto a sottomettermi all’invocazione di una presunta responsabilità, da
molti sollecitata come uscita dalle secche dell’attuale situazione: quanti si sono assunti il compito
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di provocare un incendio e un clima di emergenza nazionale su un tema fondamentale come la
Carta costituzionale, oltretutto in un momento tanto delicato della vita del Paese, hanno il dovere
di provare a spegnere le fiamme e non possono chiedere a chi non era d’accordo con quel modo
di procedere di votare comunque «Sì» per salvare il salvabile. A maggior ragione se nel fare
quell’appello ammettono di avere partorito un lavoro imperfetto e lacunoso: stiamo parlando
della Costituzione, non di un regolamento di condominio che alla prossima riunione potremo
modificare di nuovo.
Pd, 2008: «...mettere fine alla stagione delle riforme costituzionali imposte a colpi di
maggioranza...»
Neppure è vero che oggi finalmente stiamo realizzando ciò che in passato non era mai
riuscito a nessuno di fare, come rozzamente viene propagandato puntando sulla smemoratezza o
la disattenzione dei cittadini. Al contrario siamo davanti a un film già visto: negli ultimi quindici
anni ci sono stati ben tre interventi di riforma costituzionale (compreso l’attuale) che hanno
interessato la seconda parte della Carta. Anzi, in questo arco di tempo, i partiti hanno scaricato
sulle istituzioni le proprie difficoltà e hanno consentito che si affermasse, anche in ambito
costituzionale, una visione dirigista e tecnocratica della vita politica. In forza di questo disegno
si pretenderebbe di regolare dall’alto, con un’operazione di ingegneria istituzionale, le pulsioni
e gli istinti di una società sempre più tormentata. In realtà, siamo davanti a una crisi politica e
non costituzionale: partiti sempre più inefficienti e una politica sempre più debole e squalificata
hanno attribuito alla Carta le responsabilità delle proprie inadempienze, alimentando
un’incertezza assai più grave e dannosa - perché riguardante direttamente le istituzioni - della
precarietà che può accompagnare la vita di un singolo governo.
L’unica distinzione possibile, quando si parla di riforme, è quella che le divide in buone
e cattive, differenziandole in utili o dannose rispetto ai sovrani interessi dei cittadini. Nel 2001 il
centrosinistra riformò il Titolo V della Costituzione, ossia i rapporti tra Stato centrale e
autonomie locali. Quella riforma fu approvata da un referendum come quello che il 4 dicembre
avrà in oggetto anche la correzione dell’intervento del 2001, giudicato frettoloso e sbagliato. Nel
2005 il centrodestra propose la «devolution», una revisione della forma di governo e un taglio
del numero dei parlamentari che invece vennero bocciati dagli elettori in un’analoga
consultazione referendaria.
Ciò che caratterizzava questi due progetti di riforma (uno approvato e l’altro respinto
dagli elettori dopo che entrambi avevano terminato il loro percorso parlamentare proprio come è
avvenuto oggi) è un errore che stiamo ripetendo anche oggi con un eccesso di leggerezza: essi
furono approvati in Parlamento da un’esigua maggioranza, contraddicendo lo spirito dell’articolo
138 della Costituzione, il quale richiede il massimo impegno affinché si ricerchino maggioranze
le più larghe possibili e si facciano convergere sulla riforma della Carta anche le forze di
opposizione, tutte o almeno in parte.
A questo proposito è bene ricordare che il Manifesto dei Valori del Partito democratico,
approvato il 16 febbraio 2008, memore degli errori commessi nel 2001 dalle forze politiche che
avevano contribuito a costituire il nuovo soggetto politico, specificava che «La sicurezza dei
diritti e delle libertà di ognuno risiede nella stabilità della Costituzione, nella certezza che essa
non è alla mercé della maggioranza del momento, e resta la fonte di legittimazione e di
limitazione di tutti i poteri. Il Partito democratico si impegna perciò a ristabilire la supremazia
della Costituzione e a difendere la stabilità, a mettere fine alla stagione delle riforme
costituzionali imposte a colpi di maggioranza». Parole e concetti puntuali che oggi stiamo
dimostrando di avere scritto sull’acqua, tradendo lo spirito originario del Partito democratico e
la cultura politica della mitezza e della temperanza, ispirata ai valori del cattolicesimo
democratico e del socialismo riformista, che dovrebbero caratterizzarlo.
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Il referendum come plebiscito
Nonostante i Manifesti e i Valori, anche stavolta si è proceduto con una maggioranza
ristretta pressoché coincidente con quella di governo. Ciò ha comportato il ricorso al referendum,
di cui, tuttavia, per la prima volta, è stato fatto un inaccettabile utilizzo plebiscitario: non più, in
ragione della sua natura «oppositiva», uno strumento in mano alle minoranze per rovesciare il
risultato parlamentare con il voto popolare, ma la leva con cui celebrare, a legislatura e governo
invariati (contrariamente a quanto accadde nel 2001 e nel 2005-2006) l’azione di un esecutivo e
di una maggioranza che hanno preteso di guidare in modo improprio ed esorbitante il processo
riformatore. Ecco allora un referendum trasformato in una sorta di giudizio di Dio: prima di me
era il deserto e ora, senza di me, sarà l’apocalisse, con un condizionamento, implicito ed esplicito,
sull’intero sistema politico e il rischio di esporre l’Italia, in modo gratuito e sconsiderato, agli
assalti di un’eventuale speculazione finanziaria internazionale.
Condivido quanto di recente ha scritto Alfredo Reichlin: «Ma di che cosa stiamo
parlando? Del Senato? Suvvia, è l’ininterrotto parlare, annunciare, promettere, “rottamare” dello
stesso Matteo Renzi che ci dice la verità. È su di lui che egli ci chiede ogni giorno più chiaramente
di votare. Egli chiede un plebiscito. Non è chiaro? Questo è il punto, gravido di enormi
conseguenze. Avverrà che milioni di italiani si scontreranno in modo lacerante e drammatico sul
voto popolare e diretto del Capo del governo. Ponendo fine così di fatto al regime parlamentare
e all’attuale divisione dei poteri. E temo che un solco resterà e tutta la comunità nazionale già
così divisa ne pagherà le conseguenze. A me questo non sta bene. È chiaro?». Si, è chiaro.
L’ultimo paradosso: cambiare la Costituzione a maggioranza, grazie a un premio di
maggioranza giudicato incostituzionale
Voto «No» perché la sentenza n. 1 del 2014 della Corte costituzionale, che ha dichiarato
incostituzionale il premio di maggioranza del «Porcellum», ha certamente garantito la piena
operatività dell’attuale Parlamento, ma un cambiamento di ben 47 articoli della Carta sarebbe
dovuto avvenire a seguito di un esplicito mandato popolare e non grazie a un premio di
maggioranza giudicato incostituzionale. Si rischia, infatti, un paradosso destinato ad aumentare
la crisi di legittimità delle istituzioni: soltanto un premio di maggioranza dichiarato
incostituzionale dalla Corte ha consentito di approvare a maggioranza ristretta in Parlamento una
così ampia riforma della Costituzione. Le condizioni venutesi a creare nel 2014, dopo la sentenza
della Corte, avrebbero dovuto suggerire alle forze politiche di esibire un sovrappiù di sforzo
unitario per convogliare sulla riforma una larghissima maggioranza parlamentare; non di
avanzare a colpi di «canguri» e di forzature procedurali, come l’allontanamento dalla
Commissione affari costituzionali dei parlamentari che non condividevano la linea
dell’esecutivo; non di trasformare l’esame di ogni singolo emendamento in una sorta di voto di
fiducia sul governo. Enrico Letta da Presidente del Consiglio si mostrò ben altrimenti sensibile,
quando prospettò che le Commissioni affari costituzionali della Camera e del Senato, incaricate
di discutere in sede congiunta la riforma costituzionale, fossero composte secondo un rigoroso
criterio proporzionale, al netto cioè del premio di maggioranza assegnato nel 2013: una condotta
assai più rispettosa di elementari regole democratiche.
Una riforma mediocre per una democrazia più povera
Di là da questi aspetti procedurali, che pure qualificano l’azione politica dispiegata sin
qui, quella che stiamo discutendo è una mediocre riforma perché, riducendo gli spazi di
partecipazione e di rappresentanza, impoverisce la democrazia italiana; perché centralizza in
modo eccessivo le competenze regionali, ridotte a mera amministrazione, frenando il cammino
verso un assetto più autonomo, federalista e partecipato dello Stato che ha sempre costituito
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l’obiettivo delle forze politiche del centrosinistra legate alla tradizione dell’Ulivo e del Partito
democratico; perché non abolisce il Senato, come propagandato, ma lo trasforma in una Camera
debole e con scarsi poteri, potenzialmente destinata ad avere una funzione ostruzionistica o di
freno nel caso, non peregrino, in cui vi sia una maggioranza diversa da quella di governo alla
Camera; perché adotta un procedimento legislativo, che resta bicamerale, così farraginoso e
confuso (è stata contata fino a una decina di differenti procedure) che produrrà continui conflitti
e quindi ricorsi; perché un Senato che si vorrebbe delle regioni non comprende i governatori
eletti direttamente dal popolo, ma ospita cinque personalità scelte dal presidente della Repubblica
«che hanno illustrato la patria» (si immagina a livello nazionale e internazionale), le quali
siederanno, inspiegabilmente, dove sono rappresentati gli enti locali e non presso la Camera dei
deputati come sarebbe stato logico; perché dilata ulteriormente la distanza tra le regioni ordinarie
e quelle a statuto speciale aumentando gli squilibri già esistenti anziché ridurli come sarebbe
stato ragionevole nell’attuale fase storica. La riforma della Costituzione deve essere il risultato
di un consenso ampio maturato tra le forze politiche perché costituisce un patrimonio destinato
a durare nel tempo. Non può essere ridotta al rango di una legge ordinaria sottoposta a referendum
che cambia sotto ogni esecutivo: la stabilità delle istituzioni è più importante della stabilità degli
esecutivi e stiamo creando un pericoloso precedente che altri potranno sfruttare al nostro posto e
contro di noi.
L’incrocio pericoloso tra riforma costituzionale e «Italicum»
Sono convinto che entrambi i progetti di riforma, quello costituzionale e quello elettorale,
vadano valutati congiuntamente e, se funzionanti, debbano girare insieme come le due lancette
di un unico orologio democratico. Così non è, perché il rapporto tra la legge elettorale e la riforma
della Costituzione (il cosiddetto “combinato disposto”) va a modificare in peggio e in modo
surrettizio il funzionamento complessivo del nostro meccanismo istituzionale. Anzitutto riduce
gli spazi di partecipazione, con una maggioranza di deputati e di nuovi senatori nominati dalle
segreterie dei partiti o dai consiglieri regionali e non dai cittadini; in secondo luogo istituisce un
«premierato assoluto» o un «semipresidenzialismo del premier», in ragione del fatto che, in
pratica, il presidente del Consiglio sarà eletto direttamente dal popolo senza che siano stati
previsti i giusti equilibri e contrappesi istituzionali. Ciò avverrà con un premio maggioritario che
sarà assegnato nazionalmente alla stregua di un jackpot al vincitore (che potrebbe essere anche
espressione di una ristretta minoranza di elettori) e non si formerà dal basso, mediante una
competizione virtuosa collegio per collegio, come avviene nei sistemi uninominali tradizionali.
Di conseguenza il capo così eletto trascinerà dietro di sé in modo automatico la rappresentanza
parlamentare, a detrimento della necessaria autonomia che deve intercorrere tra potere esecutivo
e potere legislativo. Non a caso nei sistemi presidenziali, come quello statunitense, o
semipresidenziali, come quello francese, il momento elettivo della carica monocratica è separato
sul piano istituzionale e temporale dall’elezione dei parlamenti.
L’obiettivo di questa riforma, non dichiarato pubblicamente, ma evidente nelle
conseguenze pratiche e materiali, è quello di trasformare il presidente del Consiglio in un sindaco
d’Italia che riduce i singoli ministri al rango di assessori e l’unica Camera che dà la fiducia al
livello di un consiglio comunale, che decade in automatico insieme con il sindaco. Un sistema
rigido e centralizzato, pertanto, privo di quella flessibilità necessaria a governare una società
complessa e moderna e che rischia, nel caso di una crisi istituzionale o politica, di produrre inediti
conflitti con il presidente della Repubblica.
Ora il referendum costituzionale, nel caso in cui prevalessero i «No», fornisce l’occasione
indiretta, ma risolutiva per abrogare in via definitiva l’«Italicum» in forza del voto popolare: la
legge è stata infatti pensata per una sola Camera elettiva, a ulteriore riprova dello stretto rapporto
che essa ha con la riforma.
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L’illusione della governabilità senza rappresentanza e il populismo omeopatico del governo
La nuova legge elettorale combinata con la riforma del Senato rischia di peggiorare la
qualità della democrazia italiana, la quale possiede una sua natura parlamentare. Una sola Camera
che dà la fiducia non può venire eletta con l’«Italicum», ma deve essere al massimo
rappresentativa (ad esempio, con collegi uninominali piccoli e non formati da 600 mila elettori
come avverrebbe con la nuova legge) e con un premio di maggioranza ragionevole e
proporzionato. Non è possibile, infatti, avere la pretesa di sostituire i cittadini che votano sempre
di meno con il doping maggioritario del ballottaggio che moltiplica pochi voti in tanti seggi né è
giusto continuare ad attribuire sempre maggiori poteri a chi governa, mentre
contemporaneamente diminuiscono il consenso e le forme di partecipazione degli elettori. La
governabilità non scaturisce e non è garantita da una formula aritmetica e non esaurisce da sola
la «questione democratica». Deve invece poter godere di un rapporto equilibrato con la
rappresentanza e con la partecipazione attiva dei cittadini, i quali hanno il diritto di scegliere i
propri parlamentari e controllare il loro operato.
Questo non è soltanto il valore cardine di una forza di sinistra e un discrimine tra noi e le
tendenze all’oligarchia tipiche di certa destra liberale, conservatrice o reazionaria, ma è anche
l’unico modo possibile con cui provare ad affrontare l’ondata di populismo e di ribellione antiestablishment che caratterizza questa fase della vita delle democrazie in Italia e non solo. Se la
politica del centrosinistra pensa che la soluzione degli attuali affanni democratici si possa trovare
assumendo dosi omeopatiche di populismo di governo commette un gravissimo errore di
valutazione perché sarà disarcionata dalla tigre che prova a cavalcare; sarà destinata a
soccombere con ignominia se ritiene possibile chiudersi in una cittadella fortificata di privilegi e
di tecniche, da dove sviluppare un gigantesco scontro con le cosiddette forze antisistema usando
le armi del direttismo e del plebiscitarismo e contemporaneamente scolorendo le proprie
bandiere.
Il grande inganno sui costi della politica
Voto «No» perché non mi persuade l’idea che spiega la riforma alla luce della riduzione
dei costi della politica. Stiamo parlando della Costituzione, la nostra carta fondamentale, che si
cambia per essere più efficienti, ma non per risparmiare delle cifre, peraltro, irrisorie nell’ambito
del bilancio complessivo di uno Stato. Secondo un documento della Ragioneria centrale dello
Stato, i possibili ed eventuali risparmi ammonteranno a circa 50 milioni di euro, l’equivalente di
un caffè al giorno per ciascun italiano, mentre il 90 per cento delle spese vive per il
funzionamento del Senato delle autonomie resteranno invariate, compresi i rimborsi spese da
versare ai nuovi senatori. A proposito di mancati risparmi di un recente passato, l’attuale governo,
per rendere più difficile il raggiungimento del quorum al recente referendum sulle trivelle, non
ha voluto accorpare la consultazione popolare alle elezioni amministrative e questa decisione è
costata da sola circa 300 milioni di euro ai contribuenti italiani.
La riforma della Costituzione cambia il 54 per cento degli articoli della parte seconda
della carta, ma soltanto due darebbero luogo a presunti risparmi di spesa (quello relativo alla
composizione del Senato e quello che abolisce il Cnel), anche se essi occupano i tre quinti degli
argomenti riportati nel quesito stampato sulla scheda referendaria. Mi sembra questo un
approccio populista e demagogico che non giustifica la modifica di ben 47 articoli della
Costituzione. Ciò va sottolineato anche in considerazione del fatto che un maggiore e
condivisibile contenimento dei costi della politica si sarebbe potuto raggiungere e si dovrebbe
raggiungere, in modo più efficace, con una legge ordinaria.
Inoltre, sarebbe stato più corretto da un punto di vista istituzionale diminuire in modo
equilibrato e proporzionale sia il numero dei senatori, sia quello dei deputati, anche perché questi
ultimi, - ben 630 come se l’Italia si trovasse ancora nelle condizioni di mobilità del dopoguerra 6
continuano a essere tra i più numerosi in Europa rispetto alla popolazione nazionale. Ciò è stato
fatto con l’unico obiettivo di conquistarsi il consenso parlamentare di Montecitorio al progetto
di riforma costituzionale, ma così si è rinunciato a ottenere risparmi più apprezzabili e una
maggiore efficienza della macchina parlamentare. Inoltre, questa scelta ha creato evidenti
squilibri nella proporzione tra i componenti delle due camere (un senatore ogni sei deputati) che
rischia di riflettersi nell’elezione degli organi di garanzia costituzionale perché sono mutati i
rapporti tra Camera e Senato (Consiglio superiore della magistratura e presidente della
Repubblica).
L’indebolimento indiretto del ruolo di garanzia del presidente della Repubblica
Voto «No» perché un’ulteriore manifestazione degli effetti perversi dell’«Italicum», in
relazione al fatto che nella riforma costituzionale non si è voluto ridurre in modo proporzionale
sia i deputati sia senatori, riguarda il ruolo del presidente della Repubblica. Si tratta di un effetto
indiretto, ma non per questo meno rilevante, anche perché una modifica costituzionale non può
essere misurata col metro della contingenza politica, ma deve essere in grado di funzionare anche
in contesti storico-politici assai distanti da quelli attuali.
Il problema concerne l’articolo 90 della Costituzione, che, pur non essendo stato
formalmente toccato dall’attuale riforma costituzionale, subisce lo stesso un sostanziale
indebolimento. Esso prevede che il presidente della Repubblica possa essere messo in stato di
accusa «per alto tradimento o per attentato alla Costituzione» dal «Parlamento in seduta comune,
a maggioranza assoluta dei suoi membri».
Allo stato attuale la maggioranza assoluta del Parlamento riunito in seduta comune
corrisponde a 476 parlamentari basata su una platea formata da 630 deputati, 315 senatori e 5
senatori a vita. Tuttavia, con il nuovo Senato, quella maggioranza assoluta si ridurrebbe a 366
parlamentari (630 deputati e 100 senatori). Occorre però rilevare che con l’«Italicum», all’unica
lista vincente saranno assegnati 340 deputati. Ciò significa che gliene mancherebbero soltanto
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poiché i 12 deputati della circoscrizione estero potrebbero aggiungersi al premio di maggioranza,
tutti o in parte. In ogni caso, quella porzione di parlamentari mancante potrebbe agevolmente
trovarsi controllando il 26 per cento del nuovo Senato, tra sindaci o consiglieri regionali.
Ne deriva che per la prima volta nella storia della Repubblica una sola forza politica,
costituita in forza di legge in autosufficiente maggioranza di governo, avrebbe la concreta
possibilità di minacciare la messa in stato d’accusa del capo dello Stato, che quindi risulterebbe
indebolito nel suo supremo ruolo di garante. Mi sembra un problema rilevante e sottovalutato
anche in considerazione del fatto che l’elezione in pratica diretta del premier introdotta
dall’«Italicum», ove si parla esplicitamente del «capo della forza politica» che si «candida a
governare», già attenua la potestà del presidente della Repubblica di nominare il presidente del
Consiglio fissata dall’articolo 92 della Costituzione.
Naturalmente, il problema, dal mio punto di vista, non riguarda Renzi o il Partito
democratico, ma gli equilibri e i rapporti di forza che si potranno venire a creare tra cinque, dieci,
quindici anni e che nessuno oggi è in grado di prevedere. Come è noto, infatti, la Costituzione è
quella legge fondamentale che i popoli si danno da sobri, ma deve valere se e quando saranno
ubriachi.
Senato delle regioni? No, centralista e che tradisce lo spirito federalista dell’Ulivo
Voto «No» perché non mi convince un Senato come quello delineato dalla riforma,
composto da consiglieri regionali e da sindaci che vi si impegneranno a metà tempo, come fosse
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un dopolavoro. Così facendo, essi rischiano di svolgere male entrambe le loro funzioni, tanto più
che oggi, a livello locale, sia il lavoro di sindaco sia quello di consigliere regionale richiede un
impegno a tempo pieno. Inoltre i senatori che comporranno la nuova istituzione saranno legati al
proprio partito di origine e non alla regione di provenienza contraddicendo il principio cardine
di un autentico Senato delle autonomie come quello previsto dalle tesi dell’Ulivo del 1996.
Con questa riforma, invece di attuarlo, stiamo tradendo l’articolo 5 della Costituzione in
cui si afferma che «la Repubblica una e indivisibile riconosce e promuove le autonomie locali e
attua il più ampio decentramento amministrativo; adegua i principi e i metodi della sua
legislazione alle esigenze delle autonomie e del decentramento». Si stabilisce la scomparsa delle
materie concorrenti fra Stato e Regioni in modo troppo rigido e schematico, introducendo una
clausola di supremazia a favore dello Stato che servirà a garantire una potente ricentralizzazione
in contraddizione con lo spirito federalista e autonomista delle culture riformatrici del
centrosinistra e dell’Ulivo.
L’attuale riforma, infatti, attribuisce alle regioni la potestà legislativa di dettaglio mentre
riserva alla legge dello Stato i principi fondamentali, ossia le «disposizioni generali e comuni».
Alle regioni resterà una sorta di competenza integrativa e attuativa che non considera il fatto che
il centralismo amministrativo e burocratico ha già prodotto gravi danni nella storia d’Italia in
termini di inefficienza, sclerosi burocratica e corruzione.
Contro l’immunità dei nuovi senatori, ulteriore incentivo al degrado del sistema
Voto «No» perché i nuovi senatori potranno godere del diritto all’immunità che finora
era riservato ai rappresentanti della nazione e non agli esponenti delle autonomie locali. Non si
capisce per quale ragione un consigliere regionale nominato senatore, a differenza dei loro
colleghi di Consiglio regionale o sindaci sul territorio, debba avere non soltanto l’insindacabilità
legata all’esercizio del proprio mandato, ma anche l’immunità di carattere personale (posta,
arresti, perquisizioni, intercettazioni). Il gravissimo rischio è quello che al Senato siano inviati
quegli amministratori locali che, forti della tutela dell’immunità, saranno più predisposti a
commettere reati, a detrimento del prestigio dell’istituzione stessa e dell’intero sistema politico
e istituzionale.
No al Partito della nazione. Per il futuro ulivista del Partito democratico e per un nuovo
centrosinistra di governo
Voto «No», infine, per una ragione politica che riguarda il presente e il futuro del Partito
democratico e, più complessivamente, l’evoluzione del sistema politico italiano. La
drammatizzazione del referendum lo ha presentato come fosse uno spartiacque epocale tra un
prima e un dopo. E non sono mancati quanti pensano che il fronte del «Sì» e i relativi comitati
possano costituire il laboratorio di uno schieramento o, addirittura, di un nuovo “Partito della
nazione” che muova dal Pd, ma vada oltre il Pd, divenuto il fulcro di un diverso equilibrio neocentrista e neo-moderato all’insegna del consociativismo e del trasformismo più deteriore. Una
sorta di partito unico di governo, posizionato al centro, che ammaina le bandiere della sinistra
per consegnarsi ad alleanze anche con la destra e con le forze moderate. Una prospettiva quattro
volte erronea: perché snatura il confronto referendario, perché allontana il sistema politico dal
valore fondamentale dell’alternanza, perché lo definisce in modo potenzialmente esplosivo
intorno alla polarità sistema/antisistema, perché modifica il profilo costituente del Partito
democratico quale partito di centrosinistra. Il Partito democratico è nato per essere una grande
forza riformista di centrosinistra e tale deve rimanere: i segretari passano, ma il progetto resta
perché è dentro la storia di questo Paese. Ha le sue radici nell’Ulivo e la sua missione è quella di
tenere insieme forze civiche di matrice liberaldemocratica, l’esperienza della cultura cattolica
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democratica e l’impegno di una sinistra radicale, ma non massimalista, che voglia affrontare la
sfida del governo.
Preferisco non aderire direttamente ai comitati per il «No», pur condividendone il compito
e gli obiettivi, ma mi impegno a partecipare alle iniziative volte a favorire una vittoria di questo
schieramento. Sono consapevole che un referendum, il momento più alto di mobilitazione civile
e politica dei cittadini previsto dalla nostra Costituzione, si vinca parlando con i disinteressati e
gli incerti, svolgendo un’azione di persuasione quotidiana presso i famigliari, gli amici e nei
luoghi di lavoro. Come si diceva una volta: andando casa per casa. È per questa ragione che
auguro a tutti i miei lettori una buona e libera campagna, fondata su un impegno in prima persona
nel supremo interesse del bene comune. In gioco è la Costituzione italiana, figlia della Resistenza
e dello spirito costituente dei nostri padri.
E dopo il 4 dicembre?
Dopo il 4 dicembre, nonostante il catastrofismo di certa propaganda governativa, l’Italia
ci sarà ancora, con le sue virtù e i suoi difetti e un vasto campo di problemi da risolvere. Se
vinceranno i «Sì» lo scioglimento delle Camere e le elezioni anticipate saranno più probabili e
vicine così come il rischio assai concreto che, grazie al meccanismo del ballottaggio previsto
dall’«Italicum», possano prevalere il Movimento 5 stelle oppure una destra riorganizzata e di
nuovo competitiva. Del resto un’analisi obiettiva dei risultati delle ultime elezioni amministrative
suggerirebbe un di più di prudenza e di riflessione.
Se vinceranno i «No» ci sarà una maggiore stabilità e la legislatura arriverà al suo naturale
compimento. Sarà anzitutto necessario scrivere una nuova legge elettorale che risponda agli
interessi di un sistema ormai tripolare, in cui la giusta esigenza della governabilità e la non meno
importante necessità di rappresentare una società sempre più inquieta siano tenuti insieme.
Il successo del «No» imporrebbe al Pd di collaborare nella riparazione dei danni prodotti,
al fine di non scaricare sugli elettori le incongruenze del sistema. Rispettare la volontà popolare
vorrebbe dire impegnarsi nel proseguimento della legislatura, abbandonando la linea del continuo
raddoppio di ogni posta, che alla lunga finisce per destabilizzare la società italiana. Ovviamente,
un analogo impegno dovrebbe essere preso anche se vincessero i «Sì» perché in ogni caso sarà
necessario scrivere le tante (troppe) pagine bianche di questa riforma. E bisognerà farlo con lo
spirito che finora non c'è stato: quello di coinvolgere il più ampio arco di forze politiche,
cercando di costruire delle regole e una prassi il più possibile condivisa.
L’attuale legislatura avrà davanti a sé esattamente un anno di vita e sarebbe importante
provare a non disperdere il patrimonio di riformismo costituzionale accumulato con l’esperienza
del Governo Letta e con quella del Governo Renzi. Senza ripetere gli stessi errori. Ad esempio,
in un anno di tempo è possibile realizzare a larga maggioranza costituzionale pochi essenziali
interventi chirurgici riguardanti la diminuzione proporzionale e bilanciata del numero di deputati
e di senatori e l’istituzione di una Commissione di conciliazione tra Camera e Senato, sul modello
americano, che esamini le leggi e licenzi i testi definitivi in caso di lettura difforme da parte della
Camera e del Senato. Un primo passo di una riforma seria e condivisa tra le forze politiche che
potrà realizzarsi nella successiva legislatura forte di un mandato popolare diretto, a conferma che
soltanto una vittoria del «No» è in grado di riaprire un discorso sul futuro dell’Italia e la qualità
della sua democrazia di cui si avverte un grande bisogno.
Miguel Gotor
Senatore del Partito Democratico
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