la simbiosi - Ospedale di Circolo

Transcript

la simbiosi - Ospedale di Circolo
LA SIMBIOSI
Parliamo oggi della simbiosi condizione psichica che, essendo alla base delle patologie
gravi, è stata oggetto di studio costante da parte del Professore, che in quel libro
suggestivo, che è “La psicosi e il segreto” del 1987, ci ha introdotti nel clima emotivo e
particolare, quell’area di privatezza e di dolorosa - eccitante complicità e dedizione
tipica della fusionalità; mettendone, però, in evidenza il radicale limite e gli stati
emotivi ad esso legati: il panico, l’ambivalenza, la distruttività.
Zapparoli ci ha presentato la necessità per il paziente grave di mantenere un legame
“segreto” con un oggetto simbiotico o di mantenere segreti gli elementi emotivi, che
caratterizzano la fusione, quindi il segreto come primo oggetto transizionale, che il
paziente grave è in grado di costruire al fine di mantenere, rompere o ridurre la fusione
simbiotica stessa.
L’osservazione poi che il paziente usa il ritiro in sé stesso e la segretezza per stabilire un
senso di identità, ci presenta il segreto come manovra di mantenimento, arrivando
Zapparoli a concludere che proprio il furto del pensiero, sintomo molto frequente nelle
psicosi simbiotiche, può avere lo stesso senso della fabbricazione dei falsi segreti:
accusare gli altri di rubargli i pensieri, consente al paziente di mantenere il proprio
segreto, che è la paura di non avere pensieri.
In questo libro Zapparoli ha presentato un altro concetto fondamentale nel suo modello
di trattamento dei pazienti gravi, quello del bisogno di un oggetto inanimato e non
qualificato; cioè un oggetto - operatore, che pur competente tolleri di essere di fatto
inesperto e quindi ridefinito dal paziente e connoti pertanto la relazione come non
pericolosa.
La ridefinizione oggettuale costituisce una difesa nei confronti della non costanza
oggettuale della realtà dello psicotico. Lo psicotico è convinto che sia la qualità
dell’oggetto a determinare quasi completamente il suo stato di salute fisica e mentale.
Pertanto, la costruzione del segreto così come la deanimazione, la devitalizzazione, è un
meccanismo volto al mantenimento di un’identità, quindi il segreto viene utilizzato
come modalità difensiva (che tiene lontano il terapeuta), ma che può diventare un’area
condivisa e trasformarsi in una richiesta impossibile.
Un altro aspetto affrontato in questo libro è l’erotizzazione della simbiosi, la comparsa
cioè della componente erotica nel rapporto simbiotico. Quando questo si verifica il
trattamento si compromette.
L’incesto, ma più diffusamente gli equivalenti incestuali (sono temi che Racamier ha
sviluppato nel 1995), esprime la necessità tipica del clima emotivo di certi ambienti
famigliari di saturare qualsiasi tipo di bisogno all’interno della famiglia stessa. La
seduzione narcisistica, che costituisce il primum movens della simbiosi è infatti
reciproca, è una relazione non solo esclusiva, ma è anche in disparte rispetto al mondo
(Racamier),anche questo ci riporta al segreto.
Tale seduzione narcisistica è esclusiva, cieca nei confronti del mondo esterno, contro lo
sviluppo libidico.
Crediamo sia in questo testo che si vada profilando l’idea di una “ filosofia di vita”
tipica del folle e dei concetti, che verranno poi sviluppati in “La follia e
l’intermediario” circa 20 anni più tardi. Testo che penso si possa definire la sintesi del
pensiero di Zapparoli e interessante anche per i non addetti ai lavori. A questo libro
faranno seguito i testi sulla diagnosi e sul trattamento delle patologie gravi.
1
La lettura dei diversi casi Zapparoli ci ha descritto nei suoi testi, ci consente di trarre
una lezione fondamentale. Una lezione, che a nostra volta, possiamo applicare nella
nostra pratica clinica.
Siamo infatti in grado di riconoscere nel suo insegnamento come, da una base teorica
forte, proprio le evidenze cliniche ci possano condurre ad un approccio diversificato in
relazione ai bisogni dei singoli pazienti.
La Simbiosi preambivalente, fusionale o generalizzata.
“Ogni essere umano parte da una situazione di dipendenza per giungere ad una
situazione di autonomia , ma non tutti completano questo iter evolutivo.
La peculiarità dello psicotico è rappresentata dal fatto che solo la dipendenza simbiotica
può fornirgli la sicurezza fondamentale, di cui ha bisogno per vivere: è infatti la
condizione che, permettendo l’illusione di una soddisfazione del bisogno
contemporanea al suo sorgere, dà all’individuo la possibilità di negazione del bisogno e
la realizzazione del “ bisogno di non avere bisogni” che per lui è vitale. Per questo la
minaccia di una rottura prematura della simbiosi è vissuta come una minaccia alla
propria sopravvivenza e scatena il panico. Ne consegue che alla prima fase di
trattamento, la considerazione delle risorse emancipative e di individuazione può
avvenire soltanto dopo la saturazione del bisogno di sicurezza e quindi dell’accettazione
del mantenimento di un rapporto simbiotico. Il concetto di simbiosi può evocare negli
operatori una connotazione negativa, in quanto suscita fantasie di arresto di sviluppo, di
cronicizzazione, di non libertà. Tuttavia esistono diversi gradi di sviluppo della
simbiosi: si tratta di portare il paziente a strutturare e mantenere i livelli più evoluti,
compatibilmente con le risorse possedute.
Il livello più primitivo della simbiosi è costituito dalla simbiosi fusionale ovvero dalla
mancanza di confini, di differenziazione tra sé e l’altro, dalla necessità di un rapporto
costante con l’oggetto di bisogno.” Zapparoli I quaderni di Musaikòn 2009
Margaret Mahler nel 1975 “Nella nascita psicologica del bambino “ scrive: ”Dal
secondo mese in poi, il bambino si comporta e agisce come se egli e la madre fossero un
sistema onnipotente, un’unità duale racchiusa entro uno stesso confine comune. Si tratta
forse della condizione oceanica di mancanza di confini di cui hanno trattato insieme nei
loro dialoghi Freud e Rolland.”
Successivamente continua: “Mentre nell’autismo primario vi è un muro di ghiaccio e
senza vita tra il soggetto e l’oggetto umano, nella psicosi simbiotica vi è fusione,
dissolvimento e mancanza di differenziazione tra il sé e il non sé, una completa
indefinizione dei confini. Questa ipotesi ci ha condotto allo studio della normale
formazione di un’entità separata e di un’identità. Quando in certi casi il ritardo delle
funzioni autonome dell’io, è unito ad un concomitante ritardo delle prontezza emotiva a
funzionare separatamente dalla madre, dà origine ad un panico a livello di organismo.
E’ questo panico che causa la frammentazione dell’io e genera così il quadro clinico
della simbiosi psicotica infantile.”
Solo con la triangolazione, l’Edipo precoce descritto da Melania Klein, il padre
richiama la moglie ai doveri coniugali e con la potenza del desiderio sessuale introduce
il terzo e l’inizio dell’allentamento del legame fusionale. Saranno poi le successive
tappe emancipogene, lo svezzamento al cucchiaio, l’affidamento ad altri di parte
dell’accudimento, la frequentazione dell’asilo etc… che condurranno all’adolescenza,
tappa emancipogena fondamentale e definitiva.
2
Il processo di separazione individuazione riuscito conduce infine ad un individuo adulto
autonomo, capace di risperimentare una parziale fusionalità nella sessualità.
Molti Autori hanno descritto questa fase, da Winnicot, quando si riferisce all’holding, a
Didier Anzieu nel suo bel libro “l’Io pelle” del 1985, quando descrive come
nell’allattamento il capezzolo della madre e la bocca del bambino, senza soluzione di
continuità, costituiscano un insieme senza confine, una sorta di involucro protettivo per
entrambi.
Ancora, sempre la Mahler parla della segnalazione madre – infante e della
comunicazione particolare, che si viene a creare tra di loro.
Anche Racamier nel “Genio delle origini” descrive la nostalgia della dimensione
narcisistica della fusionalità e si riferisce alla rottura della simbiosi come al primo
grande lutto, a quella ferita narcisistica, che sarà evocata in tutti i legami successivi ed è
la base, se ben condotta, del superamento dei numerosi lutti della vita ed
all’elaborazione naturale degli stessi. “ Il lutto originario è dunque la prima e prolungata
prova che l’io deve affrontare per scoprire l’oggetto. In virtù di un paradosso fondatore,
questo è perduto prima che trovato, allo stesso modo non si trova l’io se non accettando
di perdersi. Spinto tra le altre pulsioni, da quella della crescita e a fronte dell’attrazione
centrifuga della seduzione narcisistica, il lutto originario apre all’io le capacità, che gli
sono originariamente promesse, in particolare quella di fare dei lutti. L’attraversamento
del lutto originario è infatti una delle condizioni per riuscire a provare ed elaborare il
lutto.” Racamier 1992
Ritornando alla simbiosi fusionale, sul piano clinico, tutti noi abbiamo ricordi ed
esperienze di situazioni estreme, di pazienti rinchiusi in casa con la madre anziana, che
non può morire, per non abbandonare il figlio simbiotico.
Questo succede anche con gli handicappati più o meno gravi, cioè in situazioni in cui la
madre, che si sente colpevole per aver generato un figlio imperfetto, impedisce ogni
tappa emancipogena, attraverso la castrazione del desiderio, nella misura in cui non
sottopone il figlio alla minima frustrazione, sostituendosi in tutto ed impedendo ogni
grado di autonomia.
L’angoscia dunque del genitore del paziente psicotico, che non può morire, conduce al
nascere di associazioni tipo il “ Dopo di noi”, che dovranno prendersi cura alla morte
del genitore, del figlio malato.
In queste condizioni si può richiamare La forclusion du per di Lacan, del padre debole
sullo sfondo, citato da Italo Carta nel suo libro “ Il padre dello schizofrenico”, ovvero
situazioni, in cui la madre, che non ha risolto positivamente la propria fase simbiotica
con la sua figura materna, perpetra la simbiosi con il proprio figlio, sostanzialmente
nella famiglia a transazione schizofrenica, nelle tre generazioni descritte da Rosen,
necessarie e coinvolte per ”fare uno schizofrenico”.
Anche Zapparoli quando parla dell’esecuzione testamentaria si riferisce al bisogno della
madre simbiotica di trovare qualcuno all’interno dell’èquipe, che possa fungere da
oggetto simbiotico sostitutivo e possa garantire nel tempo la continuità
dell’accudimento, perché l’équipe, a differenza del genitore, è eterna e non muore, nel
senso che le persone possono essere sostituite, ma la funzione resta. Naturalmente per
allentare la simbiosi e ripercorrere una esperienza simbiotica correttiva, l’èquipe deve
fornire un oggetto simbiotico sostitutivo ad entrambi i poli della relazione simbiotica
patologica, per colmare anche le angosce di morte della madre.
3
Il Caso di Marco.
Marco, arrivato al CRT nel 1997, proveniente da casa dove la simbiosi con il padre era
diventata maligna; il padre, a suo dire, aveva in Marco il suo cagnolino, Marco lo
ripagava con scherzi pericolosi: l’aggressività di entrambi aveva una espressione.
La madre era mancata anni prima, da allora M. aveva cominciato a manifestare segni di
ritiro sociale e, successivamente, la patologia schizofrenica in tutta la sua gravità. Aveva
assunto in casa il ruolo di lei: cuscinetto tra padre e figli a ridurre la conflittualità.
Al CRT per i primi due anni usciva dalla camera solo dopo che il Centro si spopolava.
Si rifiutava di parlare con i medici e i pochi scambi erano con un infermiere quando
questi era in turno: con lui giocava a ping pong e parlava del Milan. I familiari, l’un
contro l’altro armati e sempre in lotta con il Servizio, venivano ai colloqui
separatamente, gli infermieri ci passavano le informazioni sul paziente.
In qualche occasione abbiamo anche avuto dei colloqui con M. al letto, soprattutto
quando la famiglia imperversava chiedendogli di schierarsi ora per l’uno, ora per l’altro.
Richieste alle quali M. rispondeva mettendosi sotto le coperte al buio o inventandosi
malanni che giustificassero il mancato rientro a casa.
I colloqui individuali con lo psichiatra vennero stabilmente accettati (anche se poco
frequenti), solo quando M. poté fidarsi di noi, dopo l’integrazione dell’accudimento con
una farmacoterapia che aveva in parte ridotto i rituali ossessivi così disturbanti per il
paziente.
Dopo anni di alterni periodi di remissione e recrudescenza dei sintomi, di isolamento e
di riapertura nei confronti dell’ambito sociale, dopo alterne vicende familiari, M. è
riuscito a dire che nella sua famiglia c’è un malato ufficiale, lui stesso, mentre gli altri
componenti lo sono in modo diverso.
Questa consapevolezza ha ridotto il senso di colpa e in parte la sua dipendenza dai
familiari. E’ riuscito ad accettare la pensione di invalidità civile e un lavoro più umile di
quelli precedenti e a far accettare entrambi a suo padre.
M. è tornato a casa nel dicembre 2004, dopo un periodo di quasi due anni occupato dal
pensiero delle dimissioni e dai suoi tentativi di metterle in atto. Una lunga fase (pesante
per gli operatori e dispendiosa per il Servizio), ma che appariva assolutamente
“naturale” per M., durante la quale il paziente alternava periodi di quattro o cinque
giorni a casa, seguiti da rientri della stessa durata al CRT, fino a decidere, questa volta
senza rinvii, l’uscita definitiva.
M. oggi svolge un lavoretto vicino a casa, anche in questo caso in maniera discontinua
(questo pare essere in relazione con le richieste eccessive da parte dei familiari e i loro
moti espulsivi). Alterna al ritiro momenti di maggiore vivacità. Si reca mensilmente ai
controlli ambulatoriali. M. mantiene i contatti anche con altri pazienti con i quali ha
condiviso la permanenza e la dimissione dal CRT, un paio di volte si è recato a cena da
loro.
Nell’ultimo anno prima delle dimissioni si era aggiunta una figura importante che media
ancora oggi i rapporti del paziente con suo padre e i contatti con il Servizio: un
infermiere che tiene relazioni interne ed esterne.
Ho scelto questa vignetta perché costituisce l’esemplificazione dei bisogni del paziente:
■ di un oggetto inanimato, meno qualificato - l’infermiere del CRA scelto dal paziente;
■ di un intermediario da usare come mediatore nelle relazioni.
4
Mette inoltre in evidenza la necessità di continuità funzionale. M., attraverso
l’impossibilità di accettare una residenza definitiva nell’Istituzione, ma al contempo
l’impossibilità di riconoscersi autonomo dal Servizio, ci mostra il deficit specifico dello
psicotico: ”l’incapacità di accettare sia la discontinuità, espressione della paura di
rimanere senza l’oggetto di bisogno, sia la continuità in quanto essa assume per il folle
il significato della impossibilità a modificarsi, per esempio a diventare idoneo alla
propria autoconservazione” (2002).
Lo psicotico può accettare l’illusione di una discontinuità nella continuità, spesso
realizzata dallo stato di follia, come sistema difensivo che gli fornisce la sicurezza di un
oggetto costante con caratteristiche di incostanza.
Questo caso ci pone di fronte in maniera evidente alle resistenze al cambiamento: il
paziente teme il coinvolgimento perché la sua esperienza lo porta ad identificare la fonte
del piacere con quella della frustrazione. Un’altra resistenza poggia sul rifiuto a
prendere in considerazione parti psicotiche e deficitarie, rifiuto che accomuna paziente e
familiari e a volte anche gli operatori; in questo caso solo quando la parte deficitaria ha
potuto essere emotivamente accettata da M. e successivamente dai familiari, si è potuto
apprezzare qualche miglioramento e aprire la strada a evidenti modificazioni della
situazione.
Da parte nostra, farsene carico (e mi riferisco qui alla necessità di discontinuità espressa
nel lungo periodo di tentativi di dimissione) ha significato poter finalmente arrivare a
dimissioni condivise.
Raccordo anamnestico
Dopo sei anni Marco ritorna alla C.R.A. La situazione a casa con il padre è tornata ad
essere soffocante, complicata da una grave malattia organica del genitore. Marco non
riesce a tollerare l’angoscia che la sola presenza del genitore malato gli procura. Accetta
un breve ricovero da noi per affrontare, dice, l’iter dell’amministrazione di sostegno e
l’impegno delle cure odontoiatriche. Il richiamo a casa da parte del padre è struggente e
rabbiosa la reazione di Marco. Accetta però la nostra offerta di aiuto: una protezione
presso di noi a patto che garantiamo al contempo che il padre non venga lasciato solo.
Commovente a questo proposito un recente colloquio: “Posso rimanere alla C.R.A. non
so per quanto, ma solo se vedo l’infermiere C. Se lo vedo spesso e se lui va a trovare
mio padre e se possiamo andarlo a trovare insieme”. E’ l’infermiere che in questi anni
ha garantito la continuità funzionale.
LA SIMBIOSI AMBIVALENTE
“Il livello intermedio è la simbiosi ambivalente, caratterizzata dalla contemporanea
presenza del bisogno di essere vicino al partner simbiotico e di distaccarsene”.
Zapparoli
La simbiosi ambivalente non è risolvibile nemmeno con la morte della madre, il
mantenimento di tale simbiosi è necessario infatti al paziente, nella misura in cui lo
aiuta a non sentirsi inadeguato, incapace cioè di affrontare la solitudine; la simbiosi
ambivalente può essere solo ridotta, affrontando la solitudine del paziente.
Ne ha parlato a lungo Searles nel suo libro “ Scritti sulla schizofrenia” 1974, in cui da
parte dell’équipe va messa in atto una grande prudenza nel trattamento, finalizzata alla
costruzione della credenza, ovvero il senso di fiducia, e afferma che alcune funzioni
5
della simbiosi si strutturerebbero per evitare di affrontare la realtà, per mantenere
rimossi sentimenti ostili e per evitare sentimenti di rifiuto.
La simbiosi ambivalente prevede una condizione di conflittualità, il nec tecum nec sine
te vivere possum, per cui la madre va accolta come co – terapeuta, altrimenti vanifica
tutto, “ io non posso tenere mio figlio, ma voi, senza di me non potete curarlo” e subito
compaiono sentimenti di invidia e di gelosia. Questo comporta lo strutturarsi
dell’alleanza terapeutica. Quindi, si parla del rispetto delle difese, il così detto diritto a
delirare, del timing corretto degli interventi, altrimenti si può ingenerare una reazione
terapeutica negativa. Ancora una delle strategie è l’utilizzo nella relazione di oggetti
parziali: inanimato, meno qualificato con il paziente oppure onnipotente nel rapporto tra
il primario e la madre, stabilire la giusta distanza relazionale, procedendo con minime
tappe emancipogene per arrivare alla simbiosi focale, alla guarigione sociale, descritta
da Pao, ovvero all’accettazione delle protesi, con il rendere la follia da pubblica a
privata, al fine di migliorare la qualità della vita ed aumentare gli spazi vitali dello
schizofrenico.
IL CASO DI MARIO
Intendiamo presentare un caso, quello di Mario, per il quale a seconda delle diverse fasi
del trattamento, ora l’oggetto meno qualificato, ora lo psichiatra, ora l’èquipe accudente,
hanno avuto il ruolo più importante, costituendosi, funzionando da co - terapeuti con il
paziente, consentendogli un lungo percorso che lo ha portato nel corso degli anni ad una
alleanza di lavoro. Si tratta di un caso di simbiosi ambivalente, dove interventi
“classici” come la farmacoterapia e la psicoterapia risultano destinati a fallire se
l’elemento alla base della psicosi, la simbiosi ambivalente appunto, non viene
considerata e trattata.
Mario, 33 anni al momento della presa in carico (18 anni) la non consapevolezza di
malattia costituisce l’elemento prioritario del suo deficit psicotico, poiché non ci
consente di costruire una stabile alleanza di lavoro. Dopo anni di cure ambulatoriali e di
continui “dentro e fuori” dal reparto, determinati dalla nostra mancanza di progettualità
nell’intervento, l’espulsione dalla famiglia e la non idoneità del paziente
all’autoconservazione trovano nell’inserimento in comunità una protesi idonea
all’accudimento continuativo, malgrado il soddisfacimento di questo bisogno primario,
l’accettazione dell’intervento farmacologico e psicologico è scarsa e dimostrativa della
forte resistenza al cambiamento e del grave quadro psicopatologico.
Dopo mesi trascorsi in reparto, è stata offerta a Mario una residenza; questo luogo ha
permesso di veicolare gli interventi psicoterapico e relazionale.
La permanenza nella comunità prescelta: una comunità del privato sociale, a nostro
parere sufficientemente lontana da casa, è stata caratterizzata da momenti alterni di
discreto compenso e di grave scompenso, soprattutto quando la distanza tra Mario e gli
operatori si faceva maggiore e la solitudine lo portava al delirio persecutorio, all’abuso
di sostanze e al rifiuto dei farmaci. In questi momenti, la nostra elasticità nell’alternare
dolcezza e fermezza (comunità e reparto), e il fatto che Mario accettasse tale alternanza,
ha consentito di continuare l’inserimento, interrotto dopo due anni per il richiamo
simbiotico della madre, per lo spavento provato dagli operatori della comunità di fronte
alla frequente oppositività di Mario e per la noia generata in loro dalla sua elusività,
crediamo anche, per una certa mancanza di progettualità. L’aspetto illusorio è stato
ricreato da Mario e dalla madre con l’ipotesi della vita di nuovo insieme, malgrado tale
6
vicinanza si fosse già rivelata insostenibile per entrambi. Tuttavia la madre, dopo
l’inserimento dell’altro figlio in una comunità per tossicodipendenti e il matrimonio
della figlia, era rimasta sola con il marito e Mario desiderava solo di tornare a casa.
Vedremo di nuovo in seguito come si riveli fondamentale il fatto che la madre si tenga
occupata con oggetti diversi del paziente e consenta, a lui e a noi di sopravvivere alla
sua invadenza.
Dopo il rientro a casa, l’ipotesi di convivenza è presto svanita e di nuovo la famiglia lo
ha “cacciato” per le anomalie del comportamento e per il rifiuto dei farmaci.
Osserviamo che il paziente però non solo tende a rifiutare i farmaci ma smette di
utilizzare i deliriolitici nel momento in cui rimane senza deliri.
A differenza di quanto accade ad altri pazienti per i quali il delirio è un antidoto alla
solitudine, per Mario anche nel delirio si presenta una situazione ambivalente così come
nella simbiosi:
non posso vivere né con te né senza di te
non posso delirare (per la grave persecutorietà dei contenuti), ma non posso
nemmeno stare solo.
In questo caso ci troviamo quindi a dover risolvere l’ambivalenza tra l'avere e il non
avere deliri, l'avere e il non avere la mamma e, allo stesso modo, nelle relazioni (anche
quella con il terapeuta) l'esserne attirato e viverle come pericolose. Mario, dopo
l’espulsione da casa, approda di nuovo in reparto; ancora un lungo ricovero, questa
volta in regime coatto, dopo che ha distrutto i televisori della madre, equivalente della
distruzione di lei.
Fase dell’oggetto meno qualificato
Durante il ricovero ha presentato momenti di disperazione, quando, costretto ad
assumere farmaci, spento il delirio contro i medici, si è ritrovato solo, senza prospettive,
a rifiutare i doni mandati dalla madre e i colloqui con il terapeuta.
In questo momento critico, il paziente stesso ci indica la soluzione al problema in cui ci
troviamo: sceglie un operatore, oggetto non qualificato, sul quale poter esercitare il
proprio controllo onnipotente (evitando il piacere che può finire contro la sua volontà),
un oggetto meno pericoloso, meno normativo dello psichiatra. Animando questo
oggetto inanimato, il paziente costruisce una realtà illusionale che, andando “oltre la
madre”, lo proietta nel futuro: utilizzerà il CRA come base nella ricerca di una residenza
propria, di un lavoro, dell’autonomia. Questa prospettiva delirante del paziente, che si
fonda sull’onnipotenza, costituisce, rispetto al delirio persecutorio, un delirio più
economico che sviluppa e utilizza gli aspetti proiettivi secondo un criterio di difesa.
L’oggetto meno qualificato, l’oggetto vissuto come meno pericoloso, consente, al
paziente e a noi, di ampliare il delirio protettivo. Questo operatore del Servizio, già
accettato dal paziente e dalla madre, è la persona che ha sempre favorito la
comunicazione tra i due (così come con i membri dell’équipe integrata) ponendosi come
intermediario, facilitando gli incontri e riducendo con la sua presenza l’ansia suscitata
dall’affetto e dal desiderio di intimità provata da entrambi, assistendo agli scambi
giocosi della coppia simbiotica.
A questo operatore, nei momenti in cui Mario si sente abbandonato dalla madre e allo
stesso modo poco compreso nei suoi bisogni dal terapeuta, Mario confida la sua
disperazione e le fantasie di suicidio: è l’unica persona alla quale affida i contenuti più
7
intimi, giungendo in tal modo a riqualificare l’oggetto, mostrandogli per la prima volta
la propria gratitudine.
Viene quindi proposto il CRA, non molto distante da casa. Mario è abbastanza vicino
alla madre da non sentirsene troppo privato e lei può in questo modo pensare di
esercitare, almeno in parte, un suo controllo. La non negazione da parte nostra dell’area
illusionale gli consente di accettare il compromesso del CRA e delle sue regole.
È assolutamente inaspettata, infatti, la sua aderenza al contratto sottoscritto che riguarda
l’assunzione dei farmaci, le uscite con accompagnatore, la partecipazione alla vita
comunitaria.
Più che di un’imposizione, sembra si tratti per Mario dell’accettazione di un buon
contenimento. È un’impressione questa che rimarrà anche in seguito, malgrado le
difficoltà che si presenteranno.
Riteniamo questa la fase della saturazione dei bisogni di sicurezza, fase in cui si
pongono le basi per un’alleanza futura.
La residenzialità con i suoi ritmi e l’équipe del CRA con la presenza, l’attenzione e
l’accudimento costanti arginano i sentimenti di solitudine e di vuoto e soddisfano i
bisogni di relazione e di scambio di Mario. In questo momento Mario non vede la
madre da mesi.
Per la madre si predispone un ascolto individuale da parte dello psichiatra curante.
Viene rafforzato l’intervento farmacologico nel senso di una discussione costante
sull’uso e dosi dei farmaci, che il paziente vorrebbe subito ridurre. Farmaci che il
paziente impara a conoscere e quindi a riconoscere anche come buoni, non solo fonte
di deliri sugli effetti collaterali (psicosevizie).
Continua l’affiancamento dell’infermiere, oggetto privilegiato che insieme ad altri
operatori dell’équipe raccoglie i pensieri del paziente: è questa l’unica via per
conoscere e lavorare sulla parte psicotica. Attorno ai temi descritti, quando il
paziente li comunica, si coltiva un’area di condivisione: i farmaci, la vita al CRA, i
rapporti con gli infermieri, la relazione con la madre. Si pongono così le basi per un
rapporto intenzionale del paziente con la propria malattia.
Al CRA l’inserimento procede positivamente fino a quando la madre, dopo i suoi
tentativi di riavvicinamento vanificati dal paziente, torna a dominare la scena in
occasione delle festività pasquali. Al rientro dalla breve vacanza, il terapeuta trova un
biglietto che sintetizzo: “Visto che lei non mi segue come io vorrei e declina ogni
responsabilità nei miei confronti, cambierò dottore”. Gli viene risposto per iscritto: “Ti
ringrazio perché mi hai fatto capire che la tua paura più grande è che la mamma non
possa continuare a prendersi cura di te. Come da te richiesto, ritengo necessario un
incontro”. Nel colloquio con il terapeuta successivo a questo scambio epistolare, Mario
affonderà l’argomento dell’“ancestrale”, termine con il quale definisce la propria realtà
interna. Descriverà una caverna, popolata da mostri e da personaggi della realtà, i suoi
persecutori, uno spazio angusto, con tante porte, un labirinto.
Mario quindi prima ci rifiuta poi ci raccoglie, prima duro ed esigente poi arrendevole e
disponibile in maniera commovente. A noi il compito di tollerare l’esclusione o di
rivendicare il nostro ruolo, consapevoli dell’importanza dell’aggressività (del paziente e
nostra) nel favorire la differenziazione; a noi il compito di fornire una traccia
(alternativa e suggestiva) di significazione ai mostri che popolano il suo mondo interno,
così distante dalla realtà esterna, perché per noi così inimmaginabile.
Così, con riguardo e sensibilità, cerchiamo di essere messi a parte del suo pensiero
delirante, finalmente autonomo dall’invasività della madre, proprio in quanto in attività
8
segreta. Ritrovare perciò un senso che possa rendere intelligibile ciò che è pensato,
significa restituire al paziente la possibilità di esistere.
Tale possibilità poggia sull’indispensabile funzione di intermediario tra madre e figlio,
sulla nostra capacità di costituirci come funzione paterna, come funzione che vigila
sulla distanza. Dobbiamo al contempo tentare di ridimensionare l’onnipotenza e di
definire il mondo interno dei bisogni, altrimenti vissuti come forze estranee, nemiche,
da negare o da vivere solo nel rapporto simbiotico.
Questo ricovero dura un anno. Un anno di grande impegno per Mario che si dedica al
laboratorio, dove riproduce i suoi mostri, alla serra, dove coltiva piante, cercando di
distrarsi dai fantasmi che lo dilaniano. Il diario infermieristico è pieno di momenti cupi,
di ribellioni urlate in giardino, di notti deliranti e di racconti e di giornate passate a
contrattare sul farmaco: diminuirlo significa per M. poter controllare le voci, nel senso
di non ridurle troppo. Le dimissioni avvengono per decisione del paziente; si propone di
vederlo in ambulatorio.
Fase dell’intervento con la madre
Il rientro a casa consente di approfondire la conoscenza della madre che, in difficoltà, si
rivolge a noi. In questa fase la madre mette a parte il terapeuta del rapporto che ha con
suo figlio. Per motivare il richiamo a casa dice: “Volevo che stesse più quieto, non so
dire di no”. Parla della propria impossibilità di resistere al suo bisogno di vicinanza
(dello stare alzata la notte per fargli compagnia). Chiede consigli su come arginare le
sue pretese di ascolto continuo, si sottolinea quindi con lei la necessità di una distanza
che può essere rappresentata dal Servizio.
Questa parziale alleanza consente a lei di anticipare gli umori del figlio, a noi darà
l’opportunità di prevenire azioni autolesive che si prospettano inevitabili quando M.,
allontanatosi dal Servizio, sprofonda nella solitudine e nella persecutorietà.
Intervento con il paziente in ambulatorio
La filosofia di vita
Si approfondiscono ulteriormente i temi filosofici, i contenuti del delirio. “Il caos da
dipanare e il puzzle da ricostruire”, “La riabilitazione si fa dentro di sé”, dice. Si
svolgono lunghi colloqui dei quali il paziente ci fa dono, nei rari momenti in cui non è
preda dei deliri persecutori.
Il paziente tiene aperto un canale di comunicazione “al bisogno”, non rispetta
appuntamenti.
Verifica la nostra disponibilità .
Fase della recriminazione
Secondo ricovero al CRA
Dopo l’espulsione da casa da parte della madre e il ricovero in SPDC, volontario, il
paziente torna al CRA triste ed abbattuto. Mario vuole trascorrere un periodo tranquillo,
ridotti gli stimoli interni ed esterni, “ambiente neutro”, dice. Sarà questo un lungo e
doloroso periodo durante il quale Mario ci proporrà il problema della irrisarcibilità e
9
della vendicatività e il Servizio, attraverso una esperienza emotivo correttiva, proporrà
un distinguo tra la madre reale del paziente e la terapeuta, cercando di arginare gli
impulsi distruttivi di Mario non solo attraverso contenimenti fisici o psicofarmacologici, ma anche attraverso la dissuasione. L’immodificabilità della simbiosi
ambivalente, infatti, e lo stallo prodottosi nella relazione madre-figlio hanno rimesso in
campo il Servizio e avevano portato il paziente ad una situazione regressiva, con
abbandono delle aree di maggiore emancipazione (lavoro esterno) per ricondurlo ai temi
del rifiuto-abbandono, della recriminazione e della persecutorietà.
Le vacanze della terapeuta sono state un’occasione importante per esplicitare la
continuità funzionale garantita dall’équipe il non venir meno delle cure attraverso un
testimone. Il rientro e la sua accoglienza torva (durante l’assenza ha scolpito un
pugnale), consentono di affrontare il tema delle assenze della madre che diversamente
dalla terapeuta, lo lasciava completamente solo: “Una sensazione penosa e aspetti
sempre che lei ritorni”, dice. E racconta la sua rabbia, l’impossibilità a contenere il
dolore. Il mondo interno delirante, debordante, il mondo esterno non più raggiungibile e
alla fine la difficoltà ad essere compreso. In seguito a queste comunicazioni, Mario
consegna dopo qualche giorno, spontaneamente, il coltellino per lavorare il legno. Il
problema però dell’aggressività si ripresenta in maniera più esplicita di lì a poco tempo,
di fronte alle minacce del paziente e ad un agito limitato del paziente stesso uscendo
dallo studio. Ci si confronta con Mario, con i suoi modi “poco ortodossi”. Il paziente
nega l’aggressività, si scusa della villania. Il farmaco, lo ammette, ci consente di parlare
ma la sua ambivalenza lo riporta a rifiutare di nuovo l’assunzione costante delle terapie.
Evitante, francamente ostile a volte pare dimenticarsi e saluta, non vuole rinunciare al
suo mondo di persecutori.
La tensione cresce, si aspetta un segnale del paziente. Una mattina, al distributore del
caffè, Mario urla alla terapeuta: “Sparisci dalla mia vita!”. Si procede ad un ricovero che
il paziente accetta purché compaia la forza pubblica, perché le malefatte della terapeuta
possano avere testimonianza; si ricovera in TSO.
L’aggressività a stento contenuta e in alcuni momenti dimostrata, verrà negata da Mario
che rientrerà al CRA dopo un mese di ricovero.
Nel caso presentato l’elemento evidente è la nostra funzione di co - terapeuti, è infatti
sempre M: a decidere quando accogliere le opportunità che gli offriamo o addirittura a
proporne direttamente per sé. Posizione questa, quella del co - terapeuta, possibile da
mantenersi e sopportare solo se si può contare su un’ottima équipe in grado di garantire
la continuità funzionale per il paziente e il sostegno per il terapeuta. Équipe sempre
necessaria nel trattamento della simbiosi ambivalente perché in grado di fornire una
risposta alle richieste di disponibilità totale avanzate dal paziente, ma anche di
contenere e diluire l’aggressività manifestata dallo stesso. In questa funzione di co terapeuta ci sembra necessario sottolineare l’importanza del timing nelle comunicazioni
e nelle proposte di interventi.
Un altro importante concetto: la Dissuasione. E’ utilizzabile nei casi è evidenziabile al
paziente la sproporzione tra le finalità che il paziente persegue e le conseguenze dei
gesti auto ed eteroaggressivi usati: non si tratta di convincerlo, ma di dissuaderlo
(Zapparoli 2008). Questa tecnica viene utilizzata durante il ricovero in SPDC. E’ un
mezzo per favorire nel paziente una iniziale accettazione dei suoi bisogni: possiamo
aiutarlo a percepire che la negazione del bisogno e dell’oggetto di bisogno, porta alla
sua distruzione.
10
TSO al persecutore
Mario ha potuto fare una esperienza emotivo - correttiva, ha sentito tollerata la sua
aggressività distruttiva; il terapeuta, proprio perché si è sentito sostenuto dalla presenza
e dal lavoro dell’équipe è riuscito ad ampliare i limiti di tollerabilità dell’aggressività
del paziente fino a consentire allo stesso di percepirla come intollerabile e a provocare il
ricovero. In seguito a questa esperienza M. ha imparato a chiedere di essere ricoverato:
vado a riposarmi un po’, dice. Noi pensiamo che abbia imparato a proporre un
contenimento della propria aggressività, un limite agli attacchi dei persecutori, a
riposarsi dal lavoro del delirio: è in grado di eseguire un TSO al persecutore.
Il CASO DI BOLLICINA
La situazione trattata è emblematica dei molti casi di gravi schizofrenici, che
soggiornano a lungo in SPDC e che trovano difficile collocazione all’esterno se non
dopo prolungate permanenze in reparto, nella misura in cui è per loro e per i famigliari,
in particolare la madre, impossibile tollerare ed accettare la riduzione dell’onnipotenza
megalomanica e degli aspetti ambivalenti della fusionalità.
Essi rientrano nel gruppo dei così detti pazienti irrisarcibili ed irriducibili, cioè di coloro
che non possono venire a patti con l’impotenza, pena la stessa sopravvivenza psichica, e
devono, pertanto, mantenere sempre vivo il filo illusorio, che trova la veste di un delirio
grandioso, sostenuto da attese megalomaniche, ma anche da persecutori altrettanto
potenti, che ne impediscono la realizzazione, per cui l’illusione diventa l’unico rimedio
contro la percezione dell’impotenza, il dolore profondo della solitudine e
dell’isolamento e la conseguente angoscia di frammentazione.
Costretti da una relazione simbiotica ambivalente con la figura materna a non potersi
autonomizzare, neppure nel potersi percepire minimamente integrati e nel poter nutrire
la speranza di poter rompere il legame, quando le sono vicini il terrore della fusionalità
avviluppante li spaventa e costringe, attraverso gravi agiti, comportamenti aggressivi e
vissuti terrifici a doversi allontanare repentinamente.
A fronte di questo, nella lontananza, il distacco inizialmente liberatorio dall’abbraccio
soffocante della fusionalità, si trasforma in struggente nostalgia di un legame in realtà
molto diverso da quello fantasticato ed idealizzato, che li costringe, in breve tempo, a
rivolgere la persecuzione, con la stessa primitiva intensità, sugli operatori, percepiti
come ostacoli al ricongiungimento con la madre, nella misura in cui sono vissuti alla
stessa stregua della figura paterna con la funzione di distacco dalla stessa.
Anelano così il riavvicinamento all’oggetto simbiotico e si perpetua il gioco diadico di
avvicinamenti fusionali e di fughe siderali, mai regolato dalla figura normativa del
terzo, cioè del padre, che, nella forza e nella potenza della norma e nell’imperiosità del
desiderio sessuale, richiama a sé la moglie, favorendo l’allentamento della simbiosi e la
giusta distanza relazionale con il figlio.
Frequentemente, come si è detto ed è descritto in letteratura, in queste famiglie il padre
è assente (vedi la forclusione del padre, descritta da Lacan), spesso figura sbiadita,
talvolta, incapace di contenere la moglie, dà in pegno il figlio a fronte della propria
libertà.
11
Lo spazio sicuro del SPDC, contenitore assoluto e normativo, diventa pertanto il luogo
della regola e della protezione dove è reso possibile l’incontro, dove è realizzabile
stabilire e mantenere la giusta distanza relazionale, mentre i membri dell’équipe
possono diventare oggetti sostitutivi di simbiosi, frapponendosi progressivamente tra i
due poli della relazione patologica, che altrimenti continuerebbero a portare avanti,
attraendosi e respingendosi, il gioco autoperpetuante e distruttivo di questo tipo di
relazione.
Nell’ambivalenza dello schizofrenico si presentano due bisogni specifici della
condizione di psicosi: il megalomanico bisogno di non aver bisogni, a cui sottende il
terrore della dipendenza simbiotica e dell’impotenza, e dall’altro il bisogno antitetico, di
dipendenza totale, cioè di essere accudito e protetto totalmente, in quanto non idoneo
all’autoconservazione.
Dal canto suo l’infermiere, oggetto meno qualificato e, pertanto privo di connotazioni
persecutorie e vissuto come maggiormente manipolabile e controllabile, funge da
intermediario tra madre e figlio, consentendo di stabilire una più giusta distanza
relazionale, che tenga conto della paura e del desiderio.
La stessa ambivalenza viene giocata dalla coppia rispetto alla farmacoterapia, da una
parte richiesta e sostenuta dalla madre, alla presenza del medico, attraverso l’elenco
minuzioso dei comportamenti anomali del figlio, che, invece, non ne percepisce la
necessità, dall’altra sconfessata nel privato della relazione, in quanto, attraverso il
benessere che è in grado di promuovere, potrebbe allentare la relazione simbiotica.
Lo stesso avviene nella relazione psicoterapica, intollerabile da parte della figura
materna in quanto escludente, così nello spazio privato del setting spesso avvengono
frequenti intrusioni della madre, che anche al padre non ha mai concesso momenti,
nemmeno temporanei, di relazione duale ed esclusiva con il figlio.
Se i vari membri dell’équipe, delusi e sfiancati dal ripetersi del gioco relazionale, non
consentono almeno parzialmente lo stesso, lasciandosi usare, frapponendosi, come si è
detto, come terzi nella relazione, assumendo la madre come co - terapeuta per stabilire
l’alleanza e promuovere nel contempo una riduzione dell’intensità del legame,
l’ambivalenza del nec tecum nec sine te vivere possum non accenna da attenuarsi.
Inizialmente il riavvicinamento deve avvenire nello spazio protetto con tempi e
modalità parziali, che tutelino entrambi i poli della relazione, organizzando per il figlio
l’oblio della rabbia e del dolore e dare avvio così al risarcimento e per la madre,
attenuando le angosce della morte incombente per la perdita dell’oggetto simbiotico,
fornendo un altro oggetto in sostituzione. Spesso la figura più ambita, vissuta come
idealizzata e potente, in questa fase diventa il Primario o il Direttore, per il figlio il
padre normativo, che non ha mai potuto avere e per la madre il suo proprio padre, da cui
non si è mai separata.
In questo caso si vuole evidenziare come l’ambivalenza si presenti anche nella relazione
duale e impronti poi tutte le relazioni della vita della persona con un grande desiderio di
avvicinamento ed una grande paura, che conduce all’allontanamento.
In questo caso emblematico, le prime note in cartella, che vedono una diagnosi di
Psicosi e successivamente di Sindrome Delirante, risalgono al 1977, quando la paziente
è stata vista per la prima volta, presentandosi con una richiesta di psicoterapia, prescritta
da un neurologo, ma di fatto con una richiesta di essere “aiutata a vivere”, ma che il
terapeuta “operi in lei senza che lei partecipi o ne sia responsabile e protagonista”,
manifestando così sin dall’inizio la sua ambivalenza. La vede poi uno psichiatra, che
12
scrive :” La paziente lamenta solo confusione di propositi, astenia, alterazione del tempo
vissuto”.
Cerca i terapeuti, ma poi rifiuta l’aiuto e questa sarà una costante del suo rapporto
ambivalente, infatti, chiede aiuto, che come diventa fruibile, si trasforma
immediatamente in persecutorio, chiede farmaci, che inevitabilmente le nuociono e via
dicendo.
Dal 1981 scompare e riprende i contatti con il servizio nel 2001, ricoverata in TSO ed
inviata alla dimissione al CPS.
Di fatto in questi anni Gigliola ha scelto di essere presa in carico da un suo vicino,
infermiere del CPS, che con una pazienza infinita, da oggetto meno qualificato se l’è
affiliata e che fa anche da oggetto inanimato, la ascolta pazientemente nel suo delirare
complesso, che spazia dalla persecuzione all’erotismo, anche in questo con molta
ambivalenza. Nel vuoto persecutorio della solitudine si possono fantasticare molte cose,
ma quando il delirio e la fantasia la sovrastano ed il desiderio non si realizza, il dolore e
la rabbia si trasformano in persecuzione alla ricerca di un persecutore invidioso, che le
impedisce di realizzare il sogno e nel contempo di toccare con mano l’impotenza.
La paziente pur avendo circa cinquant’anni sembra un’adolescente, ha una vocina
cantalenante, è vestita in modo fru, fru con golfini rosa schocking, costellati di
fiocchetti. Anche la nuova terapeuta rileva l’atteggiamento reticente, a volte sibillino,
come se l’altro sapesse già tutto, vagamente accenna a scherzi nei suoi confronti ed ad
un complotto. La terapeuta scrive “ La storicità dell’esperienza delirante e la completa
assenza di coscienza di malattia si costituiscono come elementi prognosticamente non
favorevoli allo strutturarsi di un rapporto terapeutico, da rivalutare il possibile
programma di aggancio se si verificherà un drop out”. Si ripresenta invece puntuale al
successivo appuntamento, ma sempre titubante nella relazione ed allusiva e sibillina
rispetto ai contenuti del colloquio. Chiede la sospensione degli psicofarmaci, nei
confronti dei quali ammette di avere un rapporto ambivalente.
Dilaniata tra paura e desiderio, critica aspramente la nuova Dottoressa, in quanto
l’avrebbe avvelenata con i farmaci facendola invecchiare e sembrare non curata e
rugosa, ma staziona interi pomeriggi in sala d’attesa sulla “finestra sul mondo” , curiosa
di veder vivere gli altri e di conoscere il mondo, senza peraltro mettersi in gioco
direttamente. Dopo aver saltato un appuntamento, riconvocata, si presenta “ per non
essere scortese”, non nega di avere ancora qualche perplessità sull’opportunità di essere
seguita presso il nostro CPS ed è palese la sua difficoltà a concedere la fiducia alla
Dottoressa.
Quando non ne può più e, mossa dal desiderio, si avvicina troppo, scatta la paura, fa
richieste che se soddisfatte si trasformano in breve in una minaccia. Difficile aiutarla in
questo gioco, in cui tutto si svolge in modo repentino. Un giorno, per esprimere la sua
solitudine, usa la metafora della bollicina dell’acqua Lete, ripetendo con la sua vocina
molto simile, i vocalizzi ed i gorgoglii di compagnia nel soliloquio della battaglia
navale. Questa sua performance scatena all’unisono l’ilarità degli operatori e nel
contempo una grande tenerezza, finché prodigiosamente aiutati dalla pubblicità la
bollicina - Gigliola incontra la particella di sodio - Dottoressa, che la cattura,
sorridendo, con un’invitante buona seraaa…., lasciandole però la briglia lunga e la
possibilità di stabilire lei la distanza.
Sembra che l’unico modo per l’aggancio possa passare solo attraverso il gioco, che
diventa lo spazio transazionale, dove i due poli della relazione, oltre che avvicinarsi e
respingersi riescano anche provare a conoscersi.
13
La nostalgia del legame narcisistico della fusionalità e l’idea che non possa mai essere
soddisfatto lasciano il passo alla speranza e al grande piccolo segreto che non bisogna
comunque desistere, ma avere la pazienza di tentare e ritentare per trovare la strada ed
uscire anche noi come operatori dall’ambivalenza.
Cinque giorni dopo arriva al mattino al CPS senza appuntamento ed attende la
Dottoressa fino al suo arrivo nel pomeriggio, chiede aiuto con la consueta modalità:
reticente su quanto le sta accadendo, a tratti fortemente angosciata, ma inevitabilmente
combattuta rispetto alla possibilità di affidarsi e fidarsi.
Segue le indicazioni in modo alternante, mentre diventa ligia quando la Dottoressa è in
ferie, come se la separazione fisica sancisse anche la giusta distanza relazionale, anche
se avendo assunto i farmaci si sente un po’ meglio, ma svuotata dall’assenza
dell’esperienza psicotica. Chiede un avvicinamento temporale degli appuntamenti anche
se “ non sa neppure lei cosa dire”. La stessa incertezza la propone sul lavoro, vorrebbe
lavorare, ma nel contempo non se la sente. Racconta che quello che vedeva e riteneva
fossero cose vere, pensava che provenissero da fuori e questo l’aiutava a lottare per
vincere il complotto, adesso che ha capito che erano idee patologiche, si sente come
svuotata, è come se fosse diventata adulta velocemente, “ ma quando aveva la testa
piena si sentiva più viva.” La terapeuta propone di considerare il sentimento di lutto
depressivo sulla perdita dell’identità della malattia. Emerge anche la sua fatica
nell’accettare la condizione di paziente, soprattutto perché vista in un luogo pubblico,
che la espone maggiormente al confronto con gli altri. “Penso che non avrei mai dovuto
finire in mano agli psichiatri”, ripropone la richiesta di una psicoterapia, porta come
esempio il libro “Le parole per dirlo” di Marie Cardinal, quando la Dottoressa le dice
che attualmente non c’è l’indicazione per un setting più codificato, conclude con questo
commento: ”oggi sono stata polemica ho perso una seduta.” La sensazione è che cambi
continuamente le sue richieste rendendosi “ imprendibile”, quando si propongono i
farmaci chiede l’aiuto psicologico, quando si aderisce alla richiesta presenta dei disturbi
organici.
In occasione delle ferie della terapeuta viene in CPS tutti i giorni, trascorre lunghe ore in
sala di attesa, interagisce a tratti con le infermiere, senza formulare richieste precise.
Essendo il periodo di ferie estive, quindi piuttosto prolungato, alla lunga nell’abbandono
si paranoicizza, rispolvera il complotto, si sente minacciata, teme un avvelenamento,
rifiuta il ricovero proposto da una sostituta della sua terapeuta, ma accetta delle
fleboclisi “ disintossicanti”. Rassicurata dai farmaci, dopo qualche giorno accetta il
ricovero in regime di volontarietà.
Al rientro della Dottoressa “ pretende le dimissioni” e al colloquio le comunica che
forse sarebbe stato meglio rimanere in reparto. Porta un registratore, in cui si sente la
registrazione di un programma radiofonico con una voce sovrapposta che dice
” Pinocchia”, chiede alla Dottoressa che anch’io senta la registrazione ed inizia una
sorta di stanza del delirio, da cui emerge un tema erotico, per cui il capufficio sarebbe
innamorato di lei e le farebbe arrivare questi messaggi indiretti del suo interessamento.
Oscilla tra momenti in cui delira ed altri, in cui porta malesseri fisici e chiede delle flebo
“disintossicanti”, ben sapendo che in questo modo assume farmaci. Si rivolge a tutti i
colleghi per sapere esattamente cosa c’è nella flebo, che concordemente le parlano del
bisogno di avere un sollievo dall’angoscia e lei li accomuna in quanto “legati non dal
giuramento di Ippocrate, ma da quello degli ipocriti”, arrabbiata si rivolge alla
Dottoressa: “Lei mi deve dare l’antidoto perché solo lei conosce la sostanza di cui ho
bisogno”. Dopo questo coinvolgimento emotivo così intenso, si ricompone e comunica
14
di volersi prendere una pausa di riflessione. Viene nel contempo cercata da
un’infermiera , con cui ha stabilito un rapporto privilegiato durante le sue lunghe attese
in CPS ed il contatto con un oggetto “ meno qualificato” e quindi meno pericoloso, la
tranquillizza. Ora ha incluso i dottori nel complotto, teme per l’integrità delle sue sorelle
ed il fine del complotto sarebbe quello di portarle via la madre molto anziana, con cui
vive. Si sente sola, teme che la vogliano far passare per pazza per internarla ed arrivare
al loro scopo.
A questo punto l’angoscia psicotica è molto alta, chiede di parlare con me nella mia
veste di direttore, risulta chiaro il suo bisogno di contenimento e la sua richiesta
indiretta di essere obbligata alla cura, in questo modo non si sottomette spontaneamente
al persecutore. Mi assumo la responsabilità e prescrivo che le venga fatta un’iniezione
di Depot. Due giorni dopo sentiamo le sorelle, che sono ignare di quanto avvenuto, ma
ci ritornano che a casa è tranquilla.
Ritorna in CPS e racconta che quanto è successo è servito a sbloccare, anche se la
modalità è stata coercitiva, ma l’intervento obbligatorio l’ha rassicurata rispetto al
timore di essere abbandonata nella sua follia. Mi assumo la funzione di verifica del suo
benessere, in qualche modo esautorando la collega nel tentativo di rafforzare l’alleanza
tra loro rispetto al persecutore esterno. La situazione si triangola e viene introdotta in
modo più continuativo la sua infermiera preferita, che la accoglie nelle sue lunghe
“veglie “in CPS. Arrivano notizie dalle sorelle che la madre sta peggiorando e sarebbe
necessario assumere una badante, dal momento che non è più autosufficiente, ma che
Gigliola si ribella, sentendosi estromessa e considerata incapace, anche se di fatto la
situazione è diventata davvero intollerabile.
Tramite l’Assistente Sociale del Comune si individua una Signora di mezza età del
paese, che già ha fatto assistenza ad anziani, che viene ingaggiata e dopo le iniziali
ritrosie della paziente accolta. Da principio Gigliola controlla ogni atto della Signora,
ma poi si abitua alla presenza ed anzi si sente sollevata per non doversi più occupare di
accudire la madre inferma. Inizia un rapporto più stretto con la scrivente, che si assume
autorevolmente le decisioni più importanti, anche quella di avviare un procedimento di
richiesta di invalidità, quale risarcimento per le sofferenze subite; la paziente si lamenta
delle imposizioni, ma poi si dimostra grata di essere stata sollevata dalla impossibilità di
prendere delle decisioni, vista la sua incertezza.
Racconta di come in passato la sua vita fosse vissuta in leggerezza, intesa come capacità
di non crearsi problemi, vivendo in modo “contemplativo”, un po’ alla giornata, ma non
superficialmente. Poi è successo qualcosa che le ha cambiato la filosofia di vita, ora è
tutto greve e lei sa che deve prendere delle decisioni, ma ha paura di farlo. Teme che le
sue vedute vengano sconfessate e sia presa per visionaria.
Ad un successivo colloquio, chiesto con il suo fare furtivo, riferisce che si sente un po’
così, ma di fatto sta meglio e a fatica lo ammette.
Decidere vuol dire fare una scelta, scartare le ipotesi non scelte ed assumersene la
responsabilità. Si parla dell’ambivalenza e del fatto che nella sua vita non ha mai preso
decisioni importanti, per poi lamentarsene quando gli eventi hanno definito le scelte per
lei. Rifletterà su questo, ringrazia e lievemente se ne va.
Qualche giorno dopo, sempre con i suoi sguardi ammiccanti, fa in modo che io la inviti
al colloquio per poi schermirsi. Riferisce di sentirsi vuota nella banalità della vita di tutti
i giorni, prima stava male, ma come era “ eccitante “ pensare di essere controllata.
Richiama l’aforisma Zapparoliano “ Varo, ridammi le mie legioni”, alla scomparsa della
produttività allucinatoria e delirante.
15
Si decide per un intervento farmacologico più rarefatto nel tempo, che le lasci un certo
agio nel poter riavvicinarsi alle sue difese abituali, senza che sia soverchiata
dall’angoscia, accetta la proposta.
Siamo arrivati a questo punto nella difficile strada di stabilire l’alleanza, ora è in
rapporto con oggetti scissi su cui proietta le sue parti frammentate, ma l’équipe solidale
e compatta si declina sui suoi bisogni, accompagnandola nel difficile percorso di
affrontare la malattia ed il distacco dalla madre.
LA SIMBIOSI FOCALE
Il livello più elevato è costituito dalla simbiosi parziale o focale, concetto descritto da
Greenacre 1969 e successivamente sviluppato da Zapparoli. In questo caso il paziente
struttura una forma di simbiosi solo per particolari funzioni o esigenze. Per il resto
mostra un funzionamento autonomo, grazie alla sicurezza, che gli deriva da questa
forma di parziale dipendenza. Spesso è il punto di arrivo di una terapia, che aveva visto
una forma di dipendenza più grave. Quindi l’individuo è in grado di vivere sia la
fusionalità, - se avverte una minaccia in quest’area si attivano angosce di morte - sia la
parziale autonomia e una sempre maggiore emancipazione o riduzione del nucleo
psicotico.
La simbiosi focale rappresenta il luogo specifico del disturbo emozionale di entrambi i
membri della coppia simbiotica, ma di solito si manifesta nell’individuo più debole.
Nelle simbiosi focali o limitate c’è un’unione particolare del bisogno specifico del
bambino con la sensibilità specifica del genitore e la sensibilità complessiva del
genitore non può essere coinvolta così come nei casi di simbiosi grave della Mahler.
La follia diventa da pubblica a privata, gestita nella stanza del delirio, subentra, come
già accennato, nella fase di residualità della psicosi la guarigione sociale descritta da
Pao, ora, infatti, saturati i bisogni della parte psicotica, ci si può rivolgere all’io
residuale non psicotico, introdurre riabilitazione e socializzazione, rivolgendosi alle
energie liberate dall’attenuazione di difese così primitive ed estenuanti. Il paziente però,
di fronte agli eventi stressanti della vita, deve poter sperimentare la posizione di Giano
Bifronte e guardando avanti verso il benessere, appunto nelle possibili difficoltà,
rispolverare le difese di un tempo.
Nella nostra esperienza i bisogni residui connessi al nucleo simbiotico, ricevono una
risposta adeguata dalle figure dell’équipe terapeutica.
IL CASO DI PAOLO
Una breve vignetta: Paolo, paziente di 45 anni, seguito dal servizio da circa venti anni,
viene ospitato alla C.R.A. come tappa preliminare all’inserimento in un alloggio
protetto. Paziente la cui caratteristica è l’onnipotenza, il bisogno di non avere bisogni, la
cui aggressività si è tradotta in uno svilimento continuo del nostro operato, in una
frustrazione paralizzante per gli operatori, nella costante pretesa di un risarcimento.
Questo paziente, dopo averci messo alla prova per due anni, oramai avviato verso il
traguardo, la dimissione in appartamento, si scatena in un attacco finale causato dalla
presenza di bisogni di dipendenza e dalle paure suscitate dal processo di autonomia.
Paolo ha potuto contenere l’aggressività, tenere un comportamento adeguato,
attenendosi alla civile convivenza, recuperare il ritmo sonno-veglia, solo quando gli è
stato assicurato che per andare in appartamento non avrebbe dovuto passare un esame di
16
normalità, ma che ci sarebbe potuto andare con il suo bagaglio di bizzarrie, di
inadeguatezze, di follia che evidentemente non era in grado di abbandonare.
In realtà, l’aspettativa del paziente grave non è la guarigione, ma un accudimento che gli
garantisca che venga accettato “il suo segreto”, cioè la sua parte onnipotente. La nostra
risposta a questa aspettativa può allora consistere nel tentativo, condiviso con il
paziente, di modificarne le difese rendendole più economiche. Nel caso citato,
l’intervento è stato quello di fornire una situazione che dal punto di vista emotivo
costituisse fonte di sicurezza e sopravvivenza, riducendo quindi le crisi paniche. Al
contempo si sono modificate le risposte adattative del paziente all’ambiente, attraverso
interventi riabilitativi che hanno migliorato le funzioni dell’io; il tutto integrato dalla
farmacoterapia la cui veicolazione è avvenuta attraverso la garanzia dei precedenti
interventi.
Nei colloqui per molto tempo la nostra funzione è stata quelle di “sputacchiera” nel caso
di P. Durante gli sfoghi abbiamo avuto la possibilità di notare le contraddizioni in
quanto affermava. Di comprendere che tipo di risposte il paziente voleva e che cosa
poteva accettare (per sapere quindi che cosa offrire). Riconoscendo al paziente di essere
buon terapeuta di se stesso, abbiamo potuto notare che soluzioni ha trovato per sé e in
che cosa lo potevamo aiutare.
Nella relazione transferale o all’interno di relazioni significative si riescono infatti a
cogliere gli aspetti privati della psicosi; possono essere inoltre valutate le possibilità
evolutive o la necessità di una stabilizzazione psicologica definibile come
mantenimento.
In P. è evidente un problema che costituisce una grossa resistenza al cambiamento: la
irrisarcibilità. Questo problema è spesso una causa di rifiuto della cura e determina a sua
volta un bisogno specifico che è quello di vendicarsi.
Il paziente psicotico non tollera, abbiamo visto, nessuna forma di dipendenza che
assume per lui il senso di passività assoluta e di annichilimento; ne consegue una
ribellione e il bisogno di eliminare l’oggetto di bisogno e la necessità di essere
riconosciuto nel diritto alla vendicatività e al risarcimento per il danno subito.
P. vive ancora oggi nell’appartamento protetto dove conduce un’esistenza “normale”.
Uscite, spese, socialità, autonomia! Ha rinunciato all’idea di poter tornare a lavorare;
come lavoro privato mantiene il delirio; i temi sono ipocondriaci. In certi periodi cupi la
persecutorietà si riaffaccia minacciosa. Parla con l’Infermiera - intermediario ogni
giorno, a lei confida i suoi pensieri. Approfitta a volte del servizio in maniera
opportunistica: segno assopito della rivendicatività. Qualche volta ci viene a trovare alla
C.R.A. con un cagnolino al quale riserva cure amorevoli, si occupa della madre, oramai
in casa di riposo; ha riallacciato le relazioni con i numerosi fratelli.
Manteniamo così la fantasia del paziente di essere Giano bifronte: di essere fuso e al
contempo indipendente dall’oggetto simbiotico.
Ci sostengono nella descrizione di questo caso i risultati di uno studio svolto da Gislon e
altri su attaccamento e simbiosi: “Lo stato intermedio della simbiosi focale può essere
descritto come quello nel quale l’individuo è in grado di vivere due dimensioni, una
legata alla fusionalità (per cui la minaccia ai residui bisogni simbiotici suscita angoscia
ed annientamento), l’altra legata all’attaccamento, che ci permette una certa evoluzione
in alcune aree con i problemi tipici del processo di separazione, ambivalente e
conflittuale. Nell’attaccamento vengono riconosciuti i bisogni che emancipano ed è in
atto il processo che porta al senso di possedere i propri bisogni. Nella simbiosi fusionale
17
il paziente non può riconoscere i bisogni che lo portano lontano dal partner, ma solo
bisogni che non comportano emancipazione.
Il problema è insomma quello del modo in cui viene trattato il proprio bisogno
autentico: fondamentalmente negato oppure fondamentalmente riconosciuto”.
L’ampliamento delle relazioni del paziente, dello spazio vitale, a scapito del tempo
morto, complessivamente il miglior adattamento che ne può derivare, portano il
paziente ad acquisire maggiore fiducia e ad utilizzare i servizi in maniera più adeguata.
In questo senso parliamo di “capitalizzazione” del giusto aiuto. Affinché la
soddisfazione dei bisogni non rimanga ripetizione di una dipendenza temuta e umiliante
e ancora una volta di limite e di non appartenenza ad un mondo reale, è necessario che
la funzione vitalizzante e l’esperienza trasformativi avvengano su scenari diversi.
Di volta in volta messi in comunicazione dalla nostra intermediazione. I nostri interventi
clinici devono poter contare quindi su un’ulteriore integrazione, che tenga conto degli
aspetti sociali e che, attraverso il coinvolgimento e la collaborazione di operatori diversi
dai sanitari, consenta interventi allargati.
Così, attraverso l’integrazione delle diverse funzioni, anche in presenza di deficit molto
gravi, i pazienti possono raggiungere inaspettate posizioni di idoneità
all’autoconservazione.
18