la canonica di San Pellegrino II

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la canonica di San Pellegrino II
Ricerche Storiche nn. 10-11, luglio 1970, p. 119
UN NODO DI RESISTENZA PARTIGIANA: LA
CANONICA DI S. PELLEGRINO
II
In un precedente articolo ho narrato come tutta l'opera che si svolgeva per il movimento di
Liberazione nella Canonica di San Pellegrino restò gravemente compromessa allorché si scoprì che
in canonica erano stati ospitati tre partigiani feriti nel combattimento di Cerrè Sologno.
Da allora, per evidenti ragioni di prudenza, presi la decisione di restare in parrocchia, per non
aggravare i sospetti con una fuga, e di deviare verso altre case, meno sospette, l'andirivieni di
staffette, di informazioni e di organizzazione del nostro movimento.
Ma era presto detto! In realtà le cose andarono avanti con un rischio sempre maggiore.
Ero riuscito intanto a persuadere l'ing. Domenico Piani a prendere il mio posto in seno al
Comitato di Liberazione Provinciale. Per l'onore e la memoria di questo eroico combattente devo
precisare che quest'uomo, che prima aveva esitato non per paura della sua vita, ma nella previsione
di esporre a gravissimi pericoli la moglie e tre figlioletti, quando passò decisamente all'azione, non
si risparmiò e tutto osò per la causa con immensi rischi. La sua immatura morte, all'indomani della
liberazione privò i cattolici reggiani di una mente politica acuta e aperta, che con la sua forte
personalità avrebbe lasciato un'orma profonda nel movimento della Democrazia Cristiana.
L'aver allontanato dalla Canonica la sede delle riunioni del UPI non era tutto. Era l'altro,
incessante movimento che non si riusciva a deviare e che poteva tutto compromettere da un
momento all'altro, data la sorveglianza .continua che si avvertiva intorno alla Chiesa. Eppure quante
persone sono passate di qui e che ora posso ricordare solo vagamente: gli organizzatori della lotta
nella bassa reggiana, specialmente i due bravi giovani di Gualtieri, dei quali ora non ricordo più il
nome; le staffette, che prima di salire in montagna facevano capo alla canonica, gli ufficiali e
soldati fuggiaschi dall'esercito repubblichino che venivano indirizzati ai comandi della montagna....
Il Comando Alta Italia mandava regolarmente ogni due settimane un suo rappresentante per
avere notizie sulla organizzazione e per dare istruzioni. Ricordo un ebreo coraggioso che mi fu
presentato con il nome di Rossini, che svolse un'attività eccezionale. Venne poi scoperto a Parma
nella sua vera identità – si chiamava Jacchia – e fu fucilato, senza lasciarsi scappare di bocca una
sola parola compromettente.
Intanto era stato requisito il locale Sanatorio per essere adibito a Ospedale da campo tedesco.
Anche l'Asilo parrocchiale subì una brutale requisizione per installarvi un convalescenziario e
l'alloggio dei due cappellani militari tedeschi; il cattolico e il protestante. Questo comportava una
certa frequenza di soldati tedeschi in canonica e ciò dava una relativa sicurezza, poiché i tedeschi
dimostravano di non dubitare di nulla.
Passarono così i mesi di maggio e di giugno, fra ansie, speranze, paure, mentre si ingrossava
sempre più il numero dei giovani che raggiungevano le formazioni partigiane in montagna e
giungevano continuamente notizie di audaci e fortunati colpi di mano contro le truppe nazifasciste.
Ma alla fine di luglio venne scatenata la grande offensiva tedesca contro lo schieramento
partigiano, e si ebbe lo sbandamento generale. Furono giorni di grande amarezza per le notizie che
giungevano dalla montagna; paesi incendiati, vittime ovunque; arresti e deportazioni di civili e
persino i parroci.
Ad aggravare la situazione mi giunse dagli amici del CLN. la notizia che il mio nome figurava in
una lista di proscrizione di 20 persone incolpate di organizzare il movimento di Liberazione e che
dovevano essere eliminate senza arresti e senza processi. In questa lista figuravano gli avvocati
Cucchi, Manenti, Pellizzi, Corradi, don Simonelli e altri che erano completamente estranei alla
lotta; questo dimostra quanto fossero fasulle le informazioni che l'UPI dava al Capo della Provincia,
il famigerato Enzo Savorgnan. Tutti cercarono di mettersi in salvo, eccetto il povero avv. Balsamo
che pensò di restarsene tranquillo a casa sua, ad Albinea, pronto a discolparsi di ogni eventuale
accusa. Fu prelevato una sera e trovato morto due giorni dopo in un canale della Bonifica, a
Mancasale.
Le prospettive nei miei riguardi non potevano essere rosee! E difatti subii un attentato la sera del
13 luglio a Nebbiara, sulla statale 63, al quale scampai per un vero miracolo, con l'aiuto della
popolazione della zona, che sviò le ricerche della Brigata Nera che mi inseguiva sparando
all'impazzata, e mi dimostrò una commovente solidarietà nel tenermi nascosto. Passai così tutta
l'estate, dormendo fuori casa, stando sempre in guardia, ma senza abbandonare i contatti, in una vita
resa ormai impossibile: fino all'epilogo del 1° novembre. In quel pomeriggio nebbioso stavo
parlando con Luigi Ferrari Pellegrini, Capo di
S.M. del Comando Piazza, allorché irruppero in canonica due giovani della Brigata Nera,
dicendomi: «Noi dobbiamo portarla via!» Alle mie proteste e alla pretesa di un regolare ordine di
arresto, come era stato disposto qualche mese prima dallo stesso Capo della Provincia, richiesero il
telefono per far giungere in aiuto un automezzo. Approfittai di un momento di disattenzione per
sparire fra i campi. E allora, perquisizione in canonica, minacce ai genitori, vigilanza armata intorno
alla Chiesa.
Decisi di rifugiarmi momentaneamente presso la Canonica di Rivalta; ma ivi fui notato da un
soldato tedesco che si trovava lì per caso.
Poco dopo arriva l'automobile della Brigata Nera. Per fortuna stavo all'erta. Altra rocambolesca
fuga, saltando giù dalla finestra del primo piano dalla parte opposta della Canonica. Ma ecco un
altro colpo di scena. Il giorno dopo viene arrestato il parroco di Rivalta dal Comandante tedesco
della zona, che fa sapere intorno, e anche al vescovo, di essere deciso a fucilarlo entro le 24 ore, se
io non mi presentavo. Appresi la notizia alla Canonica di Montecavolo, dove mi ero rifugiato, e con
le disposizioni di animo che ciascuno può immaginare, dovetti prendere tutto il mio coraggio e
presentarmi al Comando tedesco, per salvare un confratello e un amico. Al mio apparire davanti al
Capitano, grida, minacce, perquisizione e ammanettamento, quindi reclusione in una prigione al
Mulino di Albinea.
Nell'interrogatorio che mi fece un sergente tedesco, compresi che la mia situazione era disperata.
L'UPI. aveva fornito un dossier minuzioso su tutta la mia presunta attività partigiana. Mi vennero in
aiuto in quella circostanza due elementi preziosi: la conoscenza della lingua tedesca, per cui potei
eliminare un farabutto di interprete altoatesino che cercava di distorcere ogni mia risposta, e la
convinzione che il Comando militare che mi giudicava era composto da ufficiali austriaci, di scarsa
fede nazista, come mi risultò poi chiaramente il giorno dopo. Passai una notte insonne sulla paglia
di quella fetida cantina adibita a prigione, in attesa di una sentenza che non poteva essere che
severissima. Nella serata del giorno seguente un capitano austriaco mi convocò assieme all'arci
prete di Rivalta don Radighieri, che era stato recluso in un'altra stanza. Costui, dopo aver premesso
che la mia colpevolezza era evidente, mi comunicò che, per interessamento del vescovo, per non
infierire contro i preti e per non creare nella popolazione indignazione e sollevazione, l'Alto
Comando mi lasciava in libertà provvisoria. Ero libero di ritornare in parrocchia per svolgervi le
funzioni religiose l'indomani che era domenica, ma dovevo restare a San Pellegrino a disposizione
dello stesso Comando.
Riacquistata inopinatamente la libertà pensai che era veramente necessario mettersi in salvo e,
raggiunte le canoniche ospitali di Pecorile e di Canossa, mi diedi da fare attraverso l'opera delle
staffette, per disporre un dirottamento di tutta l'attività di collegamenti e di informazioni che ancora
facevano capo alla Canonica, verso le case degli amici, che ancora riuscivano a lavorare senza
essere scoperti.
Ma anche questa speranza fu presto delusa. Il 28 novembre venivano arrestati insieme ad Angelo
Zanti, il capitano Adriano Oliva, Luigi Ferrari, il conte Calvi, Gino Prandi, insomma tutti i migliori
dirigenti della lotta. Le conseguenze furono terribili, perché l'UPI. ebbe l'impressione che tutto il
movimento della Resistenza facesse capo alla mia canonica, che fu ancora una volta perquisita e
razziata. Furono arrestati tutti i membri della mia famiglia: mio padre, già gravemente sofferente di
cuore e che mori qualche mese dopo, mia madre che provava così per la seconda volta le patrie
galere, una sorella ventenne e un fratello quindicenne, rinchiuso anche lui al carcere dei Servi,
assieme ai miei due cooperatori, don Alberici e don Rabitti.
Il processo clamoroso dell'8 gennaio 1945 celebrato, per dare una dura lezione, contro i membri
del Comitato, mi pose definitivamente al bando.
Sapendomi al sicuro, gli amici di cui ho parlato, barbaramente seviziati, davanti alle gravissime
imputazioni, cercarono di scaricare sul sottoscritto ogni addebito che i documenti sequestrati
muovevano a loro carico. Nel verbale di imputazione letto in aula, compariva più di cento volte il
mio nome, come organizzatore, mandante e istigatore a delinquere, sicché il presidente del
Tribunale gridò ad un certo punto: «Ma dov'è questa bestia nera? ».
Strano a dirsi: mentre il tribunale pronunciò ben cinque condanne a morte, la mia condanna a
morte con il sequestro di tutti i beni, a quanto mi fu poi riferito, fu pronunciata soltanto un mese
dopo dal tribunale speciale di Brescia. Il motivo poteva essere duplice: o la speranza che io mi
ripresentassi in parrocchia per esservi arrestato, o la certezza di poter eseguire la sentenza a mio
carico senza l'interferenza dei comandi tedeschi, avevano permesso l'esecuzione della pena di morte
per l'eroico Angelo Zanti, ma non per gli altri quattro imputati, perché non erano risultati comunisti.
Ma non minori rischi mi serbava il mio peregrinare in montagna da una canonica all'altra.
Arrivato nella zona di Ramiseto, chiamato dai vari parroci a parlare del nuovo clima di libertà che
la lotta partigiana doveva instaurare, fui avvertito da un biglietto laconico del dott. Marconi di
lasciare immediatamente la zona perché piena di pericoli per me. Egli, stando al Comando Unico,
aveva subodorato gravi imputazioni a mio carico da parte di elementi locali della Polizia partigiana.
Non feci a tempo ad organizzare il passaggio dello Sparavalle, continuamente battuto da pattuglie
tedesche in transito, che la sera del 12febbraio fui prelevato dalla Canonica di Nigone da due
giovani del Corpo di Polizia partigiana. Costoro, invece di condurmi verso il valico, mi costrinsero
ad entrare in un castagneto fra la neve abbondante che era caduta. Le loro intenzioni erano evidenti.
Vedendomi perduto, mi aggrappai al mio buon diritto, svelando chi ero, che cosa avevo fatto per il
CLN, come avessi tutta la mia famiglia in galera, e assicurando gravi sanzioni da parte del
Comando Provinciale qualora fossi stato assassinato. E mi andò bene anche quella volta!
Dopo aver confabulato a lungo tra di loro, tenendomi sempre sotto la minaccia delle armi, i due
ragazzi mi portarono in una casa, chiudendomi in una stanza e dopo una notte che non finiva più,
mi condussero a Gottano, al comando della 144a Brigata Garibaldi, per avere più chiare
disposizioni. Era la salvezza! Al Comando, assieme all'aiutante maggiore cap. William Manfredi,
Elio, di cui avevo favorito la fuga dall'esercito repubblichino, trovai l'avv. Casto Ferrarini, Candido,
il dott. Zanni, Mercurio, che mi difesero davanti al Commissario Marino e al Comandante Zorro e
riuscirono a li:berarmi, anzi a farmi rilasciare un salvacondotto per raggiungere Quara, sede del
Com. «Fiamme Verdi».
Ho riferito l'episodio per testimoniare le divergenze e i contrasti esistenti fra cattolici e
comunisti, che pure si trovavano allineati nella stessa lotta; contrasti nel modo di condurre la
guerriglia, nel concepire le libertà democratiche, nella organizzazione delle stesse forze della
Resistenza. Rischiava però di farne le spese chi forse più di tanti altri aveva lavorato per dissipare
contrasti ed evitare scontri!
A Quara non mi trovavo più isolato. I fratelli Dossetti, il prof. Marconi, don Pallai, Cesare
Campioli e tanti altri amici, mi resero dolci quei due ultimi mesi di guerra che volgeva fatalmente
all'epilogo. Almeno rischi non se ne correvano più, eccetto quello della memorabile battaglia di
CàMarastoni del 10 aprile. In quella circostanza avanzai incautamente oltre le postazioni dei
Garibaldini, nella speranza di recare soccorso alla staffetta Valentina Guidetti che era stata colpita
qualche ora prima e giaceva in una forra. Raggiunsi il luogo che mi era stato indicato, ma purtroppo
per la coraggiosa ragazza, riversa nel suo sangue, non c'era più niente da fare. Alzandomi per
ritornare nelle nostre linee fui scorto e preso di mira dalle truppe tedesche e per circa due ore
dovetti rimanere immobile, al riparo di un castagno fra il sibilo delle palle dei «tapum»! A liberarmi
da quella scomoda posizione venne il contrattacco del Battaglione Alleato e delle Fiamme Verdi,
che seguii con tanto entusiasmo ed altrettanta inesperienza, mentre la battaglia si faceva sempre più
feroce e l'avanzata sempre più insidiosa di groppo in groppo. (1)
Poi spuntò quel 23 aprile, quando all'alba giunse dalla centrale di Farneta la notizia che reparti
corazzati anglo-americani avevano attraversato il Secchia. E allora giù a balzelloni, e quasi sempre
a piedi, verso la città. A Viano, il 24 mattina, si tenne una riunione di alcuni membri del Comitato
in casa Grandi, mentre giungevano da Scandiano e ville limitrofe i rintocchi festosi delle campane
di tutte le Chiese annunciavano la liberazione.
E allora avanti fino a Due Maestà, dove erano arrivate le prime camionette americane,
contrastate nell'avanzata da un piccolo velo di soldati tedeschi annidati nelle campagne. Passai lo
stesso per la strada deserta, ma al Buco del Signore, dove la gente mi accolse in un delirio di gioia,
fui dissuaso dal tornare in parrocchia, poiché di là carri armati tedeschi sparavano contro l'artiglieria
alleata che da S. Maurizio bombardava le truppe tedesche in ritirata oltre Pieve Modolena. Soltanto
verso le quattro del pomeriggio del 24 aprile potei entrare nella canonica, che era appena stata
abbandonata dai tedeschi e ancora una volta razziata.
Sembra un sogno ricordare dopo tanti anni quel pomeriggio esaltante: l'entrata in città fra la
sparatoria dei franchi tiratori, incurante del pericolo, per andare alla tipografia del «Solco Fascista»
(che aveva sede nello scantinato del Palazzo dei Mutilati, già occupata dai partigiani) e far stampare
per conto del Comitato di Liberazione il primo manifesto di saluto alla città liberata!
Poi il ritorno a San Pellegrino, dove fino a sera continuò il crepitio delle armi automatiche in un
lungo duello fra partigiani e tedeschi.
E alle dieci di sera il pietoso compito di accogliere in chiesa le salme dei due ultimi caduti per la
liberazione di Reggio: Bruno Bonicelli Grappino e Enzo Lazzaretti Timmi. Ma ormai Reggio era
libera, e pur piangendo su quelle fiorenti giovinezze stroncate nell'ultimo combattimento, alla
vigilia del trionfo e sulla soglia. della pace, pensavo con orgoglio a tutta quella schiera di giovani
vite che l'Italia aveva offerto alla causa della libertà, riscattando il suo nome e il suo onore davanti
al mondo, dopo l'obbrobrio di venti anni di dittatura.
Don ANGELO COGCONCELLI
Note
(1) Vedere sui primi numeri de «LA PENNA» un mio commento alla battaglia a firma di
Cassiani.