Piz Palü - ardia.ch

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Piz Palü - ardia.ch
Resoconto di una delle piú lente salite della storia
Lacrime e record sul Piz Palü
Con osservazioni sulla psicologia delle guide alpine e sul comportamento dei loro clienti
D I FA B R I Z I O OT TAV I A N I
Personaggi:
l’autore
la sua ragazza
l’ufficiale
l’amico convalescente
una guida alpina
Premessa sulle guide alpine
Io ammiro moltissimo le guide alpine.
Intendo le guide-persone, non i libri.
Senza di loro non avrei mai osato salire
cime di cui serbo un ricordo bellissimo e superare passaggi che mi sembravano impossibili. Ho
imparato molto da loro,
non solo vari aspetti tecnici della montagna, ma
ancor di piú qualcosa della
loro particolare filosofia
riguardo alla vita. I loro silenzi, a volte imbarazzanti,
il loro umorismo, la capacità quasi divinatoria di prevedere con precisione
quello che sarebbe successo poco dopo,
hanno lasciato il segno nel mio essere
alpino. Voi sarete anche bravissimi alpinisti, non avrete mai avuto bisogno di
La nascita di un’idea
Correva l’agosto di qualche anno indietro
nel secolo scorso e non eravamo ancora
giunti in quella parte della nostra età dove
Nei rifugi di montagna la cena si consuma per tradizione insieme con la
guida designata, che in modo cortese, ma distratto, risponde alle domande
dei clienti; le richieste di questi ultimi sono sempre uguali fra loro: il tempo
dell’indomani, le difficoltà che si sarebbero incontrate e la necessità
di andare piano. Lei, la guida, risponde pacatamente, e pensa ad altro.
essere accompagnati da una di esse, eppure credetemi, avete mancato qualcosa. Proprio questa mia ammirazione mi
permette di usare in questo scritto un
po’ d’ironia nei loro confronti. E comincio subito, riportando la definizione che
ne dà uno scrittore, anzi un vagabondo
della montagna (1). Guide: normalmente si limitano al noioso portare e riportare, come i cani e i tram, assecondando
il gusto dei clienti. Di relativa utilità per
imparare la tecnica dell’andirivieni senza costrutto. Spesso però si tratta di
maestri camuffati.
LUPO D’ABRUZZO
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ognuno dovrebbe calar le vele e raccogliere le sartie (2). In realtà, piú che di vele,
allora si parlava di selle e stivali, perché le
uscite a cavallo erano la nostra pratica
sportiva principale, intervallate però da
qualche impresa alpinistica; infatti, l’importante era variare l’attività, cosí da non
annoiarsi, anche se i progetti in fin dei
conti erano sempre modesti, da sportivi
della domenica. In campo alpino l’annata
era iniziata con un quattromila facile, salito però con scarponi da sci e racchette da
neve, quando queste non erano ancora di
moda. La primavera era trascorsa in un’alternanza di stivali e scarponi, con ascensioni un po’ diverse dalle solite, come il
L A V E T TA D E L P I Z PA L Ü .
Monte Vettore, la cima maggiore dei Monti Sibillini negli Appennini, innevato e
spazzato da venti gelidi, ai piedi del quale
avevamo pure incontrato volpi e lupi. Pure
la prima parte dell’estate era volata via veloce, con qualche quota d’allenamento oltre i tremila metri, sia in Ticino sia in Engadina. E già che ci trovavamo nella regione grigionese, per non sprecare il fiato
conquistato, abbiamo deciso di compiere
la salita di quella montagna magnifica che
è il Piz Palü, o come si dice in italiano, il
Pizzo Palú. Anzi, i Pizzi Palú, perché in
realtà le vette sono tre: l’orientale (Ostgipfel), la cima centrale, la piú alta, che
misura 3906 metri, e quella occidentale,
chiamata Piz Spinas, che piú che una vetta
è una cresta rocciosa. Approfittando della
presenza occasionale in valle Engadina di
un amico luganese, alto ufficiale dell’esercito e gran camminatore, abbiamo formato un gruppetto, di cui faceva parte anche la fidanzata di chi scrive. Ingaggiata
una guida del posto, abbiamo optato per
la traversata da ovest ad est, poiché io ero
già salito una volta per la via normale.
All’ultimo momento si è aggiunto un altro
amico, che in realtà esitava molto in questa sua decisione: era, infatti, reduce da
un problema di salute molto serio e non
era certo che ce l’avrebbe fatta, oltre a
non essere per nulla allenato.
si del cielo azzurro; partendo dalla sinistra ammiriamo Cambrena, Palü, Bellavista, Zupò, Argent, Bernina e Morteratsch,
per non citare che le cime maggiori. In
realtà, le medesime vette si scorgono pure dal basso, da piú lontano, direttamente
dalla strada del Passo del Bernina, dove la
loro improvvisa apparizione crea spesso
ingorghi a causa dei turisti che fermano i
veicoli ai lati della via per rimirarle. Cosí
da vicino però lo spettacolo è veramente
impressionante ed è l’aperitivo di quello
che gli alpinisti troveranno la mattina seguente.
Nei rifugi di montagna la cena si consuma
per tradizione insieme con la guida designata, che in modo cortese, ma distratto,
risponde alle domande dei clienti; le richieste di questi ultimi sono sempre
uguali fra loro: il tempo dell’indomani,
La sera nel rifugio
Mi accingo dunque a narrare quanto avvenuto durante quell’ascensione. Il nostro
gruppetto è salito la sera precedente con
la funivia alla Diavolezza, che come ben
sapete, piú che un rifugio, è un piccolo
centro alpino: stazione della teleferica,
grande ristorante self service, camerate
comuni e stanzette piú piccole, chiosco,
oltre ad altri edifici non aperti al pubblico.
Dalla terrazza del ristorante si gode un
panorama unico delle piú alte cime delle
Alpi Retiche, dove esse si tengono per
mano per formare davanti agli occhi dei
turisti un’arena, un immenso anfiteatro,
con una cornice frastagliata e una parte
centrale contorta e sofferta, composta di
picchi e crepacci e distese gelate e riflesS U L L A C R E S TA D E L P I Z S P I N A S.
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P. Minor
P. Calchagn
Forcola di Livigno
P. Mandra
Roseg
P. Lagalb
P. Boval
Mont Pers
La
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SBARRANO LA VIA.
go
Diavolezza
Bi
P. Morteratsch
an
co
le difficoltà che si sarebbero incontrate e
la necessità di andare piano. Lei, la guida,
risponde pacatamente, e pensa ad altro. E
i clienti insistono con le loro legittime, banali richieste. Bisognerebbe invece parlar
loro di vacanze al mare, farle ridere, oppure interessarle con argomenti concreti
e materiali, tipo la tariffa delle guide sulle
Montagne Rocciose o sulle Ande, oppure
P. d’Arlas
P. Bernina
Piz Palü
P. Campasc
Alpe Palü
P. Scerscen
P. Zupò
P. Roseg
ITALIA
P. Varuna
Sasso Rosso
… e già che ci trovavamo nella regione grigionese, per non sprecare il fiato conquistato,
abbiamo deciso di compiere la salita di quella montagna magnifica che è il Piz Palü, o come
si dice in italiano, il Pizzo Palú. Anzi, i Pizzi Palú, perché in realtà le vette sono tre: l’orientale
(Ostgipfel), la cima centrale, la piú alta, che misura 3906 metri, e quella occidentale,
chiamata Piz Spinas, che piú che una vetta è una cresta rocciosa.
il costo dei moschettoni nell’ultimo discount che loro non conoscono ancora
(dei moschettoni delle guide scriveremo
ancora piú avanti). È lo stesso sistema
Passo
del Bernina
che bisogna usare quando ci si trova in
difficoltà, magari in un paese straniero
oppure in un luogo che incute rispetto,
come un ospedale. Volete suscitare l’in-
teresse di chi vi deve
fornire un servizio,
tassista, hostess o
infermiera che sia?
Parlategli del salario
dei suoi colleghi in
Svizzera, delle indennità cui hanno diritto,
delle tariffe migliori
delle loro che avete potuto conoscere
altrove, e vedrete che improvvisamente
non sarete piú un numero per loro, una
noiosa pratica da sbrigare e otterrete
maggiore attenzione. Mentre seguivamo
questa regola e parlavamo con lei, la
guida aveva lo sguardo assente e solenne degli engadinesi che si divertono. È
stato allora che abbiamo incominciato
ad avere un paio di dubbi: era la prima
volta che ne vedevamo una presentarsi
con i bastoncini telescopici, quelli che
ora sono diffusissimi, ma allora erano
ancora guardati con un po’ di sospetto.
Infatti, gli alpinisti avevano sempre
spiegato che sul ghiacciaio si usa la piccozza, non certo i bastoni, che sono inutili, anzi pericolosi. Mah, ci siamo detti,
non è piú giovanissimo, la via non è difficile e quindi avrà optato per un po’ piú
di comodità. Certo che a guardar bene
sembra quasi che zoppichi un po’... Poco
piú tardi abbiamo però avuto un’altra
perplessità: non aveva reagito ad un
R I PA R A Z I O N I D I F O RT U N A S U L
G H I AC C I O A L L E C I N Q U E D E L M AT T I N O.
paio di nostre frasi, che al contrario
avrebbero dovuto farlo scattare. Ma ci
sentirà bene, questo signore, dal quale
domani dipenderà la nostra vita? Abbiamo cosí deciso di fare una prova, bisbigliando delle parole: “scusa, pensi che
domani pss pss…” Ebbene, saranno state le birre, il rumore di sottofondo, oppure la sua grande esperienza, fatto sta
che si è districato alla grande dal nostro
tranello e ancora oggi non sappiamo se il
nostro dubbio avesse qualche fondamento. Rassegnati, siamo andati quindi a
coricarci, sperando nella buona sorte.
A S I N I S T R A : I L P I Z PA L Ü C O N
I N P R I M O P I A N O D I AVO L E Z Z A .
La salita iniziale e la Fortezza
L’indomani il tempo era magnifico, il cielo
nero di quell’ora mattutina era tempestato di stelle e la luna era un Titanic che
affondava dentro le onde bianche dei
monti (3). Una volta sistemati l’abbigliamento e l’attrezzatura, abbiamo intrapreso il primo tratto dell’itinerario, in discesa sul ripido sentiero sassoso, giú per la
morena, per portarci sul ghiacciaio sottostante. Raggiunto il fondovalle, ci siamo
legati in cordata, una cordata lunga, troppo lunga, come avremmo capito ben
presto. Abbiamo quindi iniziato l’attraversamento, scandendo passi ritmati in quel
mare di freddo, pianeggiante e leggermente increspato, badando solo che il
sonno e la poca concentrazione non ci facessero incespicare. Trascorsi pochi momenti siamo stati arrestati dal primo piccolo inconveniente: è “saltato” un rampone ad uno di noi, perché probabilmente
era mal regolato. Alla luce delle lampade
frontali, con l’aiuto degli attrezzi del coltellino, la guida è riuscita a sistemare il
guaio e abbiamo potuto proseguire, dopo
una sosta nonostante tutto abbastanza
breve. Compiuto il superamento del
ghiacciaio, è iniziata l’ascesa vera e propria, dapprima su nevai obliqui, fra roccette affioranti, con le vette lontane che
cominciavano ad indorarsi per i primi raggi del sole, poi su un largo groppone nevoso che sale, assottigliandosi sempre di
piú, fino ai piedi delle rocce della famigerata (per degli alpinisti della domenica
come noi) Fortezza. Si tratta, infatti, di un
tratto di cresta rocciosa, che, come dice il
suo nome, sbarra la strada verso la zona
alta, dove si trova la forcella che divide il
Palü dal Bellavista. In condizioni ottimali i
passaggi sono sostanzialmente semplici,
di secondo grado, ma l’esposizione, l’ambiente d’alta montagna e soprattutto la
neve e il ghiaccio che a volte si depositano
sugli appigli e sugli appoggi richiedono
una certa prudenza. La ragazza non apprezzava molto, su quei passaggi delicati,
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gli aiuti non richiesti dell’amico dietro di
lei, che con una mano le sollevava lo zaino, alleggerendola, ma anche sbilanciandola. Parole di stizza e prime lacrime,
dettate piú dalla paura che dall’affronto,
hanno cominciato a scorrere tra i partecipanti. Superato però senza ulteriori
difficoltà quel passaggio, ci siamo fermati per uno spuntino provvidenziale, visto
che il tempo era trascorso inesorabile e
si cominciava a capire perché una cordata di due è piú veloce di una formata da
cinque persone. L’ascensione è quindi
continuata sul pendio nevoso fino a raggiungere la sella, alla sinistra della quale
inizia la cresta della cima occidentale,
ossia il Piz Spinas.
Questo tratto, pur non essendo particolarmente arduo, presenta qualche passaggio roccioso, reso a volte un po’ scivoloso dalla presenza della neve. Sul filo la
cresta è abbastanza sottile, ma offre sempre buone possibilità di procedere. Una
lunga cordata che si snoda su una cresta
fatta di massi, gendarmi e spaccature non
permette sempre al primo di osservare
quel che succede in coda: fatto sta che ad
un bel momento, in occasione di un riavvicinamento del gruppo, il penultimo della
fila si è presentato agli altri con un moschettone in mano, che pendeva libero
dalla corda. La guida è impallidita di botto,
pensando di aver perso per strada uno dei
clienti. Ma per fortuna si trattava solo di
un’imprudenza dell’ultimo, che si era slegato per una sua necessità. Vi lascio immaginare i commenti del rude montanaro
che ci conduceva.
Superato anche questo sbandamento, la
salita è continuata, non senza altri inconvenienti: fermo su una cengia stretta ed
esposta, abbarbicato alla parete con una
mano, cercando di rimettere i ramponi
con l’altra per il successivo tratto ghiacciato, al sottoscritto è sfuggita la piccozza,
caduta rimbalzando sulle rocce sottostanV I V E R E L A M O N TA G N A
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IL CLIENTE BEVE, LA GUIDA
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ti; fortunatamente essa si è fermata poco
sotto di noi ed è toccato ancora una volta
alla santa guida calarsi per il recupero e la
riconsegna, effettuata con uno sguardo
che sembrava volerci rimproverare i nostri pensieri della sera precedente e le
perplessità sulla sua efficienza. Eravamo
ripartiti da pochi momenti, quando è avvenuto l’irreparabile, quello che nessuno in
montagna vorrebbe sentir raccontare, il
fatto che piú di ogni altro colpisce le guide; le quali sopportano fame, sete, freddo, al limite anche i clienti, ma non quello:
ci siamo lasciati scappare di mano un moschettone! Non uno qualsiasi, no, un moschettone suo, della guida. I nostri sguardi accompagnavano il tintinnio del metallo
sui sassi, mentre il maledetto aggeggio si
allontanava sempre di piú. Voi non avete
idea di cosa significhi per una guida perdere un moschettone, magari vecchio, pesante, smunto e consunto. Fanno di tutto
per non doverne lasciare uno in parete,
nemmeno per una calata indispensabile,
figuratevi se un cliente glielo perde. Il
motivo di questa reazione in realtà non è
una particolare avarizia per una scomparsa in fin dei conti modesta, ma un insieme
di fatti che si concatenano: il grande attaccamento, quasi feticista, alle loro cose,
che deriva dall’origine montanara, abituata a pochi lussi e lavoro duro; poi la scocciatura di doversene procurare un altro;
ma soprattutto il fatto che le guide non
portano pesi inutili, contano bene il mate50
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riale, e che quindi una mancanza di un
moschettone si sarebbe fatta sentire
piú tardi. E a proposito di tardi, lo era
veramente: erano trascorse molte ore e
la cima era ancora un’idea confusa e
lontana nelle teste dei protagonisti.
Nella mia mente è apparsa una scena famosa e terribile del vecchissimo film
“La tragedia di Pizzo Palú” (4), che narra la storia di un alpinista che su quella
montagna aveva perso la compagna e
che …. Brrrr, basta visioni!
L’arrivo in vetta
Ripartiti con la coda fra le gambe, eccoci
dunque arrivare sulla cima ovest, il Piz
Spinas, e quindi scendere rapidamente
alla bocchetta che precede la calotta bianca della vetta principale. L’ultimo tratto ripido è stato durissimo per l’amico convalescente, reduce com’era da un periodo
terribile della sua vita e ormai senza fiato.
Ma risaliti lentamente gli ultimi metri che
ci separavano dal pianoro sommitale, infine ce l’abbiamo fatta, abbiamo raggiunto
la nostra meta, dopo la bellezza di otto
ore di salita, quando generalmente una
cordata di poche persone ne impiega poco piú della metà. Ma non importava, l’importante era esserci. L’emozione e la fatica giocano a volte strani tiri: c’è chi giunto
in vetta si butta a riposare, chi non ha fame né sete, chi è agitato e iperattivo. Noi
piangevamo. In quella situazione ognuno
piangeva per conto suo e per motivi diversi. Piangeva l’amico, che solo pochi mesi
prima non vedeva un futuro nella sua vita,
ed ora era lí, a quasi 4000 metri, con degli
amici, su quella vetta che era stata l’inizio,
alcuni anni prima, di una discreta carriera
alpinistica. Piangeva la ragazza, vinta dalla
fatica e dall’emozione, e avrebbe pianto
ancora piú tardi, per la paura, durante il
ritorno. Piangeva il sottoscritto, per il fumo negli occhi di una sigaretta accesa
sciaguratamente lí accanto. Piangeva in
senso figurato la guida, guardava l’orologio e rinnegava il momento in cui aveva
accettato l’ingaggio da parte di un gruppo
cosí sconclusionato e lento. L’unico a
non piangere era l’ufficiale, che anzi si
divertiva a quella scena, fumandosi la sospirata sigaretta e causando il pianto del
sottoscritto.
Le abitudini delle guide
Il nostro condottiero sgranocchiava con
consumata lentezza il suo pezzo di carne
secca. E qui ci vuole un’altra digressione,
P R A N Z O S U L L A V E T TA D E L P I Z PA L Ü .
Lacrime e record sul Piz Palü
S A L E N D O V E R S O F O RT E Z Z A .
sulle abitudini alimentari delle guide. La
carne secca era veramente secca, non era
una morbida bresaola; era uno di quei resti del pezzo intero che solo i montanari
sanno dove acquistare a poco prezzo, direttamente dal produttore, ben lontana
dai bocconcini che i negozianti engadinesi
spacciano a prezzi proibitivi a noi gonzi luganesi e milanesi, che usiamo trascorrere
le ferie a Celerina. D’altra parte il comportamento della nostra guida si accordava perfettamente con il proverbio siciliano che ho imparato quest’anno in vacanza,
cavaddu spignitusu mori maghiru (5). Dicevo in entrata della filosofia delle guide,
ma anche la loro fisiologia non scherza.
Mistero assoluto: sembra che in montagna non bevano mai; quando noi ci siamo
già scolati tutti i nostri enormi bottiglioni,
quando siamo ormai a secco, con la gola
che sputa spago, loro, con un sorriso
beffardo, ci offrono un sorso dalla loro
minuscola borraccia, non ancora vuota.
In verità il trucco ci deve essere, probabilmente si tratta del noto “metodo del
cammello”: prima della partenza, già dalla sera prima, inzuppano ogni cellula del
loro corpo di liquidi vari, secondo la singola predisposizione alcolica, ma taluni
anche di sola acqua. In alto sorseggiano
con parsimonia un po’ di tè e sulla via
del ritorno soffrono la sete (anche se
non lo ammettono), pregustando però
già la birra fresca del rifugio. Anche per
il cibo sono diversi dai clienti. Mangiano
di tutto, apprezzano la cucina, persino
quella delle capanne nordalpine, sbocconcellano saggiamente durante il pasto, non si appesantiscono, e cosí non
hanno mai fame, né caldo, né freddo,
quando noi invece continuiamo a mangiucchiare cioccolato e ad indossare e
togliere giacche e cuffie. Però loro si
mettono la crema. Lentamente e meticolosamente si spalmano pomate antisole sulla pelle rugosa e ormai già bruciata: si sono accorte anche loro che con
il sole di questi tempi alla lunga anche la
loro dura scorza ne risentirebbe. Anche
il nostro accompagnatore si ungeva e
nonostante la proverbiale calma dei professionisti di montagna, quasi sovrannaturale, cominciava a preoccuparsi seria-
mente per il ritardo. Perché dovete sapere – e questa è l’ultima mia considerazione sulle guide – che non è vero che
esse fanno alzare i clienti a ore impossibili dell’alba perché in montagna si parte
presto per ragioni di sicurezza; no, il vero motivo è che sono loro che devono
partire presto, per poter essere di ritorno a mezzogiorno o poco dopo, ed aver
cosí il tempo sufficiente per raggiungere la base di partenza della loro prossima gita, solitamente un altro rifugio.
Il ritorno
Ma torniamo alla nostra impresa. Intorno
a noi volteggiavano perplessi i gracchi alpini, la cui attività principale è, come
scrive il già citato Morelli, di dar fastidio
alle aquile, che però li disprezzano e per
evitarli si spingono ancora piú in alto. Ecco la ragione per cui in montagna si vedono piú corvi che aquile (6). Le lacrime
dei partecipanti avevano iniziato ad intaccare pericolosamente la neve della vetta
piú di quanto non facesse il buco dell’ozono, quando la guida ha ripreso in mano
la situazione e ha dato l’ordine di ripartire. Ma non faceva i conti con l’insicurezza della ragazza, impuntatasi per il terrore nel punto piú critico della traversata,
ossia sul sottilissimo filo della cresta di
neve che collega la vetta principale con
l’orientale. In effetti, il passaggio è critico, perché è una sottilissima lama di neve dura, sia a destra che a sinistra il pendio precipita ripido e lo spazio per camminare è poco piú largo degli scarponi.
Aggrappata letteralmente allo zaino della
guida, ad occhi chiusi, è infine riuscita a
superare il punto avverso e a permetterci di continuare la discesa. Ah, le donne!
Certo che per una fidanzata si fa di tutto,
anche portarla in montagna e sopportare
i suoi timori. Con una moglie no, sarebbe
diverso. Non si ha piú la pazienza, logorata
lentamente da troppe discussioni; nep-
pure nelle coppie piú fortunate si è conservata tutta quella necessaria mitezza,
quasi apostolica, quasi fatata, che si possedeva ai tempi dei primi incontri. In verità bisogna considerare il fatto che in
molte coppie è la signora ad essere molto piú forte e coraggiosa di noi, e allora è
lei che perde la stima e ci tratta con sufficienza. Invece da neoinnamorati è diverso, si vede la realtà in modo differente. D’altronde anche Byron osservava argutamente “Se Laura fosse stata la moglie del Petrarca, pensate che lui avrebbe
scritto sonetti tutta la vita”…
Il tempo intanto passava e superate con
prudenza le cornici della cima orientale,
il gruppo è sceso verso la spalla del Palü
e quindi ha proseguito lemme lemme il
rientro, zigzagando fra seracchi enormi
e crepacci infidi, dove il pendio prende
la rincorsa per scivolare fino ai margini
del ghiacciaio. Dopo una gran galoppata
finale sulle pietraie verso Diavolezza,
siamo giunti giusto in tempo per l’ultima
teleferica, applicando alla lettera il famoso paradosso della funivia, già descritto in un precedente articolo di questa rivista (7): piú si è stanchi e piú lentamente si camminerebbe, piú invece bisogna affrettarsi per prendere l’ultima
corsa di una funivia, rischiando, in caso
di ritardo, di dover scendere fino a valle,
e cosí stancarsi ancor di piú. Una volta
ritornati a casa, ci siamo resi conto che
avevamo compiuto una vera impresa storica, avevamo stabilito il nuovo record di
durata della traversata del Palü: dodici
ore in tutto, otto per la salita e quattro
per la pausa e la discesa. Non male, vero? Questo successo ci riempie ancora
oggi d’orgoglio, ma siamo coscienti che
sicuramente un giorno verrà qualcuno,
ancor meno allenato di noi, qualche cordata ancora piú lunga e sgangherata, e
batterà il nostro primato. Cosí è la vita,
s
“sic transeat gloria mundi “(8).
Note
1) Paolo Morelli, Vademecum per perdersi in montagna, Nottetempo, 2003.
2) cfr. Dante, La Divina Commedia, Inferno, canto 28°, verso 79.
3) Per dirla come Giorgio Gatti, in “Fuga dall’Africa - in viaggio con i clandestini”,
articolo sul Corriere della Sera del 24.12.03
4) Titolo originale “die weisse Hölle vom Piz Palü ”, di Fanck e Pabst,
con Leni Riefenstahl, 1929
5) Come avrete intuito, “cavallo schizzinoso muore magro”.
6) Paolo Morelli, il già citato Vademecum per perdersi in montagna.
7) “Gli struzzi del Basodino”, Vivere la montagna, n° 18, gennaio 2005.
8) Traduzione per chi non è dotato per le lingue: “Cosí passa la gloria terrena”.
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