Quali limiti allo straordinario
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Quali limiti allo straordinario
26 LA GIURISPRUDENZA 30 nov.-6 dic. 2010 CORTE D’APPELLO DI BOLOGNA/ Senza esplicita autorizzazione non c’è diritto Quali limiti allo straordinario Nel pubblico impiego ci sono le stesse regole e paletti del lavoro privato C on la sentenza n. 205/2010, depositata il 7 maggio 2010, la Corte d’appello di Bologna - sezione lavoro, pone termine a un lungo contenzioso giuslavoristico nel corso del quale l’amministrazione sanitaria datrice di lavoro era stata ingiustamente accusata da una propria dipendente di aver adottato condotte vessatorie, esitate da ultimo nell’intimazione del recesso dal rapporto e nella conseguente espulsione della dipendente dall’ambiente di lavoro. Tra i fatti ritenuti sintomatici della denunziata condotta mobbizzante la dipendente aveva allegato anche una questione di mancata remunerazione dello straordinario. Con riferimento alla retribuibilità delle ore di lavoro prestate oltre il normale debito orario, nel lavoro alle dipendenze dei privati datori di lavoro l’elemento costitutivo del diritto alla remunerazione viene normalmente individuato nella mera circostanza di fatto dello svolgimento di prestazioni lavorative oltre il normale orario di lavoro. In altri termini, la prestazione di lavoro è condizione necessaria e sufficiente per far sorgere, in capo al dipendente, il correlativo diritto alla retribuzione. Sotto il profilo processuale, e con particolare riguardo alla dislocazione degli oneri probatori, grava perciò sul dipendente che intenda ottenere la remunerazione del maggior impegno orario svolto il solo onere di fornire prova del lavoro prestato (cfr. da ultimo Cassazione, sezione Lavoro, 16 febbraio 2009, n. 3714, in Giust. civ. mass. 2009, 2 246); onere che normalmente può essere assolto tramite l’escussione di testimoni ovvero la produzione di documentazione idonea (cd. cartellini marcatempo). In termini notevolmente diversi si pone, invece, la questione della remunerabilità dello straordinario nell’ambito del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche. Se è infatti vero che le pubbliche amministrazioni provvedono oggi, diversamente dal passato, a gestire i rapporti di lavoro con la capacità e i poteri dei privati datori di lavoro (cfr. articolo 5, comma 2, del Dlgs 165/2001) e non più nell’esercizio di potestà autoritative pubbliche, è anche vero però che i costi del loro funzionamento continuano a ricadere, non diversamente da prima, sul pubblico erario. Da qui la necessità di disposizioni normative volte a garantire la stessa pubblica amministrazione. Disposizioni di tale natura si rinvengono nella disciplina del lavoro straordinario nel comparto Sanità, avendo il contratto collettivo di categoria posto precise delimitazioni allo scopo di garantire l’impiego dell’istituto in parola al solo ricorrere di esigenze di servizio reali ed effettive. Ai sensi dell’articolo 34 del Ccnl 7 aprile 1999 quadriennio normativo 1998/2001 «Il lavoro straordinario non può essere utilizzato come fattore ordinario di programmazione del lavoro» (com- GLI STRALCI DELLA SENTENZA (...omissis...) Per quanto concerne le ulteriori domande proposte dall’appellante, il Collegio osserva che le ulteriori ore di lavoro straordinario rivendicate dalla S., oltre a quelle espressamente riconosciute dall’azienda, non possono essere remunerate, trattandosi di straordinario che non risulta essere stato preventivamente autorizzato dal dirigente responsabile, come espressamente previsto dall’art. 34 del Ccnl del comparto Sanità. (...omissis..) Sul punto, la Corte di Cassazione, con sentenza n. 20789/07, ha affermato il principio che, nell’ambito del rapporto di lavoro alle dipendenze di una azienda sanitaria locale, compete al lavoratore il diritto al compenso del lavoro straordinario espletato, per come disciplinato dal Ccnl di categoria, solo in presenza di preventiva autorizzazione del dirigente responsabile all’espletamento dello straordinario, restando escluso che possa qualificarsi quale autorizzazione in sanatoria la certificazione da parte della amministrazione circa lo straordinario già espletato dal dipendente. Nel caso di specie, la S. non ha prodotto alcuna autorizzazione allo svolgimento delle ore di lavoro straordinario, di conseguenza, lo straordinario rivendicato (..omissis...), non essendo stato autorizzato, non può essere retribuito dall’amministrazione. Quanto poi al mobbing, denunciato dalla S., la Corte si limita a osservare che le allegazioni e le deduzioni dedotte in causa dall’appellante per fondare la sua pretesa risarcitoria appaiono, all’evidenza, del tutto insufficienti per integrare gli estremi di una condotta vessatoria e intimidatoria ai danni della dipendente. Del resto, non si vede come possa neanche lontanamente desumersi l’esistenza del mobbing, nell’ambito di un rapporto di lavoro durato per 26 anni, da due richiami verbali e due multe, dalla diatriba relativa al mancato pagamento di lavoro straordinario non autorizzato, e da questioni minori, quali quelle relative al recupero orario, al cambiamento della sede dell’ufficio, al mancato invito a partecipare a 2 corsi di formazione e a quattro riunioni delle coordinatrici delle infermiere e alla vicenda relativa alla divisa da capo sala, trattandosi di episodi del tutto scollegati l’uno dall’altro, posti in essere in tempi diversi e lontani fra loro e comunque giustificati dal legittimo esercizio delle prerogative organizzative del datore di lavoro. Nella realtà, la questione centrale di contrasto tra le parti va individuata nel tentativo, pervicacemente perseguito nel tempo da parte della S., di esercitare le mansioni di ma 1). «Le prestazioni di lavoro straordinario hanno carattere eccezionale, devono rispondere a effettive esigenze di servizio e devono essere preventivamente autorizzate dal dirigente responsabile» (comma 2). La giurisprudenza amministrativa, in forza di tale risalente normativa pubblicistica a carattere formalmente regolamentare ma sostanzialmente contrattuale, era solita condizionare la remunerabilità del lavoro straordinario alla ricorrenza di una formale autorizzazione, cui era assegnata - si diceva la funzione di controllare, nel rispetto del principio di buon andamento della pubblica amministrazione, la sussistenza di effettive ragioni di interesse pubblico alla prestazione e delle risorse finanziarie a tal fine destinate. capo sala, per le quali, come poi acclarato dal giudice amministrativo, la lavoratrice non era in possesso delle prescritte abilitazioni. Dunque, buona parte degli attriti verificatisi nel corso degli anni deve essere collegata a questa rivendicazione ostinatamente portata avanti dalla lavoratrice che, essendosi alla fine rivelata infondata, non può poi, oggi, essere in qualche modo recuperata interpretando come vessatori e intimidatori i comportamenti dell’amministrazione che il preteso diritto della lavoratrice, legittimamente, tendevano a negare. Se dovesse essere accolta la tesi di fondo prospettata dall’appellante, in tutti i rapporti di lavoro, soprattutto in quelli durati molti anni, nei quali le relazioni personali con i superiori e i colleghi, le aspettative di avanzamenti e la partecipazione emotiva del dipendente alla sua vicenda professionale assumono un’importanza straordinaria, potrebbero essere ricercati e individuati elementi per costruire - a posteriori - una condotta mobbizzante, perché occasione di screzio, contrasti, delusioni e la sensazione che la prestazione offerta non viene adeguatamente apprezzata sono destinati a ripetersi nel tempo e a rinnovarsi di volta in volta. La giurisprudenza della Corte di Cassazione, seguita alla sentenza della Corte Costituzionale n. 353 del 12 dicembre 2003, pur con qualche incertezza e ambiguità dovuta all’inerzia del legislatore che, nonostante la presentazione di numerosi progetti di legge, non è ancora intervenuto a disciplinare la controversa materia, ha elaborato una nozione di mobbing, in funzione perlopiù descrittiva, comunque utile sul piano giuridico. In particolare, nella sentenza n. 3785 del 2009, il supremo Collegio ha definito il mobbing come una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell’ambiente di lavoro, che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili, che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l’emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio fisiopsichico e del complesso della sua personalità. Ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro sono pertanto rilevanti i seguenti elementi: a) la molteplicità dei comportamenti a carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati che siano stati posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio; b) l’evento lesivo della salute o della personalità del Mutata la natura delle fonti (i contratti collettivi e non più gli accordi recepiti in Dpr) nonché il giudice chiamato a conoscere delle controversie di pubblico impiego - che, in relazione ai rapporti di lavoro di cui all’articolo 1, comma 2, del Dlgs 165/2001, è oramai il giudice ordinario in funzione di giudice del lavoro e non più il giudice amministrativo la cui cognizione è ora circoscritta alle sole controversie in materia di procedure concorsuali finalizzate all’assunzione dei dipendenti (cfr. articolo 63, commi 1 e 4, del Dlgs 165/2001) - i principi elaborati in via pretoria dalla giurisprudenza amministrativa sono tuttavia rimasti pressoché immutati, come la pronuncia in esame ci dimostra. Chiamata a decidere, tra l’altro, sulla fondatezza della doman- dipendente; c) il nesso eziologico tra la condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico e il pregiudizio all’integrità psicofisica del lavoratore; d) la prova dell’elemento soggettivo, cioè dell’intento persecutorio. Applicando tali princìpi al caso in esame, come ampiamente evidenziato dalla difesa dell’azienda appellata, non si riescono proprio a cogliere, nella frammentaria ricostruzione congetturale prospettata dall’appellante, elementi per individuare sia comportamenti a carattere persecutorio, che sarebbero stati posti in essere in danno della lavoratrice, sia la prova dell’elemento soggettivo, cioè dell’intento persecutorio. (..omissis..) Né può essere prospettata una questione di mansioni, perché la censura contenuta nell’appello si appalesa così generica che non è possibile neppure individuare con certezza le mansioni di maggior pregio che sino a un certo punto la S. avrebbe svolto e che, poi, le sarebbero state tolte. Se, poi, il tutto si riduce alla pretesa (infondata) dell’appellante di ambire alla funzione di capo sala, si comprende, agevolmente, come su questo argomento la stessa S. non avesse interesse a una esposizione chiara ed esaustiva. Per altro era suo specifico onere dimostrare il carattere deteriore delle mansioni alle quali era stata destinata e, quindi, dettagliatamente, allegare e comprovare che le nuove mansioni avevano determinato, in relazione al particolare tipo di utilizzazione conseguito, l’impossibilità di una proficua utilizzazione della sua professionalità acquisita. (...omissis..) Non a caso, proprio la S., nel ricorso straordinario al Presidente della Repubblica del giugno 2004 (doc. 21 appellata), dopo avere compiutamente descritto il contenuto professionale delle nuove mansioni, aveva evidenziato che «le nuove funzioni-non possono non essere di rilevanza pari alle precedenti». In altri termini, la stessa appellante che in altro atto giudiziario smentisce la mera allegazione, contenuta nell’appello, circa la natura deteriore delle nuove funzioni cui era stata assegnata. Va, pertanto, rigettato l’appello proposto da S.M. avverso la sentenza del Tribunale di Bologna n. 265 del 15 settembre 2006. La particolare complessità della questione trattata giustifica l’integrale compensazione delle spese processuali del grado. PQM La Corte, ogni contraria istanza disattesa e respinta, definitivamente decidendo, rigetta l’appello proposto da S.M. avverso la sentenza del Tribunale di Bologna n. 265 del 15 settembre 2006; compensa le spese del presente grado di giudizio. ● da di pagamento dello straordinario proposta da una dipendente di azienda sanitaria, la Corte territoriale ha respinto l’appello sull’esatta considerazione che, in assenza di prova circa l’esistenza di una autorizzazione del dirigente responsabile, la pretesa di remunerazione dello straordinario non può essere accolta. La decisione appare conforme al principio di diritto già in precedenza enunciato dalla Corte di cassazione che, con sentenza n. 20789 del 4 ottobre 2007 (in Giust. civ. mass. 2007, 10), aveva altresì negato valore di autorizzazione in sanatoria alla mera certificazione delle ore di lavoro straordinario rilasciata dall’amministrazione. Alla luce di tale giurisprudenza, è possibile sostenere che pure nell’ambito del lavoro pubblico contrattualizzato non pare essere venuto meno il risalente principio della non retribuibilità del lavoro straordinario prestato in assenza di autorizzazione, con la conseguenza che la domanda contrattuale di condanna al pagamento dello straordinario si rivela infondata quante volte il dipendente non alleghi, dandone compiuta prova, l’avvenuta previa autorizzazione a opera del responsabile del servizio. Ciò considerato, non può escludersi però che la parte investa il giudice di una domanda subordinata di ingiustificato arricchimento ex articolo 2041 del codice civile, proprio per l’eventualità che venga rigettata, per difetto di autorizzazione, la domanda di remunerazione dello straordinario proposta in principalità. A tal riguardo, occorre rammentare che in punto di ammissibilità della domanda di indennizzo per arricchimento senza causa si erano andati affermando presso la giurisprudenza amministrativa una pluralità di orientamenti. Secondo un primo orientamento, le norme imperative che fissano le retribuzioni dei pubblici dipendenti accordano specifiche azioni in presenza dei relativi presupposti, sicché ove tali presupposti non ricorrano l’azione contrattuale è da ritenersi infondata e non già inesistente. Poiché, dunque, l’azione contrattuale di condanna al pagamento dello straordinario esiste e «il danneggiato può (nda: in astratto) esercitare un’altra azione», l’azione di arricchimento senza causa risulta, in base alla previsione dell’articolo 2042 del codice civile, non proponibile (cfr. Cons. St., sez. V, 16 febbraio 2009, n. 844, in Foro amm. Cds 2009, 2 453). Secondo una prima ricostruzione, al dipendente sarebbe accordata un’azione contrattuale a tutela di un diritto soggettivo che sorgerebbe, però, al perfezionamento di una fattispecie costitutiva complessa, costituita dalla duplice circostanza della prestazione di lavoro oltre il normale debito orario e dalla presenza, altresì, di un’autorizzazione del responsabile del servizio presso cui il dipendente opera. L’assenza dell’autorizzazione, impedendo il perfezionamento in concreto della fattispecie attributiva di un diritto astrattamente esistente e tutelabile, importerebbe l’infondatezza e non già l’inesistenza dell’azione di accertamento (del diritto di credito) e della conseguente azione di condanna (al pagamento del credito accertato). A tanto conseguirebbe l’inammissibilità dell’azione di ingiustificato arricchimento, stante l’esistenza, in teoria, di specifica azione contrattuale. A non diversa soluzione perviene, sotto il profilo pratico, quell’altro orientamento giurisprudenziale che nega l’ammissibilità dell’azione ex articolo 2041 del codice civile sulla diversa considerazione della mancanza in tali frangenti di un’effettiva perdita o diminuzione di valori patrimoniali (c.d. depauperamento) tale da fondare una actio de in rem verso contro l’amministrazione. Un ultimo orientamento ammetteva, invece, la remunerabilità del lavoro straordinario prestato dal dipendente pubblico, anche in difetto della necessaria autorizzazione, purché ne fosse derivata una effettiva utilità per l’amministrazione. Si richiedeva, infatti, che l’utilità fosse comunque riconosciuta dall’amministrazione in forme espresse o tacite. Il che, a ben vedere, equivaleva a pretendere un provvedimento con caratteristiche non dissimili da quelle dell’autorizzazione. Edoardo Nicola Fragale Avvocato © RIPRODUZIONE RISERVATA