La comunicazione multimediale che fa bene al cervello
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La comunicazione multimediale che fa bene al cervello
Antonio Domenico Bonaccorso La comunicazione multimediale che fa bene al cervello “L'uso di un qualunque medium, o estensione dell'uomo, altera gli schemi d'interdipendenza tra le persone come altera i rapporti tra i sensi. […] tutte le tecnologie sono estensioni del nostro sistema fisico e nervoso per aumentare il potere e la velocità. Se non ci fossero questi aumenti di potere e di velocità, non ci sarebbero, o verrebbero eliminate, le nuove estensioni di noi stessi. Un simile aumento, in qualunque gruppo comunque composto, è infatti una spaccatura che provoca un mutamento dell'organizzazione.” (Marshall McLuhan) 1.1 Internet ci tiene aggiornati, poi modifica il nostro cervello “I media elettrici ed elettronici hanno cancellato i confini tra gli Stati, hanno creato una pubblicità gridata ed emotiva, ma soprattutto hanno diffuso una tale massa diluviale di informazioni che gli individui 1 ne sono stati, per così dire, sommersi e, talora, sopraffatti”1. L'uomo del ventesimo secolo, per dirla con Neil Postman, fa ormai una quotidiana “indigestione di informazioni”2. Le nuove tecnologie hanno cambiato il nostro modo di vivere. Ma non solo. Internet sta modificando il modo in cui lavora il cervello umano. Il web è fautore di una rivoluzione in grado di modificare l’evoluzione umana. Sulla realtà dei fatti non si discute: resta da capire se simili modificazioni tecnologiche del nostro essere informati abbiano prossime conseguenze anche sulla qualità della nostra vita ed, eventualmente, di che tipo. Pensando alla metafora di Marshall Mcluhan, che vedeva i media come estensioni del nostro corpo e nervi, potremmo chiederci se tutto ciò porterà ad un potenziamento delle capacità cognitive, quindi ad un’estensione positiva oppure se gli stimoli eccessivi porteranno a difficoltà nell’apprendimento, una sorta di estensione degenerativa dei nostri sensi, o infine ad un vero e proprio mutamento cognitivo, se non addirittura genetico, tutto da indagare, caso in cui ci troveremmo di fronte ad un’estensione definibile come “generativa”. Alcuni studi hanno calcolato che i ragazzi americani tra 8 e 16 anni passano mediamente 6.5 ore al giorno davanti al PC, ma che il “tempo reale” di fruizione dei media diventi di 8.5 ore se si considerano 1 Massimo Baldini, Storia della Comunicazione, Newton & Compton, Roma, 2003 p. 100 Neil Postman, Divertirsi da morire. Il discorso pubblico nell'era dello spettacolo, traduzione di L. Diena, Marsilio, Venezia 2002 p. 71 2 2 le attività svolte in multitasking, cioè in parallelo (ad esempio navigare in internet, chattare e ascoltare musica contemporaneamente). Un brodo multimediale in cui le soprattutto le giovani generazioni sono immerse in tutta la loro quotidianità. 1.2 Usare il web, saltare da una pagina all’altra, lavorare in multitasking I sociologi si interrogano sulle conseguenze di questi cambiamenti, i neurofisiologi tentano di spiegarne i meccanismi intrinseci, i genitori si preoccupano della verticale caduta del dialogo casalingo (i loro figli sono perennemente collegati a qualcosa ed hanno sempre qualcosa d'altro di più urgente da fare) gli insegnanti segnalano evidenti variazioni nelle predisposizioni all' apprendimento che la “generazione Multitasking” mostra ogni giorno di più. Il lavoro mentale di tenere impegnato il cervello su più fronti, di prestare attenzione a più elementi, rischia di mutare le capacità cognitive e di attenzione. Il problema è che le attività svolte in “multitasking” vengano effettuate con qualità peggiore rispetto a quelle svolte in sequenza: proprio come nei processori veri, il “cambio di contesto” (svolto nel cervello nella cosidetta Area 10 di Brodmann) induce a una perdita di efficienza e a maggior possibilità di incorrere in errori. La regione del cervello che si occupa della memoria è l’ippocampo ed è stato 3 analizzato che è in grado di immagazzinare una maggiore quantità di informazioni quando il processo di apprendimento è sequenziale. In stato di multitasking invece, è stato individuato un netto calo di attività da parte dell’ippocampo. Lo striato è la parte del cervello che si occupa delle attività motorie legate alle fasi di apprendimento e comprensione (ad esempio come guidare la macchina o suonare uno strumento) e nelle situazioni di più operazioni in contemporanea è la regione maggiormente interessata. Figura 01 "Il cervello formato internet", articolo di A. Retico apparso su Repubblica del 11 ottobre 2008 La University of California di Los Angeles ha dimostrato che l’apprendimento sequenziale (ovvero quello in cui gli argomenti 4 vengono memorizzati uno alla volta) consente di cogliere e ricordare maggiori dettagli rispetto a chi è abituato ad effettuare più operazioni insieme. Secondo gli studi dello statunitense Jordan Grafman, neuroscienziato cognitivo al National Institute of Neurological Disorders and Stroke, col multitasking è assai difficile apprendere le cose in maniera approfondita e ci si accontenta di un livello superficiale di investigazione e conoscenza. David Meyer, direttore del Brain, Cognition and Action Laboratory all’University of Michigan, sottolinea il pericolo di una conoscenza poco approfondita, aggiungendo che i ragazzi cresciuti facendo multitasking probabilmente si troveranno a loro agio in un contesto che richieda di fare molte cose insieme ma ciò non significa che le loro performance sarebbero peggiori se procedessero facendo una cosa alla volta. 1.3 Nuvole tecnologiche e passeggiate in campagna, se i media ci allontanano dalla realtà Forse cerchiamo ancora di interpretare fenomeni nuovi utilizzando vecchi schemi. Le nuove tecnologie ci pongono di fronte a cambiamenti profondi che coinvolgono i comportamenti, i modi di comunicare e apprendere, i linguaggi dei giovani e probabilmente le loro stesse strutture cognitive. 5 Occorre allora smettere di chiedersi se questo “ambiente ibrido”, che mixa realtà e realtà digitale, fa bene o male ai ragazzi e invece cercare risposte e soluzioni nuove per affrontare gli scenari futuri. E' anche possibile che, semplicemente, il nostro cervello stia cambiando, adattandosi a situazioni fino a ieri sconosciute: è possibile che quello che gran parte degli educatori oggi denunciano come una perdita (la capacità di concentrazione su singoli argomenti, l'attitudine ad elaborare approfonditamente il proprio patrimonio informativo) sia semplicemente un inevitabile cambio di orizzonte e che ciò che eravamo fino a ieri, semplicemente non saremo più. Una interessante osservazione è il legame tra coloro che sono abituati al multitasking e la soddisfazione che questa suscita. I ragazzi che riescono senza problemi a studiare pensando al messaggio da mandare al cellulare dell’amico, oppure che fanno ricerche su internet mentre guardano la televisione, si ritengono meno stressati e più produttivi. Riuscire a svolgere più compiti, anche se senza grande attenzione per le singole attività, è percepito come un vantaggio e addirittura un benessere. In questa specie di tourbillon sembra davvero che, accanto a palpabili accelerazioni comunicative, qualcosa resti indietro: che le informazioni non ricevano più la necessaria individuale attenzione, che la quantità di dati diventi più importante della qualità degli stessi e che, 6 soprattutto, gli adolescenti multitasking allontanino l'abitudine non solo allo sviluppo di una coscienza critica individuale (per la formazione della quale è richiesto un tempo di elaborazione intellettuale che non sembra essere più disponibile) ma che si riduca anche la percezione della importanza del tempo trascorso al di fuori della propria nuvola tecnologica. Cose semplici come una partita a calcio, un gelato con gli amici, una passeggiata in campagna. Insomma, possiamo affermare che il dibattito è aperto e che le ricerche su questa tematica si sprecano, con risultati ancora non coerenti tra loro. Nel frattempo facciamoci una bella nuotata…nel nostro “brodo” di comunicazione e informazione multimediale. 1.4 Google, la palestra a portata di mouse per i nostri neuroni Se vogliamo farci un regalo non esitiamo a comprare un computer, sarà sufficiente una semplice connessione Internet per trarne. Per la prima volta, uno studio ha dimostrato che “navigare” su Internet, utilizzando un motore di ricerca, come il famoso Google, fa bene al cervello, ne migliora le funzioni cognitive come memoria e apprendimento, aiutandolo a mantenersi giovane ed elastico. Pubblicata sull’American Journal of Geriatric Psychiatry, la ricerca, diretta dal neurologo Gary SmalI, dell’Istituto di Neuroscienze e comportamento umano dell’università di Los Angeles, dimostra come l’uso di una tecnologia ormai così diffusa come Internet possa 7 fortemente contribuire a rallentare il fisiologico invecchiamento del cervello. Diverse indagini hanno dimostrato che, con l’età, il cervello, anche se sano, va incontro ad una serie di cambiamenti funzionali e strutturali (riduzione dell’attività neurale, deposito di placche proteiche tossiche, atrofia dei neuroni) che, anche in assenza di malattia, possono “rallentarlo”. D’altro canto, molte ricerche indicano una soluzione: il modo migliore di mantenere giovane il cervello è usarlo. 1.5 Sopravvivere alle alterazioni tecnologiche della mente moderna Attività semplici come l’enigmistica sembrano capaci di rallentare la corsa di processi neurodegenerativi, tant’è vero che è nato un vasto mercato di prodotti per allenare il cervello, come i tanti giochi stile “Brain Training”. I neurologi californiani hanno voluto studiare l’effetto di Internet, una tecnologia ormai pervasiva nelle nostre case e quindi facilmente accessibile a tutti. Il gruppo di SmalI, che è anche autore del libro uscito appena un anno fa in Usa “iBrain: Surviving the Technological Alteration of the Modern Mind” dedicato al tema di come le nuove tecnologie modifichino il nostro cervello, ha coinvolto un gruppo di adulti dai 55 ai 76 anni e monitorato la loro funzionalità neurale, sia mentre compivano attività tradizionali, come la lettura di un libro, sia durante l’uso di un motore di ricerca. Una parte del campione era totalmente “a digiuno” di Internet non avendolo mai usato, mentre gli altri erano adulti al passo coi tempi e avvezzi all’uso delle nuove 8 tecnologie informatiche. Per tutti gli altri fattori che invece potevano inficiare i risultati dell’indagine, dal livello di istruzione, allo stato socioeconomico, all’età, al sesso e alle abitudini di vita, tutto il campione era simile e quindi adeguatamente comparabile per gli scopi dello studio. Nella prima parte dell’indagine, utilizzando la risonanza magnetica funzionale, i neurologi hanno misurato l’attività neurale del gruppo alle prese con la lettura di un libro. Hanno osservato che sul cervello la lettura aveva effetti simili in tutti: induceva l’attivazione delle stesse aree neurali e con grado di intensità simile. Le differenze sono emerse quando ai volontari è stato chiesto di usare Internet per la ricerca di informazioni dettagliate su vari argomenti, dalle proprietà benefiche del cioccolato, all’organizzazione di un viaggio nelle Galapagos. Tra coloro che già utilizzavano la rete, si riscontrava, al momento di entrare nel Web, l’attivazione di aree neurali che invece restavano “spente” negli altri, soprattutto regioni connesse con funzioni cognitive importanti come la pianificazione, il ragionamento, la “memoria di lavoro”, ovvero la memoria a breve termine, quella che, per esempio, permette di tenere a mente per qualche istante, giusto il tempo di digitarlo, un numero cercato nell’elenco. Nei “novizi” di Google queste aree restavano spente nel corso della navigazione. I neurologi si sono allora domandati se il famoso motore di ricerca fosse un “esercizio” sufficiente per modificare le performance neurali di un 9 individuo ed hanno chiesto all’intero gruppo di cimentarsi, un’ora al giorno per cinque giorni, in ricerche online. Al termine della settimana di”Google-training”, il loro cervello è stato di nuovo sottoposto a una scansione con la risonanza magnetica. Al riesame è emerso che, in una sola settimana di “allenamento”, i “neofiti” di Internet hanno modificato la loro attività neurale, potenziando il funzionamento di aree connesse con il ragionamento e la memoria. “Lo studio ha dimostrato che le ricerche su Internet attivano circuiti neurali Figura 02 Gary Small Fonte: http://system2.ipressroom.com/portal/ut/ artwork/6/8/8/6/5/68865/gary-small240.jpg Gary Small è il neuroscienziato della Ucla in California, specializzato in funzioni cerebrali, che ha scoperto che la ricerca su internet e i messaggi di testo hanno reso il cervello più capace di filtrare informazioni e più veloce nel prendere decisioni. «Se siamo così sensibili a una sola ora di esposizione a Internet - si chiede Small nel suo libro - cosa succede quando ci passiamo ancora più tempo? Quali conseguenze ha tutto ciò, peraltro, sul cervello dei giovani che è ancora più malleabile e plastico di quello adulto su cui si è concentrato lo studio?». in varie parti del cervello, specialmente nel lobo frontale che ha un ruolo chiave in compiti come il ragionamento complesso e la capacità decisionale3”. Dopo il training di cinque giorni, restava, invece, immutata l’attività neurale di coloro che già erano in grado di usare Internet e i motori di ricerca, segno che l’effetto positivo del Web sul cervello si produce già dopo poche ore di allenamento e poi rimane stabile nel tempo. Di per sé positivi, questi risultati 3 Gary W. Small, Gigi Vorgan , “iBrain: Surviving the Technological Alteration of the Modern Mind”, Collins Living, 2008 10 danno comunque adito a tanti interrogativi che per ora restano irrisolti. Serviranno nuovi studi per risolvere questi quesiti, ma intanto è certo che il computer e Internet, insieme alle altre tecnologie con cui quotidianamente entriamo in contatto, hanno un impatto sul cervello enorme che può giovare al suo funzionamento e potenziarlo. Ma senza esagerare. 11