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RASSEGNA STAMPA
Lunedì 3 novembre 2014
L’ARCI SUI MEDIA
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L’ESPRESSO
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LEFT
IL SALVAGENTE
INTERNAZIONALE
L’ARCI SUI MEDIA
Da Gr Rai del 31/10/14
Mare Nostrun non deve chiudere.
Appello di associazioni e organizzazioni al governo. Da domani Triton controllerà le
frontiere (Intervista al vicepresidente nazionale Arci Filippo Miraglia a partire dal minuto 10’
e 53’’)
http://www.grr.rai.it/dl/grr/edizioni/ContentItem-2c7b0376-ed22-43be-83e8a14956ad9ed4.html
Da Radio Vaticana del 31/10/14
Alfano: chiude "Mare Nostrum". Le
associazioni, piangeremo morti
“Da domani parte una nuova operazione che si chiamerà Triton; in coincidenza si
conclude Mare Nostrum". L' annuncio è arrivato oggi pomeriggio, dal ministro dell’Interno
Angelino Alfano in conferenza stampa con il ministro della Difesa Roberta Pinotti.
L’obiettivo del nuovo dispositivo gestito dall’Unione Europea è pattugliare le frontiere
marine dell’Europa. Per quanto riguarda l’assistenza in mare delle imbarcazioni che
rischiano di affondare il ministro dell’Interno, Angelino Alfano ha assicurato che l’Italia
continuerà fare la sua parte, con una nave grande e tre più piccole.
In mattinata un gruppo di associazioni si erano appellate ancora una volta affinché Mare
Nostrum non si chiudesse. Le ragioni economiche, hanno denunciato le associazioni, sono
un pretesto, le motivazioni sono solo politiche. Il servizio di Francesca Sabatinelli:
Oltre 100mila persone soccorse, l’arresto di centinaia di scafisti, sono soltanto alcuni dei
dati forniti dal ministro Alfano che oggi ha dato l’annuncio ufficiale che l’era di Mare
Nostrum è chiusa. L’Italia, ha proseguito il ministro, continuerà a rispettare le leggi del
mare, ma il posto ora si cede a Triton, dell’agenzia Frontex. Con Triton l’Italia spenderà
zero, ha spiegato Alfano, mentre per Mare Nostrum nel 2014 sono stati spesi 114milioni di
euro, il che significa circa nove milioni al mese. Una cifra affrontabile, reagiscono tutte le
associazioni che da mesi ormai si battono perché Mare Nostrum non chiuda e che
attribuiscono la scelta italiana a ragioni di tipo non economico ma politico. L’Italia deve
continuare a soccorrere e salvare vite umane nel Mediterraneo, è l’appello di Acli, Arci,
Caritas, Centro Astalli, Cgil, Uil e molte altre sigle. Con l’aumento di conflitti e di crisi nel
mondo, l’Italia non può chiudere le sue frontiere a chi cerca protezione. Se Mare Nostrum
termina, è la denuncia, si ritornerà a piangere la morte di centinaia di innocenti, come
accaduto il 3 ottobre di un anno fa. Filippo Miraglia, vicepresidente dell’Arci:
"La nostra è una preoccupazione che deriva dal fatto che ci sembra ancora una volta che
la politica sia molto rinchiusa all’interno delle dinamiche di palazzo e che quindi, alla fine,
prevalga l’interesse di tenere assieme la maggioranza e quindi, per non perdere consenso
si fa la faccia cattiva rispetto a questa vicenda della solidarietà e dell’immigrazione. Noi
riteniamo che l’Italia non se la possa permettere, questa cosa, a prescindere dagli
interessi elettorali di qualche partito; e che se ad oggi sono stati più di 3 mila i morti
accertati nel Canale di Sicilia, nonostante Mare Nostrum, senza Mare Nostrum è del tutto
evidente che Renzi e il governo italiano si assumerebbero la responsabilità di migliaia di
morti".
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Le organizzazioni chiedono dunque al governo "di non cedere alle spinte demagogiche e
xenofobe”. Vera Lamonica, segretaria confederale della Cgil:
"La situazione dell’Europa è complessa. C’è un processo complessivo – adesso, è diverso
da Paese a Paese, naturalmente – di impoverimento, e in questo quadro è evidente che la
guerra tra poveri diventa uno degli elementi che caratterizzano il panorama sociale. Allora,
in questa condizione l’immigrazione è il tema che rischia di coagulare queste spinte. La
domanda è: come si risponde a questa cosa? Come stanno facendo molti Paesi europei,
come rischia di fare – per esempio – anche l’Italia? Si può dire che il problema non c’è,
cioè alziamo i muri, impediamo alla gente di arrivare così difendiamo i lavoratori europei.
Questa cosa, oltre che disumana, è inefficace, perché la gente non si ferma! Come si
contrastano queste spinte populistiche? Io penso che si contrastino dicendo la verità e
ritrovando anche un volto etico dell’Europa, che si è smarrito. Allora, salvare le vite è
prima di tutto un dovere morale, vorrei dire: pre-politico. Il governo ha due problemi: uno, è
il non assumersi questa responsabilità, di avere sulla coscienza dell’Italia altri morti;
dall’altra, deve dire cosa vuole fare in Europa, perché non si tratta di andare a fare la
questua in Europa: si tratta di impostare una vera politica. E questo non è marginale per
l'Europa. Perché il modo con il quale l'Europa si atteggia rispetto alla protezione
internazionale dovuta ai rifugiati, ci dice anche cosa sarà l'Europa".
Con Triton i morti si moltiplicheranno, perché sarà un’operazione che non svolgerà azioni
di soccorso ma di controllo delle frontiere e che opererà solo in prossimità delle acque
territoriali italiane. Berardino Guarino, direttore progetti del Centro Astalli:
"Chiudiamo gli occhi di fronte a quello che Papa Francesco definisce una vergogna
assoluta, cioè il traffico sulla pelle di queste persone: perché di questo stiamo parlando.
Dovremmo offrire dei canali umanitari; ancora non ci riusciamo. Almeno, manteniamo in
vita la possibilità di accompagnarli nell’ultima parte, quella più pericolosa, del loro viaggio.
Questo chiediamo. La cosa che più ci rattrista è come si arriva, a questa decisione. Come
diceva De Andrè, ci si arriva più per contrarietà che per consapevolezza, cioè all’interno
del governo è chiaro che ci sono posizioni diverse. Alla fine, sarebbe veramente triste se
per motivi ideologici ed elettorali prevalesse quella della chiusura. Noi ne prenderemmo
atto con tristezza".
Link alla pagina web e al servizio
http://it.radiovaticana.va/news/2014/10/31/si_chiude_mare_nostrum_le_associazioni_pian
geremo_morti/1109889
Da Radio Articolo 1 del 31/10/14
Mare Nostrum non deve finire: l'appello delle
associazioni
Con F. Miraglia, Arci; V. Lamonica, Cgil; O. Forti, Caritas
ElleEsse 31/10/2014 - ( 10,96 MB)
- See more at: http://www.radioarticolo1.it/jackets/audio.cfm/2014/10/31/22133/marenostrum-non-deve-finire-lappello-delle-associazioni?au=22133#sthash.VOareoH5.dpuf
Da Radio France International del 31/10/14
Intervista a Filippo Miraglia, Arci
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Da Tv 2000 del 31/10/14
Mare nostrum non deve finire
Intervista a Filippo Miraglia, Arci, e Vera Lamonica, Cgil
Da Repubblica.it del 31/10/14
Mare Nostrum: "Non lo fate morire
aumenteranno solo i morti in mare"
L'appello "disperato" di 30 associazioni (laiche e cattoliche) per l'avvio
di un programma europeo di reinsediamento delle persone che arrivano
dalle zone di crisi e di guerra.
di CINZIA GUBBINI
ROMA - "Mare Nostrum non deve finire". Lo hanno chiesto, con un appello i
rappresentanti di quasi 30 associazioni italiane, a cui hanno aderito anche alcune
personalità come Andrea Camillari, Carlo Feltrinelli, Ascanio Celestini e Andrea Diroma.
Un appello che gli stessi firmatari definiscono "disperato", perché il dado sembra ormai
tratto: Mare Nostrum chiude, l'Italia - e in particolare il ministro dell'Iterno Angelino Alfano
- non ha intenzione di proseguire, anche se non ci sono ancora decisioni formali da parte
del Consiglio dei ministri. "Se l'operazione della marina italiana finirà, come ormai ci
sembra deciso, l'unico risultato sarà che aumenteranno i morti in mare", ha detto Filippo
Miraglia, responsabile Immigrazione dell'Arci.
I risultati dell'operazione. La polemica su Mare Nostrum dura ormai da qualche mese. La
missione è partita dopo lil naufragio del 3 ottobre 2013, quando nel Canale di Sicilia
persero la vita 366 persone. Una strage. Il governo italiano decise, per la prima volta e in
solitudine, di fare qualcosa: le navi della Marina Militare da allora si spingono vicino alle
coste della Libia, senza considerare le aree di "Search and Rescue", oltre le quali le
operazioni della Unione europea non si sono mai spinte. Mare Nostrum ha portato in salvo
più di 100 mila persone: uomini, donne e bambini. Ovviamente le morti non si sono
fermate, solo di ieri è la notizia di altri 20 dispersi.
Lo sguardo accigliato del governo britannico. E' un fatto innegabile, però, che molte delle
persone soccorse in mare e portate dentro i confini europei avrebbero avuto un altro
destino se avessero dovuto completare la traversata. I risultati dell'iniziativa italiana
tuttavia non sono piaciuti a tutti e anzi in sede europea sono stati fonte di polemica. Il
governo inglese, ad esempio, ha additato Mare Nostrum come un cattivo esempio, perché
avrebbe invogliato i migranti a imbarcarsi. E con questa motivazione il premier britannico
David Cameron si è sfilato anche dall'operazione "Triton" che partirà tra pochi giorni e che
sarà gestita dalla Agenzia europea delle Frontiere Frontex.
Rifugiati in pericolo. Prese di posizione come quella inglese sono respinte con sdegno
dall'associazionismo italiano: "E' una posizione inaccettabile - ha detto il Direttore dei
progetti del Centro Astalli, Bernardino Guarino - Mare Nostrum è la prima operazione
attraverso cui l'Europa decide di non chiudere gli occhi davanti alle tragedie che si
consumano a pochi chilometri dai nostri confini". E' stato ricordato, infatti, che più del 70%
delle persone che arrivano dai confini sud dell'Europa - sulle coste italiane o maltesi sono richiedenti asilo, che scappano da teatri di guerra tristemente noti come la Siria e
l'Iraq. "Di fronte a questa realtà l'Europa e l'Italia devono decidere da che parte vogliono
stare: dalla parte dei movimenti populisti che cavalcano il malcontento popolare dovuto
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alla crisi economica e lo indirizzano contro l''invasore', o dalla parte di una Europa che
vuole essere protagonista sul fronte internazionale e dimostrare di avere un progetto civile
e democratico?", ha chiesto Vera Lamonica, segreterio nazionale della Cgil.
"Costi sostenibili". Respinte al mittente anche le motivazioni di tipo economico, che
impedirebbero all'Italia di proseguire con l'operazione Mare Nostrum: "Prima di tutto non
bisognerebbe parlare di questioni economiche quando si discute di vite umane, ma in ogni
caso Mare Nostrum è costatata 100 milioni in un anno, ricordo che nel 2011 abbiamo
speso 1 miliardo e 300 milioni per accogliere 60 mila persone", ha sottolineato Oliviero
Forti della Caritas, ricordando il piano messo in piedi dall'allora governo Berlusconi
durante l'emergenza delle Primavere Arabe.
Canali regolari. Le associazioni ci tengono a sottolineare che "Mare Nostrum non è la
panacea di tutti i mali". Non risolve il problema più grave: come permettere alle vittime di
guerre di raggiungere in modo sicuro l'Europa. Per questo l'appello chiede al governo
italiano di farsi promotore in Europa della applicazione della Direttiva 55/2001 sulla
protezione temporanea e dell'avvio di un programma europeo di reinsediamento dei
rifugiati in arrivo dalle aree di crisi e di conflitto.
http://www.repubblica.it/solidarieta/immigrazione/2014/10/31/news/mare_nostrum99444580/
Da Corriere.it del 31/10/14
Mare Nostrum chiude i battenti «100mila
salvati, ma pesano i morti»
Il ministro dell'Interno Angelino Alfano fa un bilancio dell'operazione di
salvataggio dei migranti e annuncia la nascita di Triton, la nuova
missione in chiave europea
di Redazione Online
Si ferma dopo poco più di un anno Mare Nostrum, l'operazione avviata dal Governo dopo
la strage di Lampedusa del 3 ottobre 2013 e raccontata ne «La scelta di Katia». Sabato 1°
novembre parte Triton, la missione - assai più contenuta in termini di mezzi impiegati e
raggio d'azione - che innalza la bandiera di Frontex, l'Agenzia europea delle frontiere.
«Una volta che partirà Triton - ha detto oggi al Senato il ministro dell'Interno, Angelino
Alfano - sarebbe difficilmente spiegabile mantenere un'operazione d'emergenza come
Mare Nostrum». La fase di passaggio delle consegne tra le due operazioni durerà due
mesi e avrà un costo complessivo di 3,5 milioni di euro: una sorta di Mare nostrum in
versione light, che durerà solo sessanta giorni, dopodiché l'unica operazione nel
Mediterraneo sarà appunto Triton.La nuova operazione non si spingerà, però, oltre la
frontiera italiana (mentre Mare nostrum si spingeva quasi al confine con la Libia) e le navi
intercettate verranno portate in Italia, come previsto dalla normativa europea, visto che
l'Italia è il Paese ospitante dell'operazione.
«In un anno spesi oltre 100 milioni»
La presentazione di Frontex è anche l'occasione per fare un bilancio di Mare Nostrum:
«558 interventi, 100.250 persone soccorse, 728 scafisti arrestati, 6 navi sequestrate,
soccorse oltre centomila persone e decine e decine di migliaia salvate»: sono i numeri
forniti dal ministro dell'Interno Alfano. Ma «queste vite umane salvate non sono state tutte
quelle che volevamo salvare» ha precisato, dando le cifre più drammatiche: «499 morti
durante le operazioni, 1.446 presunti dispersi, 192 cadaveri da identificare». Pesante
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anche il bilancio economico: «Per l'operazione della Marina militare l'Italia - ha ricordato
Alfano - ha speso in un anno 114 milioni di euro, 9,5 milioni al mese. Mentre da domani la
nuova operazione di pattugliamento delle frontiere, Triton, costerà 3 milioni di euro al
mese - aggiunge - e sarà pagata da Frontex, quindi all'Italia costerà zero euro».
Le forze in campo
Triton schiererà ogni mese due navi d'altura, due navi di pattuglia costiera, due
motovedette, due aerei ed un elicottero. L'Italia contribuisce a questa flotta con quasi la
metà dei mezzi: un aereo, un pattugliatore d'altura e due pattugliatori costieri. Tra gli altri
Paesi europei partecipanti ci sono anche Islanda (con una nave) e Finlandia (un aereo). Il
Centro di coordinamento internazionale dell'operazione è stabilito presso il Comando
aeronavale della Guardia di finanza a Pratica di mare (Roma). I mezzi Frontex partiranno
da due basi: Lampedusa e Porto Empedocle. Pattuglieranno il Canale di Sicilia ed il mare
davanti alle coste calabresi tenendosi nell'ambito delle 30 miglia dal litorale italiano. In
caso di interventi di ricerca e soccorso (Sar) potranno comunque spingersi anche oltre. Si
tratta di un'operazione molto differente da Mare Nostrum, i cui mezzi arrivano fino a
ridosso delle coste libiche per soccorrere imbarcazioni in difficoltà, secondo alcuni
incentivando così le partenze dei migranti. Anche il budget è differente: 9,5 milioni di euro
al mese per la missione nazionale, quasi 3 per quella Frontex. Triton, ha precisato Alfano,
«non svolgerà le funzioni di Mare Nostrum. Costa un terzo e non è a carico solo dell'Italia,
con enorme risparmio per noi. Farà - ha assicurato - ricerca e soccorso nei limiti del diritto
internazionale della navigazione che impone a il dovere di soccorrere chi è in difficoltà in
mare».
L'appello delle associazioni umanitarie
Ma tra le associazioni che lavorano con i migranti c'è preoccupazione per la conclusione
della missione umanitaria italiana. Unhcr, Amnesty, International, Save the children, hanno
evidenziato i maggiori rischi per le traversate nel momento in cui non ci saranno più le navi
italiane a prestare soccorso a ridosso delle coste libiche. Un cartello si associazioni, tra le
quali Arci, Acli e Caritas, ha lanciato un appello al Governo perché non venga interrotta
l'operazione Mare Nostrum. «L'Italia - spiegano - non può sottrarsi alla responsabilità di
salvare vite umane nel Mediterraneo». Quasi a dar corpo a questi timori, oggi è giunta la
notizia dell'ennesimo naufragio al largo della Libia: almeno venti persone risultano
disperse dopo l'affondamento di un gommone, secondo quanto hanno riferito 93 superstiti
tratti in salvo dalla Guardia costiera. Ma, assicura il ministro della Difesa Roberta Pinotti,
«il soccorso in mare non viene meno, è il diritto del mare a chiederlo. L'Italia non si volterà
indietro».
http://www.corriere.it/cronache/14_ottobre_31/mare-nostrum-chiude-battenti-100milasalvati-ma-pesano-morti-9566507e-611b-11e4-938d-44e9b2056a93.shtml
Da il Fatto Tv del 31/10/14
Mare nostrum, “con stop a missione, su Italia
il peso di migliaia di morti in mare”
“Rifinanziare Mare Nostrum, una missione umanitaria che ha salvato la vita di oltre
150mila migranti“. E’ l’appello lanciato da varie associazioni fra cui Arci, Acli, Asgi, Caritas,
Centro Astalli e Cgil nel giorno in cui l’operazione, avviata dal governo dopo la strage di
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Lampedusa del 3 Ottobre 2013, sarà sostituita da Triton.”Se dall’inizio dell’anno si contano
più di 3mila morti – afferma il vicepresidente dell’Arci Filippo Miraglia – con la chiusura
della missione si arriverà a decine di migliaia di vittime che peseranno sulla responsabilità
dello stato italiano“. ”La nuova operazione – spiega Oliviero Forti responsabile
Immigrazione Caritas – ha diversi limiti: si svolgerà solo a poche miglia dalle nostre coste
a differenza delle operazioni italiane che si spingono fino ai confini libici“. Per le
organizzazioni il rifinanziamento di Mare Nostrum avrà un costo limitato. “Chiediamo
all’Italia di fare pressioni all’Europa affinché si faccia carico delle spese dell’operazione”,
conclude Miraglia
di Annalisa Ausilio
Link al servizio http://tv.ilfattoquotidiano.it/2014/10/31/con-stop-mare-nostrum-su-governocadra-peso-di-migliaia-di-morti-in-mare/307407/
del 01/11/14, pag. 3
Gli appelli a Renzi
«Grave errore fermare Mare Nostrum»
Mario Pierro
L’operazione Triton non sostituisce Mare Nostrum e i migranti continueranno a morire
moriranno nel Mediterraneo finché i Paesi Ue non avranno organizzato una vera
operazione congiunta di ricerca e salvataggio. L’allarme è stato lanciato da un’appello
Amnesty International, l’associazione studi giuridici sull’immigrazione (Asgi) e Medici
Senza Frontiere alla vigilia del lancio dell’operazione Triton, coordinata dall’agenzia
europea Frontex, che nelle intenzioni del governo italiano dovrebbe sostituire l’italiana
Mare Nostrum.
Contro la decisione del governo Renzi si è schierato ieri un vasto cartello di associazioni:
Caritas, Comunità di Sant’Egidio, Save The Children Italia, Arci, oltre a Cgil e Uil, Acli e le
Chiese Evangeliche. Terminare Mare Nostrum è «un gravissimo errore», e va ripensata.
«Se Mare Nostrum chiude — ha spiegato Filippo Miraglia dell’Arci — i morti si
moltiplicheranno». Triton, hanno detto, ha obiettivi diversi: «opererà solo in prossimità
delle acque territoriali italiane, svolgerà un’azione non di soccorso ma di controllo delle
frontiere e non è quindi assimilabile a Mare Nostrum».
Un’operazione che «non fermerà né le partenze né le stragi, i viaggi continueranno ma in
condizioni ancor meno sicure». Le organizzazioni chiedono al governo «di non cedere alle
spinte demagogiche e xenofobe e di proseguire con la missione, rafforzando la pressione
politica sui partner europei affinchè contribuiscano a mantenerla in vita e a sostenerla
economicamente». «Costa solo 110 milioni di euro all’anno, 9 milioni al mese» ha detto
Vera Lamonica della Cgil, che ha chiesto «più coraggio» al governo. Giuseppe Casucci,
della Uil, sostiene che «l’Italia non può permettersi un’altra strage come quella di un anno
fa». Tra le adesioni a questo appello ci sono anche Andrea Camilleri, Ascanio Celestini e
Carlo Feltrinelli.
«Non importa come è presentata — sostiene Nicolas Beger, direttore dell’ufficio delle
istituzioni europee di Amnesty International– Triton non è un’operazione di ricerca e
soccorso. Mentre il mondo affronta la peggior crisi di rifugiati dalla fine della seconda
guerra mondiale, l’Unione europea ei suoi Stati membri devono urgentemente e
collettivamente assicurare operazioni per cercare e salvare migranti». Per Beger «vi è
stata una spaventosa mancanza di risposte comuni nella ricerca e salvataggio da parte
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degli Stati Ue. Triton è una chiara testimonianza della preoccupazione degli Stati di
proteggere più le frontiere che le persone».
L’appello congiunto di Amnesty International, Asgi e Medici Senza Frontiere paventa
anche il rischio «di rivedere tragedie come quelle vissute il 3 ottobre 2013 a Lampedusa è
molto alto. Non sarà l’arrivo della cattiva stagione a porre fine ai conflitti senza quartiere in
Libia, all’instabilità nella regione Saheliana, alla guerra in Siria e alle violenze in Iraq. Non
sarà l’inverno a far venir meno il bisogno disperato di fuggire dalla guerra, dalla violenza,
dalla persecuzione». «Oggi non ci sono alternative sicure per cercare protezione
internazionale in Europa, la via del mare è l’unica opzione per migliaia di persone, vittime
di violenza e torture, persone disabili, donne e bambini. Operazioni di ricerca e soccorso
limitate alle acque sotto la giurisdizione italiana metteranno a rischio migliaia di vite, se le
aree di mare aperto non saranno pattugliate attivamente».
Da Avvenire del 01/11/14, pag. 4
«E un errore, cosi cresce il rischio di altri
naufragi»
«Non condividiamo la decisione di ridimensionare il dispositivo di ricerca e soccorso
italiano messo in campo per oltre un anno con Mare Nostrum. Le partenze dei migranti
non si fermeranno, perché le crisi politiche e sociali che li spingono a fuggire dai propri
Paesi non sono venute meno. E, con meno navi in mare, il rischio di altri tragici naufragi
potrebbe aumentare...». E’ sera quando il responsabile del settore immigrazione della
Caritas italiana, Oliviero Forti, prende atto con rammarico della risolutezza del governo,
confermata nel pomeriggio dai ministri dell'Interno e della Difesa, nel voler chiudere la
maxi operazione di salvataggio avviata nell'ottobre 2013.
L'appello accorato al governo («Mare Nostrum non è la panacea di tutti i mali », ma
«chiuderla è un gravissimo errore ») lanciato in mattinata da un ampio "cartello" traversale
di associazioni, sindacati, Ong impegnate sul fronte dell'accoglienza (da Acli, Arci, Centro
Astalli e Fondazione Migrantes, passando per i sindacati, fino a Libera, Comunità di
Sant'Egidio e Save the children) è caduto nel vuoto. C'è delusione, ma c'è anche-la
convinzione di dover insistere. La nuova operazione Triton, dicono le associazioni, non
può essere «assimilabile a Mare Nostrum» e «non fermerà né le partenze né le stragi »,
poiché «opererà solo in prossimità delle acque territoriali italiane e svolgerà un'azione non
propriamente di soccorso, ma di controllo delle frontiere... ». Valutazioni condivise anche
da Berardino Guarino, della Fondazione del Centro Astalli, dal vicepresidente dell'Arci
Filippo Miraglia («Se Mare Nostrum chiude, i morti si moltiplicheranno ») e da Vera
Lamonica (Cgil}:«Sì, costa circa 9,5 milioni di euro al mese, oltre 110 in un anno, ma
quante migliaia di vite ha permesso di salvare? Al governo chiediamo più coraggio...».
Nella lettera-appello la rete di associazioni ha invitato l'esecutivo Renzi a «non cedere alle
spinte demagogiche e xenofobe» e a «proseguire con la missione, - rafforzando la
pressione politica sui partner europei affinchè contribuiscano a mantenerla in vita e a
sostenerla economicamente». Richieste analoghe in un'altra lettera aperta di Amnesty
Italia, Associazione studi giuridici sull'immigrazione e Medici senza frontiere, che hanno
proposto di affiancare alla «continuazione del soccorso in acque internazionali»
l'istituzione di «canali di ingresso legali e sicuri» per evitare la traversata in mare a chi
fugge da aree di conflitto.
Vincenzo R. Spagnolo
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Da il Messaggero del 01/10/14, pag. 13
«Migranti, in Africa le richieste d’asilo»
Luigi Fantoni
Dai 9,5 milioni al mese di Mare Nostrum, «114 milioni in tutto, quasi centomila euro al
giorno», a «zero euro» a carico dell’Italia per Triton che partirà oggi e «costerà 3 milioni di
euro al mese, forse poco più, e sarà finanziata col bilancio di Frontex». È il ministro
dell’Interno, Angelino Alfano, a sottolineare il dato economico con enfasi, nel tracciare il
bilancio di quella che è stata un’«operazione di emergenza» decisa dopo la tragedia di
Lampedusa del 3 ottobre dello scorso anno con 366 vittime.
«Oggi possiamo dire con nettezza che l’Italia ha fatto il proprio dovere», ha aggiunto il
ministro che ha elencato i numeri dei tredici mesi di attività di Mare Nostrum: 558 interventi
svolti, 100.250 le persone salvate. Sul fronte giudiziario, 728 sono stati gli scafisti arrestati
e 8 le navi-madre sequestrate. Pesano quei 499 morti, i 1.446 presunti dispersi, e i 192
cadaveri da identificare. Nel passaggio da Mare Nostrum a Triton ci saranno due o tre
mesi di «fase di uscita», ha spiegato il ministro della Difesa, Roberta Pinotti, poi all’Italia
non spetterà più il controllo dei confini ma il solo rispetto della legge del mare. In questo
lasso di tempo la Marina continuerà il suo lavoro con una nave grande a Lampedusa e tre
pattugliatori: assetti ridotti e anche costi diminuiti di un terzo.
Triton schiererà ogni mese due navi d’altura, due navi di pattuglia costiera, due
motovedette, due aerei ed un elicottero. I mezzi partiranno da due basi: Lampedusa e
Porto Empedocle. Pattuglieranno il Canale di Sicilia ed il mare davanti alle coste calabresi
tenendosi nell’ambito delle 30 miglia dal litorale italiano, diversamente da Mare Nostrum, i
cui mezzi si spingevano molto più in là, fino a ridosso delle coste libiche. Cattura
IL FUTURO
«L’Europa ha fatto una scelta, scendere in mare. Ora occorre coraggio nel fare un’altra
scelta, quella di campi profughi e di zone di accoglienza e richieste di asilo in Africa.
Dobbiamo cambiare strategia come Europa e chiedere che le domande di asilo siano
presentate in Africa» e fare «lì, attraverso accordi tra i paesi europei, un’azione di
riallocazione dei profughi».
Incassato il risultato della fine dell’operazione «di emergenza» Mare Nostrum il ministro
Alfano sposta l’obiettivo del «negoziato» dell’Italia sull’immigrazione più avanti: occorre
che le richieste d’asilo vengano presentate nei paesi d’origine, perchè «la risposta non può
avvenire in mare ma deve avvenire lì», e serve un maggiore impegno nell’accoglienza da
parte dei partner europei. «Adesso in mare si farà quel che si è sempre fatto: rispettare gli
obblighi che derivano dalle leggi del mare», spiega il ministro, cedendo il boccino
all’agenzia europea. Triton presidierà i confini di Schengen, fino a 30 miglia dalle coste
italiane «Saranno quindi i Paesi del Nord Africa che si occuperanno delle operazioni di
ricerca e soccorso».
Cosa cambierà in concreto? Nella fase di partenza la Marina continuerà il suo lavoro, «al
servizio delle emergenze», come spiega Pinotti, con «una nave significativa, grande, a
Lampedusa e un pattugliamento di tre navi più piccole», mentre «ora usiamo 5 grandi
navi». Pinotti poi assicura: «Il soccorso in mare non viene meno, è il diritto del mare a
chiederlo. L’Italia non si volterà indietro».
L’APPELLO
Associazioni, sindacati, organizzazioni non governative, organismi ecclesiastici: un ampio
fronte della società civile ha chiesto invece al Governo di non chiudere Mare Nostrum. «È
un gravissimo errore»: un cartello che va da Cgil e Uil all’Arci, dalle Acli alla Caritas, da
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Sant’Egidio alle Chiese evangeliche, da Save the Children a Libera ha chiesto a Renzidi
ripensarci.
Da Ansa del 31/10/14
Immigrazione: appello a Governo,Mare
Nostrum non può fermarsi
Associazioni e sindacati, Italia deve continuare a salvare vite
ROMA
(ANSA) - ROMA, 31 OTT - Nell'ultimo giorno dell'operazione Mare Nostrum, che da
domani sarà soppiantata da Triton dell'Agenzia europea Frontex, associazioni, sindacati e
organizzazioni non governative rivolgono un appello al Governo italiano: la decisione di
porre fine a Mare Nostrum è "un gravissimo errore", e va ripensata.
Un cartello che va da Cgil e Uil all'Arci, dalle Acli alla Caritas, dalla Comunità di
Sant'Egidio alle Chiese evangeliche, da Save the Children a Libera ha chiesto oggi, in una
conferenza stampa a Roma, di ripensarci: Mare Nostrum, hanno detto, "non è la soluzione
a tutti i mali", ma in una situazione come quella che si vive oggi nel Mediterraneo, con
l'aumento dei conflitti e delle situazioni di crisi, gli arrivi di persone che chiedono
protezione non cesseranno. "Se Mare Nostrum chiude - ha spiegato Filippo Miraglia
dell'Arci - i morti si moltiplicheranno".
Triton, hanno detto, ha obiettivi diversi: "opererà solo in prossimità delle acque territoriali
italiane, svolgerà un'azione non di soccorso ma di controllo delle frontiere e non è quindi
assimilabile a Mare Nostrum". Un'operazione, quella europea che dovrebbe partire
domani, che "non fermerà nè le partenze nè le stragi, i viaggi continueranno ma in
condizioni ancor meno sicure".
Le organizzazioni chiedono dunque al governo "di non cedere alle spinte demagogiche e
xenofobe e di proseguire con la missione, rafforzando la pressione politica sui partner
europei affinchè contribuiscano a mantenerla in vita e a sostenerla economicamente".
"Costa solo 110 milioni di euro all'anno, 9 milioni al mese" ha detto Vera Lamonica della
Cgil, che ha chiesto "più coraggio" al governo. Mentre Giuseppe Casucci, della Uil, ha
detto che "l'Italia non può permettersi un'altra strage come quella di un anno fa". (ANSA).
Da Ansa del 31/10/14
ANSA-BOX
Appello società civile, Mare Nostrum non si
fermi
Associazioni e sindacati, Italia deve continuare a salvare vite
ROMA
(ANSA) - ROMA, 31 OTT - Associazioni, sindacati, organizzazioni non governative,
organismi ecclesiastici: un ampio fronte della società civile ha chiesto oggi al Governo
italiano di non chiudere l'operazione Mare Nostrum, che formalmente termina oggi
lasciando il posto all'operazione europea Triton.
"E' un gravissimo errore": un cartello che va da Cgil e Uil all'Arci, dalle Acli alla Caritas,
dalla Comunità di Sant'Egidio alle Chiese evangeliche, da Save the Children a Libera ha
chiesto stamani, in una conferenza stampa, di ripensarci. Pur ammettendo che Mare
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Nostrum "non è la soluzione a tutti i mali", le organizzazioni hanno sottolineato come in un
anno di attività l'operazione di soccorso attuata nel Mediterraneo dall'Italia ha consentito il
salvataggio di tante vite umane. I motivi che hanno portato queste persone a mettersi in
mare rischiando la vita non sono certo venuti meno, quindi le traversate continueranno e
Triton "non fermerà nè le partenze nè le stragi", perchè "opererà solo in prossimità delle
acque territoriali italiane, svolgerà un'azione non di soccorso ma di controllo delle frontiere
e non è quindi assimilabile a Mare Nostrum".
"Se Mare Nostrum chiude i morti si moltiplicheranno", ha spiegato Filippo Miraglia dell'Arci.
Le organizzazioni chiedono dunque al governo "di non cedere alle spinte demagogiche e
xenofobe e di proseguire con la missione, rafforzando la pressione politica sui partner
europei affinchè contribuiscano a mantenerla in vita e a sostenerla economicamente".
"Costa solo 110 milioni di euro all'anno, 9 milioni al mese" ha detto Vera Lamonica della
Cgil, che ha chiesto "più coraggio" al governo.
Mentre Giuseppe Casucci, della Uil, ha detto che "l'Italia non può permettersi un'altra
strage come quella di un anno fa".
Anche Amnesty Italia, Asgi (Associazione studi giuridici sull'immigrazione) e Medici senza
frontiere, in una lettera aperta, hanno sollecitato il premier Matteo Renzi a non chiudere
Mare Nostrum e a garantire che l'Italia continui le attività di ricerca e soccorso nel
Mediterraneo per salvare vite umane in mare. "Il rischio di rivedere tragedie come quelle
vissute il 3 ottobre 2013 a Lampedusa è molto alto", scrivono le tre organizzazioni
umanitarie. "Siamo consapevoli che operazioni come Mare Nostrum non possano essere
soluzioni permanenti per i migranti e i rifugiati che si dirigono verso la frontiera marittima
europea in cerca di assistenza e protezione. Alla continuazione del soccorso in acque
internazionali va infatti affiancata l'istituzione di canali di ingresso legali e sicuri che
consentano alle persone in fuga dalle aree di conflitto di poter giungere in Europa dove
chiedere protezione, evitando pericolosi viaggi in mare a rischio della vita. Ma perché le
operazioni di ricerca e soccorso in mare non vengano ridimensionate, perché non ci siano
altre migliaia di uomini, donne e bambini fuggiti da guerre per annegare in mare, resta
poco tempo", concludono. (ANSA).
Da Agenzia Sir del 31/10/14
12:44 - MARE NOSTRUM: ARCI-CGIL, SE
L’OPERAZIONE CHIUDE MIGLIAIA DI ALTRE MORTI
NEL MEDITERRANEO
(Sir) “Se l’operazione Mare Nostrum dovesse chiudere saremo costretti ad assistere a
migliaia di altre morti sulle nostre coste e nel mar Mediterraneo”. Lo ha detto il
vicepresidente dell’Arci, Filippo Miraglia, durante l’incontro che si è tenuto oggi a Roma e
che ha visto diverse organizzazioni sociali italiane che si occupano dei diritti dei migranti
lanciare un appello al Governo italiano perché non venga interrotta l’operazione Mare
Nostrum. “Il governo - ha detto Miraglia - non può permettersi di chiudere un’operazione
che ha consentito il soccorso e il salvataggio di migliaia di persone per rispondere solo a
delle logiche elettorali, cedendo alle spinte demagogiche e xenofobe che avanzano nel
nostro Paese”. Su posizioni simili si è espressa anche il segretario nazionale della Cgil,
Vera Lamonica: “La soluzione non è quella di impedire che i migranti arrivino sulle nostre
coste, ma è fare in modo che arrivino qui in vita e in condizioni di sicurezza. Senza Mare
Nostrum - prosegue Lamonica - i viaggi continueranno, ma in condizioni ancor meno
sicure dato che verrà meno quell’unico strumento di soccorso garantito. Il Governo 11
conclude - nel semestre italiano di guida europea deve dare un segnale forte continuando
a soccorrere e salvare le vite umane nel Mediterraneo”.
Da Redattore Sociale del 31/10/14
Mare nostrum, le associazioni: "Se chiude,
ricominceranno le stragi nel Mediterraneo"
L’appello “disperato” della associazioni riunite oggi a Roma. Miraglia
(Arci): “110 milioni all’anno cifra irrisoria, paghiamo lo stesso per
monitorare le frontiere della Libia”. Forti (Caritas) “Deve andare avanti”.
Lamonica (Cgil): “Nessuna sostituzione con Triton”
ROMA- “Il nostro è un appello disperato, perché se solo quest’anno nel Mediterraneo ci
sono state tremila morti accertate, con la chiusura di Mare nostrum le vittime del mare
saranno molte di più. Noi non pensiamo che l’operazione della Marina militare sia la
soluzione di tutti i problemi, ma finché non ci si decide ad aprire canali umanitari, si deve
andare avanti”. Così Filippo Miraglia, vicepresidente di Arci nazionale ha presentato alla
stampa, oggi a Roma, l’appello firmato da un cartello formato dalle più grandi associazioni
che in Italia lavorano al fianco dei migranti. Dalla Caritas al Centro Astalli, passando per
Sant’Egidio, l’Asgi, Libera e i sindacati. Nel giorno in cui finisce ufficialmente il
finanziamento dell’operazione, lanciata esattamente un anno fa, le associazioni chiedono
al governo di fare un passo indietro e di non chiudere per motivi politici o meramente
economici un’iniziativa che in questi mesi ha salvato migliaia di persone.
“Nei giorni scorsi c’è stato anche n appello di diversi parlamentari per dire no alla
chiusura, ma ad oggi non è ancora arrivata la decisione ufficiale del Consiglio dei ministri
che decreta ufficialmente lo stop dell’operazione, quindi siamo ancora in tempo –
aggiunge Miraglia -. In caso il governo voglia continuare Mare nostrum dovrebbe metterci
ulteriori risorse, ma parliamo di 110 milioni all’anno, una cifra non così alta di fronte al
costo di vite umane. Ricordiamo, inoltre, che l’Italia paga una somma equivalente per un
accordo fatto tra il governo Letta e la Libia per un monitoraggio della frontiera sud della
Libia. Si tratta di una commessa affidata a Finmeccanica per la creazione di un sistema
radar di controllo, non si può dire che non ci siano risorse per l’operazione della Marina
militare”. Secondo le associazioni sarebbe, inoltre, corretto che l’Italia chiedesse
all’Europa di farsi carico dell’operazione o solo di sostenerla, data l’importanza
dell’iniziativa. “Non si può dire che sarà sostituito da Triton perché il direttore di Frontex ha
detto chiaramente che quelle navi non possono fare ricerca e salvataggio, che non c’è
personale medico e che non si spingeranno oltre le frontiere italiane – continua Miraglia Dire che ci sarà una sostituzione è solo una scusa”.
Secondo Bernardino Guarino, direttore del Centro Astalli non si possono “chiudere con
Mare nostrum le scialuppe di salvataggio per le persone che cercano di arrivare in Europa.
La cosa peggiore è che il motivo dello stop sia meramente economico – spiega – perché
parliamo di persone che abbiamo il dovere di salvare”. Anche per Vera Lamonica della
Cgil, nove milioni al mese non giustificano la fine dell’operazione. “Non si può cavalcare la
paura dell’invasione, e lasciare il tema dell’immigrazione in mano a spinte xenofobe –
sottolinea -. Siamo tristemente noti come il paese dei respingimenti e con Triton non si
farà altro che monitorare la frontiera. Chiediamo quindi al governo un estremo atto di
coraggio”. Sulla stessa scia anche Oliviero Forti, responsabile immigrazione di Caritas
italiana: “Il tema vero è se li vogliamo o no? – spiega – noi ribadiamo l’esigenza di creare
canali umanitari ma nel frattempo Mare nostrum deve andare avanti”. Il nostro paese non
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può permettersi un’altra strage come quella del 3 ottobre dello scorso anno – aggiunge
Giuseppe Casucci della Uil e vicepresidente del Cir – davanti alla situazione di crisi
internazionale non possiamo chiudere gli occhi”. Le associazioni che hanno sottoscritto
l’appello sono: Centro Astalli, comunità di Sant’Egidio, Caritas Italiana, Acli, Arci, Asgi,
Cnca, Fondazione Migrantes, Rete G2, Chiese Evangeliche in Italia, Emmaus, Giù le
frontiere, Libera, Razzismo Brutta Storia, Rete Primo Marzo, Save The Children Italia, Sei
Ugl, Terra del Fuoco, Uil, Cgil Casa dei Diritti Sociali-Focus. Intanto nel pomeriggio di oggi
è attesa a palazzo Chigi la conferenza stampa dei ministri Alfano e Pinotti, in cui molto
probabilmente verrà annunciato lo stop ufficiale a Mare nostrum. (ec)
Da Redattore Sociale del 31/10/14
L'Italia chiude Mare nostrum, cade nel vuoto
l'appello delle associazioni
“Da domani parte una nuova operazione che si chiamerà Tritone”, ha
annunciato il ministro dell'Interno Alfano “Ci costerà zero euro, non ci
sottrarremo alla legge del mare per i salvataggi”. "Ora occorre il
coraggio di aprire campi profughi e raccogliere richieste di asilo
direttamente in Africa
ROMA – Cade nel vuoto l’appello lanciato in extremis dalle maggiori associazioni che in
Italia lavorano al fianco dei migranti: l’operazione Mare nostrum chiude i battenti. Ad
annunciarlo ufficialmente, in una conferenza congiunta con la ministra della Difesa
Roberta Pinotti, è il ministro dell’Interno Angelino Alfano: “Da domani parte una nuova
operazione che si chiamerà Tritone e in coincidenza di Tritone si conclude Mare nostrum –
sottolinea il ministro - Siamo orgogliosi per il lavoro di tutti coloro che hanno consentito di
salvare vite umane, Mare nostrum è stato un modello per l’Europa e si conclude con
grandi risultati umanitari".
Per Mare nostrum spesi 114 milioni, Triton ci costa zero euro. Il ministro dell’Interno ha
ricordato che per l’operazione della Marina militare l’Italia ha speso in un anno 114 milioni
di euro, 9,5 milioni al mese. Mentre da domani la nuova operazione di pattugliamento delle
frontiere, Triton, costerà 3 milioni di euro al mese - aggiunge - e sarà pagata da Frontex,
quindi all’Italia costerà zero euro. La nuova operazione non si spingerà, però oltre la
frontiera italiana (mentre Mare nostrum si spingeva quasi al confine con la Libia) e le navi
intercettate verranno portate in Italia, come previsto dalla normativa europea, visto che
l’Italia è il paese ospitante dell’operazione.
Mare nostrum ancora due mesi per passaggio consegne. Alfano ha spiegato che è
prevista, inoltre, una fase di passaggio delle consegne tra le due operazioni, che durerà
due mesi ed avrà un costo complessivo di 3,5 milioni di euro. Una sorta di Mare nostrum in
versione light, che durerà solo sessanta giorni, dopodiché l’unica operazione nel
Mediterraneo sarà appunto Triton. La ministra Pinotti ha inoltre aggiunto che “il diritto del
mare impone di mantenere il soccorso umanitario” e che l’Italia in caso di naufragi “non si
tirerà indietro”.
Campi profughi e richieste asilo in Africa. “L''Europa ha fatto una scelta, scendere in mare.
Ora occorre il coraggio nel fare un’altra scelta: quella di campi profughi e di richieste di
asilo da presentare direttamente in Africa, anche per fare da lì una riallocazione
(resettlement) dei profughi in base alle loro necessità, e per proteggerli dalle violenze che
subiscono per fare la traversata”, ha inoltre aggiunto il ministro Alfano.
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Inascoltate le associazioni. L’annuncio ufficiale dello stop a Mare nostrum arriva a poche
ore dall’appello lanciato dalle principali associazioni che lavorano al fianco dei migranti, e
che chiedevano al Governo di non rinunciare all’operazione per evitare “altre stragi nel
Mediterraneo”. Le associazioni hanno anche ricordato che i costi di Mare nostrum sono
sostenibili e incomparabili al costo di altre morti in mare. “Noi non pensiamo che
l’operazione della Marina militare sia la soluzione di tutti i problemi - spiega Filippo
Miraglia, vicepresidente di Arci nazionale- ma finché non ci si decide ad aprire canali
umanitari, si deve andare avanti”. Le associazioni che hanno sottoscritto l’appello sono:
Centro Astalli, comunità di Sant’Egidio, Caritas Italiana, Acli, Arci, Asgi, Cnca, Fondazione
Migrantes, Rete G2, Chiese Evangeliche in Italia, Emmaus, Giù le frontiere, Libera,
Razzismo Brutta Storia, Rete Primo Marzo, Save The Children Italia, Sei Ugl, Terra del
Fuoco, Uil, Cgil Casa dei Diritti Sociali-Focus.
Si apre ora una fase di incertezza: Cosa accadrà nelle acque non pattugliate da Triton?
Con la fine di Mare nostrum e l’inizio della nuova operazione Triton dell’agenzia europea
Frontex, si apre una nuova fase di incertezza. Non è chiaro infatti cosa accadrà al di là
della frontiera italiana (ed europea) oltre la quale le navi di Triton non si spingeranno. Dalla
Libia ai confini con le acque italiane, cosa succederà da domani? Chi soccorrerà i
migranti? Il direttore di Frontex, Jil Arias Fernandez in una conferenza stampa a Roma,
meno di due settimane fa, lo ha detto chiaramente: “Triton non sostituirà Mare nostrum, le
due operazioni sono distinte e hanno missioni differenti – ha spiegato ai giornalisti -. Le
navi di Triton non sono adatte al salvataggio in mare, e inoltre non ci spingeremo oltre la
frontiera italiana come faceva la Marina militare”. Le acque internazionali tornano ad
essere dunque senza controllo, e probabilmente si interverrà solo in presenza di una
segnalazione. Nella conferenza stampa di oggi Alfano ha sottolineato che “La Marina sta
già a 30 miglia dalla costa, dove è già altomare” non chiarendo però se continuerà a
spingersi oltre, come faceva con Mare nostrum. Mentre la ministra Pinotti, ricordando che
la legge del mare impone di salvare chi è in difficoltà, ha ribadito che la Marina, così come
la Guardia costiera non si sottrarranno al loro dovere. Ma non è chiaro come si opererà. Si
tornerà forse alla situazione di un anno fa, quando ci fu la terribile strage del 3 ottobre,
costata la vita a 368 persone, che impose appunto di avviare Mare nostrum?
Da la Porzione.it del 01/11/14
“Se Mare Nostrum chiuderà avremo ancora
morti sulle nostre coste”
"La soluzione non è quella di impedire che i migranti arrivino sulle
nostre coste, ma è fare in modo che arrivino qui in vita e in condizioni di
sicurezza"
Questo l’avvertimento lanciato ieri da varie organizzazioni sociali e religiose, appellatesi al
Governo italiano ed all’Unione Europea affinché non chiudano l’operazione Mare Nostrum
«Se l’operazione Mare Nostrum dovesse chiudere, saremo costretti ad assistere a migliaia
di altre morti sulle nostre coste e nel mar Mediterraneo». Lo ha detto il vicepresidente
dell’Associazione culturale e ricreativa italiana (Arci), Filippo Miraglia, durante l’incontro
che si è tenuto ieri a Roma e che ha visto diverse organizzazioni sociali italiane che si
occupano dei diritti dei migranti (Acli, Arci, Asgi, Casa dei diritti sociali-Focus, Caritas
Italiana, Centro Astalli, Cgil, Cnca, Comunità di Sant’Egidio, Emmaus Italia, Federazione
delle Chiese Evangeliche in Italia, Fondazione Migrantes, Giù le frontiere, Libera,
Razzismo Brutta Storia, Rete G2 – Seconde Generazioni, Rete Primo Marzo, Save the
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Children Italia, Sei Ugl, Terra del Fuoco, Uil) lanciare un appello al Governo italiano
perché non venga interrotta l’operazione Mare Nostrum: «Il Governo – osserva Miraglia –
non può permettersi di chiudere un’operazione che ha consentito il soccorso e il
salvataggio di migliaia di persone per rispondere solo a delle logiche elettorali, cedendo
alle spinte demagogiche e xenofobe che avanzano nel nostro Paese».
Sulla stessa linea si è espressa anche il segretario nazionale della Cgil, Vera Lamonica:
«La soluzione – spiega – non è quella di impedire che i migranti arrivino sulle nostre coste,
ma è fare in modo che arrivino qui in vita e in condizioni di sicurezza. Senza Mare
Nostrum i viaggi continueranno, ma in condizioni ancor meno sicure dato che verrà meno
quell’unico strumento di soccorso garantito. Il Governo, nel semestre italiano di guida
europea, deve dare un segnale forte continuando a soccorrere e salvare le vite umane nel
Mediterraneo».
Del resto, il timore insito nelle coscienze degli operatori del terzo settore è che l’Italia,
chiudendo l’operazione, volti le spalle ai drammi della Siria, della Libia, del Nord Africa e di
tutti i Paesi da cui i migranti fuggono: «Proseguire questa operazione – afferma Berardino
Guarino, direttore dei Progetti del Centro Astalli – è la scelta responsabile che oggi l’Italia
deve compiere, per dimostrare nei fatti che la salvaguardia di ogni vita umana è il primo
dovere di uno Stato che voglia definirsi civile e democratico».
All’incontro era presente anche il responsabile del Dipartimento politiche migratorie della
Uil, Giuseppe Casucci: «Il Governo – sostiene Casucci – deve rafforzare la pressione
politica nei confronti dei partner europei, affinché contribuiscano a mantenere viva
l’operazione Mare Nostrum sostenendola anche economicamente». Nell’ambito
dell’incontro, sono poi sorte numerose perplessità relativamente al programma europeo
Triton, che prenderà il posto di Mare Nostrum: «Ha obiettivi diversi – sottolinea il
responsabile del Dipartimento politiche migratorie della Uil – perché opererà solo in
prossimità delle acque territoriali italiane, svolgendo un’operazione non di soccorso, ma di
controllo».
Un aspetto, quest’ultimo, che ha allarmato non poco le associazioni sollecitandole, a
maggior ragione, a rivolgere un appello alle istituzioni: «Chiediamo al Governo ed
all‘Unione Europea – premette Antonio Russo, responsabile immigrazione delle Acli
nazionali – di ampliare gli obiettivi del programma europeo Triton, in modo da garantire
continuità ad un’operazione che operi in acque internazionali, con un mandato chiaro di
ricerca e soccorso delle persone in difficoltà». Un appello, questo, che ha dunque lanciato
l’allarme sui rischi emersi dal nuovo programma europeo: «Così com’è ora – si legge nel
comunicato – Triton non fermerà né le partenze né le stragi. I viaggi continueranno, ma in
condizioni ancor meno sicure dato che verrà meno quell’unico strumento di soccorso
garantito in questo anno da Mare Nostrum. Perciò, proseguire l’operazione Mare Nostrum
è la scelta responsabile che oggi l’Italia deve compiere, per dimostrare nei fatti che la
salvaguardia di ogni vita umana è il primo dovere di uno Stato che voglia definirsi civile e
democratico».
http://www.laporzione.it/2014/11/01/se-mare-nostrum-chiudera-avremo-ancora-morti-sullenostre-coste/
del 03/11/14, pag. 3
Caro amico Delrio, che delusione!
Caro Graziano,
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ti ricordi quando eri sindaco di Reggio Emilia e capo dell’Anci e io sono venuto da te a
portarti il mio libro «Italiani, per esempio. L’Italia vista dai bambini immigrati», da cui è nata
la «nostra» bella campagna di cittadinanza «L’Italia sono anch’io» insieme a Feltrinelli,
Cgil nazionale, Arci Nazionale, Caritas e tante altre associazioni e soggetti del mondo
civile?
Quanto entusiasmo! Quante speranze!
Ti disturbo perché l’altra settimana ho sentito la dichiarazione del presidente del Consiglio
sulla volontà di introdurre lo ius soli «temperato».
Se ho capito bene, per i ragazzi stranieri nati e/o cresciuti in Italia, verrebbe subordinato al
completamento di un ciclo di studi: la scuola dell’obbligo che in Italia termina a 16 anni o la
secondaria superiore per chi è arrivato qui adolescente. Tanta enfasi nell’annuncio, per poi
abbassare la soglia di due soli anni?
Per me, te lo confesso, è stata una delusione.
E per te? Non si poteva proprio fare niente di meglio?
Insomma, rispetto alla situazione di oggi, — che noi, insieme a tanti altri, ritenevamo
assurda e vecchia, — si abbasserebbe di soli due anni l’età di accesso alla cittadinanza. E
prima? Da 0 a 16 anni? Un bambino nato in Italia figlio di immigrati, continuerebbero ad
essere considerato straniero in patria? Nel Paese dove è nato e cresciuto? Un invisibile?
Cosa cambia? Sei invisibile per 16 anni invece che per 18? Mah.
Ti ricordi la lettera della piccola Lamiaa Zilaft (la ripubblichiamo qui sopra) che ci ha tanto
commosso, Graziano? L’ha letta anche a Roma, dove poi sei andato anche tu. Pensi che
lei e i suoi genitori siano soddisfatti?
Come tu sai bene, caro Graziano, ci sono 200 mila firme per lo «ius soli». Hai contribuito
anche tu a raccoglierle con grande impegno e determinazione. E sai che in Parlamento
giace da anni una proposta di legge di iniziativa popolare di riforma della cittadinanza per
la quale la campagna «L’Italia sono anch’io», di cui tu sei stato il principale testimonial
politico, ha raccolto ben 200mila firme, che prevede sì uno ius soli temperato, ma
condizionato soltanto alla residenza di uno dei genitori da almeno un anno.
Sai inoltre, caro Graziano, che la competente Commissione della Camera, dopo varie
audizioni di organizzazioni sociali che sul tema lavorano sta lavorando a un testo unificato
da portare in Aula.
Insomma, che ce ne facciamo di una legge che, di fatto, non riforma l’attuale normativa
sulla cittadinanza?
Non valeva che il tuo amico Matteo facesse un annuncio in meno, — o magari lo facesse
senza fretta, tra qualche mese, — ma annunciando qualcosa di realmente significativo? O
mi sbaglio io? A proposito, se per caso non l’hai ancora fatto, ti allego qui di seguito la
lettera di Lamiaa.
Fagliela leggere, a Matteo. Ciao e buon lavoro.
Giuseppe Caliceti
Da Redattore Sociale del 02/11/14
Sentenza Cucchi, Arci: "Urgente introdurre il
reato di tortura"
Continua a far discutere la decisione della Corte l'appello di Roma,
mentre i familiari annunciano il ricorso in Cassazione e alla Corte
europea. Manconi: "Lo Stato ha fallito nel suo compito principale"
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ROMA - Non si placano le polemiche sulla sentenza della Corte d'appello di Roma che nei
giorni scorsi ha assolto tutti gli imputati nel processo per la morte di Stefano Cucchi. A due
giorni dalla sentenza, i familiari della vittima annunciano la volontà di ricorrere in
Cassazione e alla Corte europea, mentre cresce il numero di associazioni che chiedono
verità e giustizia sulla vicenda. A chiedere una l'immediata introduzione del reato di tortura
è l'Arci che in una nota commenta la sentenza. "Non si può morire così nelle mani dello
Stato - spiega la nota -. E uno stato democratico non può consentire impunità". Secondo
l'Arci, le perizie parlano chiaro. "Stefano è stato pestato e poi lasciato morire senza cure si legge nella nota -: esponenti delle forze dell’ordine e medici ne sono dunque
responsabili. A meno di non credere che il giovane si sia suicidato adottando uno insolito
modo per farlo, procurandosi da solo evidenti segni di percosse che l’hanno sfigurato. Una
vicenda, quella di Stefano, che tra l’altro dimostra una volta di più quanto sarebbe urgente
introdurre nel nostro ordinamento il reato di tortura".
L'Arci, inoltre, commenta anche le dichiarazioni del senatore Carlo Giovanardi che in un
comunicato stampa ha difeso la sentenza. "Un certo giornalismo totalmente disinformato o
in malafede - scrive Giovanardi in una nota diffusa ieri - continua a ripetere a pappagallo il
luogo comune che Stefano Cucchi sia stato ucciso due volte dallo stato con la sentenza di
assoluzione della Corte di Assise di Appello di Roma. Questa volta molto più
semplicemente l'avvocato Anselmo si è trovato di fronte ad una giuria, composta da
magistrati e da rappresentanti del popolo, cittadini comuni, non lo stato, che hanno deciso
secondo gli elementi di verità emersi nel processo e non in base a pregiudizi ideologici o
pressioni mediatiche, come avremo modo di approfondire meglio una volta rese note le
motivazioni della sentenza". Per l'Arci, "le dichiarazioni di Giovanardi e del rappresentante
del Sap che affermano che 'epilettici o tossicodipendenti non hanno diritto al rispetto e
alla vita', dimostrano quanto degrado si annidi all'interno delle nostre istituzioni e nei loro
rappresentanti".
Intervistato dal quotidiano Avvenire, anche il senatore Luigi Manconi, presidente della
Commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani, non risparmia
critiche alla sentenza della Corte d'appello. "L’assoluzione completa attuale tace il cuore
della questione - afferma Manconi -. Stefano Cucchi è morto mentre era nella custodia
dello Stato, mentre era affidato alle istituzioni". Per il senatore, si tratta di una sconfitta.
"Stefano Cucchi, mentre era agli arresti, è stato oggetto di un pestaggio - spiega Manconi
-, e poi non è stato assistito adeguatamente, come ha stabilito la sentenza di primo grado,
quindi lo Stato ha fallito nel suo compito principale". Sulla questione è intervenuto anche il
sindaco di Roma, Ignazio Marino, che prima di guidare la giunta capitolina si era
interessato al caso cucchi con un'indagine condotta dalla Commissione d'inchiesta del
Senato sul Servizio sanitario nazionale da lui guidato negli anni scorsi. Per il primo
cittadino di Roma, si tratta di una sentenza "dissonante rispetto alle conclusioni formulate
dalla Commissione d’inchiesta sul Servizio sanitario nazionale del Senato. La
Commissione d'inchiesta si è trovata di fronte alla drammatica vicenda di un ragazzo che
ha perso dieci chili in sei giorni: i consulenti della Commissione hanno documentato che,
oltre alla disidratazione, il corpo di Stefano riportava alcune lesioni anche vertebrali.
Nell'analizzare quanto accaduto, la sensazione forte della Commissione è che nei
confronti di Stefano Cucchi abbiano prevalso le esigenze legate agli aspetti cautelativi
rispetto a quelli sanitari".
Sulla sentenza, nei giorni scorsi si erano già pronunciate altre associazioni. "Aspettiamo di
sapere perché la Corte abbia deciso di mandare tutti assolti – sottolinea in una nota
Antonio Marchesi, presidente di Amnesty International Italia - Quel che è certo è che, a
cinque anni di distanza dalla morte di Stefano Cucchi, la verità processuale non sembra
dirci nulla di quel che è accaduto davvero. E non accerta alcuna responsabilità per un
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decesso che tutto appare meno che accidentale o auto procurato. Verità e giustizia sono
dunque ancora più lontane". Anche il presidente di Antigone, Patrizio Gonnella contesta la
sentenza. “La sua vita è stata nelle mani di tante istituzioni dello Stato. Decine di operatori
della sicurezza, della giustizia e della sanità pubblica lo hanno incrociato in quei giorni che
lo hanno portato alla morte. Eppure, secondo la Corte d’Appello, non c’è neanche un
colpevole – sottolinea -Dunque, nessuno è responsabile per la morte di Stefano Cucchi –.
Nei casi di tortura e di violenze istituzionali, nel nostro paese, perseguire i responsabili è
operazione tragicamente impossibile. Mancano le norme, come il reato di tortura e manca
una cultura pubblica di rispetto profondo della dignità umana. Anche in questo caso ha
prevalso lo spirito di corpo che impedisce la ricostruzione puntuale dei fatti e il
raggiungimento della verità storica. A questo punto non resta che sperare che la Corte
Suprema di Cassazione annulli una sentenza, come quella odierna, che si muove
perfettamente nel solco di una storia, quella italiana, che fa fatica a dare giustizia a chi ne
ha diritto”.
Da Left del 01/11/14
Left è insieme
Carlo Testini - Arci
Non smetteremo mai di dirlo, per non rischiare dì farlo dimenticare a chi ha il compito non
facile di promuovere benessere e sviluppo: la Cultura è parte fondamentale di un buon
sistema dì Welfare. Una comunità inclusiva, aperta alle diversità, che attraverso il dialogo
con gli altri costruisce benessere per i suoi cittadini ha bisogno dì persone che siano in
grado dì capire quello che gli accade intorno. Lo sviluppo di capacità culturali e creative ha
un impatto straordinario sulle nostre possibilità di interagire e di costruire relazioni positive.
Avere famigliarità con uno strumento musicale o con l'arte contemporanea, ci arricchisce e
ci spinge a conoscere altri mondi, altre esperienze di vita. Per questo non è davvero più
accettabile che in tempo di crisi dì bilanci pubblici si mettano in contrapposizione le spese
per la salute con quelle per la scuola o per i teatri. Così come appare sempre più urgente
non sottovalutare le esperienze di auto-organizzazione di cittadini, artisti, operatori culturali
che animano il mondo della cultura dell'oggi. Occupazioni, associazioni, co-working, sono
esperienze straordinarie che producono quella innovazione dei processi della quale
abbiamo davvero bisogno per rilanciare il nostro Paese. Un progetto di sinistra non solo si
deve mettere in ascolto ma deve trovare le forme per una relazione costante con queste
esperienze e considerarle uno dei pilastri per la ricostruzione di un sistema culturale oggi
fragile, a perenne rischio di frana. Questo vale anche per le Regioni e i Comuni. Le
amministrazioni locali hanno un ruolo fondamentale per lo sviluppo della cultura nelle
comunità e possono farlo in maniera intelligente solo se sì assumeranno l'onere di dare
spazio (e spazi) a tutte le forme di partecipazione attiva nel mondo delle arti e delle
produzioni culturali. La buona Cultura, oggi, si fa "insieme" o non si fa.
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INTERESSE ASSOCIAZIONE
Del 03/11/2014, pag. 5
La carica delle slot 2.0
Raccolgono soldi in Italia pagano le tasse
all’estero
Il prelievo aumenta? Ecco il rimedio sul filo della legge
Alessandro Barbera
A Bolzano, dove il gioco l’hanno dichiarato illegale tout court con una grida di stampo
manzoniano, nei bar si trovano ormai solo quelli. Si chiamano «totem», e somigliano in
tutto per tutto a bancomat per il prelievo di contante. All’ultima fiera del settore, a Roma,
sono andati a ruba. Ne vendevano di ogni tipo: neri o colorati, multitouch, con distributore
di gettoni o ricariche per cellulare. Per quanto tentino di cammuffarle, altro non sono che
macchine per il gioco on line: poker, gratta e vinci, scommesse sportive. Non sono le slot
machine tradizionali, quelle macchine protagoniste di una querelle iniziata ai tempi di
Vincenzo Visco su quanto dovessero versare al fisco. I «totem» non sono collegati alla
rete dei Monopoli, non sono gestiti dai concessionari italiani, non pagano le tasse in Italia.
I totem sono collegati a internet, e pagano le tasse dove sta il concessionario che le
gestisce. Poco importa se in un paradiso fiscale, in Gran Bretagna o a Malta. Un ordine
del giorno presentato alla Camera pochi giorni fa ha chiesto al governo di «rafforzare gli
interventi repressivi», nel timore che finiscano per far crollare il gettito dei concessionari
italiani. Per capire il perché di questa esplosione occorre leggere un passaggio dell’articolo
44 della legge di Stabilità, quello che aumenta per quasi un miliardo il prelievo sulle slot
machine dei concessionari italiani. «In attesa del riordino della disciplina in materia di
giochi pubblici» e «per assicurare parità di condizione fra imprese che offrono scommesse
per conto dello Stato e persone che offrono comunque scommesse con vincite in
denaro»...segue una lunga lista di disposizioni. In sintesi: i totem non sono autorizzati, ma
nemmeno del tutto illegali. Basta scorrere la lunga serie di dissequestri avvenuti negli
ultimi mesi: a Bolzano, a Venezia, Roma, Castel di Sangro, Catania. La Guardia di
Finanza chiude i centri, il giudice non convalida. La ratio è la stessa che già nel 2012
aveva permesso il dissequestro di un centro scommesse di Stanleybet, la multinazionale
inglese con sede a Liverpool. In quel caso il giudice sottolineò l’«assoluto dispregio delle
regole comunitarie nella distribuzione delle concessioni». Nel settore dei giochi, come già
è accaduto nel caso di Google, tracciare il confine fra ciò che è italiano e ciò che non lo è
a fini fiscali è sempre più difficile. Lo dimostra la soluzione kafkiana scelta dall’articolo 44
per una delle sanzioni da infliggere a chi installa un totem: non è pagata per l’apparecchio
cosiddetto «abusivo», ma per ciascuno degli apparecchi installati e dotati di regolare
concessione. La norma sembra folle ma non lo é: serve a dissuadere i gestori delle
macchine dal far installare apparecchi «legali» negli stessi spazi dei totem.
Fino a che lo Stato non riuscirà a farsi pagare le tasse dai gestori stranieri non resta che
farne pagare di più a chi ha una concessione in Italia. L’articolo 44 aumenta la tassa a
carico delle vincite fino al 9 per cento per le videolotterie (oggi è al 5 per cento, tre anni fa
era del 2), al 17 per cento (oggi è del 12 per cento) per le altre macchine come ad
esempio il videpoker: per i concessionari italiani significherebbe azzerare o quasi i margini.
Per limitare l’impatto dell’aumento, il governo propone di abbassare la vincita a chi gioca,
riducendo la percentuale minima dal 75 al 70 per cento. C’è un ma: la revisione delle
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quote significa intervenire sul software di ciascuna slot. Secondo Fabio Schiavolin di
Cogetech per adeguare le macchine sono necessari «da un anno a un anno e mezzo»: il
rischio è quello di un nuovo maxicontenzioso. Confindustria stima che nel frattempo
saranno stati persi 75mila posti di lavoro e fino a un quarto del gettito fiscale. Non un
grande affare.
Da il Sole 24 ore del 03/11/14, pag. 20
Terzo settore. I dati della rilevazione Unioncamere confermano nel 2014
la vivacità della forma giuridica
Imprese sociali più qualificate
Nonostante la crisi crescono le assunzioni tra le professionalità elevate
Pur soffrendo la crisi, l'impresa sociale conferma la propria attitudine all'innovazione e
all'investimento in risorse umane qualificate, affacciandosi all'ultimo scorcio d'anno con
una previsione di 31.550 assunzioni a fronte di 35.240 uscite, dato che comporta un saldo
negativo dello 0,8%, non certo entusiasmante ma largamente migliore della stima sul
totale dell'occupazione nell'imprenditoria italiana, attesa tra il meno 1,5 e il meno 2 per
cento. La fotografia aggiornata di quella che resta, a tutt'oggi, la forma giuridica più
dinamica nella galassia del Terzo settore giunge dalle Giornate di Bertinoro per l'economia
civile, organizzate da Aiccon, associazione per la promozione della cooperazione e del
non profit.
In quella sede Claudio Gagliardi, segretario generale di Unioncamere, ha presentato i dati
dell'annuale rilevazione elaborata dal sistema informativo Excelsior, sottolineando che
sono, in particolare, le figure professionali con un elevato livello di istruzione quelle che
sostengono la crescita del comparto.
Più in dettaglio, sono le imprese con il fatturato in aumento e quelle che hanno dichiarato
di avere realizzato innovazioni di prodotto o servizio nel corso del 2013 a presentare un
trend positivo nelle assunzioni del 2014. Passa, inoltre, dal 29% del 2008 al 33% di
quest'anno la domanda di lavoro di profili high skill, mentre tende a decrescere la quota
delle figure operaie, che ormai costituiscono appena il 3% del totale.
Il gruppo maggioritario resta quello delle professioni intermedie, cioè impiegati e
commerciali, attestato al 50% del totale, dopo aver toccato un minimo del 44% nel 2011.
Le figure specialistiche e tecniche maggiormente richieste dalle imprese sociali sono
quelle sanitarie, sia riabilitative che infermieristiche, gli educatori e formatori nel campo
delle disabilità e i docenti di scuole pre-primarie.
Il pre-consuntivo del 2014 è in chiaroscuro, ma va tenuto presente che, nell'arco degli
ultimi dieci anni, il numero delle imprese è raddoppiato, passando da 8.500 a 17.600,
mentre gli occupati totali hanno superato quota 400mila unità.
«Il modello dell'impresa sociale - ha spiegato Gagliardi - dimostra di saper combinare la
crescita economica con il benessere sociale, con una sempre maggiore integrazione tra
imprese non profit e mondo profit. Ma questa ibridazione ha bisogno anche di luoghi
istituzionali che contribuiscano a rafforzarla, come si stanno impegnando a fare, per
esempio, le Camere di commercio».
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ESTERI
del 03/11/14, pag. 1/14
Gerusalemme.
Il Monte del Tempio è il centro di una nuova contesa che ultraortodossi
e ammiratori della jihad vogliono trasformare in una guerra mondiale tra
ebraismo e islam
La città brucia e cresce la protesta giovanile nei quartieri arabi. Così si
prepara la Terza Intifada
Sulla Spianata delle Moschee dove i fanatismi
accendono l’odio
GAD LERNER
GERUSALEMME
È UNA parola sconsigliata. In Israele circola sottovoce, la pronunciano con tremore: di
nuovo Intifada, cioè rivolta, sollevazione, per la terza volta in 27 anni. Solo che stavolta
l’Intifada palestinese, siccome non c’è limite al peggio, sta divampando proprio là dove più
la si temeva, nel cuore di Gerusalemme, cioè dove ebrei e arabi, pur odiandosi, saranno in
ogni caso costretti a vivere mescolati. Destino reso ineluttabile dall’annessione della città
santa divenuta capitale “indivisibile” d’Israele nel 1967, quindi priva di check point e confini
tracciati. L’Intifada per ora sta risparmiando le mete del turismo e del pellegrinaggio cinte
dalle mura ottomane. Ma l’epicentro della contesa, che forse qualcuno ha pianificato di
trasformare in guerra mondiale fra islam e ebraismo, sorge proprio lì, meraviglioso e
inavvicinabile: la spianata delle Moschee edificate tredici secoli fa sopra il Monte ove fino
al 70 dopo Cristo svettava il Tempio d’Israele. Luogo divenuto islamico e come tale
vilipeso dai crociati cristiani, prima che nel 1187 Saladino li cacciasse definitivamente.
Luogo che fino a oggi nessun politico israeliano con la testa sulle spalle ha mai rivendicato
per un revival messianico del culto ebraico. Tutto intorno alla città vecchia, Gerusalemme
brucia. La polizia israeliana preferisce credere che la maggior parte dei focolai di protesta
giovanile nei quartieri arabi siano di natura spontanea, e cerca di reprimerli con modalità
poco appariscenti. Ma proprio ieri il governo, nella sua riunione domenicale, su proposta di
Netanyahu, ha approvato un disegno di legge che inasprisce fino a 20 anni di carcere le
pene per chi tira sassi sulle automobili provocando danni alle persone. Mentre lo Shin Bet
indaga su una possibile regia di Hamas o addirittura dell’Is (Stato islamico) dietro agli
incendi, ai finti incidenti stradali, alla strategia del terrorismo individuale di strada.
Anche perché le provocazioni non appaiono quasi mai casuali. Era del quartiere di Silwan
il palestinese che ha investito con l’auto, uccidendole, una donna e una neonata alla
fermata del métro leggero. E guarda caso a Silwan prometteva di traslocare, qualche
giorno prima, il ministro dell’edilizia Uri Ariel, d’intesa coi coloni che ne rivendicano
l’ebraicità in quanto parte dell’antica città di Davide.
Più mirato ancora il tentato omicidio di Yehuda Blick, rabbino-simbolo del nuovo
integralismo contemporaneo, che proprio sulla controversia della Spianata riscuote
consensi impensati. Non uno di quei pazzi estremisti che da anni predicano la demolizione
di al-Aqsa e della Cupola della Roccia (luoghi sacri all’islam) per ricostruirvi il Terzo
Tempio degli ebrei. No, Blick presenta un volto moderato e chiede “solo” che anche gli
ebrei abbiano il diritto di pregare lassù. In amicizia coi musulmani.
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Bisognerebbe chiedergli se sarebbe favorevole, per reciprocità, a libere preghiere
musulmane al Muro del Pianto, se non versasse in gravi condizioni all’ospedale. Fatto sta
che Brick a destra viene rappresentato come uomo di pace e di buon senso. Se sia un
piromane consapevole o inconsapevole, poco importa. Ha convinto non pochi seguaci a
praticare la disobbedienza recandosi sulla spianata a pregare. Trascina dalla sua parte
una componente in ascesa del sionismo religioso cui fa capo anche il ministro Ariel: il
partito della “Casa ebraica” guidato dal concorrente più temibile di Bibi Netanyahu, cioè
Naftali Bennett, oggi ministro dell’Economia.
Siamo proprio sicuri che l’Intifada di Gerusalemme nuoccia al disegno di potere
impersonato da Bennett? Lui è il prototipo perfetto della nuova destra israeliana. Patrocina
i coloni insediatisi nei territori palestinesi, elevandoli a autentici prosecutori del pionierismo
sionista delle origini. È religioso ma senza anacronismi estetici, basta una kippà ricamata
all’uncinetto senza travestirsi da ebreo polacco del diciassettesimo secolo. È stato un abile
uomo d’affari della new economy, ma ciò non gli ha impedito di fare il suo dovere nei
reparti d’eccellenza dell’esercito. Di origine statunitense, ma duro fino alla tracotanza nella
polemica pubblica con i liberal e Obama… Se nei giorni scorsi Netanyahu ha contribuito a
riscaldare gli animi dichiarandosi pronto a rilasciare licenze edilizie per mille nuove case
ebraiche a Gerusalemme est, è perché Bennett da tempo di case ebraiche fra gli arabi ne
chiede il doppio, duemila. Così accade che il sionismo religioso assuma l’egemonia
culturale dentro a un establishment israeliano chiamato a misurarsi con le nuove forme del
jihadismo. Al meeting del Centro Begin di Gerusalemme dedicato a “Il ritorno di Israele sul
Monte del Tempio”, funestato dall’attentato al rabbino Brick, altri oratori in precedenza
esprimevano così la loro protesta: «Vi sembrerebbe pensabile che Washington rinunci alla
Casa Bianca e Parigi alla Torre Eiffel? Noi siamo proprio il più umiliato dei popoli!».
Per fortuna venerdì scorso ci ha pensato anche la pioggia a sbollire gli animi nella città
vecchia, mentre tutto intorno continuavano le sassaiole, il lancio notturno di razzi, le
aggressioni e i sempre più frequenti incendi dolosi. Lassù a al-Aqsa è stato necessario
vietare la funzione religiosa islamica ai minori di 50 anni. Ma al tramonto, quando proprio lì
sotto al Muro del Pianto si affollavano gli ebrei per la preghiera del sabato, faceva una
certa impressione vedere i soldati col mitra a tracolla abbracciarsi in cerchio e cantare e
danzare insieme ai rabbini ortodossi: una volta soldati e rabbini erano due mondi non
comunicanti fra loro, oggi invece il sionismo religioso pervade anche l’esercito e assegna
alla guerra sinistre virtù teologiche.
A Gerusalemme le respiri nell’aria, queste ideologie contemporanee affiorate
improvvisamente, dal Califfato islamico che recluta volontari pure fra gli arabi israeliani,
alla pretesa ebraica di calpestare la Spianata. Solo che a Gerusalemme non c’è muro di
separazione che tenga: questa è la città in cui meno realistico appare il progetto europeo e
statunitense fondato sulla spartizione di due popoli in due Stati, separati in pace e
sicurezza. Qui, nel mezzo dell’Intifada di Gerusalemme, diviene impossibile eludere la
domanda più radicale e politicamente scorretta che aleggia nell’ultimo splendido romanzo
di Amos Oz, non a caso intitolato Giuda. Ambientata mezzo secolo fa in una città ancora
divisa fra Israele e Giordania, con i luoghi santi interdetti agli ebrei, la sua è una storia di
traditori e tradimento. Ma a queste infedeltà, al tradimento, Oz sente di dover tributare
benevolenza. Siamo proprio sicuri che fosse la soluzione migliore per gli ebrei, costruirsi
uno Stato tutto per loro? Al grande scrittore è consentito chiederselo, mentre i
gerosolimitani condannati a vivere mescolati testimoniano quanto sia faticoso, ma
inevitabile, cercare ogni giorno la convivenza possibile, lì in mezzo ai fanatici. Più
imbarazzante è rispondere alla stessa domanda per la sinistra israeliana, che lo scorso
sabato sera si è ritrovata, numerosa e spaventata, a Tel Aviv per commemorare il
diciannovesimo anniversario dell’omicidio del “suo” primo ministro Rabin. C’era anche il
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patriarca di questa sinistra oggi senza leader, il novantenne Shimon Peres, a ripetere con
voce tonante che “due popoli, due Stati” è l’unica soluzione per fermare la prossima
guerra. Nessuno osa contraddire questo assioma, anche se i più dubitano che sia davvero
praticabile. Sono belli, e sono davvero tanti, almeno 15 mila, quelli che in piazza a Tel Aviv
impersonano l’Israele laica che resiste all’offensiva del sionismo religioso. Ma ormai alcuni
dei loro dirimpettai giovani arabi di Gerusalemme ammirano piuttosto i tagliagole dell’Is. E
le moderne kippà all’uncinetto, seguaci del messianismo politico di Bennett, ora che hanno
preso il posto degli ultraortodossi intabarrati di nero, puntano gli occhi sul Monte del
Tempio. Senza accorgersi che forse anche loro stanno precipitando nell’infernale Geenna
posta a strapiombo sul versante orientale di un luogo sempre meno santo, dissacrato dal
fanatismo.
del 03/11/14, pag. 16
L’Est ribelle vota e sfida Kiev Mogherini:
“Ostacolo alla pace”
NICOLA LOMBARDOZZI
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
MOSCA .
Alle urne con rabbia, paura, e vaghe speranze di pace. Tra barricate, continue ronde di
miliziani armati, e echi di esplosioni in lontananza, la gente di Donetsk e Lugansk ha eletto
ieri Presidenti e Parlamento delle due repubbliche ribelli dell’Ucraina dell’Est. Un voto che
sarà riconosciuto solo dalla Russia, ma che è stato bollato come illegittimo da Kiev, dagli
Usa e dall’Ue. «Un ostacolo alla pace», lo ha definito il nuovo Alto rappresentante della
Politica estera e della Sicurezza comune dell’Unione Europea Federica Mogherini. Un
nuovo elemento di tensione che potrebbe servire a Kiev per giustificare una ripresa
dell’offensiva che ormai si paventa da settimane, e a Mosca per continuare ad armare e
sostenere logisticamente le truppe secessioniste. L’affluenza è stata molto alta, tutto si è
svolto con un relativo ordine in un clima di guerra e di nostalgia per un passato sovietico
riportato in auge con un profluvio di citazioni, ritratti e slogan di Stalin, Lenin e dei grandi
capi militari della Armata Rossa che fu. Dalle dichiarazioni degli elettori, riportate in diretta
dai seggi dalle tv russe, viene fuori la voglia di sancire una volta per tutte l’indipendenza
da Kiev e di rispondere con una rottura definitiva alla presa del potere ucraino da parte di
forze nazionaliste e “anti russe”. «Spero che finalmente tutti capiranno che siamo
indipendenti e che dovranno trattare la pace con noi», diceva una ragazza bionda dall’aria
concitata. «Non abbiamo niente a che vedere con i fascisti di Kiev. Ora dobbiamo
estendere la nostra area a Odessa, a Kharkiv e alle altre città russofone di Ucraina»,
ripeteva minaccioso un anziano minatore.
Sui risultati non c’era da aspettarsi alcuna sorpresa, visto che i due favoriti correvano
praticamente da soli contro concorrenti inseriti giusto per fare numero. Presidente di
Donetsk sarà dunque Aleksandr Zakharchenko, 38 anni, premier uscente, combattente
delle milizie ribelli, ferito sul campo durante le battaglie di questa estate. A Lugansk invece
è stato confermato l’attuale Presidente, Igor Plotinskij, 50 anni, già ufficiale dell’Armata
Rossa sovietica. Il progetto dichiarato è di federare al più presto le due repubbliche
autoproclamate sotto la sigla Novo Rossja, con la speranza di estendersi ancora alle altre
zone russofone.
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Un segnale a Kiev ma, forse, anche all’amica Russia, che negli ultimi tempi avrebbe
frenato ogni discorso sulla “guerra a oltranza fino alla vittoria”, per incanalare seppur
turbolente trattative di pace. Il Cremlino ha infatti spiegato la sua scelta di riconoscere le
elezioni con il fatto che questo «rinforza nei fatti l’autonomia delle due regioni», restando
aggrappato alla possibilità di una mediazione. I rappresentanti adesso eletti potrebbero
infatti sedersi ora al tavolo delle trattative con maggiore credibiltà e possibilità di essere
ascoltati. Ma è un passaggio molto stretto. A Kiev, dove le elezioni della settimana scorsa
hanno sconfitto il presidente Poroshenko e portato in Parlamento molte forze nazionaliste,
si urla contro la provocazione del voto a Est, si denunciano presunti sconfinamenti di
truppe russe, si paragona il Donbass alla ferita ancora aperta dell’annessione della
Crimea. Voci e rumori di guerra che si fanno sempre più forti.
del 03/11/14, pag. 1/25
CINQUE ANNI FA LO STESSO FURTO AD AUSCHWITZ
Nuovo oltraggio all’Olocausto rubata
l’insegna di Dachau
ADRIANO SOFRI
LA NUOVA impresa è il furto dell’intera porta-inferriata di Dachau, col motto “AR-BEIT
MACHT FREI” (il lavoro rende liberi), che là fu inaugurato e poi si diffuse alla maggioranza
dei campi di concentramento e di sterminio nazisti. Sdegno suscitato dalla profanazione,
esecrazione: ci mancherebbe altro.
L’ingresso del lager nazista di Dachau prima e dopo il furto della scritta
UNIVERSALI , sentiti? Chissà. Dopotutto, è passato tanto tempo, la specie dei testimoni
superstiti è quasi estinta, anche sul sacro incombe una prescrizione. E se non altro la
prescrizione inesorabile dell’abitudine: dopotutto, ancora, si tratta di una replica. L’insegna
con la scritta “ARBEIT MACHT FREI” era già stata rubata ad Auschwitz e ritrovata poco
dopo (bisogna scriverla maiuscola com’era, anche nelle citazioni, almeno per non perdere
la B invertita dal prigioniero costretto a lavorarla). Una bravata di neonazisti inetti, e
largamente svedesi, per giunta. (Rileggere Larsson, prego). Del resto, chi può dire chi stia
dietro la provocazione di Dachau… Già. Si oscillerà, così, “responsabilmente”, fra la
preoccupazione di eccedere nei toni indignati e quella di minimizzare. C’è qualcosa di
meglio da dire e da fare? Forse. Intanto, si può aver voglia di imparare, o richiamare alla
memoria, che cosa fu Dachau. È così facile oggi informarsi, e perfino fare un viaggio.
Dachau non fu solo il prototipo, il lager- scuola del concentrazionismo e dello sterminio
nazionalsocialista. Fu anche il luogo in cui gli alleati occidentali, gli americani soprattutto,
videro coi propri occhi che cosa vi si fosse consumato, e lasciarono documenti
impressionanti del loro sgomento.
Ma c’è un’altra sollecitazione che viene dall’impresa di Dachau, ed è legata alla stessa
incertezza sulla sua matrice. Non che il neonazismo sia introvabile: non è mai stato così in
salute, anche nel parlamento europeo. In salute rigogliosa è l’antisemitismo, modello
fondatore e perpetuo in ogni tempo di crisi, e di razzismi, nazionalismi, cospirazionismi,
separatismi e altre purezze. Se Auschwitz tiene il primato simbolico e materiale della
Shoah, la storia di Dachau è segnata fin all’origine dalla persecuzione di dissidenti,
“minorati”, e di omosessuali, zingari, migranti. A contrassegnare l’Europa della crisi non è
tanto l’auge del neonazismo, quanto la sua coincidenza e combinazione con chiusure e
regressioni che sembrano avere, o pretendono di avere, un segno altro e magari opposto.
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L’equivoco la fa da padrone. L’allarme motivato — e tardo, esitante — contro il fanatismo
jihadista sta sull’orlo del confine, e spesso lo scavalca, dell’intolleranza per i musulmani.
La solidarietà con la gente palestinese e l’opposizione alla politica del governo di Israele
sconfina volentieri nei discorsi su “gli ebrei” e nella confusione fra governo e stato
israeliano. L’esasperazione contro la confisca di libertà e ricchezza da parte di poteri
sovranazionali e indifferenti, anzi insofferenti delle regole della democrazia, fomenta una
paranoia collettiva che istupidisce e incattivisce.
Non è vero, ed è losco, che non ci sia più distinzione, bisogno di distinzione, fra sinistra e
destra. È vero che il peggio della sinistra e della destra vanno sempre più nutrendosi e
confondendosi nella frustrazione della crisi, nella paura della retrocessione e
dell’invasione, nella convinzione che un burattinaio tiri i fili, e che tutto ciò che si vede sia
la mascheratura di ciò che è.
Il po’ di buono che succede nell’Europa di oggi ha del paradosso. Nella Polonia che vuole
riscattare l’antisemitismo proprio, non quello altrui, con il museo dedicato a Varsavia,
prima che alla memoria della Shoah, alla lunga, preziosa vita ebraica polacca. Oppure
nell’Ungheria del plebiscitato Orbán costretto a ordinare una clamorosa marcia indietro
sulla tassazione dell’uso della rete dopo la mobilitazione delle strade.
Quanto al resto, desolazione. Il governo di sinistra francese ha sul collo il fiato del Fronte
Popolare, e non trova una parola decente per dolersi dell’uccisione di un giovane botanico
nella manifestazione contro una diga sciagurata. L’alleato italiano della signora Le Pen
sale nei sondaggi al ritorno da una missione internazionalista nella Corea del Nord e nella
Piazza Rossa di Mosca, con tanto di maglietta putinista. Una buona parte della “sinistra”
europea trova nella fatica dell’Ucraina a fare i conti con il proprio passato una
giustificazione alla simpatia, o almeno all’indulgenza, nei confronti di Putin. Il quale fa la
sua lezione sull’arroganza planetaria degli americani chiamandoli, lui, “nuovi ricchi”. Del
resto sono la stessa Lega e la stessa “sinistra radicale” che al tempo della Bosnia
andavano a cercare a Belgrado la loro illuminazione. Dei pasticci a Cinque Stelle meglio
tacere. Nemmeno l’avventura mostruosa dello “Stato Islamico” basta a fare un po’ di
ordine in tante teste voltate.
Ciò avviene dentro una crisi mondiale acuta, si vieta l’ingresso all’ebola e si drizzano
frontiere artificiali mentre qualche migliaio di volontari armati di barba parte dall’Europa alla
volta della Siria, e qualche centinaio di migliaia di siriani spogliati di tutto arranca alla volta
dell’Europa. Abbiamo 29 ministri della difesa e degli esteri, e nemmeno una politica estera
e una difesa europea. Facciamo finta che siano ancora affari nazionali. Il ministro degli
interni dispone del primo problema internazionale, i migranti. (Finito Mare Nostrum,
aspettiamo che affoghino all’ingrosso, in una volta sola, almeno 350 altri fuggiaschi — al
minuto lo fanno ogni giorno — per riparlarne). L’Europa soccombe sotto l’incapacità di
occupare i quattro cantoni della crisi economica e sociale, delle migrazioni, della sfida
jihadista e di Israele-Palestina. Qualcuno ha pensato che fosse il momento, l’altroieri notte,
di provvedere, ed è andato a prendersi il cancello di Dachau, con la scritta: “ARBEIT
MACHT FREI”.
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INTERNI
del 03/11/14, pag. 6
“Cucchi, inaccettabile morire mentre si è
affidati allo Stato pronti a riaprire le indagini”
Il procuratore Pignatone ribadisce: il caso non è chiuso “Ma la sentenza
va rispettata anche se non condivisibile”
ROMA .
Alla fine, dopo le polemiche iniziate venerdì e non ancora finite, parla anche il procuratore
di Roma, Giuseppe Pignatone. Il suo ufficio è stato più volte chiamato in causa in questi
giorni, soprattutto dalla famiglia Cucchi, che ha parlato di «fallimento del pubblici
ministeri». E ieri pomeriggio, dopo che il presidente della Corte d’Appello aveva parlato in
difesa del lavoro dei suoi giudici, il capo dei pm capitolini ha deciso di prendere le parti dei
suoi sostituti.
«Non è accettabile, dal punto di vista sociale e civile prima ancora che giuridico, che una
persona muoia, non per cause naturali, mentre è affidata alla responsabilità degli organi
dello Stato», spiega Pignatone. «La responsabilità penale però è, come vuole la
Costituzione, personale (e non collettiva) e deve essere riconosciuta dalle sentenze dei
giudici, che tutte meritano assoluto rispetto anche quando, come nel caso di specie, tra
loro contrastanti e, a parere della Procura, in tutto o in parte non condivisibili ». I pm che
hanno istruito il processo di primo grado, infatti, avevano chiesto (così come ha fatto dopo
di loro il procuratore generale) la condanna di tutti gli imputati. Ma la Corte ha ritenuto che
non ci fossero elementi. E l’insufficienza delle prove, hanno sottolineato molti, dipende
proprio da come sono state fatte le indagini.
Sono accuse che Pignatone non accetta. Precisando che la sentenza di appello «ancora
non è definitiva e non se ne conoscono le motivazioni», il procuratore dice: «Incontrerò
volentieri, come già altre volte in passato, i familiari di Stefano Cucchi e il loro difensore.
Se dalle loro prospettazioni e dalla lettura della sentenza emergeranno fatti nuovi, o
comunque l’opportunità di nuovi accertamenti, la procura è sempre disponibile, come in
altri casi, a riaprire le indagini e a cercare nuove prove nel rispetto, ovviamente, delle
regole dettate dalla legge».
Per la famiglia del 31enne romano morto nel 2009, è un segnale di speranza. «Sono frasi
importanti - dice Ilaria Cucchi - Secondo noi vanno azzerate tutte le perizie e le
consulenze che hanno fatto solo fumo e nebbia sui fatti». Il tutto mentre anche il sindaco di
Milano, Giuliano Pisapia, interviene nel dibattito e chiede giustizia. «Stefano Cucchi,
Federico Aldrovandi, Giuseppe Uva e altri non rimangano dei morti senza giustizia. Per
loro, per le loro famiglie e per tutti quei poliziotti, agenti di polizia penitenziaria, medici e
infermieri che nonostante le difficoltà fanno il loro dovere ogni giorno. È una questione di
civiltà. Invito tutti a guardare il viso tumefatto di Stefano Cucchi; i responsabili di questa
violenza non possono rimanere impuniti». ( m. e. v.)
26
del 03/11/14, pag. 1/6
Sbagli da non ripetere e contrasti da sanare
l’ammenda da cui riparte la pubblica accusa
CARLO BONINI
ROMA .
L’ostinazione civile di una famiglia che non si rassegna all’assenza di giustizia e
quarantotto ore di sgomento, rabbia e indignazione collettive convincono Giuseppe
Pignatone, procuratore della Repubblica di Roma, a trovare parole che, per la prima volta
in cinque anni, tolgono al “discorso giudiziario” sulla morte di Stefano Cucchi la sua
maschera disumana. E, senza tartufismi, ne rimettono al centro la questione sostanziale.
L’unica che conti, perché misura la qualità di una democrazia e quel principio di
uguaglianza di fronte alla legge che ne è uno dei capisaldi: l’unico che giustifichi l’altrimenti
incomprensibile monopolio della forza riconosciuto allo Stato e alle sue Istituzioni. Siano
un collegio giudicante, uomini delle forze dell’ordine, agenti penitenziari, medici di un
reparto protetto di un ospedale civile dove per legge viene ricoverato un detenuto. Dice il
procuratore: «Non è accettabile, dal punto di vista sociale e civile prima ancora che
giuridico, che una persona muoia, non per cause naturali, mentre è affidata alla
responsabilità degli organi dello Stato. Se emergeranno fatti nuovi o comunque
l’opportunità di nuovi accertamenti, la procura di Roma è sempre disponibile a riaprire le
indagini».
E tuttavia, nel segnalare l’insostenibilità di un’idea dello Stato che si auto assolve o,
peggio, si mostra legibus solutus, libero dal vincolo di legalità, perché al riparo del
“ragionevole dubbio” di un’insufficienza di prove figlia del vincolo di “omertà” dei suoi
servitori, Pignatone dice qualcosa di più. La «disponibilità a riaprire le indagini in presenza
di fatti nuovi», infatti, è, insieme, l’ammissione di un errore dell’ufficio della pubblica
accusa e un impegno a mettervi riparo. Tardivo, evidentemente. Ma pure sempre riparo.
Un impegno che va preso alla lettera e per questo meriterà di essere sottoposto a verifica,
perché non si risolva in una petizione di principio utile soltanto a raffreddare animi e
coscienze in attesa che altro le distragga. Epperò, appunto, nelle parole del procuratore
c’è anche l’ammissione di un errore, che va raccontato per quel che è stato.
Non più tardi di sabato scorso, il presidente della Corte di appello di Roma Luciano
Panzani aveva infatti difeso il lavoro dei giudici della sua Corte di Assise, ricordando che a
rendere “giuridicamente impossibile” l’accertamento della verità nel caso Cucchi è stata
un’insufficienza di prove ritenuta insormontabile. A meno di non voler violare garanzie
costituzionali altrettanto fondamentali (quelle riconosciute agli imputati) e dunque di
«aggiungere obbrobrio a orrore ». Ebbene, la raccolta delle prove (a carico, come a
discarico) è lavoro della pubblica accusa. Che — ammette ora Pignatone e vanno
ripetendo da tempo la famiglia Cucchi e il suo legale Fabio Anselmo — forse poteva
essere più aggressivo. Quantomeno non minato da un’aperta diffidenza che dal giorno
della morte di Stefano Cucchi ha diviso l’ufficio del pubblico ministero dalla parte civile
(che è e resta “l’accusa privata” di un processo penale) fino al punto da renderle
reciprocamente ostili persino sulla “qualificazione giuridica” da dare ai capi di imputazione
per cui i 12 tra agenti di custodia e medici sono stati mandati a processo. E ancora: che
poteva sicuramente essere più “vigile” sul guasto decisivo portato all’intera istruttoria da
una perizia di ufficio che elideva ogni nesso di causa-effetto tra il pestaggio di Stefano e la
sua morte fino al punto di individuare nella “fame e nella sete” la ragione del decesso (non
a caso, oggi, Ilaria Cucchi chiede che si riparta da una nuova perizia).
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Detto questo, le “nuove indagini” cui Pignatone impegna il suo ufficio hanno un sentiero
molto stretto. Nella sostanza e nei tempi. Perché se è vero che la morte di Stefano Cucchi
non è ancora verità giudiziaria immodificabile (resta il giudizio di Cassazione) è altrettanto
vero che esiste un principio costituzionale che impedisce che un imputato possa essere
giudicato due volte per uno stesso fatto. Solo “fatti nuovi” potranno dunque avvicinare a
una verità diversa da quella sancita sin qui da due corti giudicanti. Ma perché questo sia il
caso, quei “fatti nuovi” andranno appunto cercati. Possibilmente, cominciando a
considerare l’ostinata ricerca della verità della famiglia Cucchi come una risorsa, e non un
ostacolo.
del 03/11/14, pag. 12
Legge Severino, vertice Dem per le modifiche
In settimana si terrà il primo incontro tra i tecnici democratici. Ma Forza
Italia insiste: cancellare la decadenza di Berlusconi
LIANA MILELLA
ROMA .
Legge Severino sull’incandidabilità, si cambia. Primo incontro tecnico tra gli esperti
giuridici del Pd in settimana, per studiare quando, dove e come mettere mano per
un’operazione nella quale bisogna lavorare col bisturi. Certo non nella direzione che
vorrebbe Forza Italia, che insegue l’unico obiettivo di azzerare la Severino e cancellare la
decadenza di Berlusconi dal Senato. Repubblica anticipa la notizia che, dopo il caso De
Magistris, il sindaco di Napoli sospeso dopo la condanna in primo grado per abuso
d’ufficio ma reintegrato dal Tar, la maggioranza lavora a un «tagliando» al decreto
legislativo del 31 dicembre 2012, noto a tutti come legge Severino, che ha messo rigidi
paletti all’ingresso in Parlamento per chi ha subito una condanna definitiva. Proprio qui sta
il problema, perché la stessa legge, che ha inglobato disposizioni già contenute nel Testo
unico sugli enti locali, prevede la sospensione per gli amministratori anche dopo la
sentenza di primo grado.
Come funzionerà la modifica? Chi la presenterà? Riguarderà solo questo aspetto o anche
la retroattività? Dice David Ermini, il responsabile Giustizia del Pd di stretta fede renziana:
«Nei prossimi giorni riunirò i tecnici del partito e affronteremo la questione. Il punto di
partenza è che la Severino è una legge necessaria, perché garantisce liste pulite per le
competizioni elettorali, ma è scritta male, con evidenti ambiguità che devono essere
corrette, proprio per renderla migliore. Ma stiamo parlando di un intervento che di certo
non è facile». Soprattutto perché nel Pd non sono tutti d’accordo e perché Fi e Ncd
puntano a far cadere la retroattività. Ecco come Doris Lo Moro, ex magistrato, senatrice,
nella scorsa legislaregionali, tura autrice di un ddl sull’incandidabilità dopo le sentenze di
primo grado, espone i dubbi: «Di tutto c’è bisogno adesso tranne che di mettere mano alla
Severino. È una legge che funziona, ha già superato vagli di costituzionalità per gli articoli
sugli amministratori locali e supererà anche quello del Tar di Napoli. Bisogna solo
aspettare con serenità. Mi allarma la voglia di metterla in discussione e noto una palese
contraddizione. Da una parte Cantone, il commissario anti-corruzione, propone di
sciogliere i consigli dall’altra al primo intoppo si vuole smontare la Severino ». Ncd e Fi
sponsorizzano le modifiche. Soprattutto sulla retroattività. È la tesi di Berlusconi, non può
riguardare i reati commessi prima del dicembre 2012, compreso il suo. Non ha dubbi il
vice ministro della Giustizia Enrico Costa. «Noi di Ncd l’abbiamo detto subito. Non cambio
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idea perché sono al governo. Una legge che tocca il diritto all’elettorato passivo non può
creare una disparità di trattamento tra casi analoghi, sentenza definitiva per i parlamentari,
di primo grado per gli amministratori, ma soprattutto è inammissibile che sia retroattiva
perché si presta a strumentalizzazioni politiche». Via la retroattività chiede Fi. Basta
leggere Mariarosaria Rossi, tesoriera di Fi e angelo custode di Berlusconi: «La Severino
viola violazione sia nella lettera sia nella sostanza i principi alla base della rappresentanza
popolare ». E giù la richiesta, inserire il «tagliando» nel pacchetto delle riforme istituzionali.
Del 03/11/2014, pag. 7
Poche leggi approvate e governo ingordo
Così il Parlamento è diventato inefficace
Il rapporto OpenPolis: l’84% delle nuove norme sono opera
dell’esecutivo
Deputati e senatori, produttivi e improduttivi: il catalogo è questo. L’associazione
OpenPolis presenterà oggi un rapporto sulla produttività parlamentare, che qui
anticipiamo, con la classifica dei parlamentari e dei gruppi più «influenti ed efficienti» di
Camera e Senato. Il gruppo più produttivo è quello della Lega Nord (sia alla Camera sia al
Senato), mentre il Pd è il meno produttivo alla Camera ed è al sesto posto su dieci al
Senato. Come si spiega? «L’iniziativa legislativa - si legge nella ricerca - è stata quasi tutta
nelle mani dell’Esecutivo che ha dovuto cercare una mediazione sia tra forze non
omogenee che lo sostengono – Governo di larghe intese – che con le opposizioni, o
almeno una parte, in considerazione del margine esiguo al Senato. Così è scaturita una
dinamica fra Governo e partiti di opposizione che ha tagliato fuori i gruppi parlamentari di
maggioranza e favorito chi, pur non sostenendo il Governo, si è reso disponibile a lavorare
su determinati provvedimenti». È il caso della Lega, appunto, ma anche di Sel, secondo
gruppo più produttivo alla Camera (al Senato è nel misto), «che hanno espresso vari
relatori su provvedimenti molto importanti». A metà classifica a Montecitorio e al
terz’ultimo posto al Senato c’è il M5S, proprio perché – spiegano i ricercatori di OpenPolis
– «meno disponibile al compromesso parlamentare». Venendo al dettaglio, il campione di
produttività alla Camera è il deputato Matteo Bragantini della Lega, a seguire Francesco
Paolo Sisto di Forza Italia, presidente della commissione Affari Costituzionali, e
Massimiliano Fedriga, capogruppo della Lega Nord. Sul podio del Senato troviamo
Loredana De Petris di Sel, presidente del gruppo misto, Giorgio Pagliari del Pd e il leghista
Roberto Calderoli, che è anche vicepresidente di Palazzo Madama. Fra gli «zero
assoluto» – parlamentari con zero atti presentati, relazionati, emendamenti e interventi – ci
sono tanti nomi altisonanti. L’aspetto rilevante è che alla Camera sono tutti di Forza Italia
(tra questi Daniela Santanchè), mentre al Senato tutti italo-forzuti (c’è pure Denis Verdini)
eccetto Paolo Bonaiuti di Ncd. A loro va il premio improduttività 2013-2014.
Intendiamoci però su che cosa sia la produttività. «Non è produttivo – si legge nel rapporto
OpenPolis – il parlamentare primo firmatario di innumerevoli ddl ma quello che porta a
casa una legge, non è produttivo chi protocolla centinaia di interrogazioni ma chi riesce ad
ottenere una risposta da parte del Ministro competente». L’indice attribuisce un punteggio
al superamento dei vari passaggi dell’iter parlamentare (dalla presentazione di
un’interrogazione o di un disegno di legge al momento in cui esso diventa legge, sempre
che arrivi a conclusione). Dal rapporto, oltre al premio efficienza (o inefficienza) per
deputati e senatori, emergono due dati interessanti: solo il 13 per cento degli atti non
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legislativi ha avuto una conclusione (ne sono stati presentati, dall’inizio della legislatura,
fino al 10 ottobre scorso, 19.244 e solo 2.647 sono andati a buon fine). «La parte più
considerevole è rappresentata dalle interrogazioni rivolte dai parlamentari ai ministri e che
il Governo, pur avendo il dovere di rispondere, preferisce ignorare». L’altro dato riguarda
la prova muscolare del Governo: «Delle 86 leggi finora approvate ben 72 sono di iniziativa
Governativa. L’accentramento nelle mani dell’Esecutivo del potere legislativo è evidente
dalla sproporzione rispetto a quanto proposto dal Parlamento (84% vs 16%)». Ma se
l’Esecutivo, specie quello Renzi, esagera nell’intraprendenza legislativa, è vero anche che
fra i parlamentari sembra esserci una gara a protocollare quanti più ddl possibile, chi se ne
importa poi se non vedranno mai la fine: sono 3.223 i disegni di legge che ancora non
sono stati neanche analizzati (l’83 per cento). Solo il primo giorno di legislatura ne sono
stati presentati 600.
Del 03/11/2014, pag. 3
Imu e Tasi, imposta unica nella legge di
Stabilità
Allo studio un emendamento per il riordino fiscale sugli immobili
I sindaci potranno intervenire sulle aliquote, resta fuori la Tari
ROMA Il governo accelera sulla tassa unica per la casa. Il primo passo è la fusione della
Tasi — la tassa sui servizi indivisibili come l’illuminazione pubblica, che si paga anche
sull’abitazione principale — con la vecchia Imu, che invece riguarda le seconde case. Dal
2015 ci sarà un tributo unico e la decisione dovrebbe arrivare con un emendamento al
disegno di legge di Stabilità, che oggi riprende il suo cammino in commissione Bilancio
della Camera con una serie di audizioni. Dalla nuova tassa unica resterà fuori, almeno per
il momento, la Tari, la tassa sui rifiuti. Sia perché le modalità di calcolo non sono
omogenee, visto che non c’entra la rendita catastale. Sia perché resta in piedi l’idea di
agganciare la Tari alla quantità di rifiuti prodotti: progetto più volte annunciato ma mai
realizzato che in ogni caso richiede tempi più lunghi. Nella nuova tassa unica, invece,
potrebbero entrare subito alcuni tributi minori che riguardano le attività commerciali, come
quelli sulla pubblicità e sull’occupazione di suolo pubblico, cioè sui tavoli all’aperto.
La nuova tassa unica sulla casa lascerà un certo margine di manovra ai sindaci. Saranno
loro a decidere l’aliquota all’interno di una forchetta fissata a livello nazionale. Dovrebbe
sparire la quota a carico dell’inquilino che, al di là delle buone intenzioni nella costruzione
della Tasi, ha portato confusione in una materia già complicata di suo. Si torna indietro
anche sulle detrazioni. Oggi i sindaci hanno di fatto libertà assoluta con il risultato di 100
mila combinazioni possibili, secondo i calcoli del servizio politiche territoriali della Uil.
Nell’emendamento al ddl sulla Stabilità si dovrebbe riprendere il modello della vecchia Imu
sulla prima casa che prevede una detrazione fissa di 200 euro a famiglia più altri 50 euro
per ogni figlio a carico.
Per arrivare alle vera e propria «local tax» di cui ha parlato Matteo Renzi sarebbe
necessario aggiungere alla tassa unica anche le addizionali Irpef di Comuni e Regioni. Ma
l’operazione richiede tempi più lunghi: anche qui le modalità di calcolo non sono
omogenee visto che entra in gioco il reddito a prescindere dal fatto di avere una casa
oppure no. Questo pezzo della riforma potrebbe salire su un altro treno, l’attuazione delle
delega fiscale, forse insieme al tax day: uno o due giorni entro i quali pagare le tasse al
posto delle mille scadenze previste adesso.
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Nella maggioranza, Ncd chiede con Maurizio Sacconi di «semplificare l’imposizione sugli
immobili anche per incoraggiare il mercato». Il presidente della commissione Bilancio della
Camera Francesco Boccia (Pd) dice che «non ci sarà la crescita dello 0,6% del prodotto
interno lordo» prevista dal governo per il 2015. Proprio oggi l’Istat presenterà
l’aggiornamento sulle «prospettive per l’economia italiana». Possibile che il dato sul Pil
2015 venga fissato al ribasso rispetto alle stime del governo.
Lorenzo Salvia
Del 03/11/2014, pag. 9
Zagrebelsky: quello di Renzi è decisionismo
andreottiano
Il costituzionalista: usa la forza per tirare a campare, non per imporre
visioni strategiche
Giuseppe Salvaggiulo
Una conversazione con Gustavo Zagrebelsky a margine di un convegno su «Bobbio
costituzionalista» conduce dalle cime della filosofia politica alle bassure italiane.
Tra i principi della democrazia secondo Bobbio c’è il voto uguale: come lo spiega ai
suoi studenti che le chiedono di Porcellum e Italicum?
«Nella sentenza sul Porcellum, per la prima volta la Corte costituzionale parla
dell’uguaglianza del voto non solo “in entrata”, come valore potenziale, ma anche “in
uscita”, nell’attribuzione pratica dei seggi. Il premio di maggioranza creava un’abnorme
distorsione. Ora si prova a superare l’obiezione stabilendo una soglia per accedere al
premio. Ma c’è un criterio razionale o è puro e semplice arbitrio: 37%, 40%? Il criterio sta
nelle previsioni dei partiti che sperano di avvantaggiarsene, sulla base dei sondaggi. Ma la
legge elettorale deve servire ai cittadini o ai partiti? L’unica soglia giustificabile sarebbe il
50,1% dei voti: un premietto per rafforzare chi ha già la maggioranza dei voti».
La «legge truffa» del 1953.
«Famigerata. Se era truffaldina quella, che cosa dire di una legge che porta dal 37 al
55%?».
Ma che cosa ne sarebbe della governabilità, senza premio di maggioranza?
«Governabilità, parola scorretta. Che cosa significa? Attitudine a essere governato.
Significato passivo. Se dico “l’Italia è ingovernabile” penso a corporazioni, corruzione,
mafia. Da Craxi in poi, con un rovesciamento semantico, governabilità vale come aumento
della forza di governo. Significato attivo. Tutte le riforme di cui parliamo non sono per la
governabilità, perché non toccano la società, ma vogliono rafforzare il governo,
razionalizzando uno spostamento di baricentro che c’è già stato».
A danno del Parlamento?
«Il Parlamento ha perso iniziativa legislativa, ratifica solo quelle del governo. Quando fu
introdotta la proporzionale, un secolo fa, vi fu chi disse che tanto valeva eliminare i
deputati e far decidere tutto dai segretari dei partiti, secondo il rispettivo peso elettorale.
“Tanto gli eletti in ciascuna delle nostre liste devono fare quello che diciamo noi”. Una
proposta che al nostro Renzi potrebbe piacere: disciplina a costo zero».
Nel frattempo il Pd è diventato il partito della nazione.
politica. Il partito-tutto non è concepibile secondo la nostra definizione di democrazia. C’è
una classica definizione del partito politico come “parte totale”. Quando un partito sceglie
una connotazione totalizzante, come la nazione, diventa parte totalitaria».
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A vocazione maggioritaria.
«A vocazione totalitaria, direi. La vocazione maggioritaria mi sembra una banalità: quale
partito ambisce alla minorità?».
Come mai la suggestione totalizzante funziona?
«In una fase d’inquietudine, è ovvia la tendenza a compattare. Ma una cosa è la grande
coalizione, in cui le parti restano tali contraendo un patto, altra è questa strana e melmosa
combutta italica, senza nemmeno la nobiltà dell’union sacrée».
C’è un deficit di conflitto?
«Il professor Bobbio, in altri tempi, aveva usato una formula molto forte: la discordia è il
sale della democrazia. Discordia è parola estrema: Tucidide la riteneva premessa della
stasis, la quiete prima della tempesta della guerra civile. In realtà Bobbio, radicalmente
dicotomico sul piano teorico, nella pratica era un mediatore. Infatti per lui, come per il suo
maestro Kelsen, la democrazia non può esistere se non ha al fondo un compromesso e il
compromesso è la Costituzione».
Arte anacronistica, il compromesso: va di moda la decisione. Renzi pare ispirarsi
più a Schmitt che a Kelsen e Bobbio.
«C’è decisionismo e decisionismo. Schmitt aveva un’idea bellica della decisione: il nemico
non va sconfitto, ma eliminato. L’attuale decisionismo mira piuttosto all’andreottiano tirare
a campare. Serve a fronteggiare le difficoltà del giorno per giorno, a tappare buchi, a
tamponare con urgenza le situazioni. Un decisionismo non tragico, diciamo in salsa
mediterranea, all’amatriciana. Il governo non combatte nemici per imporre una sua visione
strategica, che si stenta a vedere, ma cerca aggiustamenti temporanei, posticipando i
problemi».
E la piazza fisica, delle manifestazioni di protesta?
«Schmitt avrebbe approvato la manganellatura degli operai, ovvero del nemico. Non è
andata così. Il governo non ha approvato il manganello. Anzi, ha espresso solidarietà a
manganellati e manganellatori: più andreottiani di così!».
Non si può dire che l’idea del nemico da riportare all’ordine sia estranea alla fase
politica attuale.
«L’ordine attuale è una somma di compromessi quotidiani. L’ordine duro e puro è quello
invocato per porre fine al “biennio rosso” in Italia, o al caos tinto di socialismo della
Germania di Weimar. Sappiamo dove ha portato. Oggi, in Italia, il pericolo mi pare che
possa derivare dal difetto d’opposizione politica efficace in Parlamento e dalla supplenza
da parte d’una opposizione di piazza. Qui, vedrei il rischio della radicalizzazione. La
manifestazione di Roma aveva un evidente significato ultrasindacale. Farsene troppo
facilmente una ragione può essere irresponsabile».
Quando coniò la formula «democrazia dell’applauso» per Craxi, Bobbio si beccò
l’insulto «intellettuale dei miei stivali». A voialtri è toccato «professoroni e
parrucconi».
«È già una bella soddisfazione avere a che fare con parrucche e non con stivali.
Cambiamo le parole, ma siamo sempre lì. Ci sono “no” che sono degni quanto i “sì”. Ha
presente Bartleby, lo scrivano di Melville?».
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LEGALITA’DEMOCRATICA
del 03/11/14, pag. 1/19
Il boss: “Così lo 007 mi salvò dall’arresto”
I verbali del pentito Flamia: “Nel 2008 un agente dell’Aisi mi disse che
era stata volutamente sbagliata la data di nascita sul mandato e garantì
che quando sarei finito in carcere non mi avrebbero contestato
l’associazione mafiosa”. Indaga la procura di Palermo
SALVO PALAZZOLO
PALERMO .
Sapeva che l’avrebbero arrestato una mattina di dicembre. Sapeva pure per quale reato,
una bazzecola rispetto al suo ruolo di boss. Sapeva tante cose Sergio Rosario Flamia,
rispettato padrino di Bagheria: fare il confidente dei servizi segreti gli tornava molto utile.
Un giorno di fine 2008, il suo contatto lo chiamò al telefono per dire che sarebbe stato
opportuno vedersi subito. Al solito posto, in campagna. Esordì: «Guarda, dovevano
arrestare pure a te stanotte, io sono riuscito a spostare la carcerazione facendo
volutamente un errore sulla data di nascita nell’ordinanza di custodia cautelare».
Aggiunse: «Sicuramente, ti arresteranno fra tre, quattro giorni, ma stai tranquillo che noi ti
aiutiamo, intanto ti stiamo facendo contestare un articolo che è una cosa poco grave
rispetto all’associazione, l’articolo 418, assistenza agli associati ».
IL VERBALE IN PROCURA
Questo ha raccontato Sergio Flamia, un tempo confidente dell’Aisi oggi collaboratore di
giustizia, ai magistrati del pool trattativa, che da qualche tempo indagano sui rapporti fra
mafiosi e uomini dei Servizi. Flamia vuole allontanare il sospetto di essere un pentito
costruito a tavolino per smontare il processo Stato-mafia, e allora ha deciso di raccontare i
retroscena più segreti dei suoi incontri con gli 007: dalla ricompensa ufficiale (150 mila
euro), per aver fornito nel 2008 informazioni sui nuovi boss di Palermo; ai favori e ai
contatti, che ora rischiano di mettere nei guai alcuni esponenti dell’intelligence.
Flamia ha riempito 124 pagine davanti ai pubblici ministeri Nino Di Matteo, Francesco Del
Bene e Francesca Mazzocco. E adesso le sue parole deflagrano nel cuore dell’indagine
che sta facendo anche il Copasir, il comitato parlamentare di controllo sui Servizi, non solo
sul caso del boss confidente, ma anche sul cosiddetto protocollo “Farfalla”, l’accordo fra il
vecchio Sisde e il Dap per carpire informazioni nei bracci del 41 bis. Qualche giorno fa, il
sottosegretario con delega ai Servizi, Marco Minniti, ha assicurato che dalla
documentazione in possesso dell’Aisi non risultano incontri in carcere fra gli agenti segreti
e Flamia. Incontri che sarebbero illegittimi. Ma è lo stesso Flamia a smentire questa
ricostruzione.
Repubblica ha potuto leggere il verbale del neo pentito, risale al 4 febbraio scorso, di
recente è stato depositato al processo trattativa oltreché al processo d’appello per il
generale Mario Mori (ex capo del Sisde). A pagina 57, il pm chiede: «Ha avuto contatti
mentre era in carcere?». E Flamia spiega che durante la detenzione nel carcere di
Pagliarelli, «lui», il suo tramite dal luglio 2008, «mandava a chiedere qualche
informazione, ma a livello di scemenze». Spiega che «una-due volte» un agente dell’Aisi
«si è presentato come avvocato, mi chiamavano in cella e io andavo. “Mi manda... ne sai
parlare di questo discorso?”. Una delle cose che mi ha chiesto: voleva sapere cosa
intendevano dire i Graviano con il discorso “il Milan è più forte della Juventus” o viceversa,
che loro pensavano erano discorsi criptati». Non era proprio una «scemenza». All’epoca,
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si sospettava che dietro quei riferimenti calcistici nelle lettere dei capimafia al 41 bis
potessero nascondersi ordini di attentati. Dice Flamia: «Io in cambio di queste informazioni
non avevo chiesto niente se non il favore per il procedimento che avevo». È a questo
punto che l’ex boss racconta delle rassicurazioni avute dagli 007. Sull’arresto ritardato
rispetto al blitz “Perseo”, che il 16 luglio 2008 portò in carcere una novantina di persone.
Sulla data di nascita sbagliata. E soprattutto sull’imputazione annacquata.
LA CONDANNA CASSATA
Non millantava l’agente segreto. Nel provvedimento di fermo, che i magistrati hanno
compilato sulla base di un rapporto dei carabinieri, la data di nascita di Flamia è sbagliata:
4 febbraio 1958, anziché 21 febbraio 1963. E in quello stesso rapporto degli investigatori,
pieno di intercettazioni, Flamia viene denunciato solo per «assistenza agli associati» e non
per il più grave reato di «associazione mafiosa» che meritava tutto. Quattro anni dopo,
questo trattamento di favore l’hanno stigmatizzato con parole di fuoco i giudici della corte
d’appello di Palermo, che hanno annullato la condanna del boss Flamia a 3 anni e 4 mesi,
rimandando gli atti in procura. Proprio perché quella contestazione di «assistenza agli
associati» era una vera corbelleria. Come aveva fatto l’agente dei Servizi ad alleggerire la
posizione del boss confidente? Il giorno che Flamia decide di collaborare con i pm manda
il figlio dal suo contatto, «per vedere come la pensa lui e se mi può dare una mano d’aiuto
— spiega ai pm — per me farglielo sapere è stata anche una questione di scrupolo, per
avere la coscienza a posto che io non avrei danneggiato questa situazione dello Stato. E
lui mi ha garantito che tutto quello che era stato fatto con me era stato fatto alla luce del
sole. Quindi, disse a mio figlio, tutto quello che sa lo deve dire tranquillamente». Ma, ora,
l’agente segreto che entrato in carcere spacciandosi per avvocato rischia l’accusa di falso
ideologico.
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BENI COMUNI/AMBIENTE
Economia
del 03/11/14, pag. 30
Rinnovabili
Dopo il picco arriva la frenata. Dall’Europa
Tirano Cina e America. Meno vincolanti gli impegni presi dalla Ue
Elena Comelli
Le fonti pulite continuano a correre in tutto il mondo, ma da noi la politica tira il freno e
l’Italia perde terreno. Mentre le installazioni globali di fotovoltaico quest’anno cresceranno
almeno di un altro 20%, trainate soprattutto da Cina e Usa, il mercato italiano, come ci si
aspettava dopo la fine degli incentivi, si dimezza: la nuova potenza installata nel 2014 si
fermerà a 800 megawatt — stando alle ultime previsioni di Ihs — contro i 1.700 megawatt
dell’anno scorso.
Tagli
Ma non è solo la fine degli incentivi che fa scappare dall’Italia gli investitori nell’energia
pulita. È il taglio retroattivo imposto dal provvedimento «spalma-incentivi» agli impianti
superiori ai 200 kilowatt, di cui sono appena usciti i regolamenti attuativi, che ha fatto
insorgere gli investitori esteri — da Terra Firma fino a Suntech e Riverstone — finiti sui
giornali di mezzo mondo per denunciare l’impossibilità di lavorare nel Paese, a causa
dell’incertezza del diritto. Ora i produttori hanno un mese di tempo per scegliere le
modalità del taglio, da cui il governo spera di ricavare 500-700 milioni l’anno. Una cifra che
dovrebbe andare a ridurre il peso sulle bollette degli incentivi alle rinnovabili, ormai arrivato
a 11 miliardi. «Se il governo spera di calmierare in questo modo la bolletta delle pmi, si
sbaglia: per sgravarle basterebbe trasferire ai consumatori i vantaggi economici dovuti alla
diminuzione, innescata dalle rinnovabili, del prezzo dell’energia elettrica all’ingrosso, che
invece si perdono per strada», commenta Agostino Re Rebaudengo, presidente di
AssoRinnovabili, che ha già fatto ricorso al Tar per sostenere l’incostituzionalità dello
spalma-incentivi. «Il rischio ora è distruggere uno dei pochi settori in crescita
dell’economia, con una serie di fallimenti a catena proprio di quelle piccole imprese che il
governo voleva difendere. Solo nell’ultimo anno, ai produttori da fonti rinnovabili sono stati
addossati maggiori oneri per un miliardo e adesso sta per entrare in vigore un taglio
retroattivo degli incentivi da 350 milioni all’anno: non c’è da stupirsi se gli investitori
scappano e il mercato fotovoltaico si dimezza — rileva Re Rebaudengo —. Prima delle
elezioni, il premier aveva fatto stampare migliaia di manifesti con la promessa “Se vince
Renzi, energie rinnovabili sopra il 50%”, ma se va avanti così non ci arriveremo mai».
Il governo italiano è in buona compagnia. Tra i grandi del fotovoltaico ora in fase
discendente c’è anche la Germania: quest’anno il mercato si fermerà a 2,1 gigawatt,
rispetto ai 3,3 gigawatt di un anno fa. E le prospettive, in Europa, non sono allettanti.
L’accordo raggiunto nei giorni scorsi dal Consiglio europeo sugli obiettivi del nuovo
pacchetto energia per il 2030, che saranno presentati alla conferenza Onu sul clima di
Parigi a fine 2015, si limita a confermare gli obiettivi sul taglio delle emissioni di gas serra
del 40% rispetto ai livelli del 1990 e sulle rinnovabili, che dovranno arrivare al 27% dei
consumi finali di energia, mentre lima al ribasso il target sull’efficienza energetica: dal 30%
al 27%. Ma l’unico obiettivo vincolante è quello sulla CO2, mentre i target su rinnovabili ed
efficienza valgono solo a livello comunitario e non saranno tradotti in obiettivi nazionali.
Più occupati
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La scelta di non adottare obiettivi vincolanti, voluta fortemente dal governo polacco, rende
la futura politica europea sul clima molto più blanda di quella attuale, che indica invece con
precisione i target nazionali e prevede sanzioni per chi non li raggiunge. «La stessa
Commissione ha stimato che con un obiettivo per le rinnovabili al 30% si potrebbero avere
al 2030 fino a 1,3 milioni posti di lavoro in Europa, mentre con un obiettivo limitato al 27%
se ne avranno solo 700 mila — fa notare Re Rebaudengo —. Perché rinunciare a 600 mila
occupati? Senza trascurare l’aspetto strategico delle rinnovabili in termini di sicurezza
delle forniture, fattore particolarmente rilevante dopo i recenti sviluppi geopolitici, sia a est
che a sud dell’Europa».
In pratica, confermando i due target principali, il Consiglio europeo si è limitato a prendere
atto della transizione energetica in corso, senza prevedere investimenti aggiuntivi rispetto
al trend già in atto. In base a uno studio realizzato dalla società di analisi Ecofys anche in
uno scenario business as usual le fonti pulite raggiungerebbero senza sforzo il 27% sui
consumi europei al 2030, quota che in Italia è stata ormai superata, con le fonti verdi che
coprono già il 40% del fabbisogno.
Del 03/11/2014, pag. 18
Genova, L’Aquila monumenti all’Italia divisa
Di Ferruccio Sansa
Piove su Genova. Domani sarà ancora allerta meteo. Che significa: salvatevi le chiappe, lo
Stato vi abbandona. Genova, ma anche L’Aquila lasciata morire. Queste città testimoniano
più di lapidi e mausolei al Risorgimento: sono il monumento alla divisione dell’Italia. L’Italia
è il mio Paese”. Ascolti tuo figlio che ripete la lezione di geografia. E ti fermi su quella frase
per lui naturale, ma che in te suscita tante domande. Contribuire per la tua piccola, minima
parte allo sviluppo di una nazione; ma anche sapere che, se avrai bisogno, non sarai
lasciato solo. Ancora: avere un modo di sentire, sogni e un destino comuni con sessanta
milioni di persone. Questo significa essere cittadini. Ma è davvero così in Italia? No.
Domani a Genova si annuncia un’altra allerta meteo che in fondo vuol dire: state attenti,
salvatevi le chiappe, perché lo Stato non ha fatto la sua parte. Per affrontare la prima
emergenza sono stati stanziati 12 milioni. Una miseria, un insulto. Genova e i genovesi
sono stati lasciati soli dall’Italia: non si trovano 400 milioni che metterebbero in sicurezza
l’intero territorio e si spendono 7 miliardi per la Tav che vede aumentare i costi del 160%
per la gioia delle imprese. Per questo, non solo per risparmiare vite umane, sarebbe stata
necessaria ben altra risposta: per salvare l’idea di un Paese. La base di ogni realizzazione
comune. Genova, e prima L’Aquila. Come abbiamo potuto accettare, noi cittadini e non
solo la politica, che una città tra le più belle fosse abbandonata, considerata morta?
Mentre venivano spesi centinaia di milioni per le celebrazioni dell’Unità d’Italia (spesso
inutili e retoriche, oltre che fonte di corruzione) non abbiamo trovato le stesse risorse per
rimettere in sesto una città. Le rovine dell’Aquila testimoniano più di lapidi e mausolei al
Risorgimento: sono il monumento alla divisione dell’Italia. E che dire del Sud? Il ministro
Graziano Delrio proclama: “Dob - biamo rilanciare il Sud come è stato fatto per la
Germania Est dopo la riunificazione”. I tedeschi in vent’anni hanno investito 1.400 miliardi
e oggi esiste una sola Germania. Ma per risolvere l’eterna questione meridionale l’Italia ha
speso 400 miliardi solo di stanziamenti eccezionali (in totale sono infinitamente di più),
come ricordano Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella in “Se muore il Sud”. E siamo al punto
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di partenza. Ancora con chi dal Sud punta il dito contro i Borboni e Roma. Chi da Nord si
abbandona a una malcelata intolleranza. Che dire della classe politica di intere regioni,
incapace, quando non connivente con la mafia? Che dire della corruzione e dell’illegalità
endemiche? Che dire di quegli imprenditori del Nord che, riempite le tasche di denaro
pubblico, sono tornati a casa o emigrati a Londra? Servirebbero soldi - che oltretutto non ci
sono più - per salvare Genova, L’Aquila e il Sud. Ma soprattutto servirebbero una classe
dirigente degna e una nazione fatta di cittadini che sappiano fare sacrifici insieme per poi
vivere meglio. Perché non ci si salva da soli. Questo in Germania c’è. In Italia no.
Del 03/11/2014, pag. 17
Alluvionati uniti contro la politica del fango
Di Domenico Finiguerra
Subito dopo un’esondazione o una frana, che provoca morti e dispersi, le dirette televisive
e gli editoriali sui principali quotidiani si sprecano. Si intervistano esperti, direttori della
protezione civile, sindaci, cittadini con il badile, volontari sporchi di fango. Ma poi, passate
solo poche settimane, gli “strascichi" degli episodi di dissesto idrogeologico trovano spazio
a pagina 27. Così, di alluvione in alluvione e di frana in frana, ci trasciniamo una situazione
che ormai è considerata facente parte dell’arredamento di “Casa Italia”. Tra alluvioni e
frane negli ultimi 50 anni sono state quasi 7000 mila le vittime mentre dal dopoguerra ad
oggi i danni sono stati quantificati in oltre 60 miliardi di euro. I comuni ad elevata criticità
idrogeologica sono 6.631, per una popolazione potenzialmente a rischio pari a 5,8 milioni
di persone. Numeri che, da soli e senza ulteriori commenti, studi o approfondimenti,
dovrebbero incollare la politica alle proprie responsabilità. E invece la politica, dopo
essersi recata ai funerali delle vittime per piangere lacrime di coccodrillo, una volta uscita
dalle chiese e terminato il solito balletto dello scaricabarile, entra puntualmente nei consigli
comunali, regionali o dei ministri, per approvare cementificazioni di ogni genere, porti,
grandi opere, trafori. Interventi contro il dissesto idrogeologico? Sempre in fondo alla lista
delle priorità. Ma la goccia ha oggi fatto davvero traboccare il vaso. Ed i cittadini, i comitati,
gli alluvionati, hanno deciso di passare dalla denuncia del giorno dopo alla proposta attiva,
all’autorganizzazione dal basso. Stanchi di essere malsopportati, trattati come un
problema, ciascuno isolato nel proprio territorio dissestato, hanno deciso di unirsi e di
costituirsi in “massa critica”, per obbligare le istituzioni a fare concretamente il proprio
dovere e soprattutto a farlo con giustizia e correttezza, mettendo fuori gioco le politiche di
intervento legate a logiche discrezionali che spesso creano danni ulteriori e corruzione. La
rete nazionale si chiama “Mai più”, mai più bombe d'acqua e disastri ambientali –
Movimento e rete delle comunità dei fiumi e del popolo degli alluvionati” ed ha le idee
molto chiare: ricostruire il rapporto fra le comunità e i territori attraversati da corsi d'acqua;
cambiare il modello economico e di gestione del territorio concausa del dissesto
idrogeologico; ottenere trasparenza ed equità degli interventi. In poche parole, rimuovere
lo spesso strato di fango accumulato in tutti questi anni lungo tutto lo stivale. Alluvione
dopo alluvione.
maipiu.eu
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Del 03/11/2014, pag. 10
Più gas serra, ma cambiare si può
Il rapporto Onu sul clima: «Emissioni in aumento, mai livelli così alti in
800 mila anni»
Zero emissioni. Se vogliamo evitare danni «gravi, diffusi e irreversibili», il rilascio di gas
serra causato dal consumo di combustibili fossili dovrà essere azzerato entro la fine del
secolo. Mai prima d’ora l’agenzia Onu per i cambiamenti climatici (Ipcc) aveva affermato in
modo così perentorio questo obiettivo, tanto radicale da apparire quasi fantascientifico. Lo
ha fatto ieri a Copenaghen, presentando l’ultimo Rapporto che sintetizza lo stato delle
conoscenze sul clima, l’impatto dei cambiamenti climatici e le strategie per mitigarli.
Dal punto di vista scientifico non ci sono novità di rilievo, ma dettagli e toni accrescono il
senso di urgenza. Fatto numero uno: il riscaldamento globale esiste ed è causato
dall’uomo. Due: gli effetti sono già visibili, in termini di livello dei mari, scioglimento dei
ghiacci, eventi meteo estremi. Tre: il peggio deve ancora venire perché, nonostante
summit e proclami, le emissioni globali invece di diminuire sono aumentate.
Per trovare concentrazioni simili nell’atmosfera bisogna riavvolgere il nastro della storia del
pianeta di 800 mila anni. Le brevi serie di dati in controtendenza offrono un conforto solo
illusorio, sostiene il rapporto: anche se la temperatura superficiale è cresciuta meno del
previsto negli ultimi anni, la febbre della Terra salirà ancora e ancora, con tutto quello che
consegue in termini di stress ambientali (estinzione di specie) e sociali (scarsità di cibo e
conflitti). La buona notizia, secondo l’Ipcc, è che potremmo disporre degli strumenti
necessari per affrontare il problema, a patto di volerlo fare davvero. Per superare il picco
delle emissioni nel 2020 e azzerarle nel 2100 si stima che gli investimenti nei campi delle
energie alternative e dell’efficienza energetica dovrebbero aumentare di diverse centinaia
di miliardi di dollari all’anno prima del 2030. La battaglia ai cambiamenti climatici ridurrà la
crescita economica, ma solo di una «piccola frazione», prova a rassicurarci l’Ipcc.
Tergiversare è da irresponsabili: più aspetteremo a contrastare la malattia, più costosa e
complicata sarà la cura. Risulterà difficile, ad esempio, rinunciare a interventi di ingegneria
climatica come lo stoccaggio dell’anidride carbonica nel sottosuolo. Un’opzione che a molti
ambientalisti non piace. «Le soluzioni sono tante, quel che serve è la volontà di
cambiare», ha affermato il presidente dell’agenzia Rajendra Pachauri. Il messaggio
fondamentale che arriva dalla Danimarca è che la scienza ha detto la sua, ora tocca ai
governi. «È proprio questo il punto, i cambiamenti climatici non sono più un problema
scientifico ma politico», dice al Corriere il fisico dell’atmosfera Guido Visconti. «Si ripetono
sempre le stesse cose, alzando i toni ogni volta. Ma se non ci sono le condizioni per
tradurre le intenzioni in azioni, non resta che l’adattamento». Ovvero mettere in atto delle
misure per contenere i danni e accettare quel che non possiamo evitare.
Per gli Stati Uniti ha parlato il segretario di Stato John Kerry: «Chi sceglie di ignorare la
scienza mette a rischio noi, i nostri figli e i nostri nipoti». Il ministro dell’Ambiente italiano
Gian Luca Galletti invoca una «presa di coscienza globale». Nel 2009 proprio
Copenaghen era stata il teatro di un summit sul clima clamorosamente fallito, ma secondo
alcuni commentatori le divisioni tra Paesi ricchi e poveri adesso sarebbero meno profonde
di allora. Il prossimo mese i negoziati riprenderanno in Perù e sarà la conferenza
convocata a Parigi nel dicembre del 2015 a dirci se il clima sta cambiando anche dal punto
di vista politico.
@annameldolesi
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Del 03/11/2014, pag. 11
Brasile, la grande siccità
San Paolo è senza acqua
L’unica riserva idrica della città è ridotta a uno stagno
Per il Sud-est è la più grave emergenza della storia
RIO DE JANEIRO Quando i portoghesi sbarcarono in Brasile, nel Cinquecento, nulla li
impressionò quanto l’abbondanza di acqua dolce appena dietro le spiagge, e l’uso
costante che ne facevano gli indios: passavano il tempo a lavarsi, a differenza dei nuovi
arrivati che facevano il bagno una volta al mese. Poi si addentrarono in Amazzonia, ed è
grazie alla grande foresta pluviale che il Brasile detiene ancora oggi le maggiori riserve
idriche della Terra, quasi il doppio del secondo Paese in classifica, la Russia. Record che
poco consola in questi giorni, mentre gli abitanti di San Paolo scrutano con terrore il
rubinetto prima di aprirlo, temendo che il giorno del giudizio sia infine arrivato. Per molti
esperti la catastrofe è alle porte, anche se le autorità continuano a minimizzare.
Il Sud-est del Brasile vive la più grande siccità della storia. I grandi bacini che forniscono
acqua potabile ed energia elettrica sono quasi vuoti, la pioggia non arriva e una delle aree
più popolose del mondo si scopre incredibilmente fragile. L’acqua purtroppo non viaggia
per email. Appena mezza San Paolo (e parliamo di quasi sette milioni di persone) è
rifornita da un’unica riserva, il sistema Cantareira a 40 chilometri dalla città, oggi diventata
un laghetto: è sotto il 5 per cento della sua capacità. I tecnici hanno iniziato a pompare
acqua dal suo sottosuolo, una sorta di riserva tecnica mai usata prima. Scavano nel fondo
del pozzo, letteralmente, nella speranza di resistere fino alle prossime piogge.
Altre 130 città tra Rio e San Paolo già sono in affanno e hanno decretato forme di
razionamento. Un quarto del Pil del Brasile si produce qui e le conseguenze su
un’economia a forte consumo di acqua iniziano a farsi sentire. Nell’industria, in agricoltura
e nell’allevamento. Ottobre avrebbe dovuto segnare l’inizio della stagione piovosa in
questa regione, ma è stato il più secco dal 1930. Orgoglioso per le sue fonti rinnovabili
nell’energia, il Brasile è stato costretto a riaccendere negli ultimi mesi le inquinanti centrali
termoelettriche per non lasciare il Paese anche senza luce. Sempre a causa dello
svuotamento dei bacini, che in condizioni normali forniscono tre quarti dell’energia
elettrica. Le elezioni politiche appena trascorse hanno aggravato il problema. Razionare
l’acqua è talmente impopolare, che né il governatore di San Paolo Geraldo Alckmin né la
presidente Dilma Rousseff (poi entrambi rieletti) si sono presi la responsabilità di misure
preventive serie. Oggi esiste appena un piccolo incentivo sulla bolletta per chi riduce i
consumi in alcune città, ma niente di più. Ufficialmente il governo chiama
«razionalizzazione» le ore di rubinetti a secco segnalate da alcuni abitanti, ma nega che
sia in corso un razionamento. Naturalmente l’acqua non manca ancora nei quartieri più
benestanti di San Paolo, solo nelle periferie e favelas. Lo stesso a Rio, dove il problema è
endemico e interi quartieri di periferia vivono grazie ai pozzi o spendendo una fortuna per
rifornirsi con le autocisterne, mentre a Ipanema si riempiono le piscine sulle terrazze.
Come sempre in questi casi, i fatalisti e i politici incolpano il meteo, i grandi fenomeni
come El Niño e La Niña, mentre gli esperti guardano oltre. Le perdite lungo la rete (circa il
40 per cento) sono un fattore, ma nulla supera per impatto l’azione dell’uomo.
Migliaia di sorgenti si stanno prosciugando in tutta la regione a causa della distruzione
della vegetazione, ma c’è soprattutto la tragedia rappresentata da decenni di riduzione
della foresta amazzonica. Negli ultimi anni la tendenza si è invertita, ma ormai i danni sono
fatti. Vari rapporti segnalano come gli equilibri stiano saltando per sempre, l’Amazzonia
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non sta più funzionando come regolatrice del clima per le altre regioni del Paese. Dai
modelli teorici si è passati all’osservazione empirica: non piove più nelle regioni dove
nascono i fiumi. Un rapporto dell’istituto di osservazioni Inpe sostiene che con il 20 per
cento della foresta originaria ormai scomparsa e altrettanta in fase di deterioramento, si
sta raggiungendo un drammatico «punto di non ritorno».
Rocco Cotroneo
Del 03/11/2014, pag. 14
“Noi marxisti con il Papa per fermare il
diavolo”
Joao Pedro Stedile
PARLA IL LEADER DEI SEM TERRA, ORGANIZZATORE DELL’INCONTRO DEI
MOVIMENTI POPOLARI IN VATICANO.
A FRANCESCO HA PROPOSTO DI CANONIZZARE “SANT ’ANTONIO GRAMSCI ”
di Salvatore Cannavò
Joao Pedro Stedile guarda la prima pagina del Fatto in cui si vede Maurizio Landini
fronteggiare la polizia. “Un leader sindacale senza cravatta? Davvero?”. La battuta
sintetizza molto profilo e storia di questo dirigente, ormai di levatura internazionale, del
movimento “campesino”. Il Movimento Sem Terra è un’organizzazione fondamentale in
Brasile, immortalata dalle storiche immagini Sebastião Salgado e con una storia
trentennale fatta di vittorie e sconfitte ma sempre in primo piano nell’organizzazione dei
contadini. Stedile ne è il dirigente più importante. Lui, la cravatta non l’ha mai portata e ha
sempre concepito il suo ruolo come portavoce di una realtà povera ma in cerca della
propria emancipazione. Marxista, legato alla storia della teologia della liberazione, è stato
uno degli organizzatori dell’Incontro mondiale dei movimenti popolari che si è svolto in
Vaticano la settimana scorsa. In una delle sessioni di quel dibattito, svoltosi tra le volte
suggestive dell’aula del Vecchio Sinodo, ha suggerito ai porporati presenti di canonizzare
anche “sant’Antonio... Gramsci”. I Sem Terra, l’imponente organizzazione che dirige, circa
1,5 milioni di aderenti, hanno una storia antica di occupazioni di terre, di lotte e conflitti
anche aspri. Ma coltivano anche un rapporto “laico” con il potere o, come lui spiega, di
“autonomia assoluta”. Per cui, alle scorse elezioni brasiliane, pur non impegnandosi molto
nel primo turno elettorale hanno poi sostenuto Djilma Roussef al secondo. Venuto in Italia
per l’incontro in Vaticano, ha effettuato un giro di incontri per la penisola presentando il
libro La lunga marcia dei senza terra (Emi edizioni), di Claudia Fanti, Serena Romagnoli e
Marinella Correggia. Sabato pomeriggio, poi, è andato a visitare la Rimaflow, a Trezzano
sul Naviglio, fabbrica recuperata, che Stedile, davanti a trecento persone ha battezzato
“ambasciatore dei Sem Terra a Milano”.
Come è nato l’incontro in Vaticano?
Abbiamo avuto la fortuna di avere rapporti con i movimenti sociali dell’A rgentina, amici di
Francesco con cui abbiamo iniziato a lavorare all’incontro mondiale. Così abbiamo riunito
cento dirigenti popolari di tutto il mondo senza confessioni religiose. La maggior parte non
erano cattolici. Un incontro molto profittevole.
Lei è di formazione marxista. Che giudizio dà del Papa e dell'iniziativa vaticana?
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Il Papa ha dato un grande contributo, con un documento irreprensibile, più a sinistra di
molti di noi. Perché ha affermato temi di principio importanti come la riforma agraria che
non è solo un problema economico e politico ma morale. Di fatto ha condannato la grande
proprietà. La cosa importante è la simbologia: in 2000 anni nessun Papa ha mai
organizzato una riunione di questo tipo con dei movimenti sociali.
Lei è stato uno dei promotori dei Forum sociali nati a Porto Alegre. C'è una
sostituzione simbolica da parte del Vaticano rispetto alla sinistra?
No, credo che Francesco abbia avuto la capacità di porsi correttamente di fronte ai grandi
problemi del capitalismo attuale come la guerra, l’ecologia, il lavoro, l’alimentazione. E ha
il merito di aver avviato un dialogo con i movimenti sociali. Non credo ci sia
sovrapposizione ma complementarietà. In ogni caso mi assumo l’autocritica, come
promotore del Forum sociale, del suo esaurimento e della sua incapacità a creare
un’assemblea mondiale dei movimenti sociali. Dall’incontro con Francesco nascono due
iniziative: formare uno spazio di dialogo permanente con il Vaticano e, indipendentemente
dalla Chiesa ma approfittando della riunione di Roma, costruire nel futuro uno spazio
internazionale dei movimenti del mondo.
Per fare cosa?
Per contrastare il capitale finanziario, le banche, le grandi multinazionali. I “nemici del
popolo” sono questi. Come direbbe il Papa, questo è il diavolo. Anche se l’inferno lo
viviamo noi. I punti tracciati dall’incontro di Roma sono molto chiari: la terra, perché
l’alimento non sia una merce ma un diritto; il diritto di ogni popolo ad avere un territorio, un
proprio paese, si pensi ai curdi di Kobane o ai palestinesi; un tetto dignitoso per ognuno; il
lavoro come diritto inalienabile.
I Sem Terra organizzano corsi di formazione su Gramsci e Rosa Luxemburg.
Nessun problema a lavorare con il Vaticano?
Noi viviamo in una crisi epocale. Le ideologie del secondo dopoguerra sono sprofondate.
La gente non si sente più rappresentata. Eppure questa crisi offre anche opportunità per il
cambiamento a condizione che nessuno si presenti con la soluzione pronta in tasca.
Servirà un processo, di movimento di partecipazione popolare. E chiunque sia disposto a
partecipare va incluso.
In Brasile avete sostenuto l'elezione di Djilma Roussef. Qual è il giudizio sul
governo del Pt e sul suo futuro?
L'autonomia è per noi un valore importante. Il Pt ha gestito il potere con una linea di “neosviluppismo”, più progressista del neoliberismo ma basata su un patto di conciliazione tra
grandi banche, capitale finanziario e settori sociali più poveri. L’operazione di
redistribuzione del reddito ha favorito tutti ma soprattutto le banche. Ora, però, questo
patto non funziona più, le attese popolari sono cresciute. L’istruzione universitaria, ad
esempio, ha integrato il 15% della popolazione studentesca ma l’85% che resta fuori
preme per entrare. Solo che per rispondere a questa richiesta servirebbe almeno il 10%
del Pil e per reperire risorse di quelle dimensioni si romperebbe il patto con le grandi
imprese e le banche.
Quindi?
Il governo ha tre strade: ricucire con la grande borghesia brasiliana, come gli chiede il
Pmdb (il partito conservatore ma alleato al Pt, ndr.), costruire un nuovo patto sociale con i
movimenti popolari oppure non scegliere e aprire una lunga fase di crisi. Noi vogliamo
giocare un ruolo e per questo proponiamo un referendum popolare per una Assemblea
costituente per la riforma della politica. La forza del popolo non è in Parlamento
Qual è la situazione del Movimento Sem Terra oggi?
La nostra idea, all'inizio, era di realizzare il sogno di ogni contadino del XX secolo: la terra
per tutti, battere il latifondo. Ma il capitalismo è cambiato, la concentrazione della terra
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significa anche la concentrazione delle tecnologie, della produzione, delle sementi. È
inutile occupare le terre se poi si producono Ogm. Non è più sufficiente ripartire la terra ma
occorre un’alimentazione per tutti e un’alimentazione sana e di qualità. Oggi puntiamo a
una riforma agraria integrale e la nostra lotta riguarda tutti. Per questo occorre un’ampia
alleanza con gli operai, i consumatori e anche con la Chiesa. Siamo alleati di chiunque
desidera il cambiamento.
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CULTURA E SCUOLA
del 03/11/14, pag. 1/25
L’idea del ministro: il pavimento al Colosseo
Ma non trasformatelo in una scenografia
TOMASO MONTANARI
IL MINISTRO per i Beni culturali ha annunciato ieri, via Twitter, che gli «piace molto l’idea
dell’archeologo Manacorda di restituire al Colosseo la sua arena». Bisogna riconoscere a
Dario Franceschini la capacità di tener viva l’attenzione mediatica su alcune emergenze
del nostro martoriato patrimonio culturale: questa estate con il tormentone dei Bronzi di
Riace all’Expo, ora con l’idea di rifare il pavimento del Colosseo. Ma la domanda è: questa
volta si tratta di una proposta più solida, e destinata a miglior fortuna?
Più di un turista si sarà domandato come facessero i gladiatori e le belve a rincorrersi negli
angusti corridoi che oggi emergono dalla pancia scoperchiata del colosso: e le foto
ottocentesche ieri twittate da Franceschini valgono egregiamente a svelare l’errore.
CIOÈ a spiegare che ciò che vediamo oggi sono i sotterranei funzionali dell’arena antica.
Ma è davvero il caso di riportare indietro le lancette dell’orologio storico, rimettendo il
coperchio agli scavi?
È una questione che ciclicamente si pone per molti monumenti: quand’era sindaco di
Firenze Matteo Renzi lanciò, per esempio, l’idea di ripavimentare in cotto Piazza della
Signoria, tornando alla situazione presettecentesca. Ma il rischio di queste iniziative è
scivolare nel falso storico, in un kitsch di cui non sentiamo il bisogno: come decidere dove
fermarsi, e quale aspetto dare al monumento, quando si decide di salire sulla macchina
del tempo?
In questo caso a preoccupare è soprattutto ciò che verrebbe dopo il ripristino: qual è il fine
ultimo dell’operazione? Il professor Daniele Manacorda, cui spetta l’idea, ha chiarito che
un simile ritorno, un domani, permetterebbe al Colosseo «di tornare ad essere, carico di
anni, un luogo che accoglie non il semplice rito banalizzante della visita del turismo
massificato, ma un luogo che, nella sua cornice unica al mondo, ospita — nelle forme
tecnicamente compatibili — ogni possibile evento della vita contemporanea ». Ecco, è
questo il nocciolo del problema. Che cosa vuol dire «ogni possibile evento»? E dove
metteremmo gli spettatori? Non è che, subito dopo, si parlerà di ricostruire le scalinate
della cavea? Magari in cemento, come si è fatto nel Teatro Grande di Pompei, durante il
commissariamento della Protezione Civile? E poi non succederà che qualcuno vorrà
coprirlo, il Colosseo, per farci gli spettacoli anche quando piove, e in inverno? Non sembri
bizzarro: è quel che il sindaco Flavio Tosi ha chiesto ufficialmente di poter fare per l’Arena
di Verona.
E poi siamo sicuri che il limite debba essere solo tecnico? Potremmo trasformare il
Colosseo, poniamo, in un campo da golf? L’esempio non sembri fantasioso: lo stesso
Manacorda aveva sposato l’idea di realizzare un simile impianto sportivo alle Terme di
Caracalla, a ridosso delle Mura Aureliane. Se Franceschini non ha rilanciato anche questa
idea è forse perché nel frattempo una sentenza (15 settembre 2014) della sesta sezione
del Consiglio di Stato ha fermato il progetto, perché «modificherebbe sensibilmente la
percezione e la coerenza complessiva dello speciale contesto ambientale».
Per il Colosseo, invece, il rischio sarebbe un altro, più subdolo: e cioè che questo
monumento unico si trasformi nella più imponente delle location commerciali, magari in
un’ambitissima arena per spettacoli di suoni e luci, ad uso di un turismo di infima qualità.
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Oggi è di moda parlare di edutainment ( education + entertainment), un ibrido che —
almeno in Italia — non riesce a coniugare conoscenza e piacere, ma annulla la prima e
persegue un intrattenimento di bassa lega, che trasforma il passato in un gigantesco luna
park commerciale. Ora, non vorremmo che invece di riuscire a liberare l’ingresso del
Colosseo dai tristi figuranti travestiti da gladiatori, qualcuno sognasse di farli entrare su
quella famosa arena: e magari di assumerli nelle fila del ministero per i Beni culturali, che
non riesce più ad assumere i giovani archeologi di cui avremmo, invece, un disperato
bisogno. Quando papa Innocenzo XI chiese a Gian Lorenzo Bernini di costruire un’enorme
chiesa dentro il Colosseo — era il 1675 — l’artista più rivoluzionario del suo tempo rispose
che non voleva toccare il monumento: «per la conservazione d’una macchina che, non
solo mostrava la grandezza di Roma, ma era l’idea stessa dell’architettura». Parole che
sembrano tuttora assai sagge.
Del 03/11/2014, pag. 3
Ricercatori precari a vita
Porte chiuse negli Atenei
Effetto perverso delle riforme in serie: solo uno su cento può essere
stabilizzato
Flavia Amabile
Solo un ricercatore precario su 100 nelle università italiane ha davanti a sé una possibilità
vera di stabilizzazione, gli altri 99 stanno perdendo tempo. O, più semplicemente, stanno
preparando le valigie per andare altrove, a molti chilometri di distanza da un’Italia che,
lontano dai proclami dei consigli dei ministri di governi di ogni colore politico, non riesce a
fare nulla per i suoi cervelli.
L’Apri, associazione dei precari della ricerca, ha analizzato i dati attuali del ministero
dell’università. Il ritratto che ne è emerso non è dei più lusinghieri per le università e per la
politica italiana. Esistono 2450 ricercatori a tempo determinato di tipo A, cioè quelli che
hanno durata triennale, rinnovabili per altri due anni e poi fine, si fermano lì, non possono
fare altro. Ci sono 15.237 titolari di assegni di ricerca di vario tipo, in pratica persone che
lavorano nelle facoltà come dei borsisti, dopo essersi procurati da soli i fondi per la loro
attività ma che non otterranno mai alcuna stabilizzazione. Ed esistono 224 fortunati
ricercatori a tempo determinato di tipo B, con contratti di tre anni, gli unici che possono
portare alla promozione a professore associato se, al termine dei tre anni, avranno
conseguito l’Abilitazione Scientifica Nazionale.
Sono 224 persone in tutt’Italia, assunte con contratti basati su una legge del 2010 che ha
portato ai primi bandi solo dopo tre anni di attesa, nel 2013.
A queste condizioni, quasi 99 ricercatori su 100 saranno espulsi dal sistema accademico,
una cifra ancora più negativa di quella dello scorso anno, comunque drammatica, di 96
ricercatori che il sistema avrebbe buttato fuori.
In questa situazione che cosa sta facendo il governo Renzi? La riforma Gelmini che
prometteva di risolvere il problema del precariato nelle università ha soprattutto cancellato
il problema come dimostrano i dati e come denunciano le associazioni. La ministra Gelmini
aveva anche previsto che il 40% delle risorse degli atenei per il turnover fossero destinate
obbligatoriamente a posti di ricercatore a tempo determinato. Dopo di lei Francesco
Profumo eliminò il vincolo e introdusse l’obbligo di creare un posto da ricercatore a tempo
determinato di tipo B ogni nuovo professore ordinario per dare spazio vero ai giovani. Ora
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che stanno ripartendo i concorsi, la Crui, la Conferenza dei rettori, ha chiesto più volte di
abolire la norma di Profumo. Il governo Renzi ha ceduto con una manovra molto furba:
nella legge di stabilità si è esteso il vincolo rendendolo valido anche per i ricercatori di tipo
A, quelli che non hanno speranze di trovare una sistemazione stabile nelle università.
«Ovviamente nessun ateneo avrà interesse ad assumere ricercatori di tipo B che costano
di più e creano problemi in fatto di organico - commenta Luigi Maiorano, presidente
dell’Apri -. È inutile, quindi, che anche questo governo annunci di poter risolvere il
problema dei precari. L’esito delle decisioni prese dal governo è facilmente prevedibile:
avremo più promozioni di associati ad ordinari e più precariato». «Si tratta di una mano di
vernice su un sistema ormai arrugginito», spiega Antonio Bonatesta, segretario nazionale
dell’Adi, l’associazione dottorandi e dottori di ricerca. «Ci troviamo dinanzi a interventi di
maquillage che non si pongono in modo serio e credibile l’ obiettivo di risolvere
strutturalmente la drammatica situazione dei giovani ricercatori in Italia».
E, estendere il vincolo come ha fatto il governo Renzi, significa che - prosegue l’Adi - «Gli
atenei -si orienteranno verso la figura che richiede il minor aggravio e cioè quella del
ricercatore di tipo «a», sprovvisto di tenure track e più precario».
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ECONOMIA E LAVORO
del 03/11/14, pag. 8
Lavoro, lite Renzi-Landini “Non cambierò la
delega” “Così andrai a sbattere”
Il premier: “Qualcuno dei nostri con la sinistra radicale? Faccia pure”
Sciopero generale il 14 novembre a Milano e il 21 a Napoli
ROMA .
Il Jobs act non sarà modificato alla Camera. E con molta probabilità sarà blindato anche lì
dalla fiducia.
Queste le dichiarazioni di Matteo Renzi a Bruno Vespa che riaccendono lo scontro con la
sinistra del Pd e col sindacato. Il leader Fiom Landini mette in guardia proprio il governo e
gioca la carta dello sciopero, in piazza il 14 novembre a Milano e il 21 a Napoli.
La riforma del lavoro arriverà in aula a Montecitorio subito dopo la legge di stabilità, quindi
da metà novembre. Anche nel Pd l’opposizione interna confidava in possibili ritocchi,
soprattutto sull’articolo 18. «La delega sul lavoro non cambierà rispetto al Senato» avverte
invece Renzi, stando alle anticipazioni fornite dallo staff di Vespa (e non smentite). «Alcuni
dei nostri non voteranno la fiducia? Se lo faranno per ragioni identitarie, facciano pure. Se
mettono in pericolo la stabilità del governo o lo faranno cadere, le cose naturalmente
cambiano». Così il premier che dà dunque per scontato che la riforma verrà blindata,
come avvenuto al Senato. «Spero si tratti di dichiarazioni datate» dice Cesare Damiano,
presidente pd della commissione Lavoro della Camera. «Se non ci sarà sintesi io non
voto» fa già sapere un altro dem di peso come Francesco Boccia, presidente della
commissione Bilancio. Per non dire dell’ala sinistra del partito.
«Irresponsabile blindare il ddl alla Camera», attacca Alfredo D’Attorre, «Renzi taglia fuori
tutti, così è scontro», per Giuseppe Civati. Dall’opposizione anche il forzista Renato
Brunetta parla di «inaccettabile forzatura» del premier: «Così distrugge il Parlamento».
Nonostante il clima, il presidente del Consiglio ritiene improbabile una scissione, «la nostra
gente non capirebbe». Detto questo, «se qualcuno dei nostri vuole andare con la sinistra
radicale faccia pure: non mi interessa. È un progetto identitario, lo rispetto ma non mi
toglie il sonno». E così, massimo rispetto per la piazza Cgil che ha accolto anche alcuni
(dissidenti) pd, «ma io sono per il cambiamento che è nel dna della sinistra e a casa mia la
sinistra che non si trasforma si chiama destra».
La reazione del capo della Fiom, Maurizio Landini, arriva con un’intervista tv con Lucia
Annunziata: «Renzi si convinca, contro il lavoro non va da nessuna parte, possono
mettere tutte le fiducie che vogliono, noi non ci fermiamo. Gli interessi dei lavoratori non
sono rappresentati dal governo».
Scioperi da Nord a Sud, insomma lotta dura contro un premier dal quale il capo del
sindacato dei metalmeccanici si dice «deluso», dopo un iniziale feeling.
Landini nega quindi di volersi impegnare in politica, nonostante i sondaggi che
accrediterebbero una sinistra da lui guidata di un ipotetico 10 per cento: «Voglio
continuare a fare il sindacalista. Sia chiaro: di fare la minoranza non me ne frega proprio
nulla. Io voglio essere maggioranza perché uno che vuole cambiare il Paese non può
stare all'opposizione». Ci saranno manifestanti Cgil e Fiom anche oggi ad accogliere il
premier durante la sua visita alla fabbrica Palazzoli, nel Bresciano.
( c. l.)
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del 03/11/14, pag. 10
Jobs act, nel negoziato si apre un primo
spiraglio “Tratto solo sui disciplinari”
Renzi pronto a discutere sulle “fattispecie dei licenziamenti secondo la
linea della direzione Pd”. E poi voto di fiducia
FRANCESCO BEI
ROMA .
Scava un tunnel Lorenzo Guerini, vicesegretario Pd. Scava dall’altra parte, «come l’abate
Faria», il presidente della commissione lavoro, ala Cgil, Cesare Damiano. Scavano
entrambi una galleria per provare a incontrarsi sotto la grande muraglia dell’articolo 18. Un
tunnel di comunicazione per arrivare a portare a casa la legge delega senza far saltare il
governo. E possibilmente senza spaccare il Pd.
Il lavorio sotterraneo delle due “talpe” non è mai stato interrotto da quando, a fine
settembre, la direzione dem votò a stragrande maggioranza un documento di
compromesso in cui si sanciva la fine dell’articolo 18, salvo per due casi: «Il diritto al
reintegro viene mantenuto per i licenziamenti discriminatori e per quelli ingiustificati di
natura disciplinare, previa qualificazione specifica della fattispecie». Questa la formula,
concordata tra la minoranza dialogante e i renziani. E questo, nonostante l’apparente
chiusura fatta ieri dal premier («la delega non cambia»), è lo schema di gioco ancora
intatto. «Per noi il punto di riferimento resta il testo approvato in direzione», ha rassicurato
ieri Guerini nei suoi contatti con le altre anime del partito.
Dunque le parole del capo del governo a Bruno Vespa, spiega una fonte vicina alla
trattativa — a cui partecipano anche Maria Elena Boschi e il ministro Giuliano Poletti — più
che prese alla lettera andrebbero in questo caso «interpretate». Come una posizione
negoziale dura per arrivare a un successivo ammorbidimento, esattamente come
accaduto con la riforma del Senato. Insomma, se Renzi fa la parte del poliziotto cattivo, a
Guerini e Poletti tocca quella dei buoni che mediano. Ma la strada è tracciata. «Limitarsi a
una dichiarazione di principio, come ha fatto Poletti al Senato, o ipotizzare qualcosa simile
a un ordine del giorno — osserva Damiano — non basta. La legge delega va corretta e
anche la legge di Stabilità». In fondo anche nel governo ammettono che «non si può
pretendere che un ramo del Parlamento timbri una legge come un pacco chiuso, senza
cambiare una virgola». Tanto più che l’accordo, in cambio della disponibilità di Renzi a
inserire direttamente nel Jobs Act la modifica sull’articolo 18, prevede che la minoranza
accetti di votare tutto con la fiducia. Ci sarà dunque un emendamento e la fiducia sarà
messa sul testo che uscirà dalla commissione. In tempi molto brevi. Boschi punta a
portare in aula il testo lunedì 17 novembre, in modo da votare la fiducia prima della fine
della settimana.
La celerità non è una fissazione legata a chissà quali scadenze, tanto più che si tratta di
una legge che ha bisogno dei decreti attuativi per essere operativa. Il fatto è che la materia
è talmente incandescente che il governo vuole tenerla sulla graticola il meno possibile, per
evitare incursioni dei grillini o della frangia «irriducibile» — tale viene considerata ormai da
Renzi — composta dal trio Civati D’Attorre- Fassina. «Qualsiasi cosa proponessimo —
riflette un renziano del cerchio stretto — loro non la voterebbero, ormai fanno opposizione
a prescindere ». Oltretutto al governo sanno bene che la delega dovrà inevitabilmente
tornare al Senato per l’approvazione definitiva. E una concessione di troppo fatta alla
sinistra a Montecitorio riaprirebbe il mercanteggiamento con Sacconi e l’Ncd a palazzo
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Madama. La coperta insomma è corta e i numeri al Senato impongono che l’intesa vada
trovata anche con Alfano. Il ministro dell’Interno ha fatto sapere al premier che, se le
modifiche resteranno limitate ai licenziamenti disciplinari, con una circoscritta
specificazione delle fattispecie in cui il giudice può ancora ordinare il reintegro, il suo
partito non si opporrà. «L’accordo va trovato all’interno della maggioranza e dovrà tenere
insieme la sinistra del Pd e l’Ncd», chiarisce in queste ore Guerini.
Se sui contenuti un compromesso a questo punto sembra possibile, dove invece
scoppierà uno scontro sarà sui tempi di approvazione del Jobs Act. Damiano e gli altri
infatti pretendono che prima sia discussa la legge di Stabilità per vedere se effettivamente
saranno accolte le loro richieste di aumento della dotazione per i nuovi ammortizzatori
sociali (la richiesta è anche quella di rivedere il taglio dei patronati). «Un minuto dopo la
legge di Stabilità promettiamo l’approvazione del Jobs Act», assicura Damiano. Un minuto
dopo.
Del 03/11/2014, pag. 20
Disoccupazione, bassi stipendi e tutele
I turbamenti dei collaboratori a progetto
In cinque anni persi 322 mila posti, il reddito dei co.co.pro è di 10 mila
euro lordi
La sindrome del capro espiatorio si aggira nel mondo del lavoro, e va a colpire e fasce
deboli, precarie e sottopagate. I dati Inps sulla gestione separata appena pubblicati
raccontano la grande mattanza dei parasubordinati: in un anno hanno perso 166.867
occupati (-11,7%). Dal 207 al 2013 i collaboratori a progetto perdono 322.101 posti e nel
solo 2012 passano da 647.691 a 502.834, perdendo 145 mila unità.
La sensazione è che nella furia regolamentatrice si sia buttato il bambino con l’acqua
sporca. Quello che è successo va attribuito alla crisi e alla riforma Fornero che, nel
tentativo di aumentare il costo di questi contratti e di spostare il baricentro
dell’occupazione, ha introdotto vincoli e rigidità. «Sin dalla primavera 2012, prima della
legge - affermano i ricercatori dell’Osservatorio dei lavori dell’Associazione 20 maggio, che
hanno realizzato l’indagine - avevamo segnalato il rischio di perdere oltre 130mila occupati
con contratti di collaborazione a progetto, senza recupero di lavoro dipendente, né a
termine né a tempo indeterminato, ridottosi nei cinque anni della crisi di 1,3 milioni di unità,
e semmai con l’uscita dal mercato verso il lavoro nero, le false partite Iva o la
disoccupazione».
Le organizzazioni della rappresentanza per evitare la mattanza avevano chiesto una
soglia di gradualità nell’applicazione della riforma, assegnando un ruolo alla contrattazione
collettiva. Dove è avvenuto, come nei call center e nel recupero crediti, ai collaboratori è
andata molto meglio. I più colpiti sono stati i giovani parasubordinati, che tra il 2007 e il
2013 sono diminuiti di 230 mila unità, registrando un calo del 59% tra gli under 25 e del
43% tra 25 e 29 anni. Ma non solo loro sono stati colpiti. Dalla composizione per fasce
d’età, emerge che su 1,3 milioni di lavoratori, 607.198 hanno tra i 30 e i 49 anni (il 48%) e
il 33% ha superato i 50 anni. Insomma, ormai il lavoro parasubordinato riguarda in
prevalenza lavoratrici e lavoratori adulti e con famiglia. Le donne prevalgono nella fascia
under 39 (280 mila pari al 55%) ma scompaiono presto, a causa delle minori protezioni
sociali e contrattuali dei collaboratori, che provoca l’uscita dal lavoro delle donne in
occasione della nascita dei figli. Oltre alle perdite sul campo di posti di lavoro, sono
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preoccupanti le condizioni economiche di questi lavoratori. Il reddito medio di tutti i
parasubordinati nel 2013 è di 19.155 euro lordi annui, una media falsata dagli oltre 500
mila amministratori di società che guadagnano in media 31.862 euro. Se si prendono in
esame i soli collaboratori a progetto la media dei compensi nel 2013 è stata di poco
superiore ai 10mila euro (10.218); era di 9.953 euro lordi nel 2012.
Escludendo gli amministratori di società, i parasubordinati guadagnano meno dei lavoratori
dipendenti (29 mila euro). Ma vi è anche un altro paradosso: dottorandi di ricerca e medici
in formazione specialistica hanno compensi più alti (rispettivamente 13.834 e 18.716 euro,
fissati dal Miur) durante il percorso formativo che non al termine, quando spesso vengono
loro offerti contratti di collaborazione molto meno vantaggiosi e non regolati, che sono
carburante per la fuga dei cervelli. Per i parasubordinati restano infine aperte altre due
sfide: le tutele in caso di disoccupazione (estensione dell’Aspi) e le future coperture
previdenziali e pensionistiche, che si annunciano piuttosto avare.
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