Procura della Repubblica

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Procura della Repubblica
Presso il Tribunale di Varese
Nel quarto d’ora che mi è assegnato ed occupandomi di penale,direi che è
opportuno partire con un dato che i medici riterranno sicuramente
confortante:la recente sentenza delle Sezioni Unite penali della Corte di
Cassazione,resa all’udienza del 18 dicembre 2008,che ha escluso “la
rilevanza penale,sotto il profilo delle fattispecie di lesioni personali e di
violenza privata,della condotta del medico che sottoponga il paziente,in
mancanza di consenso valido,ad un trattamento chirurgico,eseguito nel
rispetto dei protocolli delle “leges artis” e conclusosi con esito fausto”.
Dato il breve lasso di tempo trascorso dall’emissione del dispositivo,non risulta
ancora depositata la motivazione.
Il tema della disciplina penale del trattamento senza consenso o con un
consenso “invalido” è sempre stato controverso perche’ ,in assenza di
disciplina specifica,la sua soluzione avrebbe potuto e tuttora potrebbe
ricavarsi soltanto dai principi generali del diritto penale.
C’e’ tuttora un progetto di legge di riforma del codice penale che vorrebbe
introdurre una specifica fattispecie di reato destinata a punire il trattamento
medico arbitrario,cioe’ senza consenso.
L’indirizzo diciamo severo della giurisprudenza si era poggiato su due aspetti
di tutela:
quello dell’integrità fisica e quello della liberta’ personale e soprattutto di
autodeterminazione.
Una pronuncia datata,la n. 5639 del 21/4/92 della quinta sezione - la nota
sentenza Massimo - aveva affermato che “il chirurgo che,in assenza di
necessità ed urgenza terapeutiche,sottopone il paziente ad un intervento
operatorio di piu’ grave entità rispetto a quello meno cruento e comunque di
piu’ lieve entità del quale lo abbia informato preventivamente e che solo stato
da quegli consentito,commette il reato di lesioni volontarie,irrilevante essendo
sotto il profilo psichico la finalità pur sempre curativa della sua condotta
sicche’ egli risponde del reato di omicidio preterintenzionale se da quelle
lesioni derivi la morte”:il medico aveva sottoposto il paziente ad un intervento
1
di amputazione totale addomino-perineale del retto,anziche’ a quello
preventivo di asportazione trans-anale di un adenoma villoso benigno,in
assenza di urgenza.
Nel 2002 è intervenuta una sentenza della prima sezione,Volterrani,che
rigettava il ricorso del Procuratore generale di Torino avverso la sentenza di
assoluzione della Corte d’Appello.
Qui il paziente aveva acconsentito solo “alla riduzione dell’ernia ed
all’esplorazione della cavità addominale”;il medico,operandolo di ernia,si era
accorto
di un tumore maligno e
- senza alcuna comunicazione
all’interessato,ne’ ai familiari – aveva operato il paziente di “duodeno-cefalopancreas-ctomia”; per sopravvenute complicazioni il paziente decedeva.
Il medico veniva imputato di omicidio preterintenzionale,per aver effettuato un
intervento “demolitorio e mutilante” senza consenso informato,prestato
soltanto per l’intervento all’ernia.
Il giudice dell’udienza preliminare lo condannava ad un otto e mesi di
reclusione dopo aver “riqualificato” il fatto come violenza privata - 610 cp – e
omicidio colposo,nella forma dell’art.586 cp,morte quale conseguenza non
voluta del reato di violenza privata.
Su appello della difesa e dell’accusa,la Corte d’Appello dava una prima volta
ragione al p.m.,ripristinando l’accusa di omicidio preterintenzionale e
aumentando la pena.
Per un vizio di forma la Cassazione annullava e rimetteva alla Corte d’Assise
d’Appello di Torino,che invece assolveva del tutto il medico.
La Corte d’Assise in sintesi affermava che non puo’ parlarsi di comportamento
“violento” e nemmeno di compressione della libertà personale per un “medico
che compie il proprio dovere,fuori da un espresso divito oppostogli
dall’interessato”,dunque ne’ lesioni - e pertanto nemmeno di omicidio
preterintenzionale – né violenza privata.
Sosteneva che il medico era esente da colpa perche’ aveva deciso l’intervento
piu’ radicale in presenza di un tumore maligno emerso soltanto nel corso del
primo intervento e che non avrebbe potuto essere ragionevolmente “previsto”
prima,all’atto cioe’ dell’acquisizione del consenso alla laparotomia.
Nuovo ricorso del Procuratore generale,ma la Cassazione – 5° processo confermava l’assoluzione rigettando il ricorso.
Con riferimento al tema che interessa – quello del consenso - la Cassazione
affermava che “la volontà in ambito giuridico e penalistico…svolge un ruolo
decisivo soltanto quando sia eventualmente espressa in forma negativa”.
Secondo il ragionamento della Corte,poiche’ la Convenzione di Oviedo del
19971 ,pur ratificata con legge 145 del 2001, non ha mai trovato concreta
1
L’art.5 prevede che “un intervento nel campo della salute non puo’ essere effettuato se non dopo che la persona
interessata abbia dato consenso libero e informato”
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attuazione normativa,mancherebbe una disciplina specifica del “consenso
informato”,sostanzialmente affidato al codice di deontologia medica.
Cio’ significa – dice la sentenza – che “il medico è legittimato a sottoporre il
paziente,affidato alle sue cure,al trattamento terapeutico che giudica
necessario alla salvaguardia della salute dello stesso,anche in assenza di
esplicito consenso.
Rileva – invece – il dissenso espresso del paziente al trattamento sanitario.
Dinanzi ad una scelta cosi’ radicale e delicata ,il compito del medico è quello
di accertare che la scelta sia “consapevole ed esente da
condizionamenti,interni od esterni,di qualsivoglia natura che possano inficiare
il naturale ed autonomo processo della volontà” .
Esaurito questo compito,di fronte ad una scelta genuina, decisa e risoluta il
medico non puo’ che bloccarsi,anche se l’”omissione dell’intervento
terapeutico possa cagionare il pericolo di un aggravamento dello stato di
salute dell’infermo e,persino,la sua morte”.
La Corte,in definitiva,dice che il medico non puo’ obbligare un paziente
dissenziente a subire un trattamento sanitario(e con cio’ potrebbe incorrere,se
obbliga il paziente a subirlo,nel reato di violenza privata);giammai – pero’ –
potrà commettere il delitto di lesioni dolose e di omicidio doloso o
preterintenzionale nemmeno in questi casi limite,in quanto il suo intento e’
comunque quello di “curare” una malattia,non di provocare una “malattia”2.
E quest’ultimo – credo – sara’ anche il ragionamento della sentenza delle
Sezioni Unite,cioè a dire che non e’ sufficiente – per parlare di “lesione”
penalmente rilevante – che sia provocata una “alterazione anatomo
patologica”,ma e’ necessario che quell’alterazione abbia connotazione
negativa,cioe’ determini una malattia,un peggioramento dello stato di salute
del paziente.
Rimarrebbe,secondo questa sentenza - in caso di esplicito e cosciente
dissenso – il problema della libertà di autodeterminazione.
Nel caso specifico - al quale va rapportato il giudizio della Corte – è stata
esclusa qualsiasi compressione anche della liberta’ individuale,in quanto la
scelta del medico di sottoporre il paziente ad un intervento piu’ invasivo – di
asportazione dei tessuti tumorali – è scaturita “in itinere”,cioe’ nel corso del
primo intervento ed evidentemente in presenza di un paziente incosciente,che
non era in grado di esprimere alcun valido e tranquillo consenso o dissenso;in
questi casi si parla anche di intervento “complesso”, in cui lo stato di necessità
assume rilievo decisivo.
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Salvi ovviamente i casi puramente di scuola – che rimangono confinati nell’assurdo e nel macabro – dello
“scienziato pazzo” che,per sadismo,si diverta a procurare mutilazioni o ferite ai pazienti…
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La sentenza delle Sezioni Unite sembra peraltro escludere in radice anche
questa ipotesi di reato,quella di violenza privata.
Rimanendo sul tema spinoso del consenso,si è detto che – con quest’ultima
sentenza - che esso in definitiva non costituirebbe una regola cautelare che
doverosamente il medico avrebbe il compito di osservare per non incorrere in
colpa.
Successive decisioni dicono il contrario.
La quarta sezione,16 gennaio 2008 n. 11335,Huscher piu’ molti altri,ha
affrontato un ricorso della Procura contro una sentenza del giudice
dell’udienza preliminare di Roma che aveva assolto tutti i medici imputati da
varie imputazioni di lesioni aggravate,omicidio preterintenzionale e omicidio
colposo.
Il p.m. aveva impugnato la sentenza sostenendo l’invalidità del consenso
acquisito a causa dell’”utilizzo di moduli prestampati del tutto generici e non
contenenti alcuna informazione sulle patologie ed i rispettivi interventi”;anche
in questi casi erano stati eseguiti interventi chirurgici in “allargamento del
campo operatorio”.
L’articolata motivazione – dopo aver ancora una volta escluso la
configurabilità dei reati di lesione dolosa e di omicidio preterintenzionale3 nei
casi di intervento connotato da finalità curative – si sofferma sul tema del
consenso “informato”,cioè acquisito “a seguito di una informazione
completa,da parte del medico,dei possibili effetti negativi della terapia o
dell’intervento,con le possibili controindicazioni e l’indicazione della gravità
degli effetti del trattamento”. (pag.20 e segg.)
La Corte sostiene di condividere l’impostazione anche della giurisprudenza
civile,secondo cui il medico - salvi casi del tutto eccezionali,art.54 c.p.
,quando cioè il paziente non sia in grado di esprimersi - non puo’ prescindere
dal consenso e “non puo’ intervenire senza consenso o malgrado il dissenso
del paziente”.
Il consenso costituisce un “presupposto di liceità del trattamento medico
chirurgico”.
Non è attribuibile al medico un “generale diritto di curare”.
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La Corte esclude in radice l’attribuibilità di tale fattispecie sul rilievo che essa richiede “atti diretti a percuotere o
ledere” e,dunque,un dolo diretto se non intenzionale a cagionare una malattia
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Il consenso “informato” del paziente è integrato – in concreto – dalla facoltà
“non solo di scegliere tra le diverse possibilità di trattamento medico,ma
anche di eventualmente rifiutare la terapia e di decidere consapevolmente di
interromperla,in tutte le fasi della vita,anche in quella terminale”.
Nel caso di specie non era riscontrabile un consenso informato nel senso
richiesto,in quanto interventi invasivi e demolitori avevano “oltrepassato” la
soglia di un consenso prestato per interventi di minore entità.
La Corte – è questa e’ la peculiarità del caso concreto – aggiunge che – in
ogni caso – sarebbe stata irrilevante la soluzione del quesito circa l’esistenza
di un “consenso informato”, giacche’ i medici avevano violato anche le “leges
artis”,per cui non avrebbero potuto andare esenti da responsabilità sul
semplice assunto della rituale acquisizione del consenso dei pazienti operati.
Nel medesimo solco si è posta la sentenza della medesima sezione,8/5/08 n.
32423,Giachero.
Si trattava di un medico imputato di aver eseguito interventi di chirurgia
estetica sul volto della paziente,con cio’ cagionando per colpa lesione
personale(con sfregio del viso).
Il primo giudice aveva assolto il medico,mentre la Corte d’Appello – su
gravame delle Procura – lo aveva condannato per lesioni colpose,non
condividendo in particolare l’opinione del giudice di primo grado sulla effettiva
prestazione del consenso informato,che la persona offesa aveva negato di
aver dato sul presupposto di una mancata,corretta informazione circa i
possibili effetti dell’uso di una sostanza – il Dermalive – sulla cute della
paziente,che aveva patito indebita formazione di granulomi.
La Corte di Cassazione ha respinto il ricorso del medico,affermando che non
era stata fornita esauriente informazione,nemmeno generale, sugli effetti che il
prodotto avrebbe potuto provocare sul derma della paziente.
Solo il mese dopo la quarta sezione sembra cambiare indirizzo ed affermare
un principio diverso.
La sentenza è del 24/6/08 n. 37077,ric. Marazziti,e stabilisce ora che “l’obbligo
di acquisizione del consenso informato del paziente alla somministrazione del
trattamento sanitario non costituisce una regola cautelare e,dunque,la sua
inosservanza da parte del medico non puo’ costituire,nel caso in cui lo stesso
trattamento abbia causato delle lesioni,un elemento per affermare la
responsabilità a titolo di colpa di quest’ultimo”,salvo che la mancata
sollecitazione del consenso non abbia impedito al medico di acquisire
informazioni sulle condizioni del paziente,carenza che - se in nesso causale
con l’evento – potrebbe dunque rappresentare - in se’ – elemento di
colpevolezza.
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La sentenza “sposta” il problema della colpa dall’ambito del consenso –
ritenuto ora non piu’ decisivo – a quello del rispetto delle regole dell’arte
nell’esecuzione dell’intervento.
Qui il medico era stato imputato di lesioni volontarie gravi per aver prescritto a cura dell’obesità – un farmaco(Topamax) – quale “terapia sperimentale” - in
assenza di adeguata informazione ed espresso consenso.
La Corte dapprima riafferma il principio secondo cui il consenso costituisce
presupposto di liceità dell’attività del sanitario;poi,nel proseguio,aggiunge che
la mancata acquisizione di consenso informato non costituisce una regola
cautelare e,pertanto,è irrilevante interrogarsi sull’esistenza di un nesso di
causa tra mancato consenso informato ed evento dannoso alla salute del
paziente.
Le regole cautelari doverose sono soltanto quelle delle “leges artis” ed il
giudice deve accertare se la loro violazione abbia oltrepassato il confine del
“rischio consentito” dall’ordinamento,calibrato sull’attività sanitaria e sui livelli
di conoscenza e di specializzazione;dopo aver accertato la violazione della
regola cautelare,il giudice deve accertare se l’evento dannoso fosse
prevedibile ed evitabile con l’osservanza della suddetta precauzione.
L’unico caso in cui rileva il “consenso informato”,ai fini della valutazione della
colpa penale e dell’esistenza del nesso di causa con l’evento,sarebbe quello
in cui la mancata,corretta informazione e la sua mancata acquisizione abbiano
determinato una riduzione del quadro conoscitivo delle condizioni del paziente.
Come è agevole rilevare,la questione della rilevanza del consenso
informato,in ambito penale,rimane controversa.
Di recente,come noto,la giustizia penale e quella civile hanno dovuto
affrontare casi delicatissimi come quelli del caso Welby e del caso di Eluana
Englaro.
Qui il dibattito è ovviamente aperto.
Nel primo caso il g.u.p. di Roma ha prosciolto il dr.Riccio – lo specialista in
anestesia che ha “staccato il ventilatore” su richiesta espressa di Welby affermando in sintesi che il sanitario ha agito nell’adempimento di un suo
preciso dovere,ovvero quello di rispettare il consenso/dissenso informato del
paziente,che aveva deciso di lasciarsi morire secondo un suo preciso diritto,
garantito dalla Costituzione,artt.13 e 32.
Non risulta che la Procura abbia impugnato la decisione e ,cosi’, la Corte di
Cassazione non è stata sollecitata sull’argomento.
Nel secondo caso e’ stato accolto un reclamo del tutore della Englaro – il
padre – al quale il tribunale di Lecco aveva negato l’autorizzazione a disporre
l’interruzione del trattamento “di sostegno vitale artificiale” della figlia.
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La Corte d’appello ha sostenuto – in soldoni - che una compiuta indagine
cio’ che sarebbe stata la volontà della figlia,evidentemente non in grado
esprimere consensi o dissensi,autorizzava a ritenere che ella stessa
sarebbe risolta ad interrompere il suo mantenimento in vita se fosse stata
grado di esprimersi validamente.
di
di
si
in
Mi domando – e qui concludo,stimolando il dibattito – come sia possibile
sostenere che queste due situazioni non vìolino l’art.579 del codice penale
che punisce l’omicidio del consenziente;tanto piu’ che il terzo comma della
norma penale esclude l’attenuazione di pena - e stabilisce persino la
punibilità della condotta a titolo di omicidio volontario - nel caso in cui la
vittima sia in istato di infermità psichica,dunque di incapacità di intendere e di
volere(anche,evidentemente,naturale);mi domando come un consenso possa
essere espresso da un tutore,che di certo vi è legittimato dal punto di vista
civile,ma altrettanto certamente non puo’ disattendere le norme del codice
penale.
Si rende evidentemente necessario ed urgente un intervento del legislatore
che
- tra le altre cose – oltre a disciplinare il tema del consenso
informato,rimodelli la disciplina dell’omicidio del consenziente,distinguendo
espressamente i casi in cui il decesso sia conseguenza del rifiuto consapevole
del trattamento sanitario da parte del paziente.
Varese,17/1/09
IL SOSTITUTO PROCURATORE DELLA REPUBBLICA
Dott. Tiziano Masini
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