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Storia di Carla!
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!Era stanca, accaldata, ansimante. La lezione era appena finita e non era stata faticosa. Aveva danzato
con tutto lo slancio e il languore che la musica le aveva suscitato dentro, abbandonata fra le braccia
del maestro, avvolta di veli colorati, danzanti con lei nei vortici pigri e sinuosi della melodia… No,
non erano veli colorati; era una tuta di felpa blu, di una marca distribuita nei grandi magazzini;
niente scarpette dorate col tacco alto né sciarpe bordate di marabù; solo scarpe nere con suola di
cuoio per scivolare meglio sul linoleum… Che andava a pensare…! Come mai così spesso si
perdeva in sogni ad occhi aperti che la estraniavano sempre più dalla realtà? Però le braccia forti del
maestro erano reali e l’avevano tenuta stretta e l’avevano condotta… dove? Nei soliti sogni, che la
dilaniavano, perché irreali.
“Guarda come mi sono assottigliata sui fianchi!” Due sue compagne di corso si esaminavano a
vicenda glutei e fianchi, apprezzando ognuna gli sforzi dell’altra per dimagrire.
“Beata te! Io sono calata solo di tre centimetri…”
“Ma dai, stai benissimo così! Sennò diventi troppo secca!”
Troppo secca! Come uno stecco! E allora lei che avrebbe dovuto dire? Sovrappeso di almeno dodici
chili, sovraetà di almeno quarantanni rispetto alle due ragazze; come gareggiare con loro in
leggerezza, leggiadria, grazia, soprattutto agli occhi del maestro?
“Maledette!” pensò. Non provò un briciolo di rimorso. Infilò la giacca a vento, tirò su la zip,
digrignò un “Ciao” fra i denti, senza neanche voltare la testa e uscì a precipizio dallo spogliatoio.
Neanche a dirlo, finì quasi sui piedi del maestro, che usciva a sua volta dallo spogliatoio maschile.
“Ehi, la lezione è finita! Basta pestarmi i piedi” rise lui. Lei diventò di tutti i colori. Grazia,
leggerezza, leggiadria… macché, gli aveva massacrato i piedi, non aveva azzeccato un passo, aveva
incespicato quasi ad ogni battuta; altroché fluire in un tutt’uno con la musica…
“Scusami, ero sovrapensiero!”
“Figurati. Ci vediamo fra tre giorni, cara.”
Cara. Cara. Uscì all’aperto, sul marciapiede. Cara, mi ha detto cara, allora gli piaccio! Certo le altre
hanno dalla loro la giovane età (“Giovanissima età” sussurrò la coscienza impietosa) ma vuoi
mettere una donna matura, con esperienza d’amore e di vita, che conosce i meandri dell’animo
maschile, perché vi si è persa varie altre volte, una donna che sa apprezzare un giovane corpo
muscoloso, pieno di vita e di ardore, una donna che sa donarsi interamente, senza nulla chiedere in
cambio, se non che lui si lasci amare, adorare come un giovane dio!
Senza neanche accorgersene era arrivata davanti al panificio dove comprava sempre due panini di
rimacino ogni giorno da almeno vent’anni. Entrò meccanicamente, dimentica che il pane lo aveva
già preso la mattina, e si mise a turno; intanto ascoltava le chiacchiere della gente sul colesterolo, i
trigliceridi, la glicemia, la colite, la gastrite, tutta la gamma delle miserie umane da cui lei non era
toccata.
“E come va la sua gastrite, signora Carla?”
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“Lei come sa che io ho la gastrite?” apostrofò piuttosto rudemente la donnetta di mezz’età che si
era rivolta a lei sorridente.
Questa, interdetta e anche urtata dal tono, si girò indispettita.
“Ma me lo ha detto lei un mese fa circa!”
Accidenti, pensò, accidenti a me e a questo bruciore!
“Non è gastrite, la mia; è un dolore al cuore. Il cuore mi brucia.” Disse, avvicinandosi di molto alla
verità inconfessabile.
“Il cuore… “ si stupì l’altra “ ma aveva detto lo stomaco…”
“Il medico si è sbagliato” tagliò corto lei e rivolgendosi alla commessa “Mi dia due panini di
rimacino”.
La ragazza al banco la guardò stupita, ma non disse nulla; solo “Ottocento lire alla cassa”. Carla
prese il sacchetto coi due panini, pagò alla cassa e andò via velocemente, senza salutare, seguita dalle
occhiate incredule e perplesse della gente del panificio.
Arrivò a casa subito dopo. Salì i tre piani di scale, senza prendere l’ascensore (per tenersi in forma,
diceva) varcò la porta d’ingresso e subito il sogno si riappropriò di lei, come se non si fosse mai
interrotto, dalla lezione ad ora.
“Cosa vuoi per cena?” sussurrò al divano vuoto, dove lei vedeva il “suo” maestro disteso
languidamente sui cuscini.
“Un risotto di mare, bene; con pepe nero, come la notte, per riscaldare il sangue.”
Era sempre stata un’ottima cuoca; suo figlio adorava la sua cucina…
“Basta che tieni chiusa quella boccaccia!” l’urlo lontano del figlio le riecheggiò nelle orecchie e
frantumò il sogno. Lo stomaco cominciò a bruciare come una fornace ardente, al ricordo di suo
figlio che le urlava contro. Lo aveva sempre fatto, per ogni stupido motivo che gli veniva in mente, e
urlava e urlava e allora si metteva a urlare anche lei, urli su urli, finché i vicini venivano a bussare per
farli smettere e il figlio allora andava via sbattendo la porta, continuando a urlare minacce giù per le
scale (“Ti ammazzerò un giorno o l’altro! Ha fatto bene mio padre a mollarti. Sei una vecchia
strega!”
Una vecchia strega. Lo aveva detto anche durante l’ultimo litigio, quando poi era andato via per
sempre, come suo padre; era andato lontano, lei non sapeva nemmeno dove, perché lui aveva
cambiato due volte città e l’ultimo spostamento le era ignoto.
Veramente le aveva detto ben più che vecchia strega, allora; ridicola tardona, patetica arrapata e
cervello in menopausa erano stati gli epiteti più gentili di quell’ultima lite, quella definitiva. Suo
figlio non aveva mai capito, come suo padre del resto, il suo disperato bisogno d’amore; che
importava se, allora, il suo amore si era diretto come un raggio laser, su Guido, anni ventuno,
collega di suo figlio Claudio, bello, alto, aitante, sportivo.
Guido l’aveva ricambiata. (“Ti ha scopato, scema, per vedere com’è con una vecchia di quasi
sessant’anni” urlava Claudio) l’aveva fatta sentire di nuovo giovane, desiderata, coccolata. Claudio li
aveva sorpresi a letto, e non aveva capito. Si era avventato su Guido, prendendolo a pugni e calci,
l’aveva sbattuto fuori, giù per le scale, tirandogli i vestiti dietro. Poi si era dedicato a lei.
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Di quell’amore finito le rimaneva una cicatrice vicino al sopracciglio sinistro, un inizio di artrosi alla
mandibola slogata dal pugno di suo figlio e quella insopportabile gastrite che le liquefaceva lo
stomaco.
“Ho messo in fresco una bottiglia di Chardonnay per te” riprese a sussurrare verso il divano. Guido
era sparito nel nulla (e con lui anche cinquecentomila lire e un anellino d’oro, stitico regalo del suo
ex marito). Meglio lasciar scivolare tutto nella nebbia della dimenticanza; troppo dolore, troppo
bruciore, lo stomaco, il cuore, la testa; scivola, scivola via, nella nebbia che tutto inghiotte…
Il bruciore stavolta lo avvertì alla mano e al polso. Si riprese di colpo, la fiamma già lambiva il
polsino della tuta; con un guizzo aprì il rubinetto e vi mise la mano sotto; con uno sfrigolio la
fiamma si spense.
“Come mi sono potuta distrarre fino a questo punto?” si chiese stupita e preoccupata; non era la
prima volta che perdeva il contatto con la realtà, mentre il sogno la divorava, ma non era mai
successo che si facesse male. Guardò il polsino della felpa bruciacchiato e rovinato e, sotto, la pelle
ustionata che cominciava a bruciare, a gara con lo stomaco e con la testa e con il cuore…
“Basta!” quasi gridò “io sono Carla Romano, ho cinquantanove anni, sono casalinga,
disoccupata…” andò in bagno e lì si guardò allo specchio… cinquantanove anni… settantadue
chili…un metro e sessanta di altezza…(di bassezza, vorrai dire) no, di altezza! (guarda che sei bassa)
alta, alta, alta un metro e sessanta (bassa, bassa, grassa! imperversava la coscienza).
Si guardò allora con attenzione, senza farsi sfuggire nulla. Non aveva molte rughe, ma le pieghe
amare agli angoli della bocca la rendevano certamente più scostante, così come la bocca stretta a
fessura che aveva avuto sempre difficoltà a sorridere; gli occhi poi erano anche peggio, perché
lasciavano intravedere i tormenti dell’ anima: duri, astiosi, biliosi, stretti anche loro in una miriade di
rughe sottilissime, le davano l’aria d’avere un perenne disgusto della vita, sempre pronta a criticare
gli altri, sempreché la fessura della bocca si decideva ad aprirsi… E dov’era allora la ragazzina
romantica che le abitava dentro? Quella leggiadra farfalla che volava fra le braccia del maestro,
godendo di ogni attimo d’amore, di melodia, di dolcezza, quella che si commuoveva davanti ad un
tramonto o a un cielo stellato, e sapeva dare amore anche con un sorriso?
“Dove sono io? Io non sono questa…!” Ma, quasi a contraddirla, apparve nello specchio la figura
della sua giovanissima compagna di corso… “Ecco, quella sono io!” (No, cara, quella è l’altra, è
quella giovane e bella, non sei tu!)
Negli occhi di Carla l’odio tracimava dal cuore, i denti scoperti in un ringhio sordo.
“Oh Dio! Che mi sta succedendo?!” in un attimo di lucidità riprese il controllo di sé; terrorizzata
dalla violenza delle sue reazioni, cominciò a singhiozzare disperata, mentre il cuore le martellava nel
petto e lo stomaco gridava e bruciava.
“Che mi succede? Che mi succede?” continuava a chiedere ad alta voce allo specchio “Sto
diventando pazza; questa non sono io!”
Si sentiva precipitare in un baratro di disperazione e di buio; forse, se il buio l’avesse inghiottita
completamente, non avrebbe sofferto più. Forse era questa la soluzione, forse…
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Fu lo squillo del telefono stavolta a riportarla in sé: ”Pronto” quasi gridò nella cornetta; non sentiva
nessuno dall’altra parte, solo un mormorio indistinto; nelle orecchie rombava il cuore a martello,
mentre il bruciore allo stomaco la faceva piegare in due:” Pronto, pronto, oh Dio, muoio, sto
malissimo, aiuto, aiuto!” ansimò.
“Carla, che ti succede? Che hai?” la voce all’altro capo del telefono diventava sempre più forte
“Carla, rispondimi!”
“Ma chi sei?” riuscì a dire
“Come chi sono?! Non mi riconosci? Carla, che hai, per l’amor di Dio, parla!”
“Chi sei? Dimmi chi sei e dammi aiuto, perché muoio!”
La voce nel telefono aveva toni di panico: “Che vuol dire, muoio? Che hai, che ti senti?”
“Non so, so che muoio; mi sta scoppiando il cuore e brucio tutta”. Cominciava però a cedere, tanto
che quest’ultima frase la disse piano, a bassa voce, quasi stesse spirando davvero.
L’amico a telefono non perse tempo; si precipitò a casa di Carla, per darle soccorso. Cominciò a
bussare, prima al citofono; poi, visto che lei non rispondeva, si fece aprire da un altro inquilino e
salì le scale di corsa. Anche al campanello non ottenne risposta; pensò allora di scassinare la porta,
ma per fortuna apparve l’inquilina del piano di sopra, con una chiave in mano: “Senta, ho la chiave
della signora Romano. Me l’ha data tempo fa, perché stava male e aveva paura di non poter ricevere
soccorso.”
Si precipitarono tutt’e due dentro. Nel piccolo soggiorno trovarono Carla riversa sul divano, la
cornetta del telefono ancora stretta in mano. Gli occhi sbarrati nel vuoto, Carla non dava segni di
vita. La vicina cominciò a piangere, sotto voce, mentre l’amico tentava di riportare Carla in sé.
Piano piano iniziò a riprendersi, ritornando lentamente alla coscienza.
“Che fai tu qui?” chiese Carla con un filo di voce all’amico.
“Mi hai fatto prendere una paura terribile” disse lui “ Come stai ora? E soprattutto puoi dirmi che
hai avuto?”
“Niente, niente, è stato il cuore”
“Come, niente! Col dolore al cuore non si scherza. Appena potrai alzarti, ti accompagno al pronto
soccorso, per fare tutti gli accertamenti.”
"Non se ne parla nemmeno!”. Carla stava già un po’ meglio e ricominciava la sua battaglia col
mondo intero. L’amico però non voleva darsi per vinto: “Guarda che devi andare a fondo di questa
faccenda, non puoi fare finta di niente!”
“Oh, lasciami in pace, va bene?”
“Bella gratitudine !” sbottò allora la vicina, succube delle sgarberie quotidiane di Carla.
“Lei si faccia gli affari suoi, se le riesce”.
L’amico si alzò, sospirando; anche lui era avvezzo all’ acredine di quella donna invelenita dalla
solitudine e dal rancore, una donna per certi versi misteriosa, capace di odio eterno ma anche di
grandi slanci amorosi, come anche lui aveva sperimentato anni prima,quando lei, ancora sposata, si
era invaghita di lui, che strimpellava una canzone alla chitarra in una riunione di amici. Se le
mostravi un po’ di galanteria , eri finito, perso nel rogo di un amore tanto impossibile, quanto
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soffocante; se invece ti nascondevi dietro uno schermo di logica e di normalità, diventavi il
bersaglio della sua rabbia e frustrazione.
“Me ne vado” annunciò, ”se hai bisogno di aiuto, la prossima volta chiama la guardia medica”.
“Guarda che avevi chiamato tu” non potè trattenersi dal ribattere lei.
“Sta tranquilla, non succederà più per molto tempo.” l’amico andò via, senza degnarla più di uno
sguardo, sforzandosi di non gridarle contro e di non sbattere la porta.
Rimasta sola, Carla cercò di analizzare quanto le era successo, ma il terrore per il pericolo corso le
attanagliava le viscere; lo stomaco ricominciò a urlare e a bruciare; Carla si abbandonò sul divano
dove poco prima aveva immaginato il maestro di danza, cercando di calmarsi; ma l’impresa si
presentava ben difficile, dal momento che immagini di sé vaneggiante e morente si rincorrevano
nella sua mente sconvolta. Indugiò anche ad immaginare come sarebbe stata accolta la notizia della
sua morte alla scuola di danza; ma la coscienza impietosa le rivelò che, a parte qualche esclamazione
di sgomento, per lei non ci sarebbe stato altro. Tentò allora di figurarsi la reazione del maestro: il
volto cupo, gli occhi bassi, l’atteggiamento abbattuto…
Con grande lucidità vide che la sua morte avrebbe lasciato via libera ad una delle sue compagne di
corso, la più intraprendente. Tanto bastò a farla riprendere. Si alzò di scatto, andò in cucina e
cominciò a rovistare tra le scatole di medicine; trovò il tranquillante e ne ingoiò due pillole, poi si
versò un bicchiere di vino e lo bevve d’un fiato.
Dormì per tutta la notte, un sonno senza sogni, una sospensione misericordiosa ai suoi incubi.
Il giorno dopo, Carla si svegliò esausta, come se avesse corso tutta la notte. Rimase in casa , con le
finestre chiuse, per arginare il mal di testa martellante e il bruciore allo stomaco. Non mangiò, non
bevve nulla ( chissà com’è morire d’inedia, pensava nel buio della sua stanza; lento, lento e doloroso,
bisbigliava la solita coscienza). La sera si alzò , le viscere attanagliate da una smania indefinibile;
avrebbe voluto telefonare al maestro, sentire la sua voce , si immaginava parlottare con lui di
argomenti frivoli, la risata gorgogliante in gola, lui galante come un play boy, col bicchiere di whisky
in mano…La fantasia durò meno di due minuti. Dal piano di sopra arrivò l’urlo dello stereo del
figlio adolescente della vicina che l’aveva soccorsa; assieme alla musica assordante , urli e salti di
accompagnamento a ritmo insostenibile per la testa di Carla. Con un sospiro andò in cucina, aprì il
solito armadietto (lo chiamava “ apriti sesamo”) prese i tranquillanti , ne ingoiò due col vino e
pensando alla lezione di danza del giorno dopo, tornò a letto.
Un altro giorno spuntava, ma Carla era già sveglia. Non sapeva che il sole era appena sorto, non
sapeva quanto tempo era passato da quel suo malore che tanto l’aveva spaventata, sapeva solo che
quello era il giorno della lezione. Carla aveva deciso: avrebbe raccontato al maestro il suo amore, gli
avrebbe rivelato i suoi sentimenti più nascosti, gli avrebbe fatto dono di se stessa. Nella notte aveva
provato più e più volte le parole , si era girata e rigirata nel letto immaginandosi con lui, nella danza
e nell’amore…
Si alzò piena di energia e di decisione, incurante del suo corpo appesantito che le mandava richieste
d’aiuto col solito linguaggio fatto di dolori sempre più forti; che importavano i malesseri tormentosi
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a cui aveva fatto l’abitudine…l’importante era che la maledetta coscienza tacesse e la lasciasse libera
di vivere la sua realtà.
La mattina passò alla meno peggio, in un caos indescrivibile di rumori che sembravano arrivare da
tutte le direzioni…la strada intasata di macchine, l’adolescente del piano di sopra col solito stereo a
tutto volume ( ma perché non va mai a scuola, ‘sto deficiente?), la lavatrice della signora accanto,
più acciaccata della sua. Carla sopportò tutto stoicamente, il pensiero rivolto alla lezione e alla svolta
che avrebbe dato alla sua vita, sorda ai rumori della vita altrui che le scorreva accanto , che non
l’aveva mai toccata, che non aveva niente in comune con lei.
Arrivò in palestra con molto anticipo, sperando di incontrare il maestro da solo. Ma dovette invece
aspettare la fine della lezione prima della sua, camminando su e giù per lo spogliatoio come una
leonessa in gabbia, ripassando mentalmente il suo discorso, limando e aggiustando le parti che la
soddisfacevano meno. Con l’arrivo delle sue compagne di corso la situazione così accuratamente
programmata si ingarbugliò, Carla cominciò a sudare ,ad avere il batticuore, avrebbe voluto
cacciarle via, le veniva da urlare –via ,andate via maledette, lasciateci soli!- ma fu proprio il maestro a
darle il colpo di grazia. Subito prima di iniziare la lezione, il maestro chiese un attimo di silenzio per
fare un comunicato: “ Ragazze, per cortesia, dobbiamo metterci d’accordo per la lezione successiva;
mancherò per due settimane e vi manderò un sostituto”. Le ragazze si affollarono attorno a lui,
subissandolo di domande; Carla si teneva in disparte, non riusciva a ragionare lucidamente- due
settimane, due settimane senza vederlo… come poteva resistere tanto a lungo?- ma ad un tratto la
voce di lui si alzò sopra le voci femminili e arrivò anche alla sua mente ottenebrata- Sì, mi sposo e
vado in viaggio di nozzeCarla non sentì altro, nemmeno le sue compagne che gridavano auguri e felicitazioni. Il sangue le
rombava nelle orecchie, un fragore di tuono come non aveva mai provato, la vista era oscurata da
un velo che a lei sembrò il velo a lutto della sua vita. Si appoggiò alla sbarra degli esercizi, cercando
di respirare, di inalare un po’ d’aria nei polmoni che le sembrava si fossero accartocciati. Si sposa…
l’enormità della notizia la schiacciava come una montagna, le pareva che tutto il mondo fosse
franato sul suo cuore, sulle sue spalle, sulla sua vita. Gettò uno sguardo verso il gruppo festante, col
maestro al centro che tentava di arginare le effusioni di auguri. Si sposa…non sarà mai mio, sarà di
un’altra, per sempre…Il pensiero della lezione le diventò intollerabile; come avrebbe potuto mai
seguire il ritmo, eseguire i passi e le figure ,concentrarsi sulla musica…mai avrebbe immaginato
tanto strazio, tanta desolazione; la sua vita in prospettiva le appariva desolatamente vuota, più arida
del più arido deserto pietroso che esisteva al mondo. Sarebbe tornata a casa, ecco questo doveva
fare. Strisciando lungo la parete con lo specchio, arrivò nello spogliatoio, afferrò la giacca a vento e
fuggì via, senza che nessuno la notasse, senza che nessuno la chiamasse.
A casa si buttò sul divano, non riusciva più a pensare, non la sfiorava il pensiero di sé che poco
prima immaginava il grande amore, non era ancora venuto il momento di piangere, non riusciva
nemmeno a piangersi addosso. Meccanicamente accese la televisione, stavano trasmettendo il
balletto “Il lago dei cigni”. Come in trance assistette al dramma di Odette , innamorata fino a
morire per il suo principe.
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Lo spettacolo era terminato da ore, ormai. Carla, con gli occhi chiusi e le lacrime che le scendevano
da sotto le ciglia, ripassava mentalmente i momenti più commoventi del balletto: il Lago dei Cigni
era il suo preferito, conosceva a memoria la musica, si sentiva in grado di cantarla da cima a fondo,
si immedesimava nella parte della protagonista fino a comprenderne i più nascosti fremiti del cuore,
coi tormenti d’amore così simili ai suoi…amore e morte, un binomio perfetto nello spettacolo della
vita. Amore e morte, amore e morte…la mente vacillante di Carla altalenava fra le due parole in
modo ossessivo. Ad un tratto Carla spalancò gli occhi, già stranamente asciutti e fissi sul televisore
spento; come aveva fatto a non capire? Lo spettacolo della vita era il suo: sua la vita, suo l’amore,
suo lo spettacolo e sua la morte.
Ora aveva tutto chiaro in mente. Si alzò, andò in bagno a lavarsi la faccia, passò poi in camera da
letto; dall’armadio tirò fuori una gonna e un pullover bianchi, poi trovò anche un paio di sandali
estivi bianchi e una sciarpa di chiffon rigorosamente in tinta ; mise tutto sul letto, si spogliò,
completamente nuda, si cosparse di profumo e iniziò a vestirsi lentamente, quasi la vestizione di una
sposa.
Appena fu pronta, accese tutte le luci della casa, aprì le porte di tutte le stanze, accese lo stereo con
la musica del canto del cigno morente e andò sul balcone. C’era la luna piena, che inondava col suo
splendore lo stretto terrazzino. Per Carla quello era sempre stato come una terrazza sul mare,
l’aveva riempito di piante, per dimenticare la strada caotica e squallida più sotto e ora da lì avrebbe
spiccato il volo verso una nuova vita.
Si arrampicò sul muretto di protezione e da lì contemplò il cielo. La luna sorrideva benevola verso
di lei e lei ricambiava, felice di aver finalmente trovato la strada di casa.
I cigni, si sa, tornano a casa col cambio di stagione, dispiegano le ali e si alzano in volo, con grande
eleganza. Anche lei avrebbe fatto lo stesso, perché lei era un cigno.
E così Carla, ritta sul parapetto, allargò le braccia, sorrise alla casa lontana e si alzò in volo, con
grande eleganza, un uccello bianco librato in aria incontro alla luna.
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